L'epoca dell'ellenismo è in certi sensi una
rappresentazione in scala della nostra epoca, infatti dallo scenario della
polis, che ormai non conta più dal punto di vista politico come in passato, si
passa ad un impero molto vasto sotto il comando di Alessandro Magno; possiamo
quindi notare grosse analogie con la globalizzazione che si sta affermando ai
giorni nostri.
Come dicevamo, la polis non è più un punto di riferimento
forte per i cittadini, che quindi devono stabilire da soli quale sia la via per
la felicità terrena. Ebbene le filosofie elleniste offrono dei consigli di vita,
ma essi non sono il fulcro di esse, ma il risultato di una spiegazione
filosofica ben più profonda. Questo invece non è stato ben compreso da una
critica filosofica meno recente, che vedeva le filosofie ellenistiche solo come
delle filosofie di vita, inoltre considerava questa come un'epoca di decadenza.
Infatti comune a tutte le filosofie elleniche era il rifiuto della metafisica e
il ritorno ai fisiologi, pertanto non erano stati prodotti sistemi metafisici, e
questo ha indotto questa critica a formulare un tale giudizio.
La scuola filosofica di Epicuro venne fondata dallo stesso nel 307, ed era chiamata il giardino (kepos). Ad essa erano ammessi tutti ricchi e poveri, donne e uomini, infatti Epicuro sosteneva nella lettera a Meneceo che non era né troppo tardi né troppo presto per filosofare. Come le altre scuole filosofiche ellenistiche, questa filosofia dà alcuni consigli di vita, che non sono però il cuore di questa, come è stato ritenuto da una critica meno recente, ma sono la diretta conseguenza di una spiegazione filosofica. Il quadrifarmaco, che racchiude in sé i principi che permettono all'uomo di curare l'anima e di porla in una condizione di benessere, dà quattro consigli all'uomo:
Ma questi principi, come detto, vengono da spiegazioni filosofiche più profonde, il primo deriva dalla cosmologia, il secondo dalla teologia, il terzo e il quarto dall'antropologia. Ma come dice Kant, antropologia, teologia e cosmologia costituiscono la filosofia, poiché contribuiscono alla riposta della domanda "Chi è l'uomo?". Dunque l'epicureismo è una filosofia a tutti gli effetti, e non una semplice filosofia come si tendeva a pensare.
Epicuro, come le altre scuole ellenistiche,
abbandona la seconda navigazione, e anzi afferma che la conoscenza si ottiene
attraverso la sensazione, cosa che invece Platone negava. Quindi c'è un ritorno
alla filosofia dei fisiologi, degli atomisti. Epicuro riteneva che tutti i
processi della natura come li conosciamo, in una sola parola il divenire,
fossero interni alla natura, perché nulla nasce dal non essere, nulla si
dissolve nel non essere, e quindi "…tutto fu sempre, quale ora è e quale ora
sarà...".
Il cosmo di Epicuro è formato dai corpi e dal vuoto, come
sostenevano gli atomisti, e questo deriva dall'osservazione diretta della
realtà, perché se non ci fosse il vuoto i corpi non potrebbero muoversi. I corpi
non sono altro che aggregati di atomi, che causano il divenire, visto che
legandosi tra loro, scindendosi e così via danno origine ai vari corpi, alle
varie sostanze. Nell'universo ci sono infiniti mondi, quindi il nostro non è
unico, che sono aggregati di atomi aventi forme simili e opportune, che
legandosi fra loro danno luogo ai quattro elementi fondamentali aria, acqua,
terra e fuoco, e poi a tutto il resto. Gli atomi affluiscono nel nuovo mondo,
che quindi cresce, fino a quando non si arriva ad un punto critico, a partire
dal quale gli atomi si scindono e il mondo cessa di esistere. Questi atomi, ora
di nuovo liberi, formeranno altri mondi. Tutto questo spiega all'interno della
natura un ripetersi ciclico di fenomeni, pertanto c'è una concezione ciclica del
tempo.
Mentre per Democrito era fondamentale la forma dell'atomo, visto che
la più importante delle leggi della meccanica, che regolavano il movimento
dell'atomo, era proprio quella dell'attrazione del simile, fondamentale affinché
due atomi si legassero fra loro dando vita ad un nuovo mondo, per Epicuro la
forma passa più in secondo piano, perché il movimento degli atomi avviene a
causa del peso. Infatti Democrito non aveva mai spiegato da cosa traesse origine
il movimento atomico, invece Epicuro, pur affermando che non c'è un inizio, dice
che la causa del movimento è intrinseca negli atomi e la identifica con il peso,
che trascina gli atomi dall'alto verso il basso, alla medesima velocità e sulla
stessa traiettoria perpendicolare.
Ma allora come fanno gli atomi a
incontrarsi? Epicuro spiega che casualmente gli atomi possono deviare da questa
traiettoria (clinamen) e quindi scontrarsi e dare origini a nuovi mondi,
che sarebbero quindi risultati non di una volontà divina trascendente (vedi
demiurgo), non di leggi
della meccanica, ma del caso. Questo clinamen ha importanti ripercussioni
sull'etica, infatti sottrae da questo punto di vista l'uomo dal dover compiere
le azioni solo per dovere (come sostenevano gli stoici), ma gli permette di
compiere azioni in libertà e autonomia. Anche se, riflettendo bene, non siamo
del tutto autonomi di decidere il nostro destino, visto che non siamo noi a
decidere dove nascere, la nostra condizione sociale e così via.
Secondo Epicuro gli dei esistono, sono fatti di atomi particolari che si rigenerano, e quindi sono immortali. Essi sono l'ideale di saggio per Epicuro, visto che stanno negli intermundia, spazi fra un mondo e l'altro, non si interessano delle faccende umane e quindi conducono una vita priva di turbamenti e di dolori.
Dalla spiegazione di teologia e cosmologia abbiamo come conseguenza i primi due principi del quadrifarmaco. Il primo, cioè non bisogna temere la morte, deriva dal fatto che l'anima è composta di atomi ed è solidale con il corpo, quindi quando esso muore essa anche cessa di esistere, perciò è impossibile provare dolore, visto che dalla vita si passa alla morte, non ci sono momenti intermedi. Ma solo il pensiero della morte può provocare il timore, si potrebbe obbiettare, ma nella lettera a Meneceo Epicuro afferma che non è possibile temere qualcosa che non provoca dolore. Inoltre l'affermazione che gli dei non si interessano alle faccende umane, dovrebbe sollevare l'uomo dal timore degli stessi.
Il tema del timore e del dolore è molto
importante per Epicuro, infatti tutta l'etica si basa su questo: l'uomo è
materiale, materiale sarà di conseguenza il bene, cioè quel bene che rende
felici. Questo bene è associato al piacere, che non è edonismo sfrenato come è
stato sempre considerato a causa di errate interpretazioni, ma è semplicemente
sia assenza di turbamento (atarassia) e assenza di dolore
(aponia). Pertanto il timore e il dolore possono intaccare il
piacere.
Spetta quindi alla ragione, cioè alla saggezza pratica, scegliere
tra i piaceri quelli che non portano dolore e turbamento e scartare quelli che
danno momentaneo godimento ma poi comportano dolore e turbamento. Nella lettera
a Meneceo Epicuro indica tre categorie di piacere:
Per essere felici bisogna ricercare i piaceri
del primo gruppo, limitarsi rispetto a quelli del secondo e astenersi da quelli
del terzo. Quindi la felicità non sta né nell'ascetismo né nel lusso sfrenato,
mentre nel passato era stata attribuita una posizione di Epicuro in favore
dell'edonismo. Da questa spiegazione antropologica deriva il terzo principio del
quadrifarmaco, cioè che la felicità si ottiene con poco.
Il saggio epicureo,
preoccupato della propria felicità, anche di fronte al male mantiene la sua
imperturbabilità perché sa che se il male è lieve, esso passa e non intacca
l'equilibrio dell'anima, se acuto passa presto, se è acutissimo porta subito
alla morte, pertanto ad una situazione di non dolore. Da qui deriva il quarto
principio del quadrifarmaco cioè che il male è facilmente
sopportabile.
Lo stoicismo come filosofia si estende su più
secoli ed arriva dal III - II sec. a.C. al I- III d.C., epoca che corrisponde al
fiorire dello stoicismo romano con Seneca, Marco Aurelio. Infatti possiamo
distinguere tre epoche di questa filosofia, l'antica stoà, con Zenone e Cleante,
media stoà e nuova stoà, ovvero l'epoca romana.
Lo stoicismo come
l'epicureismo offre come conseguenza diretta della sua filosofia spiegazioni
inerenti l'arte del vivere, e come esso è antimetafisico, ma non condivide il
considerare il cosmo come una accozzaglia di atomi.
Gli stoici si rifanno
molto ad Eraclito, infatti ritorna nella loro filosofia il termine logos,
come lo conoscevamo con "l'oscuro", infatti esso significa sia la legge
universale che governa il mondo, sia il pensiero umano, sia il discorso, ma
identifica anche il fuoco, cioè dio. Però esso assume a seconda dei contesti uno
specifico significato tra questi:
Nella fisica, pur non essendoci elementi di metafisica, possiamo intravedere delle reminescenze delle dottrine platoniche e aristoteliche. Infatti secondo loro la realtà è un'unica materia animata, che è la natura, animata da due principi: uno passivo, cioè la materia, e uno attivo, la forma, che non è altro che logos interno al mondo, o dio, o fuoco. Pertanto parliamo di un dio immanente che si trova all'interno del cosmo (panteismo), infatti il dio, o fuoco, qualifica la materia e le dà forma (evidente il richiamo al synolon materia-forma aristotelico e anche al demiurgo platonico che da forma alla chora) perché pur essendo unico esso è capace di differenziarsi nelle infinite cose che compongono la natura, ha in sé tutte le potenzialità, contenute in varie ragioni seminali. Dio è in tutto ed è inscindibile dalla materia (ancora il synolon). Il mondo è unico, sferico (come nel Timeo), al centro dell'universo, dove si condensano acqua e terra, più pesanti (anche qui troviamo un richiamo alla fisica aristotelica dei luoghi naturali), poi c'è l'aria, uno strato di fuoco, nel quale ruotano seguendo traiettorie concentriche i pianeti, e infine c'è la volta celeste, di fuoco purissimo, dove ci sono le stesse fisse. Qui finisce il cosmo, che è circondato dal vuoto. Non è né infinito né infiniti sono i mondi, come sosteneva Epicuro. Quindi questa natura degli stoici sembra quasi "Il divino" di Anassimandro. Arrivato ad un punto critico, il cosmo smette di accrescersi e il fuoco che lo avevo plasmato lo distrugge. Per poi riplasmare nuovamente la materia. Quindi notiamo una concezione del tempo circolare.
Zenone ha origini ebraiche e probabilmente queste hanno influito sulla sua concezione di dio, infatti il dio di Gerusalemme è provvidenziale, come quello degli stoici. Quindi ad una concezione meccanicistica degli epicurei se ne oppone una finalistica, infatti il logos, cioè dio, fa in modo che tutto il mondo sia perfetto, perché ogni essere è concatenato con gli altri, ha un fine e una destinazione precisa, si trova introdotto nella cosiddetta "catena causale". In pratica questo dio viene a coincidere con il fato. Ciò per essi non annulla la libertà individuale dell'uomo, poiché il saggio, cioè colui che mette davanti a tutto nella sua vita il logos, sa che per essere veramente libero deve uniformare la sua vita ai voleri del logos.
Il saggio stoico deve quindi accettare il
destino, non deve andarci contro, la vera saggezza sta proprio nell'accettare il
fato e l'intervento provvidenziale del dio. Infatti, in caso contrario, l'uomo è
comunque vincolato alla catena causale, non ne può uscire, e come dice Seneca
"Il destino ti conduce se vuoi, ti strattona se non vuoi", quindi è meglio
assecondare il destino piuttosto che avversarlo ed essere comunque strattonato.
Quindi il saggio stoico si distingue per la sua forza morale, e non deve avere
né timore né speranza per il futuro.
Inoltre scopo del vivere è la felicità,
che si consegue vivendo secondo natura. Ma cosa è secondo natura? Gli stoici
considerano solo la parte razionale dell'uomo, scartando il resto, pertanto il
bene è relativo solo a questa parte, cioè ciò che è secondo natura, non è altro
che ciò che consente all'uomo di realizzare la sua natura di essere razionale e
di svilupparla, contro natura è ciò che non lo consente, il resto è
indifferente, o meglio, tutto quello che è relativo al corpo, come ad esempio la
vita, la condizione sociale, ecc..
Anche per le azioni possiamo distinguere
una differenziazione simile, ovvero quelle moralmente perfette, quelle viziose,
cioè contro natura. In mezzo ci sono quelle medie, cioè quelle che pur non
contribuendo alla perfezione morale dell'uomo sono convenienti alla natura
dell'uomo e pertanto preferibili. In questa categoria rientrano gran parte dei
doveri sociali e morali, cioè della morale comune, come per esempio onorare i
genitori, servire la patria. Notiamo quindi che le azioni vengono ridotte a meri
doveri. Inoltre la differenza che passa da azioni indifferenti a moralmente
perfette, sta nell'intenzione di chi le compie, che può essere più o meno
moralmente pura.
Ma il saggio stoico deve anche reprimere le passioni
(apatia), esterne alla parte razionale dell'uomo, poiché esse possono
oscurare il logos e portare quindi al male individuale. Infatti l'uomo se
interpreta male il logos, che il pensiero razionale può comprendere
correttamente, lo fa solo ed esclusivamente a causa delle passioni. Pertanto il
male ha origine dalle passioni, e solo attraverso l'apatia si può riuscire a
vivere da saggi. Quindi secondo gli stoici non esiste un saggio con tali
caratteristiche.
Scetticismo deriva dalla parola greca
scepsi che significa indagine, ricerca, dal verbo greco skeptomai.
La scepsi quindi implica il dubbio e la ricerca, e non è la negazione della
filosofia, perché è il motore della ricerca, se non ci fosse il dubbio non
saremmo neanche spinti a cercare, non ci sarebbe alcun fine per il quale farlo.
Quindi in un certo senso la scepsi sinonimo di filosofia, come continua ricerca
del sapere. Socrate stesso era "scettico", ovvero per ricercare la verità poneva
i dubbi sui concetti fondativi (il bene, il male, ecc.) per giungere ad una
definizione precisa di essi, e da là cominciare la ricerca della verità.
Gli
scettici, quindi, fanno proprio questo atteggiamento, in alcuni casi portandolo
ad una degenerazione, che ha poi provocato una serie di atteggiamenti critici
nei loro confronti, e a porsi la domanda su cosa essi ricercassero, se la verità
o il dubbio. In realtà essi ponevano il dubbio e continuavano a cercare fino ad
arrivare ad una risposta che togliesse tutti i dubbi, proprio perché loro non
erano sofisti, ma anzi erano contro ogni forma di dogmatizzazione. A loro
avviso, infatti, tutte le filosofie che offrivano una verità assoluta erano
dogmatiche e come tali lo scettico avanzando il dubbio doveva dimostrarne la
fallacità.
Ciò perché gli scettici negavano la possibilità di conoscere
l'essere, essi ritenevano che ci fosse uno scarto tra ciò che potevano vedere
con i sensi, ovvero i fenomeni (ciò che si mostra, e la vera essenza
dell'essere, che si nascondeva dietro i fenomeni stessi. Neanche con la ragione
si poteva arrivare a comprendere l'essere, perché la ratio ha come punto di
partenza i sensi, e quindi non si potrà mai arrivare ad una conoscenza assoluta
dell'essere e di conseguenza ad una verità altrettanto assoluta. Come sostiene
Dal Pra, c'è "la negazione radicale e totale circa la possibilità di definire
conoscitivamente l'essenza del reale". Ma ciò non è il punto di arrivo, anzi,
perché questa consapevolezza mi permette di continuare la ricerca, e anche lo
smentire le filosofie dogmatiche non è un momento distruttivo come lo era per i
sofisti, ma costruttivo perché permette di comprendere che quello che si credeva
verità non lo è perché lascia spazio al dubbio e quindi rimette in modo la
ricerca. Ma qual'è l'atteggiamento da seguire, allora? L'epoché, cioè la
sospensione del giudizio, che non è un atteggiamento definitivo, ma
semplicemente una continua ricerca finché non trovo quella verità che mette a
tacere tutti i dubbi.
Naturalmente nella lunga storia dello stoicismo ci sono
stati filosofi che hanno portato l'epoché all'estrema conseguenza e l'hanno
anche dogmatizzata, ma questo atteggiamento è apiretico, perché epoché come
punto di arrivo significa affermare "...non sappiamo nulla...", ma ciò implica
che una cosa la sappiamo, quindi siamo riusciti ad arrivare ad una conoscenza
certa, ovvero che non sappiamo. Ma se così fosse, allora non è vero che non
sappiamo nulla.
È quindi di estrema importanza per capire lo scetticismo, non
dogmatizzarlo e considerare che in alcuni casi nella sua storia è stato esso
stesso dogmatizzato (come con Arceisilao). Lo scetticismo è come un fiume
carsico, cioè esso compare nella storia della filosofia quando meno lo si
aspetta. Ma è un atteggiamento che è spontaneo nell'uomo, ovvero quello del
dubbio, lo vediamo anche nella Bibbia con Giobbe, con Socrate, con Platone, che
quando parlava del demiurgo sosteneva che il discorso che stava facendo era
verosimile, non poteva esserne certo, perché non era presente in quel momento.
Lo scetticismo si può dividere in tre epoche:
Pirrone di Elide è il fondatore del pensiero scettico, anche se di lui non rimangono opere scritte. Introduce l'impossibilità di conoscere l'essere per il fatto che i nostri sensi possono percepire solo i fenomeni e non l'essere stesso. L'unico modo per vivere felici è dunque accettare questa situazione, continuare a cercare nel dubbio senza mai farsi "traviare dai dogmatismi", in questo modo si otterranno prima l'atarassia e poi l'afasia, cioè il rinunciare a pronunciare alcuna affermazione positiva sulla realtà, non essendoci un certo e sicuro criterio di conoscenza.
Con Arcesilao, nel III sec. a.C., lo
scetticismo entra nell'accademia di Platone. Arcesilao sfrutta la teoria di
Platone secondo cui il vero essere è metafisico per dire che noi con i soli
sensi non possiamo arrivare all'essere, ma solo al fenomeno, che è il mostrarsi
del mondo sensibile. Inoltre Arcesilao si scaglia contro Zenone (lo stoico) e la
sua rappresentazione catalettica. Essendo costituita la realtà di
rappresentazioni vere e false, non potendo stabilire quale sia veritiera, il
saggio nel giudicare una rappresentazione catalettica, cioè convincente per la
sua evidenza, può prendere per tale anche una rappresentazione falsa. Allora
egli può fare due cose, o correre il rischio di sbagliare oppure sospendendo il
giudizio (epoché).
Arcesilao dogmatizza l'epoché e la trasforma in un
atteggiamento definitivo, quindi dalle connotazioni negative e non più positive,
perché così si viene ad annullare anche il dubbio scettico. Per uscire da questa
situazione, Carneade elabora un criterio applicabile alla vita quotidiana, pur
rimanendo nell'epoché definitiva. Infatti un epoché definitiva,
cioè portata alle estreme conseguenze, può portare alla paralisi delle azioni
(famoso l'aneddoto su Pirrone e l'uomo caduto in una fossa, che lo scettico non
aiutò perché non poteva stabilire se fosse bene o male per lui). Quindi per
stabilire un qualche criterio per la nostra vita, possiamo affidarci alla
rappresentazione probabile, cioè alle rappresentazioni che appaiono più
persuasive e non vengono contraddette da altre, e quindi sulle quali possiamo
contare per decidere le nostre azioni.
Sesto Empirico è l'ultimo grande rappresentante della scuola scettica. Medico empirico, deve proprio a questo il suo soprannome. Fu non solo un filosofo, ma anche un dossografo, e la sua opera è molto importante sia perché riassume tutto lo scetticismo sia perché ci descrive le varie filosofie del passato, che poi confuta in chiave scettica, avanzando quindi il dubbio. Definisce inoltre lo stoicismo come epoché e ricerca continua, allentandosi dalle posizione stoiche dell'accademia. Il fine della vita, secondo lui, è la felicità, che non si può raggiungere con alcune "arte della vita", che invece deve essere ricavata dal singolo. Ma se non si può conoscere l'essere, l'unico campo di indagine sono i fenomeni. Quindi viviamo senza dogmi riferendoci ad essi. Perciò le indicazioni della natura, le leggi, i costumi, e il sapere pratico delle tecniche permettono di ricavare i parametri regolatori di una vita che non vuole condividere la "superbia dei dogmatici".
Se il dio degli stoici è provvidenziale, è difficile spiegare il male. Ma questo problema non è solo degli stoici, ma appare già dalla Bibbia (Giobbe). Esso sarà poi sintetizzato da Agostino "Unde malum?", cioè da dove viene il male. Epicuro sintetizza il problema in questo modo:
Epicuro sostiene che gli dei siano negli
intermundia, pertanto il male esiste solo a livello morale e riprende
come spiegazione l'intellettualismo etico (il male viene quindi
dall'ignoranza).
Gli stoici invece sostengono che il male esiste perché c'è
il bene, cioè il positivo è pensabile solo se esiste il suo negativo. Pertanto i
mali sono funzionali all'ordine e all'economia del cosmo, che è tutto sommato è
qualcosa di buono, perché bisogna considerarlo nel suo insieme, dove prevale il
bene, grazie proprio all'intervento di dio. Inoltre, come detto prima, il male
individuale della persona è dovuto alle passioni.
Questa problema è stato di
grande attualità anche dopo l'olocausto e spesso mette in crisi la fede dei
credenti di fronte alle prove della vita. Dopo l'olocausto anche i teologi ebrei
hanno cominciato a domandarsi dove fosse dio, perché non avesse impedito la
shoà. Jonas arrivò a dire anche che era necessario togliere "l'onnipotenza" a
Dio perché non era stato in grado di impedire l'olocausto.
Per gli scettici, che riducevano il servire la
patria ad un dovere appartenente al gruppo delle azioni indifferenti, la
politica era quindi un'attività alta, che poteva anche aiutare la parte
razionale ad esprimersi al massimo, cioè quindi secondo natura, se fatta con
un'intenzione razionalmente pura. Marco Aurelio, imperatore romano, filosofo
stoico, considerava il suo incarico un dovere finalizzato al servizio dei
cittadini.
Epicuro invece diceva late biogas, ovvero vivi appartato,
dedicati a coltivare la tua intelligenza e l'amicizia con gli altri all'interno
del kepos, il giardino. Certo non proibiva di fare politica, ma la
sconsigliava perché non permetteva di raggiungere l'atarassia, il potere era
infatti un piacere non naturale non necessario, cioè da evitare. Questo
atteggiamento è stato criticato da alcuni studiosi, che hanno definito con
ironia il kepos una sorta di "internazionale dell'intelligenza", con
allusioni all'internazionale socialista. Altri invece hanno visto nel
kepos un modello di società, perché appunto in esso si realizzava la
comunione dei beni, era aperto a tutti, senza alcuna distinzione, e si
filosofava continuamente.