Locke nacque a Wrington (Bristol) nel 1632. Studiò filosofia e
medicina a Oxford. Dal 1667 divenne segretario personale del conte Ashley Cooper
e da allora la sua vita fu legata in gran parte alle alterne fortune del suo
protettore. Quando lord Ashley fu definitivamente esiliato per aver cospirato
contro il tentativo di restaurazione assolutistico-cattolica di Carlo II, Locke
si rifugiò in Olanda. Qui venne in contatto con l’ambiente liberale di Guglielmo
di Orange e, quando questi divenne re d’Inghilterra, Locke poté tornare a
Londra. Non soddisfatto del nuovo governo, si ritirò a vita privata nel castello
di Oates nell’Essex, dove morì nel 1704. Altre opere da ricordare, oltre a
quelle già citate, i Pensieri sull’educazione, del 1693.
La difesa dell’empirismo
La figura di Locke, con la sua difesa dell’empirismo,
rappresenta l’altra grande alternativa dei pensiero seicentesco: da una parte il
razionalismo di Descartes (Cartesio, per chi non l’avesse capito, che intendeva la ragione
come una tecnica che procede in modo autonomo e geometricamente, cioè
utilizzando solo le idee chiare e distinte in un ordine rigoroso), e dall’altra,
appunto, la filosofia di Locke e dei pensatori a lui successivi quali Hume e Berkeley. Eppure l’empirismo non voleva negare l’importanza
della ragione. Esso sostiene invece che la ragione ha dei poteri, i quali sono
però limitati dall’esperienza, intesa, quest’ultima, come la fonte e l’origine
del processo conoscitivo, ed anche come il criterio di verità o lo strumento di
certificazione delle tesi proposte dall’intelletto, che risultano valide solo se
suscettibili di un controllo empirico.
Saggio sull’intelletto umano
Il capolavoro di Locke, il Saggio sull’intelletto
umano (1690), è un esame approfondito delle possibilità conoscitive
dell’uomo, ribadendo che la gnoseologia (= teoria della conoscenza) è la parte
più importante della filosofia, come è ormai chiaro da Descartes in poi. L’opera si apre con una critica
dell’innatismo, cioè contro la concezione che esistano nella nostra mente
principi o idee presenti in noi fin dalla nascita. La polemica di Locke era
diretta, in particolare, contro il pensiero di alcuni filosofi inglesi (i
"neoplatonici di Cambridge"), i quali sostenevano che l’innatismo, ad esempio
dell’idea di Dio, fosse in grado di fondare una concezione religiosa comune a
tutti gli uomini e con ciò lontana tanto dalle sottigliezze teologiche quanto
dalle intolleranze settarie. Anche Locke condivideva quegli obiettivi di fondo,
tuttavia lo stesso fine veniva da lui perseguito con una strategia opposta, per
la quale cioè solo una concezione empiristica della conoscenza era in
grado di porre un limite alle ingiustificate pretese intellettuali del
dogmatismo settario. L’argomentazione di Locke contro l’innatismo si
articola in due momenti. Il primo consiste nel mostrare che non vi sono principi
speculativi innati, cioè che non ci sono conoscenze possedute di necessità da
tutti gli uomini: infatti i bambini e gli idioti non le hanno. Le cosiddette
massime universali non nascono, per Locke, con l’uomo e nemmeno con la ragione
ma sono al termine e non al principio della conoscenza. Nemmeno proposizioni
innegabili come quelle della matematica e della geometria sono innate perché
altrimenti, dice Locke, saremmo costretti ad ammettere un’infinità di principi
innati, come ad es. tutte le proposizioni del tipo "il bianco non è nero",
oppure "l’amaro non è il dolce", il che è assurdo. Il secondo momento consiste
nel mostrare che non vi sono neppure principi pratici innati, cioè che non
esistono norme capaci di determinare il nostro comportamento che siano impresse
naturalmente nell’animo umano e quindi da questo necessariamente possedute
(duecento anni prima di Freud). Se possono
esistere tendenze e inclinazioni, non si può certi dire che esistano però dei
principi pratici innati. Per Locke dunque nessuna conoscenza è innata
perché la nostra mente è come una tabula rasa e le idee derivano tutte
dall’esperienza, che comprende sia le sensazioni che la riflessione. Il
fondamento della nostra conoscenza è dato dalle idee semplici, quali ad
esempio l’impressione visiva di un colore o la sensazione tattile che proviamo
toccando un corpo. Già qui si mostra un limite della nostra conoscenza: essa è
condizionata dalla costituzione dei nostri organi di senso e dal modo in cui
essi entrano in relazione col mondo. Su questa base è naturale che si presenti
anche in Locke la distinzione, caratteristica del pensiero moderno (si pensi a
Galilei e a Descartes) tra le qualità secondarie (odori, sapori, colori
ecc.) e le qualità primarie (estensione, figura, moto). Quando lo spirito si
limita a percepire le idee semplici è passivo, ma quando le ripete, le confronta
ecc. allora è attivo e capace di produrre nuove idee, le idee complesse,
che sono divise da Locke nei tre tipi di modi, sostanze e relazioni. Le idee di
spazio, tempio e infinità sono esempi di modi e sono ricondotte da
Locke ad una base empirica: ad esempio l’idea di tempo deriverebbe dalla
riflessione sull’avvicendarsi delle idee nel nostro spirito. Per quanto riguarda
invece la sostanza, Locke non intende negarne l’esistenza ma solo
sostenere che noi non la possiamo conoscere. Infatti, all’interno della
sua posizione empiristica, è chiaro che ci è preclusa la conoscenza di qualsiasi
realtà che stia dietro o sotto il mondo dei dati sensibili. Per Locke è la
limitatezza umana ad impedirci di cogliere la vera natura della realtà, e
dobbiamo accontentarci di una conoscenza sempre parziale. Tutto ciò che possiamo
conoscere con certezza è invece l’essenza nominale della sostanza, ossia
quegli aspetti ai quali l’unità viene conferita per mezzo di un’operazione anche
linguistica (per esempio quella consistente nell’applicare uno stesso nome ad un
insieme di elementi), dunque in maniera soggettiva e accidentale, nel senso che
ciò accade sulla base di abitudini, convenzioni, decisioni e sistemi di
riferimento culturali. L’atteggiamento corretto è dunque quello di chi si sforza
per lo meno di evitare gli abusi del linguaggio. La conoscenza nella quale
l’uomo può raggiungere un certo grado di certezza è di tre tipi: la conoscenza
intuitiva, dimostrativa e sensibile. Solo il primo tipo di conoscenza,
l’intuizione, è completa e perfetta, in quanto si limita alla percezione di idee
che sono nello spirito (ad es. "il bianco non è nero"). La seconda forma di
conoscenza, ottenuta mediante il ragionamento, è certa, pur non possedendo una
chiarezza assoluta come quella intuitiva. La conoscenza sensibile, infine,
riguarda soltanto gli oggetti del mondo esterno attualmente presenti ai nostri
sensi. Io conosco per intuizione il mio io. Infatti io penso, ragiono,
dubito, e con ciò intuisco la mia esistenza e non ne posso dubitare. Io
conosco per dimostrazione l’esistenza di Dio. Locke prova l’esistenza di Dio
con la prova causale: il nulla non può produrre il nulla; se qualcosa esiste è
perché è stata prodotta da qualche altra cosa e, non potendo risalire
all’infinito, si deve ammettere un essere eterno che ha prodotto ogni
cosa. Io conosco per sensazione l’esistenza delle cose esterne. Il
fatto che in questo momento riceviamo dall’esterno l’idea di qualcosa fuori di
noi, vuol dire che in questo momento esiste qualcosa fuori di noi che produce in
noi l’idea corrispondente. Non è ammissibile, dice Locke, che le nostre facoltà
ci ingannino a tal punto: la certezza che la sensazione attuale ci dà
dell’esistenza delle cose esterne, pur non essendo assoluta, è sufficiente per
tutti gli scopi umani. L’ambito della conoscenza, come abbiamo visto, è
assai limitato e sovente anche insufficiente per le esigenze pratiche della
vita. Per questo, dice Locke, Dio ha dotato l’uomo di un’altra facoltà, il
giudizio, grazie al quale la nostra mente è in grado di accogliere la
verità o la falsità di una proposizione anche quando non ne possiede un’evidenza
piena. Con questo però si passa dal campo delle conoscenze a quello delle
probabilità, ed è qui che intervengono la credenza, l’assenso,
l’opinione, la fede, la verosimiglianza, la testimonianza. In tale contesto,
trova esplicita formulazione quello che è uno degli obiettivi di fondo
dell’opera di Locke: tracciare i confini fra i due distinti ambiti della fede
religiosa e della ragione naturale, evitando sia il fanatismo e sia di
sconfessare la Rivelazione. Locke ritiene che non si sia né conflitto né
incompatibilità tra ragione e fede. La Rivelazione può intervenire
legittimamente solo su quegli argomenti circa i quali la ragione è in dubbio ma
spetta ancor sempre alla ragione il compito di giudicare se si tratta veramente
di una Rivelazione ed anche del significato delle parole mediante le quali essa
è comunicata.
Ragionevolezza del Cristianesimo
Nella Ragionevolezza del
Cristianesimo (1695), Locke afferma che il nucleo essenziale del
Cristianesimo è il riconoscimento di Cristo come Messia e della vera natura di
Dio. Ciò costituisce la base per una religione semplice, adatta a tutti, libera
dai sofismi teologici. Naturalmente la fede in Cristo implica anche l’obbedienza
ai suoi precetti, per quanto nessuno sia obbligato a conoscere tutti quei
precetti, che ciascuno deve invece cercare di apprendere e di comprendere da sé
nelle Scritture. La ragione è in qualche modo intrinseca al Cristianesimo
stesso, che è nato come sforzo di liberare l’uomo dalle vecchie tradizioni; in
altre parole, il Cristianesimo è stata una nuova e più efficace promulgazione
della legge morale e delle verità fondamentali che reggono la vita umana. Il
principio della tolleranza delle varie opinioni e in particolare delle diverse
fedi religiose ha trovato un’ampia trattazione nella Lettera sulla tolleranza
(1689). A fondamento del discorso vi è la netta separazione tra lo Stato e
la Chiesa, cioè la distinzione tra le competenze dell’autorità civile e di
quella religiosa, distinzione che fu di enorme portata storica. Pertanto lo
Stato può intervenire per imporre leggi e sanzioni, ma non per imporre articoli
di fede o dogmi o forme di culto. Anche il rapporto tra le varie Chiese deve
ispirarsi al dovere della tolleranza. Nessuna di esse può infatti vantare alcun
diritto sulle altre, giacché "ogni chiesa è ortodossa per se stessa, ed
erronea o eretica per le altre". Un conflitto potrebbe sorgere solo se non
si rispettano i limiti delle proprie competenze da una parte o dall’altra.
Questo è purtroppo quanto accade, secondo Locke, nel caso dei cattolici,
i quali, proprio per questo, vanno esclusi dal campo di chi può beneficiare
della tolleranza del sovrano. Infatti la sottomissione dei cattolici al Papa è
un vero e proprio passaggio ad un sovrano straniero e questo non può essere
tollerato, nella misura in cui, del resto, sono essi - i cattolici - che si
rifiutano, dice Locke, di rispettare gli altri. Una seconda eccezione al
principio della tolleranza è costituita dall’ateismo, perché esso compromette i
presupposti di qualsiasi convivenza civile. È sicuramente una contraddizione,
visto che se si parla della tolleranza e la si accetta come principio, non è
possibile poi non tollerare gli atei.
La filosofia politica di
Locke
La concezione politica di Locke
è espressa nei suoi Due trattati sul governo (1690). Nel primo
trattato sono confutate le tesi di Robert Filmer, il quale, nel
saggio Il Patriarca, aveva difeso l’assolutismo monarchico basandosi
sulla Bibbia: secondo Filmer, come Adamo ebbe autorità sui suoi figli, così la
ebbero tutti i Patriarchi che gli successero e quindi anche i re delle varie
nazioni. Locke obietta: o il potere è di tutti, in quanto tutti siamo figli di
Adamo, oppure è di uno soltanto, in quanto uno solo è l’erede primogenito; se
poi ogni governo è ritenuto legittimo perché è paterno o patriarcale, allora
anche un eventuale usurpatore sarebbe giustificato. Nel secondo trattato,
Locke ritiene che, nello stato di natura, vi sia la perfetta libertà ed
uguaglianza di tutti gli uomini, il che elimina alla radice ogni possibilità di
una forma privilegiata di autorità e di potere. Però tale stato di natura è
precario e tende sovente a degenerare in uno stato di guerra o di conflitto.
pertanto gli uomini devono accettare una parziale limitazione della propria
libertà e devono rinunciare al potere di farsi esecutori della legge di natura,
in particolare rinunciando al diritto di farsi giustizia da sé. È da questa
circostanza che nascono le società e gli Stati. Da un lato lo Stato ha una
natura convenzionale, nel senso che scaturisce da un accordo o contratto sancito
tra gli uomini, ma dall’altro esso si basa anche su sentimenti sociali di
benevolenza e di fiducia. Dando vita ad uno Stato, gli individui rinunciano
al potere di provvedere alla propria conservazione secondo l’arbitrio soggettivo
e al potere di punire, affidando questi alla maggioranza della comunità. in
altri termini, da questa doppia rinuncia nascono i tre poteri classici dello
Stato, delineati per la prima volta chiaramente da Locke: il potere
legislativo, il potere esecutivo (che è nettamente distinto dal
primo e subordinato ad esso) e il potere federativo, che riguarda i
rapporti con gli altri Stati. Va ricordato che queste tesi di Locke
costituiscono un passo decisivo per la nascita del liberalismo politico ed
inoltre la distinzione dei tre poteri statali è uno dei principi fondamentali
delle istituzioni politiche moderne.