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Paolo VI
Ecclesiam suam


Prologo

Gesù Cristo ha fondato la sua chiesa, perché sia nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza; appare quindi evidente la ragione per cui ad essa abbiano dato prove di particolare amore, e ad essa abbiano dedicato particolari cure tutti coloro che hanno avuto a cuore sia la gloria di Dio sia la salvezza eterna degli uomini: tra i quali, com’era giusto, rifulsero i vicari in terra dello stesso Cristo, un numero immenso di vescovi e di sacerdoti ed una mirabile schiera di santi cristiani.

La dottrina del vangelo e la grande famiglia umana

A tutti, pertanto, sembrerà quasi naturale che noi, indirizzando al mondo questa nostra prima enciclica dopo che, per inscrutabile disegno di Dio, siamo stati chiamati al soglio pontificio, rivolgiamo il nostro pensiero amoroso e reverente alla santa chiesa. Per tali motivi, ci proporremo, in questa enciclica, di sempre più chiarire a tutti quanto, da una parte, sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino. Quando, per grazia di Dio, noi avremmo la fortuna di rivolgere a viva voce la nostra parola, all’apertura della seconda sessione del concilio ecumenico Vaticano II, nella festa di san Michele Arcangelo dello scorso anno, a voi tutti adunati nella basilica di s. Pietro, manifestammo il proposito di rivolgervi altresì per iscritto, com’è costume all’inizio d’ogni pontificato, il nostro fraterno e paterno discorso, per manifestarvi alcuni nostri pensieri, che sovrastano agli alti dell’animo nostro e che ci sembrano utili a guidare praticamente gli inizi del nostro pontificale ministero. Veramente ci è difficile determinare tali pensieri, perché dobbiamo attingerli alla più diligente meditazione della divina dottrina, memori noi stessi delle parole di Cristo: "La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato"; dobbiamo, inoltre, commisurarli alle presenti condizioni della chiesa stessa, in un’ora di vivacità e di travaglio sia della sua interiore esperienza spirituale, sia del suo esteriore sforzo apostolico; e dobbiamo, infine, non ignorare lo stato, in cui oggi si trova l’umanità, in mezzo alla quale si svolge la nostra missione.

Triplice impegno della chiesa

Ma non è nostra ambizione dire cose nuove né complete; il concilio ecumenico è là per questo; la sua opera non deve essere turbata da questa nostra semplice conversazione epistolare, ma quasi onorata ed incoraggiata. Non vuole questa nostra enciclica rivestire carattere solenne e propriamente dottrinale, né proporre insegnamenti determinati, morali o sociali, ma semplicemente vuol essere un messaggio fraterno e familiare. Noi vogliamo infatti soltanto, con questo nostro scritto, compiere il nostro dovere di aprire a voi l’animo nostro, con l’intenzione di dare alla comunione di fede e di carità, che beatamente intercede fra noi, maggiore coesione, maggiore gaudio, allo scopo di rinvigorire il nostro ministero, di meglio attendere alle fruttuose celebrazioni del concilio ecumenico stesso, e di dare maggiore chiarezza ad alcuni criteri dottrinali e pratici, che possono utilmente guidare l’attività spirituale ed apostolica della gerarchia ecclesiastica e di quanti le prestano obbedienza e collaborazione, o anche solo benevola attenzione.

Vi diremo subito, venerabili fratelli, che tre sono i pensieri, che vanno agitando l’animo nostro quando consideriamo l’altissimo ufficio, che la Provvidenza, contro i nostri desideri ed i nostri meriti, ci ha voluto affidare di reggere la chiesa di Cristo, nella nostra funzione di vescovo di Roma, e perciò di successore del beato apostolo Pietro, gestore delle chiavi del regno dei cieli e vicario di quel Cristo che fece di Pietro il primo pastore del suo gregge universale. Il pensiero che sia questa l’ora in cui la chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, meditare sul mistero che le è proprio, esplorare a propria istruzione ed edificazione la dottrina, già a lei nota e già in questo ultimo secolo enucleata e diffusa, sopra la propria origine, la propria natura, la propria missione, la propria sorte finale, ma dottrina non mai abbastanza studiata e compresa, come quella che contiene il "piano provvidenziale del mistero nascosto da secoli in Dio... affinché sia manifestato... per mezzo della chiesa", misteriosa riserva cioè dei misteriosi disegni divini che mediante la chiesa vengono notificati; e come quella che costituisce oggi il tema più d’ogni altro interessante la riflessione di chi vuol essere docile seguace di Cristo, e tanto più di chi, come noi e come voi, venerabili fratelli, "lo Spirito Santo ha posto quali vescovi a reggere la chiesa di Dio".

Deriva da questa illuminata ed operante coscienza uno spontaneo desiderio di confrontare l’immagine ideale della chiesa, quale Cristo vide, volle ed amò, come sua sposa santa ed immacolata e il volto reale, quale oggi la chiesa presenta, fedele, per grazia divina, ai lineamenti che il suo divin fondatore le impresse e che lo Spirito Santo vivificò e sviluppò nel corso dei secoli in forma più ampia e più rispondente al concetto iniziale da un lato, all’indole della umanità ch’essa andava evangelizzando e assumendo dall’altro; ma non mai abbastanza perfetto, abbastanza venusto, abbastanza santo e luminoso, come quel divino concetto informatore lo vorrebbe. E deriva perciò un bisogno generoso e quasi impaziente di rinnovamento, di emendamento cioè dei difetti, che quella coscienza, quasi un esame interiore allo specchio del modello che Cristo di sé ci lasciò, denuncia e rigetta. Quale sia cioè il dovere odierno della chiesa di correggere i difetti dei propri membri e di farli tendere a maggior perfezione, e quale il metodo per giungere con saggezza a tanto rinnovamento, è il secondo pensiero che occupa il nostro spirito e che vorremmo a voi manifestare per trovare non solo maggiore coraggio a intraprendere le dovute riforme, ma per avere altresì dalla vostra adesione consiglio ed appoggio in così delicata e difficile impresa.

Terzo pensiero nostro, e vostro certamente, sorgente dai primi due sopra enunciati, è quello delle relazioni che oggi la chiesa deve stabilire col mondo che la circonda ed in cui essa vive e lavora. Una parte di questo mondo, come ognuno sa, ha subito profondamente l’influsso del cristianesimo e l’ha assorbito intimamente più che spesso non si avveda d’esser debitore delle migliori sue cose al cristianesimo stesso, ma poi s’è venuto distinguendo e staccando, in questi ultimi secoli, dal ceppo cristiano della sua civiltà; e un’altra parte e la maggiore di questo mondo, si dilata agli sconfinati orizzonti dei popoli nuovi, come si dice; ma tutto insieme è un mondo che non una, ma cento forme di possibili contatti offre alla chiesa, aperti e facili alcuni, delicati e complicati altri, ostili e refrattari ad amico colloquio purtroppo oggi moltissimi. Si presenta cioè il problema, così detto, del dialogo fra la chiesa ed il mondo moderno. È problema questo che tocca al concilio descrivere nella sua vastità e complessità, e risolvere, per quanto è possibile, nei termini migliori. Ma la sua presenza, la sua urgenza sono tali da costituire un peso nell’animo nostro, uno stimolo, una vocazione quasi, che vorremmo a noi stessi ed a voi, fratelli, sicuramente non meno di noi esperti del suo tormento apostolico, in qualche modo chiarire, quasi per renderci idonei alle discussioni e alle liberazioni che nel concilio insieme crederemo di prospettare in così grave e multiforme materia.

Assiduo e illimitato zelo per la pace

Voi certamente avvertirete che questo sommario disegno della nostra enciclica non contempla la trattazione di temi urgenti e gravi che interessano non solo la chiesa ma l’umanità, quali la pace fra i popoli e fra le classi sociali, la miseria e la fame che tuttora affliggono intere popolazioni, l’ascesa di giovani nazioni all’indipendenza e al progresso civile, le correnti del pensiero moderno e la cultura cristiana, le condizioni infelici di tanta gente e di tante porzioni della chiesa a cui sono contestati i diritti propri di cittadini liberi e di persone umane, i problemi morali circa la natalità, e così via. Alla grande e universale questione della pace nel mondo noi diciamo fin d’ora che ci sentiremo particolarmente obbligati a rivolgere non solo la nostra vigilante e cordiale attenzione, ma l’interessamento altresì più assiduo ed efficace, contenuto, sì, nell’ambito del nostro ministero ed estraneo perciò ad ogni interesse puramente temporale e alle forme propriamente politiche, ma premuroso di contribuire alla educazione dell’umanità a sentimenti ed a procedimenti contrari ad ogni violento e micidiale conflitto, e favorevoli ad ogni civile e razionale pacifico regolamento dei rapporti fra le nazioni; e sollecito parimenti di assistere, con la proclamazione dei principi umani superiori, che possano giovare a temperare gli egoismi e le passioni donde scaturiscono gli scontri bellici, l’armonica convivenza e la fruttuosa collaborazione fra i popoli; e d’intervenire, ove l’opportunità ci sia offerta, per coadiuvare le parti contendenti a onorevoli e fraterne soluzioni. Non dimentichiamo infatti essere questo amoroso servizio un dovere che la maturazione delle dottrine da un lato, delle istituzioni internazionali dall’altro rende oggi più urgente nella coscienza della nostra missione cristiana nel mondo, ch’è pur quella di rendere fratelli gli uomini, in virtù appunto del regno di giustizia e di pace, inaugurato dalla venuta di Cristo nel mondo. Ma se ora ci limitiamo ad alcune considerazioni di carattere metodologico per la vita propria della chiesa, non dimentichiamo quei grandi problemi, ad alcuni dei quali il concilio dedicherà la sua attenzione, mentre noi ci riserviamo di farne oggetto di studio e d’azione nel successivo esercizio del nostro ministero apostolico, come al Signore piacerà di darcene l’ispirazione e la forza.

I. LA COSCIENZA

Noi pensiamo che sia doveroso oggi per la chiesa approfondire la coscienza ch’ella deve avere di sé, del tesoro di verità di cui è erede e custode e della missione ch’essa deve esercitare nel mondo. Ancor prima di proporsi lo studio di qualche particolare questione, ed ancor prima di considerare l’atteggiamento da assumere a riguardo del mondo che la circonda, la chiesa deve in questo momento riflettere su se stessa per confermarsi nella scienza dei divini disegni sopra di sé, per ritrovare maggiore luce, nuova energia e migliore gaudio nel compiere la propria missione e per determinare i modi migliori per rendere più vicini, operanti e benefici i suoi contatti con l’umanità a cui essa stessa, pur distinguendosi per caratteri propri inconfondibili, appartiene. Pare infatti a noi che tale atto di riflessione possa riferirsi al modo stesso scelto da Dio per rivelarsi agli uomini e per stabilire con essi quei rapporti religiosi di cui la chiesa è al tempo stesso strumento ed espressione. Perché, se è vero che la divina rivelazione si è compiuta "a più riprese e in più modi" con fatti storici esteriori ed incontestabili, essa però si è inserita nella vita umana per le vie proprie della parola e della grazia di Dio, che si comunica interiormente alle anime, mediante la ascoltazione del messaggio della salvezza e mediante quel conseguente atto di fede, ch’è all’inizio della nostra giustificazione.

La vigilanza dei fedeli seguaci del Signore

Noi vorremmo che questa riflessione sull’origine e sulla natura del rapporto nuovo e vitale, che la religione di Cristo instaura fra Dio e l’uomo, assumesse il senso d’un atto di docilità alla parola del divino maestro ai suoi uditori, e specialmente ai suoi discepoli, tra i quali noi stessi ancor oggi a buon diritto amiamo considerarci. Fra tante, sceglieremo una delle più gravi e ripetute raccomandazioni fatta loro da nostro Signore e ancor oggi valida per chiunque ami essergli fedele seguace, quella della vigilanza. Vero è che questo monito del nostro Maestro si riferisce principalmente all’avvertenza dei destini ultimi dell’uomo, prossimi o lontani che siano nel tempo. Ma proprio perché tale vigilanza dev’essere sempre presente ed operante nella coscienza del servo fedele, essa ne determina la condotta morale, quella pratica e presente, che deve caratterizzare il cristiano nel mondo. Il richiamo alla vigilanza è intimato dal Signore anche in ordine a fatti prossimi e vicini, ai pericoli cioè e alle tentazioni che possono far decadere o deviare la condotta dell’uomo. Così è facile scoprire nel vangelo un continuo invito alla rettitudine del pensiero e dell’azione. Non forse ad essa si riferiva la predicazione del precursore, con cui si apre la scena pubblica del vangelo? E Gesù Cristo stesso non ha invitato ad accogliere interiormente il regno di Dio? Non è tutta la sua pedagogia un’esortazione, un’iniziazione all’interiorità? La coscienza psicologica e la coscienza morale sono da Cristo chiamate a simultanea pienezza, quasi a condizione per ricevere, come finalmente all’uomo si conviene, i doni divini della verità e della grazia. E la coscienza del discepolo diventerà poi memoria di quanto Gesù aveva insegnato e di quanto intorno a lui era avvenuto, e si svilupperà e si preciserà nella comprensione di chi lui era e di che cosa egli era stato maestro e autore. La nascita della chiesa e l’accensione della sua coscienza profetica sono i due fatti caratteristici e coincidenti della pentecoste, e insieme progrediranno: la chiesa nella sua organizzazione e nel suo sviluppo gerarchico e comunitario; la coscienza della propria misteriosa natura, della propria dottrina, della propria missione accompagnerà gradualmente tale sviluppo, secondo il voto di san Paolo: "E per questo prego: che la vostra carità più e più ancora abbondi in conoscenza e pienezza di discernimento".

"Credo, Signore!"

Potremmo esprimere in altro modo questo nostro invito, che rivolgiamo tanto alle singole anime di coloro che vogliono accoglierlo; a quelle di ciascuno di voi, perciò, venerabili fratelli, e di coloro che con voi sono alla nostra e alla vostra scuola, quanto all’intera assemblea dei fedeli, collettivamente considerata ch’è la chiesa. E cioè potremmo tutti invitare a compiere un vivo, un profondo, un cosciente atto di fede in Gesù Cristo signor nostro. Noi dovremmo caratterizzare questo momento della nostra vita religiosa con questa forte e convinta, se pur sempre umile e trepidante, professione di fede, simile a quella che leggiamo nel vangelo, emessa dal cieco nato, a cui Gesù Cristo aveva aperto gli occhi: "Credo, Signore!"; ovvero a quella di Marta, nello stesso vangelo: "Sì, Signore, io ho creduto che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, che sei venuto in questo mondo"; oppure a quella, a noi così cara, di Simone, poi tramutato in Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente". Perché osiamo noi invitarvi a questo alto di coscienza ecclesiastica? a questo esplicito, se pur interiore, atto di fede? Molte sono le ragioni, a nostro avviso, e tutte derivate da esigenze profonde ed essenziali del momento speciale in cui si trova la vita della chiesa.

Vivere la propria vocazione

Essa ha bisogno di riflettere su se stessa; ha bisogno di sentirsi vivere. Essa deve imparare a meglio conoscere se stessa, se vuole vivere la propria vocazione e offrire al mondo il suo messaggio di fraternità e di salvezza. Essa ha bisogno di sperimentare Cristo in se stessa, secondo le parole di Paolo apostolo: "Cristo abiti per la fede nei vostri cuori". È a tutti noto che la chiesa è immersa nell’umanità, ne fa parte, ne trae i suoi membri, ne deriva preziosi tesori di cultura, ne subisce le vicende storiche, ne favorisce le fortune. Ora è parimenti noto che l’umanità in questo tempo è in via di grandi trasformazioni, rivolgimenti e sviluppi, che cambiano profondamente non solo le sue esteriori maniere di vivere, ma altresì le sue maniere di pensare. Il suo pensiero, la sua cultura, il suo spirito sono intimamente modificati sia dal progresso scientifico, tecnico e sociale, sia dalle correnti di pensiero filosofico e politico che la invadono e la attraversano. Tutto ciò, come le onde d’un mare, avvolge e scuote la chiesa stessa: gli animi degli uomini, che ad essa si affidano, sono fortemente influenzati dal clima del mondo temporale; così che un pericolo quasi di vertigine, di stordimento, di smarrimento può scuotere la sua stessa saldezza e indurre ad accogliere i più strani pensamenti, quasi che la chiesa debba sconfessare se stessa ed assumere nuovissime e impensate forme di vivere. Non fu, ad esempio, il fenomeno modernistico, che tuttora affiora in vari tentativi di espressioni eterogenee all’autentica realtà della religione cattolica, un episodio di simile sopraffazione delle tendenze psicologico-culturali, proprie del mondo profano, Sulla fedele e genuina espressione della dottrina e della norma della chiesa di Cristo? Ora pare a noi che, per immunizzarsi da tale incombente e molteplice pericolo proveniente da varie parti, buono e ovvio rimedio sia l’approfondimento di coscienza della chiesa in ciò ch’essa veramente è, secondo la mente di Cristo, custodita nella sacra scrittura e nella tradizione, e interpretata, sviluppata dalla genuina istruzione ecclesiastica, la quale è, come sappiamo, illuminata e guidata dallo Spirito santo, tuttora pronto, ove noi lo imploriamo e lo ascoltiamo, a dare indefettibile compimento alla promessa di Cristo: "Ma il Consolatore, lo Spirito santo che il Padre invierà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto".

La coscienza nella mentalità moderna

Analogo discorso potremmo fare circa gli errori che serpeggiano nell’interno stesso della chiesa e in cui cadono coloro che hanno una parziale conoscenza della sua natura e della sua missione, non tenendo essi conto sufficiente dei documenti della rivelazione divina e degli insegnamenti del magistero istituito da Cristo stesso. Del resto, questo bisogno di considerare le cose conosciute in un atto riflesso per contemplarle nello specchio interiore del proprio spirito è caratteristico della mentalità dell’uomo moderno; il suo pensiero si curva facilmente su se stesso, e allora gode di certezza e di pienezza, quando s’illumina nella propria coscienza. Non è che questa abitudine sia senza pericoli gravi; correnti filosofiche di grande nome hanno esplorato e magnificato questa forma di attività spirituale dell’uomo come definitiva e suprema, anzi come misura e sorgente della realtà, spingendo il pensiero a conclusioni astruse, desolate, paradossali e radicalmente fallaci; ma ciò non toglie che l’educazione alla ricerca della verità riflessa nell’interno della coscienza sia di per sé altamente apprezzabile e oggi praticamente diffusa come espressione squisita della moderna cultura; come non toglie che, bene coordinata con la formazione del pensiero a scoprire la verità dove essa coincide con la realtà dell’essere obbiettivo, l’esercizio della coscienza riveli sempre meglio a chi lo compie il fatto dell’esistenza del proprio essere, della propria spirituale dignità, della propria capacità di conoscere e di agire.

Dal concilio di Trento alle encicliche dei tempi nostri

È noto inoltre come la chiesa, in questi ultimi tempi, abbia intrapreso, per opera di insigni studiosi di anime grandi e pensose, di scuole teologiche qualificate, di movimenti pastorali e missionari, di esperienze religiose notevoli, e soprattutto di insegnamenti pontifici memorabili, a meglio studiare se stessa. Troppo lungo sarebbe anche il solo accennare all’abbondanza della letteratura teologica avente per oggetto la chiesa e sgorgata dal suo seno nel secolo scorso e nel nostro; come troppo lungo parimenti sarebbe richiamare i documenti che l’episcopato cattolico e questa sede apostolica hanno emanato su tema di tanta ampiezza e di tanta importanza. Da quando il concilio di Trento cercò di riparare le conseguenze della crisi che scisse dalla chiesa molte sue membra nel secolo decimosesto, la dottrina sulla chiesa stessa ebbe grandi sviluppi. A noi basta qui riferirci agli insegnamenti del concilio ecumenico Vaticano I in tale campo per comprendere come il tema dello studio su la chiesa obbliga l’attenzione sia dei pastori e dei maestri, sia dei fedeli e dei cristiani tutti a fermarsi su di esso come a stazione obbligata nel cammino verso Cristo e tutta la sua opera; tanto che, come già fu detto, il concilio ecumenico Vaticano II altro non è che una continuazione e un completamento del Vaticano I, precisamente per l’impegno che ad esso viene di riprendere l’esame e la definizione della dottrina sulla chiesa. E se di più non diciamo per amore di brevità, parlando a chi ben conosce questa materia della catechesi e della spiritualità oggi diffuse nella santa chiesa, due documenti noi non possiamo omettere dall’onorare di particolare memoria; vogliamo dire l’enciclica "Satis cognitum", di papa Leone XIII e l’enciclica "Mystici Corporis" di papa Pio XII, documenti che ci offrono ampia e lucida dottrina su quella divina istituzione, per la quale Cristo continua nel mondo la sua opera di salvezza, e su cui verte ora il nostro discorso. Basti ricordare le parole, con le quali si apre il secondo di tali documenti pontifici, diventato, si può dire, testo assai autorevole circa la teologia su la chiesa e molto fecondo di spirituali meditazioni sopra tale opera della divina misericordia che tutti ci riguarda. Giovi infatti ricordare le parole magistrali di tanto nostro predecessore: "La dottrina sul corpo mistico di Cristo che è la chiesa, dottrina attinta originalmente al labbro stesso del Redentore e che pone nella vera luce il gran bene (mai abbastanza esaltato) della nostra strettissima unione con sì eccelso capo, è tale senza dubbio che, per la sua eccellenza e dignità, invita tutti gli uomini mossi dal divino Spirito, a studiarla e, illuminando la loro mente, fortemente li spinge a quelle opere salutari che corrispondono ai suoi precetti".

La scienza sul corpo mistico

È per corrispondere a tale invito, che noi consideriamo tuttora operante sui nostri animi e in modo tale da esprimere uno dei bisogni fondamentali della vita della chiesa nei nostri tempi, che ancor oggi noi lo proponiamo, affinché, sempre meglio edotti della scienza circa il medesimo corpo mistico, sappiamo apprezzarne i divini significati, corroborando così i nostri animi di incomparabili conforti e procurando di sempre meglio abilitarci a corrispondere ai doveri della nostra missione e ai bisogni dell’umanità. Né ci sembra difficile il farlo, quando da un lato noi notiamo, come dicevamo, un’immensa fioritura di studi aventi per oggetto la santa chiesa, e dall’altro sappiamo che su di essa è principalmente fissato lo sguardo del concilio ecumenico Vaticano II. Noi vogliamo tributare un vivo elogio a quegli uomini studiosi, che, specialmente in questi ultimi anni, hanno dedicato, con perfetta docilità al magistero cattolico e con geniale capacità di ricerca e di espressione, allo studio ecclesiologico laboriose, copiose e fruttuose fatiche, e che tanto nelle scuole teologiche, quanto nella discussione scientifica e letteraria, quanto ancora nell’apologia e nella divulgazione dottrinale, come pure nell’assistenza spirituale alle anime dei fedeli e nella conversazione con i fratelli separati, hanno offerto molteplici illustrazioni della dottrina sulla chiesa, alcune delle quali di alto valore e di grande utilità. Così siamo fiduciosi che l’opera del concilio sarà assistita dal lume dello Spirito santo e sarà proseguita e condotta a buon fine con tale docilità alle sue divine ispirazioni, con tale impegno nell’indagine più approfondita ed integrale del pensiero originario di Cristo e dei suoi doverosi e legittimi sviluppi nella sequela dei tempi, con tale premura di fare delle divine verità argomento per unire, non già per dividere gli animi in sterili discussioni o in incresciose scissioni, ma per condurli a migliore chiarezza e concordia, che ne abbia gloria Iddio, gaudio la chiesa, edificazione il mondo.

La vite e i tralci

Noi ci asteniamo di proposito dal pronunciare qualsiasi nostra sentenza, in questa nostra enciclica, sopra i punti dottrinali relativi alla chiesa, posti ora all’esame del concilio stesso, cui siamo chiamati a presiedere: a così alto e autorevole consesso vogliamo ora lasciare libertà di studio e di parola, riservando al nostro apostolico ufficio di maestro e di pastore, posto alla testa della chiesa di Dio, il momento ed il modo di esprimere il nostro giudizio, lietissimi se ci sarà dato di offrirlo in tutto conforme a quello dei padri conciliari. Ma non possiamo tacere qualche rapido cenno sui frutti che noi speriamo deriveranno sia dal concilio stesso, sia dallo sforzo, di cui sopra dicevamo, che la chiesa deve compiere per avere di sé coscienza più piena e più forte. E tali frutti sono gli scopi che noi premettiamo al nostro ministero apostolico, mentre ne iniziamo le dolci ed immani fatiche, sono il programma, per così dire, del nostro pontificato; e a voi venerabili fratelli, lo esponiamo assai brevemente ma sinceramente, affinché ci vogliate aiutare a porlo in opera mediante il vostro consiglio, la vostra adesione, la vostra collaborazione. Pensiamo che aprendo a voi l’animo nostro lo apriamo a tutti i fedeli della chiesa di Dio, anzi a coloro stessi ai quali, oltre gli aperti confini dell’ovile di Cristo, possa giungere l’eco della nostra voce. Il primo frutto della approfondita coscienza della chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, ma indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata. Che cosa non si dovrebbe dire su questo capitolo centrale di tutto il nostro patrimonio religioso? Per fortuna, voi già ben conoscete questa dottrina; né noi ora vi aggiungeremo parola, se non per raccomandare di volerla sempre tenere presente come principale, come direttrice sia nella vostra vita spirituale, sia nella vostra predicazione. Valga più della nostra l’esortatrice parola del nostro menzionato predecessore nella suddetta enciclica "Mystici Corporis": "È necessario assuefarsi a riconoscere nella chiesa lo stesso Cristo. È infatti Cristo che nella chiesa sua vive, che per mezzo di lei insegna, governa e comunica la santità; è Cristo che in molteplici forme si manifesta nelle varie membra della sua società". Oh! come ci sarebbe gradito indugiarci nelle reminiscenze che dalla sacra scrittura, dai padri, dai dottori, dai santi affluiscono al nostro spirito, ripensando a questo punto luminoso della nostra fede. Non ci ha detto Gesù stesso ch’egli è la vite e noi siamo i tralci? Non abbiamo noi davanti alla mente tutta la ricchissima dottrina di san Paolo, il quale non cessa dal ricordarci: "Voi siete una cosa sola in Cristo" e dal raccomandarci: "...che cresciamo sotto ogni aspetto verso di lui, che è il capo, Cristo; dal quale tutto il corpo..." e dall’ammonirci: "tutto e in tutti è Cristo"? Ci basti, per tutti, ricordare fra i maestri s. Agostino: "...Rallegriamoci e rendiamo grazie, non solo per essere divenuti cristiani, ma Cristo. Vi rendete conto, o fratelli, capite voi il dono di Dio a nostro riguardo? Siate pieni di ammirazione, godete: noi siamo divenuti Cristo. Poiché se egli è il capo, noi siamo le membra: l’uomo totale, lui e noi... La pienezza dunque di Cristo: il capo e le membra. Cosa sono il capo e le membra? Cristo e la chiesa".

Mistero è la chiesa

Sappiamo bene che questo è mistero. È il mistero della chiesa. Che se noi in tale mistero, con l’aiuto di Dio, fisseremo lo sguardo dell’anima, molti benefici spirituali conseguiremo, quelli appunto di cui noi crediamo abbia ora maggior bisogno la chiesa. La presenza di Cristo, la vita stessa anzi di lui si renderà operante nelle singole anime e nell’insieme del corpo mistico, mediante l’esercizio della fede viva e vivificante, secondo la menzionata parola dell’apostolo: "Cristo abiti per la fede nei vostri cuori". È infatti la coscienza del mistero della chiesa un fatto di fede matura e vissuta. Essa produce nelle anime quel "senso della chiesa", che pervade il cristiano cresciuto alla scuola della divina parola, alimentato dalla grazia dei sacramenti e dalle ineffabili ispirazioni del Paraclito, allenato alla pratica delle virtù evangeliche, imbevuto dalla cultura e dalla conversazione della comunità ecclesiastica, e profondamente lieto di sentirsi rivestito di quel regale sacerdozio, ch’è proprio del popolo di Dio. Il mistero della chiesa non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev’essere un fatto vissuto, in cui ancora prima d’una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza; e la comunità dei credenti può trovare l’intima certezza della sua partecipazione al corpo mistico di Cristo, quando si avveda che a iniziarla a generarla, a istruirla, a santificarla, a dirigerla provvede, per divina istituzione il ministero della gerarchia ecclesiastica, così che mediante questo benedetto canale Cristo effonde nelle sue mistiche membra le mirabili comunicazioni della sua verità e della sua grazia, e conferisce al suo mistico corpo, pellegrinante nel tempo, la sua visibile compagine, la sua nobile unità, la sua organica funzionalità, la sua armonica varietà, la sua spirituale bellezza. Le immagini non bastano a tradurre in concetti a noi accessibili la realtà e la profondità d’un tale mistero; ma di una specialmente, dopo quella ricordata del corpo mistico suggerita dall’apostolo Paolo, dovremo avere memoria, perché suggerita da Cristo stesso, quella dell’edificio di cui egli è l’architetto e il costruttore, fondato, sì, su di un uomo naturalmente fragile, ma da lui trasformato miracolosamente in solida pietra, cioè dotato di prodigiosa e perenne indefettibilità: "Su questa pietra io edificherò la mia chiesa".

Pedagogia del battezzato

Che se noi sapremo accendere in noi stessi e educare nei fedeli, con alta e vigilante pedagogia, questo corroborante senso della chiesa, molte antinomie che oggi affaticano il pensiero di studiosi di ecclesiologia: come, ad esempio, la chiesa sia visibile e spirituale insieme, come sia libera e insieme disciplinata, come sia comunitaria e gerarchica, come già santa e sempre in via di santificazione, come sia contemplativa e attiva, e così via, saranno praticamente superate e risolte nell’esperienza, illuminata dalla dottrina, della realtà vivente della chiesa stessa; ma soprattutto un effetto sarà assicurato ad essa, quello della sua ottima spiritualità, alimentata mediante la pia lettura della sacra scrittura, dei santi padri e dei dottori della chiesa, e da quanto fa sgorgare in lei tale coscienza, vogliamo dire la catechesi esatta e sistematica, la partecipazione a quella mirabile scuola di parole, di segni e divine effusioni ch’è la sacra liturgia, la meditazione silenziosa e ardente delle divine verità, e finalmente la dedizione generosa alla orazione contemplativa. La vita interiore si pone tuttora come la grande sorgente della spiritualità della chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano. Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il santo battesimo, e cioè di essere stati inseriti, mediante tale sacramento, nel corpo mistico di Cristo che è la chiesa, tutta la sua importanza, specialmente nella cosciente valutazione che il battezzato deve avere della sua elevazione, anzi della sua rigenerazione alla felicissima realtà di figlio adottivo di Dio, alla dignità di fratello di Cristo, alla fortuna, vogliamo dire alla grazia e al gaudio della inabitazione dello Spirito santo, alla vocazione d’una vita nuova, che nulla ha perduto di umano, salvo la infelice sorte del peccato originale, e che di quanto è umano è abilitata a dare le migliori espressioni e a sperimentare i più ricchi e candidi frutti. L’essere cristiani, l’aver ricevuto il santo battesimo, non dev’essere considerato come cosa indifferente o trascurabile; ma deve marcare profondamente e felicemente la coscienza d’ogni battezzato; deve essere davvero considerato da lui, come lo fu dai cristiani antichi, un’illuminazione, che facendo cadere su di lui il raggio vivificante della Verità divina, gli apre il cielo, gli rischiara la vita terrena, lo abilita a camminare come figlio di Dio, fonte d’eterna beatitudine. E quale programma pratico questa considerazione ponga davanti a noi e al nostro ministero è facile vedere. Noi godiamo osservando che tale programma è già in via di esecuzione, presso tutta la chiesa, e promosso con zelo sapiente ed ardente. Noi lo incoraggiamo; noi lo raccomandiamo; noi lo benediciamo.

II. IL RINNOVAMENTO

Poi, noi siamo presi dal desiderio che la chiesa di Dio sia quale Cristo la vuole: una, santa, tutta rivolta verso la perfezione alla quale egli l’ha chiamata ed abilitata. Perfetta nella sua concezione ideale, nel pensiero divino, la chiesa deve tendere alla perfezione nella sua espressione reale, nella sua esistenza terrestre. È questo il grande problema morale che sovrasta alla vita della chiesa, la misura, la stimola, la accusa, la sostiene, la riempie di gemiti e di preghiere, di pentimenti e di speranze, di sforzo e di fiducia, di responsabilità e di meriti. È un problema inerente alle realtà teologiche da cui dipende la vita umana; non si può concepire il giudizio su l’uomo stesso, sulla sua natura, sulla sua originaria perfezione e sulle rovinose conseguenze del peccato originale, sulla capacità dell’uomo al bene e sull’aiuto di cui ha bisogno per desiderarlo e per compierlo, sul senso della vita presente e delle sue finalità, sui valori di cui l’uomo ha desiderio o disponibilità, sul criterio di perfezione e di santità e sui mezzi ed i modi per dare alla vita il suo grado più alto di bellezza e di pienezza, senza riferirsi all’insegnamento dottrinale di Cristo e del conseguente magistero ecclesiastico. L’ansia di conoscere le vie del Signore è e dev’essere continua nella chiesa, e la discussione, sempre tanto feconda e varia, che sulle questioni relative alla perfezione si va alimentando, di secolo in secolo, in seno alla chiesa, noi vorremmo che riprendesse l’interesse sovrano ch’essa merita avere, e non tanto per elaborare nuove teorie, quanto per generare nuove energie, rivolte appunto a quella santità che Cristo c’insegnò e che, con il suo esempio, la sua parola, la sua grazia, la sua scuola, sorretta, dalla tradizione ecclesiastica, fortificata dalla sua azione comunitaria, illustrata dalle singolari figure dei santi, rende a noi possibile conoscere, desiderare ed anche conseguire.

Perfettibilità dei cristiani

Questo studio di perfezionamento religioso e morale è stimolato anche esteriormente dalle condizioni in cui la chiesa svolge la sua vita. Non può essa rimanere immobile e indifferente davanti ai mutamenti del mondo circostante. Per mille vie questo influisce e mette condizioni sul comportamento pratico della chiesa. Essa, come ognuno sa, non è separata dal mondo; ma vive in esso. Perciò i membri della chiesa ne subiscono l’influsso, ne respirano la cultura, ne accettano le leggi, ne assorbono i costumi. Questo immanente contatto della chiesa con la società temporale genera per essa una continua situazione problematica, oggi laboriosissima. Da un lato la vita cristiana, quale la chiesa difende e promuove, deve continuamente e strenuamente guardarsi da quanto può illuderla, profanarla, soffocarla, quasi cercasse di immunizzarsi dal contagio dell’errore, e del male; dall’altro lato la vita cristiana deve non solo adattarsi alle forme di pensiero e di costume, che l’ambiente temporale le offre e le impone, quando siano compatibili con le esigenze essenziali del suo programma religioso e morale, ma deve cercare di avvicinarle, di purificarle, di nobilitarle, di vivificarle, di santificarle: altro compito questo che impone alla chiesa un perenne esame di vigilanza morale, che il nostro tempo reclama con particolare urgenza e con singolare gravità. Anche a questo riguardo la celebrazione del concilio è provvidenziale. Il carattere pastorale ch’esso si propone di assumere, gli scopi pratici di aggiornamento della disciplina canonica, il desiderio di rendere quanto più agevole sia possibile, in armonia col carattere soprannaturale che le è proprio, la pratica della vita cristiana conferiscono a questo concilio un merito particolare fin da questo momento, che ancora precede la maggior parte delle deliberazioni, che da esso aspettiamo. Esso infatti risveglia, sia nei pastori sia nei fedeli, il desiderio di conservare e di accrescere nella vita cristiana il suo carattere di soprannaturale autenticità, e ricorda a tutti il dovere d’imprimere tale carattere positivamente e fortemente nella propria condotta, educa i fiacchi ad essere buoni, i buoni ad essere migliori, i migliori ad essere generosi, i generosi a farsi santi. Apre alla santità nuove espressioni, sveglia l’amore a diventare geniale, provoca nuovi slanci di virtù e di eroismo cristiano.

In quale senso intendere la riforma

Naturalmente spetterà al concilio suggerire quali siano le riforme da introdurre nella legislazione della chiesa, e le commissioni post-conciliari, quella specialmente istituita per la revisione del Codice di diritto canonico, da noi fin d’ora designata, procureranno di formulare in termini concreti le deliberazioni del sinodo ecumenico. A voi, perciò, venerabili fratelli, spetterà indicarci quali provvedimenti saranno da prendere per mondare e ringiovanire il volto della santa chiesa. Ma sia ancora una volta manifestato il nostro proposito di favorire tale riforma: quante volte nei secoli scorsi questo proposito è associato alla storia dei concili; ebbene lo sia una volta di più, e questa volta non già per togliere dalla chiesa determinate eresie e generali disordini, che, per grazia di Dio, non sono nel suo seno, ma per infondere nuovo spirituale vigore nel corpo mistico di Cristo, in quanto società visibile, purificadolo da difetti di molti suoi membri e stimolandolo a nuove virtù. Affinché ciò possa avvenire, mediante il divino aiuto, sia a noi consentito qui a voi presentare alcune previe considerazioni atte ad agevolare l’opera del rinnovamento, a infonderle il coraggio di cui essa ha bisogno - non senza qualche sacrificio infatti essa può compiersi -, e a tracciarle alcune linee, secondo le quali sembra possa meglio realizzarsi. Dovremo innanzi tutto ricordare alcuni criteri che ci avvertono con quali indirizzi questa riforma deve essere promossa. Essa non può riguardare né la concezione essenziale, né le strutture fondamentali della chiesa cattolica. La parola riforma Sarebbe male usata se in tale senso fosse da noi impiegata. Non possiamo accusare d’infedeltà questa nostra diletta e santa chiesa di Dio, alla quale reputiamo somma grazia appartenere e dalla quale sentiamo salire al nostro spirito la testimonianza "che siamo figli di Dio"! Oh, non è orgoglio, non è presunzione, non è ostinazione, non è follia, ma luminosa certezza, ma gioiosa convinzione la nostra, di essere costituiti membra vive e genuine del Corpo di Cristo, d’essere autentici eredi del vangelo di Cristo, d’essere rettamente continuatori degli apostoli, d’avere in noi, nel grande patrimonio di verità e di costumi che caratterizzano la chiesa cattolica, quale oggi è, l’eredità intatta e viva della tradizione originaria apostolica. Se questo forma il nostro vanto, o meglio il motivo per cui dobbiamo sempre rendere grazie a Dio, costituisce altresì la nostra responsabilità davanti a Dio stesso, al quale dobbiamo rendere conto di tanto beneficio; davanti alla chiesa, a cui dobbiamo infondere con la certezza il desiderio, il proposito di conservare il tesoro - il deposito di cui parla s. Paolo - e davanti ai fratelli tuttora da noi separati e al mondo intero, perché tutti abbiano a condividere con noi il dono di Dio. Così che, su questo punto, se si può parlare di riforma, non si deve intendere cambiamento, ma piuttosto conferma nell’impegno di mantenere alla chiesa la fisionomia che Cristo le impresse, anzi di volerla sempre riportare alla sua forma perfetta, rispondente da un lato al suo primigenio disegno, riconosciuta dall’altro coerente ed approvata nel doveroso sviluppo che, come albero dal seme, da quel disegno ha dato alla chiesa la sua legittima forma storica e concreta. Non ci illuda il criterio di ridurre l’edificio della chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone; né ci incanti il desiderio di rinnovare la struttura della chiesa per via carismatica, quasi che nuova e vera fosse quell’espressione ecclesiastica che nascesse da idee particolari, fervorose senza dubbio e talvolta persuase di godere di divina ispirazione, introducendo così arbitrari sogni di artificiosi rinnovamenti nel disegno costitutivo della chiesa. La chiesa quale è dobbiamo servire ed amare, con senso intelligente della storia, e con umile ricerca della volontà di Dio, che assiste e guida la chiesa anche quando permette che la debolezza umana ne offuschi alquanto la purezza di linee e la bellezza d’azione. Questa purezza e questa bellezza noi andiamo cercando e vogliamo promuovere.

Danni e pericoli della concezione profana della vita

È necessario confermare in noi tali convinzioni per evitare un altro pericolo, che il desiderio di riforma potrebbe generare non tanto in noi pastori, cui trattiene un vigile senso di responsabilità quanto nell’opinione di molti fedeli che pensano dover consistere principalmente la riforma della chiesa nell’adattamento dei suoi sentimenti e dei suoi costumi a quelli mondani. Il fascino della vita profana oggi è potentissimo. Il conformismo sembra a molti fatale e sapiente. Chi non è ben radicato nella fede e nella pratica della legge ecclesiastica pensa facilmente essere venuto il momento di adattarsi alla concezione profana della vita, come se questa fosse la migliore, fosse quella che un cristiano può e deve far propria.

Questo fenomeno di adattamento si pronuncia tanto nel campo filosofico (quanto può la moda anche nel regno del pensiero, che dovrebbe essere autonomo e libero, e solo avido e docile davanti alla verità e all’autorità di provati maestri!), quanto nel campo pratico, dove diventa sempre più incerto e difficile segnare la linea della rettitudine morale, e della retta condotta pratica. Il naturalismo minaccia di vanificare la concezione originale del cristianesimo; il relativismo, che tutto giustifica e tutto qualifica di pari valore, attenta al carattere assoluto dei principi cristiani; l’abitudine di togliere ogni sforzo, ogni incomodo dalla pratica consueta della vita accusa d’inutilità fastidiosa la disciplina e l’ascesi cristiana; anzi talvolta il desiderio apostolico d’avvicinare ambienti profani o di farsi accogliere dagli animi moderni, da quelli giovani specialmente, si traduce in una rinuncia alle forme proprie della vita cristiana e a quello stile stesso di contegno, che deve dare a tale premura di accostamento e di influsso educativo il suo senso ed il suo vigore. Non è forse vero che spesso il giovane clero, ovvero anche qualche zelante religioso guidato dalla buona intenzione di penetrare nelle masse popolari o in ceti particolari cerca di confondersi con essi invece di distinguersi, rinunciando con inutile mimetismo all’efficacia genuina del suo apostolato? Il grande principio, enunciato da Cristo, si ripresenta nella sua attualità e nella sua difficoltà: essere nel mondo, ma non del mondo; e buon per noi se la sua altissima e opportunissima preghiera sarà da lui, "sempre vivo per intercedere a nostro favore ", ancor oggi proferita davanti al Padre celeste:" Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno".

Non immobilità, ma "aggiornamento"

Ciò non vuol dire che debba essere nostra intenzione credere che la perfezione sia l’immobilità delle forme, di cui la chiesa s’è, lungo i secoli, rivestita; e neppure ch’essa consista nel rendersi refrattari agli avvicinamenti ed accostamenti alle forme oggi comuni e accettabili del costume e dell’indole del nostro tempo. La parola, resa ormai famosa, del nostro venerato predecessore Giovanni XXIII di felice memoria, la parola "aggiornamento" sarà da noi sempre tenuta presente come indirizzo programmatico; lo abbiamo confermato quale criterio direttivo del concilio ecumenico, e lo verremo ricordando quasi uno stimolo alla sempre rinascente vitalità della chiesa, alla sua sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi, e alla sua sempre giovane agilità di "tutto provare e di far proprio ciò ch’è buono", sempre e dappertutto.

Obbedienza, energie morali, sacrificio

Ma sia ancora una volta ripetuto a nostro comune ammonimento e profitto: non tanto cambiando le sue leggi esteriori la chiesa ritroverà la sua rinascente giovinezza, quanto mettendo interiormente il suo spirito in attitudine di obbedire a Cristo, e perciò di osservare quelle leggi che la chiesa nell’intento di seguire la via di Cristo prescrive a se stessa: qui sta il segreto del suo rinnovamento, qui la sua "metanoia", qui il suo esercizio di perfezione. Se l’osservanza della norma ecclesiastica potrà essere resa più facile per la semplificazione di qualche precetto e per la fiducia accordata alla libertà del cristiano d’oggi, reso più edotto dei suoi doveri e più maturo e più saggio nella scelta dei modi con cui adempirli, la norma tuttavia rimane nella sua essenziale esigenza: la vita cristiana, quale la chiesa viene interpretando e codificando in sapienti disposizioni, esigerà sempre fedeltà, impegno, mortificazione e sacrificio; sarà sempre segnata dalla "via stretta", di cui nostro Signore ci parla; domanderà a noi cristiani moderni non minori, anzi forse maggiori energie morali che non ai cristiani di ieri, una prontezza all’obbedienza, oggi non meno che in passato doverosa e forse più difficile, certo più meritoria perché guidata più da motivi soprannaturali che naturali. Non la conformità allo spirito del mondo, non l’immunità dalle discipline d’una ragionevole ascetica, non l’indifferenza verso i liberi costumi del nostro tempo, non l’emancipazione dall’autorità di prudenti e legittimi superiori, non l’apatia verso le forme contraddittorie del pensiero moderno possono dare vigore alla chiesa, possono renderla idonea a ricevere l’influsso dei doni dello Spirito santo, possono darle l’autenticità della sua sequela a Cristo Signore, possono conferirle l’ansia della carità verso i fratelli e la capacità di comunicare il suo messaggio di salvezza, ma la sua attitudine a vivere secondo la grazia divina, la sua fedeltà al vangelo del Signore, la sua coesione gerarchica e comunitaria. Non molle e vile è il cristiano, ma forte e fedele. Oh! Noi sappiamo quanto il discorso diventerebbe lungo, se volessimo tracciare anche solo nelle sue linee principali il programma moderno della vita cristiana; né intendiamo ora addentrarci in tale impresa. Voi, del resto, sapete quali siano i bisogni morali del nostro tempo, e voi non cesserete di richiamare i fedeli alla comprensione della dignità, della purezza, dell’austerità della vita cristiana, come non ometterete di denunciare, come meglio è possibile, anche pubblicamente, i pericoli morali ed i vizi di cui soffre l’età nostra. Noi tutti ricordiamo le solenni esortazioni che la sacra scrittura grida verso di noi: "Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza e che non puoi sopportare i malvagi", e tutti cercheremo d’essere pastori vigilanti ed operosi. Il concilio ecumenico deve dare a noi stessi nuovi e salutari ordinamenti; e tutti certamente dobbiamo disporre fin d’ora i nostri animi ad ascoltarli e ad eseguirli.

Lo spirito di povertà

Ma noi non vogliamo rinunciare a due accenni particolari che ci sembrano riguardare bisogni e doveri principali, e che possono offrire tema di riflessione per gli orientamenti generali del buon rinnovamento della vita ecclesiastica. Accenniamo dapprima allo spirito di povertà. Pensiamo che esso sia così proclamato nel santo vangelo, che sia così insito nel disegno della nostra destinazione al regno di Dio, che sia messo così in pericolo dalla valutazione dei beni nella mentalità moderna, che sia così necessario per farci comprendere tante nostre debolezze e rovine nel tempo passato e per farci altresì comprendere quale debba essere il nostro tenore di vita e quale il metodo migliore per annunciare alle anime la religione di Cristo, e che sia infine così difficile praticarlo a dovere, che osiamo farne menzione esplicita in questo nostro messaggio, non già perché noi abbiamo in mente di emanare speciali provvedimenti canonici a questo riguardo, quanto piuttosto per chiedere a voi, venerabili fratelli, il conforto del vostro consenso, del vostro consiglio e del vostro esempio. Noi attendiamo che voi, quale voce autorevole che interpreta gli impulsi migliori, onde palpita lo Spirito di Cristo nella santa chiesa, diciate come debbano pastori e fedeli alla povertà educare oggi il linguaggio e la condotta: "Abbiate in voi lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù", ci ammonisce l’apostolo, e come insieme dobbiamo proporre alla vita ecclesiastica quei criteri direttivi che devono fondare la nostra fiducia più su l’aiuto di Dio e sui beni dello spirito, che non su i mezzi temporali; che devono a noi stessi ricordare, e al mondo insegnare, il primato di tali beni su quelli economici, e che di questi tanto dobbiamo limitare e subordinare il possesso e l’uso quanto è utile al conveniente esercizio della nostra missione apostolica. La brevità di questo accenno alla eccellenza e all’obbligo dello spirito di povertà, che caratterizza il vangelo di Cristo, non ci esonera del ricordare che tale spirito non ci preclude la comprensione e l’impiego, a noi consentito, del fatto economico, reso gigantesco e fondamentale nello sviluppo della moderna civiltà, specialmente in ogni suo riflesso umano e sociale. Pensiamo anzi che l’interiore liberazione, prodotta dallo spirito della povertà evangelica, ci renda più sensibili e più idonei a comprendere i fenomeni umani collegati con i fattori economici, sia nel dare alla ricchezza e al progresso di cui può essere generatrice il giusto e spesso severo apprezzamento che le si addice, sia nel dare alla indigenza l’interessamento più sollecito e generoso, sia infine nel desiderare che i beni economici non siano fonte di lotte, di egoismi, di orgoglio fra gli uomini, ma siano rivolti, per vie di giustizia e di equità, al bene comune, e perciò sempre più provvidamente distribuiti. Tutto quanto si riferisce a questi beni economici, inferiori a quelli spirituali ed eterni, ma necessari alla vita presente, trova l’alunno del vangelo capace di valutazione sapiente e di cooperazione umanissima: la scienza, la tecnica e specialmente il lavoro umano si fanno per noi oggetto di vivissimo interesse; e il pane che ne risulta diventa sacro per la mensa e per l’altare. Gli insegnamenti sociali della chiesa non lasciano dubbio su questo tema; e ci piace avere questa occasione per riaffermare in proposito la nostra coerente adesione a tali salutari dottrine.

L’ora della carità

L’altro accenno che vogliamo fare è allo spirito di carità. Ma non è già questo tema radicato nei vostri animi? Non segna forse la carità il punto focale dell’economia religiosa dell’antico e del nuovo testamento? Non sono alla carità rivolti i passi dell’esperienza spirituale della chiesa? Non è forse la carità la scoperta sempre più luminosa e più gaudiosa che la teologia da un lato, la pietà dall’altro vanno facendo nella incessante meditazione dei tesori scritturali e sacramentali, di cui la chiesa è l’erede, la custode, la maestra e la dispensatrice? Noi pensiamo, con i nostri predecessori, con la corona di Santi che 1’età nostra ha dato alla chiesa celeste e terrestre, e con l’istinto devoto del popolo fedele, che la carità debba oggi assumere il posto che le compete, il primo, il sommo, nella scala dei valori religiosi e morali, non solo nella teorica estimazione, ma altresì nella pratica attuazione della vita cristiana. Ciò sia detto della carità verso Dio, che la sua carità riversò sopra di noi come della carità che di riflesso noi dobbiamo effondere verso il nostro prossimo, vale a dire il genere umano. La carità tutto spiega. La carità tutto ispira. La carità tutto rende possibile. La carità tutto rinnova. La carità "tollera tutto, crede tutto, spera tutto, tutto sopporta". Chi di noi ignora queste cose? E se le sappiamo, non è forse questa l’ora della carità?

Culto a Maria

Questo ideale di umile e profonda pienezza cristiana richiama il nostro pensiero a Maria santissima, come colei che perfettamente e meravigliosamente in sé lo riflette, anzi l’ha in terra vissuto ed ora in cielo ne gode il fulgore e la beatitudine. È felicemente in fiore il culto alla Madonna oggi nella chiesa; e noi in questa occasione volentieri vi rivolgiamo lo spirito per ammirare nella Vergine santissima, Madre di Cristo, e perciò Madre di Dio e Madre nostra, il modello della perfezione cristiana, lo specchio delle virtù sincere, la meraviglia della vera umanità. Pensiamo che il culto a Maria sia fonte di insegnamenti evangelici: nel nostro pellegrinaggio in Terra Santa, da lei, la beatissima, la dolcissima, l’umilissima, l’immacolata creatura, a cui toccò il privilegio di offrire al Verbo di Dio la carne umana nella sua primigenia e innocente bellezza, abbiamo voluto assumere l’insegnamento dell’autenticità cristiana, e a lei ancora rivolgiamo lo sguardo implorante, come ad amorosa maestra di vita, mentre ragioniamo con voi, venerabili fratelli, della rigenerazione spirituale e morale della vita della santa chiesa.

III. IL DIALOGO

Vi è un terzo atteggiamento che la chiesa cattolica deve assumere in quest’ora della storia del mondo, ed è quello caratterizzato dallo studio dei contatti ch’essa deve tenere con l’umanità. Se la chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé, e se essa cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina. Il vangelo ci fa avvertire tale distanza e tale distinzione quando ci parla del mondo, dell’umanità cioè avversa al lume della fede e al dono della grazia; dell’umanità, che si esalta in un ingenuo ottimismo credendo bastino a se stessa le proprie forze per dare di sé espressione piena, stabile e benefica; ovvero dell’umanità, che si deprime in un crudo pessimismo dichiarando fatali, inguaribili e fors’anche appetibili come manifestazioni di libertà e di autenticità i propri vizi, le proprie debolezze, le proprie morali infermità. Il vangelo, che conosce e denuncia e compatisce e guarisce le umane miserie con penetrante e talora straziante sincerità, non cede tuttavia né all’illusione della bontà naturale dell’uomo quasi a sé sufficiente e di null’altro bisognoso che d’essere lasciato libero di effondersi arbitrariamente, né alla disperata rassegnazione alla corruzione insanabile dell’umana natura. Il vangelo è luce, è novità, è energia, è rinascita, è salvezza. Perciò genera e distingue una forma di vita nuova, della quale il nuovo testamento ci dà continua e mirabile lezione: "Non vogliate conformarvi a questo mondo; trasformatevi e rinnovatevi invece nella mente per saper discernere qual è la volontà di Dio: quello che è buono, che piace a Lui ed è perfetto" ci ammonisce s. Paolo. Questa diversità della vita cristiana dalla vita profana deriva ancora dalla realtà e dalla conseguente coscienza della giustificazione prodotta in noi dalla nostra comunicazione col mistero pasquale, con il santo battesimo innanzi tutto, come sopra dicevamo, che è e dev’essere considerato una vera rigenerazione. Ancora s. Paolo ce lo ricorda. "...tutti noi che fummo battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte. Fummo, infatti, col battesimo, sepolti con lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo di una vita nuova".

Vivere nel mondo ma non del mondo

Sarà opportunissima cosa che anche il cristiano d’oggi abbia sempre presente questa sua originale e mirabile forma di vita, che lo sostenga nel gaudio della sua dignità e che lo immunizzi dal contagio dell’umana miseria circostante, o dalla seduzione dell’umano splendore parimenti circostante. Ecco come s. Paolo medesimo educava i cristiani della prima generazione: "Non unitevi a un giogo sconveniente con gli infedeli; poiché che cosa ha a che fare la giustizia coll’iniquità? e che comunanza v’è tra la luce e le tenebre?... che rapporto tra il fedele e l’infedele?". La pedagogia cristiana dovrà ricordare sempre all’alunno dei tempi nostri questa sua privilegiata condizione e questo suo conseguente dovere di vivere nel mondo ma non del mondo, secondo il voto stesso sopra ricordato di Gesù a riguardo dei suoi discepoli: "Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo". E la chiesa fa proprio tale voto. Ma questa distinzione non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad essa, anzi si congiunge. Come il medico, che, conoscendo le insidie d’una pestilenza, cerca di guardare sé e gli altri da tale infezione, ma nello stesso tempo si consacra alla guarigione di coloro che ne sono colpiti, così la chiesa non fa della misericordia a lei concessa dalla bontà divina un esclusivo privilegio, non fa della propria fortuna una ragione per disinteressarsi di chi non l’ha conseguita; sì bene della sua salvezza fa argomento d’interesse e di amore per chiunque le sia vicino e per chiunque, nel suo sforzo comunicativo universale, le sia possibile avvicinare.

Missione da compiere, annuncio da diffondere

Se davvero la chiesa, come dicevamo, ha coscienza di ciò che il Signore vuole ch’ella sia, sorge in lei una singolare pienezza e un bisogno di effusione, con la chiara avvertenza d’una missione che la trascende, d’un annuncio da diffondere. È il dovere dell’evangelizzazione. È il mandato missionario. È l’ufficio apostolico. Non è sufficiente un atteggiamento di fedele conservazione. Certo, il tesoro di verità e di grazia, a noi venuto in eredità dalla tradizione cristiana, dovremo custodirlo, anzi dovremo difenderlo. "Custodisci il deposito" ammonisce s. Paolo. Ma né la custodia, né la difesa esauriscono il dovere della chiesa rispetto ai doni che essa possiede. Il dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo è la diffusione, è l’offerta, è l’annuncio, ben lo sappiamo: "Andate, dunque, istruite tutte le genti" è l’estremo mandato di Cristo ai suoi apostoli. Questi nel nome stesso di apostoli definiscono la propria indeclinabile missione. Noi daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo.

Il dialogo

La chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola; la chiesa si fa messaggio; la chiesa si fa colloquio. Questo capitale aspetto della vita odierna della chiesa sarà oggetto di speciale ed ampio studio da parte del concilio ecumenico, come è noto; e noi non vogliamo entrare nell’esame concreto dei temi che tale studio si propone per lasciare ai padri del concilio il compito di trattarli liberamente. Noi vogliamo soltanto invitarvi, venerabili fratelli, a premettere a tale studio alcune considerazioni, affinché ci siano più chiari i motivi che spingono la chiesa al dialogo, più chiari i metodi da seguire, più chiari i fini da conseguire. Vogliamo disporre gli animi, non trattare le cose. Né possiamo fare altrimenti, nella convinzione che il dialogo debba caratterizzare il nostro ufficio apostolico, eredi come siamo d’un tale stile, d’un tale indirizzo pastorale che ci è tramandato dai nostri predecessori dell’ultimo secolo, a partire dal grande e sapiente Leone XIII, il quale, quasi impersonando la figura evangelica dello scriba sapiente "...che come un padre di famiglia cava dal suo tesoro cose antiche e cose nuove", riprendeva maestosamente l’esercizio del magistero cattolico facendo oggetto del suo ricchissimo insegnamento i problemi del nostro tempo considerati alla luce della parola di Cristo. Così i suoi successori, come sapete. Non ci lasciarono i nostri predecessori, specialmente Pio XI e Pio XII, un patrimonio magnifico e amplissimo di dottrina, concepita nell’amoroso e sapiente tentativo di congiungere il pensiero divino al pensiero umano, non astrattamente considerato, ma concretamente espresso nel linguaggio dell’uomo moderno? E che cos’è questo apostolico tentativo se non un dialogo? E non diede Giovanni XXIII, nostro immediato predecessore di venerata memoria, un’accentuazione anche più marcata al suo insegnamento nel senso di accostarlo quanto più possibile all’esperienza e alla comprensione del mondo contemporaneo? Al concilio stesso non s’è voluto dare, e giustamente, uno scopo pastorale, tutto rivolto all’inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parole, di cultura, di costume, di tendenze dell’umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia della terra? Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli. Per quanto riguarda l’umile nostra persona, sebbene alieni di parlarne e desiderosi di non attirare su di essa l’altrui attenzione, non possiamo, in questa nostra intenzionale presentazione al collegio episcopale e al popolo cristiano, tacere il nostro proposito di perseverare, per quanto le nostre deboli forze ce lo concederanno e, soprattutto, la divina grazia ci darà modo di farlo, nella medesima linea, nel medesimo sforzo di avvicinare il mondo, nel quale la Provvidenza ci ha destinati a vivere, con ogni riverenza con ogni premura, con ogni amore, per comprenderlo, per offrirgli i doni di verità e di grazia di cui Cristo ci ha resi depositari, per comunicargli la nostra meravigliosa sorte di redenzione e di speranza. Sono profondamente scolpite nel nostro spirito le parole di Cristo, di cui umilmente, ma tenacemente, ci vorremmo appropriare:" Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di Lui".

La religione dialogo fra Dio e l’uomo

Ecco, venerabili fratelli, l’origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con la umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’incarnazione e quindi nel vangelo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l’uomo a causa del peccato originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia. La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell’essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo. Il dialogo si fa pieno e confidente; il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si esaurisce.

Superiori caratteristiche del colloquio della salvezza

Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito santo, per comprendere quale rapporto noi, cioè la chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità. Il dialogo della salvezza fu aperto spontaneamente dalla iniziativa divina: "Egli (Dio) per primo ci ha amati": toccherà a noi prendere l’iniziativa per estendere agli uomini il dialogo stesso, senza attendere d’essere chiamati. Il dialogo della salvezza partì dalla carità, dalla bontà divina "Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo unigenito": non altro che amore fervente e disinteressato dovrà muovere il nostro. Il dialogo della salvezza non si commisurò ai meriti di coloro a cui era rivolto, e nemmeno ai risultati che avrebbe conseguito o che sarebbero mancati; "non hanno bisogno del medico i sani": anche il nostro dev’essere senza limiti e senza calcoli. Il dialogo della salvezza non obbligò fisicamente alcuno ad accoglierlo; fu una formidabile domanda d’amore, la quale, se costituì una tremenda responsabilità in coloro a cui fu rivolta, li lasciò tuttavia liberi di corrispondervi o di rifiutarla, adattando perfino la quantità dei segni alle esigenze e alle disposizioni spirituali dei suoi uditori e la forza probativa dei segni medesimi, affinché fosse agli uditori stessi facilitato il libero consenso alla divina rivelazione, senza tuttavia perdere il merito di tale consenso. Così la nostra missione, anche se è annuncio di verità indiscutibile e di salute necessaria, non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione, dell’interiore persuasione, della comune conversazione offrirà il suo dono di salvezza, sempre nel rispetto della libertà personale e civile. Il dialogo della salvezza fu reso possibile a tutti; a tutti senza discriminazione alcuna destinato; il nostro parimenti dev’essere potenzialmente universale, cattolico cioè e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l’uomo assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo. Il dialogo della salvezza ha conosciuto normalmente delle gradualità, degli svolgimenti successivi, degli umili inizi prima del pieno successo; anche il nostro avrà riguardo alle lentezze della maturazione psicologica e storica e all’attesa dell’ora in cui Dio lo renda efficace. Non per questo il nostro dialogo rimanderà al domani ciò che oggi può compiere; esso deve avere l’ansia dell’ora opportuna e il senso della preziosità del tempo. Oggi, cioè ogni giorno, deve ricominciare; e da noi prima che da coloro a cui è rivolto.

Il messaggio cristiano nella circolazione dell’umano discorso

Com’è chiaro, i rapporti fra la chiesa ed il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatemitizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a noi invece che il rapporto della chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo. Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d’inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni. Suppone pertanto il dialogo uno stato d’animo in noi, che intendiamo introdurlo e alimentarlo con quanti ci circondano: lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell’umano discorso.

Chiarezza mitezza fiducia prudenza

Il colloquio è perciò un modo d’esercitare la missione apostolica; è un’arte di spirituale comunicazione. Suoi caratteri sono i seguenti. La chiarezza innanzi tutto; il dialogo suppone ed esige comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all’esercizio delle superiori facoltà dell’uomo; basterebbe questo suo titolo per classificarlo fra i fenomeni migliori dell’attività e della cultura umana; e basta questa sua iniziale esigenza per sollecitare la nostra premura apostolica a rivedere ogni forma del nostro linguaggio: se comprensibile, se popolare, se eletto. Altro carattere è poi la mitezza, quella che Cristo ci propose d’imparare da Lui stesso: "Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore"; il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente; è generoso. La fiducia, tanto nella virtù della parola propria, quanto nell’attitudine ad accoglierla da parte dell’interlocutore: promuove la confidenza e l’amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene, che esclude ogni scopo egoistico. La prudenza pedagogica infine, la quale fa grande conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta: se bambino, se incolto, se impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità di lui, e di modificare, ragionevolmente, se stesso e le forme della propria presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile. Nel dialogo, così condotto, si realizza l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore.

Dialettica di autentica sapienza

Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d’averlo esposto all’altrui obiezione, all’altrui lenta assimilazione. Ci farà sapienti, ci farà maestri. E quale è la sua forma di esplicazione? Oh! molteplici sono le forme del dialogo della salvezza. Esso obbedisce a esigenze sperimentali, sceglie i mezzi propizi, non si lega a vani apriorismi, non si fissa in espressioni immobili, quando queste avessero perduto virtù di parlare e di muovere gli uomini. Qui si pone una grande questione, quella dell’aderenza della missione della chiesa alla vita degli uomini in un dato tempo, in un dato luogo, in una data cultura, in una data situazione sociale.

Come avvicinare i fratelli nella interezza della verità

Fino a quale grado la chiesa deve uniformarsi alle circostanze storiche e locali in cui svolge la sua missione? come deve premunirsi dal pericolo d’un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica e morale? ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare, secondo l’esempio dell’apostolo: "Mi son fatto tutto a tutti, perché tutti io salvi"? Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltali e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò. Ma il pericolo rimane. L’arte dell’apostolato è rischiosa. La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo. E solo chi vive in pienezza la vocazione cristiana può essere immunizzato dal contagio di errori con cui viene a contatto.

Supremazia insostituibile della predicazione

Noi pensiamo che la voce del concilio, trattando delle questioni relative alla chiesa operante nel mondo moderno, indicherà alcuni criteri teorici e pratici, che serviranno da guida per bene condurre il nostro dialogo con gli uomini del tempo nostro. E pensiamo parimenti che, trattandosi di questione riguardante, da un lato, la missione propriamente apostolica della chiesa, e concernente, dall’altro, le varie e mutevoli circostanze in cui essa si svolge, sarà opera del saggio e attivo governo della chiesa stessa tracciare di volta in volta limiti e forme e sentieri per la continua animazione d’un dialogo vivo e benefico. Lasciamo perciò questo tema per limitarci a ricordare ancora una volta la somma importanza che la predicazione cristiana conserva, ed assume oggi maggiormente, nel quadro dell’apostolato cattolico, e cioè, per quanto ora ci riguarda, del dialogo. Nessuna forma di diffusione del pensiero, anche se tecnicamente assurta, con la stampa e con i mezzi audiovisivi, a straordinaria potenza, la sostituisce. Apostolato e predicazione, in un certo senso, si equivalgono. La predicazione è il primo apostolato. Il nostro, venerabili fratelli, è innanzi tutto ministero della Parola. Noi sappiamo benissimo queste cose; ma ci sembra convenga ora ricordarle a noi stessi, per dare alla nostra azione pastorale la giusta direzione. Dobbiamo ritornare allo studio non già dell’umana eloquenza, o della vana retorica, ma della genuina arte della parola sacra. Dobbiamo cercare le leggi della sua semplicità, della sua limpidezza, della sua forza e della sua autorità per vincere la naturale imperizia nell’impiego di così alto e misterioso strumento spirituale, qual è la parola, e per gareggiare nobilmente con quanti oggi hanno larghissimo influsso con la parola mediante l’accesso alle tribune della pubblica opinione. Dobbiamo domandarne al Signore stesso il grave e inebriante carisma, per essere degni di dare alla fede il suo pratico efficace principio, e di far giungere il nostro messaggio fino ai confini della terra. Che le prescrizioni della costituzione conciliare sulla sacra liturgia circa il ministero della parola, trovino in noi zelanti ed abili esecutori. E che la catechesi al popolo cristiano e a quanti altri sia possibile offrirla diventi sempre esperta nel linguaggio, sapiente nel metodo, assidua nell’esercizio, suffragata dalla testimonianza di virtù reali, avida di progredire e di far giungere gli uditori alla sicurezza della fede, all’intuizione della coincidenza fra la Parola divina e la vita, e agli albori del Dio vivente. Noi dovremmo infine accennare a coloro a cui si rivolge il nostro dialogo. Ma non vogliamo prevenire, anche sotto questo aspetto, la voce del concilio. Essa si farà udire, a Dio piacendo, tra poco.

Con chi il dialogo

Parlando in generale circa questo atteggiamento di collocutrice, che la chiesa cattolica oggi deve assumere con rinnovato fervore, vogliamo semplicemente accennare che essa dev’essere pronta a sostenere il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio. Nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace. La chiesa non ignora le formidabili dimensioni d’una tale missione; conosce le sproporzioni delle statistiche fra ciò che essa è e ciò ch’è la popolazione della terra; conosce i limiti delle sue forze; conosce perfino le proprie umane debolezze, i propri falli; conosce anche che l’accoglimento del vangelo non dipende, alla fine, da alcuno suo sforzo apostolico, da alcuna favorevole circostanza d’ordine temporale: la fede è dono di Dio; e Dio solo segna nel mondo le linee e le ore della sua salute. Ma la chiesa sa d’essere seme, d’essere fermento, d’essere sale e luce del mondo. La chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini; io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate. Non promette così la felicità terrena, ma offre qualche cosa - la sua luce, la sua grazia - per poterla, come meglio possibile, conseguire; e poi parla agli uomini del loro trascendente destino. E intanto ragiona ad essi di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato. E allora la chiesa ha un messaggio per ogni categoria di uomini: lo ha per i bambini, lo ha per la gioventù, lo ha per gli uomini di scienza e di pensiero, lo ha per il mondo del lavoro e per le classi sociali, lo ha per gli artisti, lo ha per i politici e per i governanti. Per i poveri specialmente, per i diseredati, per i sofferenti, perfino per i morenti. Per tutti. Potrà sembrare che così parlando noi ci lasciamo trasportare dall’ebbrezza della nostra missione e che trascuriamo di considerare le posizioni concrete, in cui l’umanità si trova rispetto alla chiesa cattolica. Ma non è così, perché noi vediamo benissimo quali siano tali posizioni concrete; per darne un’idea sommaria ci pare di poterle classificare a guisa di cerchi concentrici intorno al centro, in cui la mano di Dio ci ha posti.

Primo cerchio: tutto ciò che è umano

Vi è un primo, immenso cerchio, di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte; cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano; ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio. E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefiche. Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell’uomo un’anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio. Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti gli altri come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato; non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall’altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa.

La negazione di Dio: ostacolo al dialogo

Noi sappiamo però che in questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anzi che molti, in diversissime forme, si professano atei. E sappiamo che vi sono alcuni che della loro empietà fanno professione aperta e la sostengono come programma di educazione umana e di condotta politica, nella ingenua ma fatale persuasione di liberare l’uomo da concezioni vecchie e false della vita e del mondo, per sostituirvi, dicono, una concezione scientifica e conforme alle esigenze del moderno progresso. È questo il fenomeno più grave del nostro tempo. Siamo fermamente convinti che la teoria su cui si fonda la negazione di Dio è fondamentalmente errata, non risponde alle istanze ultime e inderogabili del pensiero, priva l’ordine razionale del mondo delle sue basi autentiche e feconde, introduce nella vita umana non una formula risolutrice, ma un dogma cieco che la degrada e la rattrista, indebolisce alla radice ogni sistema sociale che su di esso pretende fondarsi. Non è una liberazione, ma un dramma che tenta di spegnere la luce del Dio vivente. Perciò noi resisteremo con tutte le nostre forze a questa irrompente negazione, nell’interesse supremo della verità, per l’impegno sacrosanto alla confessione fedelissima di Cristo e del suo vangelo, per l’amore appassionato e irrinunciabile alle sorti dell’umanità, e nella speranza invincibile che l’uomo moderno sappia ancora scoprire nella concezione religiosa, a lui offerta dal cattolicesimo, la sua vocazione alla civiltà che non muore, ma che sempre progredisce verso la perfezione naturale e soprannaturale dello spirito umano, abilitato, per grazia di Dio, al pacifico e onesto possesso dei beni temporali e aperto alla speranza dei beni eterni. Sono queste le ragioni che ci obbligano, come hanno obbligato i nostri predecessori e con essi quanti hanno a cuore i valori religiosi, a condannare i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo. Si potrebbe dire che non tanto da parte nostra viene la loro condanna, quanto da parte dei sistemi stessi e dei regimi che li personificano viene a noi radicale opposizione di idee e oppressione di fatti. La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici. L’ipotesi d’un dialogo si fa assai difficile in tali condizioni, per non dire impossibile, sebbene nel nostro animo non vi sia ancor oggi alcuna preconcetta esclusione verso le persone che professano i suddetti sistemi e aderiscono ai regimi stessi. Per chi ama la verità, la discussione è sempre possibile. Ma ostacoli d’indole morale accrescono enormemente le difficoltà, per la mancanza di sufficiente libertà di giudizio e di azione e per l’abuso dialettico della parola, non già rivolta alla ricerca e all’espressione della verità obbiettiva, ma posta al servizio di scopi utilitari prestabiliti.

Anche nel silenzio un vigile amore

È per questo che il dialogo tace. La chiesa del silenzio, ad esempio, tace, parlando solo con la sua sofferenza, e le fa compagnia quella d’una società compressa e avvilita, dove i diritti dello spirito sono soverchiati da quelli di chi dispone delle sue sorti. E quando il nostro discorso si aprisse in tale stato di cose, come potrebbe offrire il dialogo, mentre non dovrebbe essere che quello d’una "voce che grida nel deserto"? Silenzio, grido, pazienza, e sempre amore diventano in tal caso la testimonianza che ancora la chiesa può dare e che nemmeno la morte può soffocare. Ma se ferma e franca dev’essere l’affermazione e la difesa della religione e dei valori umani ch’essa proclama e sostiene, non è senza pastorale riflessione che noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione.

Li vediamo complessi e molteplici, così da renderci cauti nel giudicarli e più efficaci nel confutarli; li vediamo nascere talora dall’esigenza d’una presentazione del mondo divino più alta e più pura, che non quella forse invalsa in certe forme imperfette di linguaggio e di culto, forme che dovremmo studiarci di rendere quanto più possibile pure e trasparenti per meglio esprimere quel sacro di cui sono segno. Li vediamo invasi dall’ansia, pervasa da passionalità e da utopia, ma spesso altresì generosa, d’un sogno di giustizia e di progresso, verso finalità sociali divinizzate, surrogati dell’Assoluto e del Necessario, che denunciano il bisogno insopprimibile del Principio e del Fine divino, di cui toccherà al nostro paziente e sapiente magistero svelare la trascendenza e l’immanenza. Li vediamo valersi, talora con ingenuo entusiasmo, d’un ricorso rigoroso alla razionalità umana nell’intento di dare una concezione scientifica dell’universo; ricorso tanto meno discutibile, quanto più fondato sulle vie logiche del pensiero non dissimili spesso da quelle della nostra classica scuola, e trascinato, contro la volontà di quelli stessi che pensano trovarvi un’arma inespugnabile per il loro ateismo, per la sua intrinseca validità, trascinato - diciamo - a procedere verso una nuova e finale affermazione sia metafisica, che logica del sommo Iddio: non sarà tra noi chi possa aiutare questo obbligato processo del pensiero, che l’ateo-politico-scienziato arresta volutamente ad un dato punto spegnendo la luce suprema della comprensibilità dell’universo, a sfociare in quella concezione della realtà oggettiva dell’universo cosmico, che rimette nello spirito il senso della Presenza divina, e sulle labbra le umili e balbettanti sillabe d’una felice preghiera? Li vediamo anche talvolta mossi da nobili sentimenti, sdegnosi della mediocrità e dell’egoismo di tanti ambienti sociali contemporanei, e abili ad usurpare al nostro vangelo forme e linguaggio di solidarietà e di compassione umana: non saremo un giorno capaci di ricondurre alle sorgenti, che pur sono cristiane, tali espressioni di valori morali? Ricordando perciò quanto scrisse il nostro predecessore di venerata memoria, papa Giovanni XXIII, nell’enciclica "Pacem in terris", e cioè che le dottrine di tali movimenti, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse, ma che i movimenti stessi non possono non evolversi e non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Noi non disperiamo che essi possano aprire un giorno con la chiesa altro positivo colloquio, che non quello presente della nostra deplorazione e del nostro obbligato lamento.

Dialogo per la pace

Ma non possiamo staccare il nostro sguardo dal panorama del mondo contemporaneo senza esprimere un voto lusinghiero: quello che il nostro proposito di coltivare e perfezionare il nostro dialogo con le varie e mutevoli facce, ch’esso presenta di sé, possa giovare alla causa della pace fra gli uomini; come metodo, che cerca di regolare i rapporti umani nella nobile luce del linguaggio ragionevole e sincero; e come contributo, di esperienza e di sapienza, che può in tutti ravvivare la considerazione dei valori supremi. L’apertura d’un dialogo, come vuol essere il nostro, disinteressato, obbiettivo, leale, decide per se stessa in favore d’una pace libera ed onesta; esclude infingimenti, rivalità, inganni e tradimenti; non può non denunciare, come delitto e come rovina, la guerra di aggressione, di conquista o di predominio; e non può non estendersi dalle relazioni al vertice delle nazioni a quelle del corpo delle nazioni stesse e alle basi sia sociali, che familiari e individuali, per diffondere in ogni istituzione ed in ogni spirito il senso, il gusto, il dovere della pace.

Secondo cerchio: i credenti in Dio

Poi intorno a noi vediamo delinearsi un altro cerchio, immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’antico testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche. Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose, né possiamo rimanere indifferenti, quasi che tutte, a loro modo, si equivalessero, e quasi che autorizzassero i loro fedeli a non cercare se Dio stesso abbia rivelato la forma, scevra d’ogni errore, perfetta e definitiva con cui Egli vuole essere conosciuto, amato e servito; ché anzi, per dovere di lealtà, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione essere unica la vera religione ed essere quella cristiana, e nutrire speranza che tale sia riconosciuta da tutti i cercatori e adoratori di Dio. Ma non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane, vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza sociale e dell’ordine civile. In ordine a questi comuni ideali un dialogo da parte nostra è possibile; e noi non mancheremo di offrirlo là dove, in reciproco e leale rispetto, sarà benevolmente accettato.

Terzo cerchio: i cristiani fratelli separati

Ed ecco il cerchio, a noi più vicino, del mondo che a Cristo s’intitola. In questo campo il dialogo, che ha assunto la qualifica di ecumenico, è già aperto; in alcuni settori è già in fase di iniziale e positivo svolgimento. Molto vi sarebbe da dire su questo tema tanto complesso e tanto delicato, ma il nostro discorso non finisce qui. Esso si limita ora a pochi accenni, e non nuovi. Volentieri facciamo nostro il principio: mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide. È questo un tema buono e fecondo per il nostro dialogo. Siamo disposti a proseguirlo cordialmente. Diremo di più: che su tanti punti differenziali, relativi alla tradizione, alla spiritualità, alle leggi canoniche, al culto, noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei fratelli cristiani, tuttora da noi separati. Nulla tanto ci può essere più ambito che di abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità. Ma dobbiamo pur dire che non è in nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità. Intravediamo diffidenze e resistenze a questo riguardo. Ma ora che la Chiesa cattolica ha preso l’iniziativa di ricomporre l’unico ovile di Cristo, essa non cesserà di procedere con ogni pazienza e con ogni riguardo; non cesserà di mostrare come le prerogative, che tengono ancora da lei lontani i fratelli separati, non sono frutto d’ambizione storica o di fantastica speculazione teologica, ma sono derivate dalla volontà di Cristo, e che esse, comprese nel loro vero significato, sono a beneficio di tutti, per l’unità comune, per la libertà comune, per la pienezza cristiana comune; la chiesa cattolica non cesserà di rendersi idonea e degna, nella preghiera e nella penitenza, dell’auspicata riconciliazione. Un pensiero, a questo riguardo, ci affligge, ed è quello che fa vedere come proprio noi, fautori di tale riconciliazione, siamo, da molti fratelli separati, considerati l’ostacolo ad essa, a causa del primato di onore e di giurisdizione, che Cristo ha conferito all’apostolo Pietro, e che noi abbiamo da lui ereditato. Non si dice da alcuni che, se fosse rimosso il primato del papa, l’unificazione delle chiese separate con la chiesa cattolica sarebbe più facile? Vogliamo supplicare i fratelli separati a considerare la inconsistenza di tale ipotesi; e non già soltanto perché, senza il papa, la chiesa cattolica non sarebbe più tale; ma perché, mancando nella chiesa di Cristo l’ufficio pastorale sommo efficace e decisivo di Pietro, l’unità si sfascerebbe; e invano poi si cercherebbe di ricomporla con criteri sostitutivi di quello autentico, stabilito da Cristo stesso: "vi sarebbero nella chiesa tanti scismi quanti sono i sacerdoti" scrive giustamente s. Girolamo. E vogliamo altresì considerare che questo cardine centrale della santa chiesa non vuole costituire supremazia di spirituale orgoglio e di umano dominio, ma primato di servizio, di ministero, di amore. Non è vana retorica quella che al vicario di Cristo attribuisce il titolo di "servo dei servi di Dio". Su questo piano veglia il nostro dialogo, che ancor prima di svolgersi in fraterne conversazioni si esprime a colloquio col Padre celeste in effusione di preghiera e di speranza.

Auspici e speranze

Dobbiamo con gaudio e con fiducia notare, venerabili fratelli, che questo vario ed estesissimo settore dei cristiani separati è tutto pervaso da fermenti spirituali, che sembrano preludere a futuri consolanti sviluppi per la causa della loro ricomposizione nell’unica chiesa di Cristo. Vogliamo implorare il soffio dello Spirito Santo sul "movimento ecumenico"; vogliamo ripetere la nostra commozione ed il nostro gaudio per l’incontro pieno di carità e non meno di nuova speranza che abbiamo avuto a Gerusalemme con il patriarca Atenagora; vogliamo salutare con rispetto e con riconoscenza l’intervento di tanti rappresentanti delle chiese separate al concilio ecumenico Vaticano II; vogliamo assicurare ancora una volta che guardiamo con attento e sacro interesse i fenomeni spirituali, caratterizzati dal problema dell’unità, che muovono persone e gruppi e comunità di viva e nobile religiosità, Con amore, con riverenza salutiamo tutti questi cristiani, nell’attesa che ancor meglio nel dialogo della sincerità e dell’amore ci sia dato promuovere con loro la causa di Cristo e dell’unità da lui voluta per la sua chiesa.

Il dialogo nell’interno della chiesa cattolica

E finalmente il nostro dialogo si offre ai figli della chiesa di Dio, la chiesa una santa cattolica e apostolica, di cui questa romana è madre e capo. Quanto lo vorremmo godere in pienezza di fede, di carità, di opere questo domestico dialogo; quanto lo vorremmo intenso e familiare! quanto sensibile a tutte le verità, a tutte le virtù, a tutte le realtà del nostro patrimonio dottrinale e spirituale! quanto sincero e commosso nella sua genuina spiritualità! quanto pronto a raccogliere le voci molteplici del mondo contemporaneo! quanto capace di rendere i cattolici uomini veramente buoni, uomini saggi, uomini liberi, uomini sereni e forti!

Carità e obbedienza

Questo desiderio d’improntare i rapporti interiori della chiesa dello spirito proprio d’un dialogo fra membri d’una comunità, di cui la carità è principio costitutivo, non toglie l’esercizio della virtù dell’obbedienza là dove l’esercizio della funzione propria dell’autorità da un lato, della sottomissione dall’altro è reclamato sia dall’ordine conveniente ad ogni ben compaginata società, sia soprattutto dalla costituzione gerarchica della chiesa. L’autorità della chiesa è anzi rappresentativa di lui, è veicolo autorizzato della sua parola, è trasposizione della sua pastorale carità; così che la obbedienza muove da motivo di fede, diventa scuola di umiltà evangelica, associa l’obbediente alla sapienza, all’unità, all’edificazione, alla carità che reggono il corpo ecclesiastico, e conferisce a chi la impone e a chi vi si uniforma il merito dell’imitazione di Cristo "fattosi obbediente sino alla morte". Per obbedienza perciò svolta a dialogo intendiamo l’esercizio dell’autorità tutto pervaso dalla coscienza di essere servizio e ministero di verità e di carità; e intendiamo l’osservanza delle norme canoniche e l’ossequio al governo del legittimo superiore, resi pronti e sereni, come si conviene a figli liberi ed amorosi. Lo spirito d’indipendenza, di critica, di ribellione male si accorda con la carità animatrice della solidarietà, della concordia, della pace nella chiesa, e trasforma facilmente il dialogo in discussione, in diverbio, in dissidio; spiacevolissimo fenomeno, anche se pur troppo sempre facile a prodursi, contro il quale la voce dell’apostolo Paolo ci premunisce: "non vi siano tra voi degli scismi".

Fervore di sentimenti e di opere: la chiesa è viva!

Siamo cioè ardentemente desiderosi che il dialogo interiore in seno alla comunità ecclesiale si arricchisca di fervore, di temi, e di locutori, così che si accresca la vitalità e la santificazione del corpo mistico terreno di Cristo. Tutto ciò che mette in circolazione gli insegnamenti, di cui la chiesa è depositaria e dispensatrice, è da noi auspicato: già dicemmo della vita liturgica e interiore e della predicazione, possiamo aggiungere: la scuola, la stampa, l’apostolato sociale, le missioni, l’esercizio della carità; temi questi che anche il concilio ci farà considerare. E tutti quelli che al dialogo vitalizzante della chiesa sotto la guida della competente autorità partecipano siano da noi incoraggiati e benedetti: i sacerdoti in modo speciale, i religiosi, i carissimi laici militanti per Cristo nella Azione Cattolica e in tante altre forme d’associazione e di azione. Noi siamo lieti e confortati osservando che un tale dialogo all’interno della chiesa, e per l’esterno che la circonda, è già in atto: la chiesa è viva oggi più che mai! Ma a ben considerare sembra che tutto ancora resti da fare; il lavoro comincia oggi e non finisce mai. È questa la legge del nostro pellegrinaggio sulla terra e nel tempo. È questo l’ufficio consueto, venerabili fratelli, del nostro ministero, cui oggi tutto stimola a farsi nuovo, vigile, intenso. Quanto a noi, mentre di ciò vi diamo avvertimento, ci piace confidare nella vostra collaborazione, mentre vi offriamo la nostra: questa comunione di intenti e di opere noi chiediamo ed esibiamo appena saliti, col nome e, Dio voglia, con qualche cosa dello spirito dell’apostolo delle genti, sulla cattedra dell’apostolo Pietro. E celebrando così l’unità di Cristo fra noi, vi mandiamo con questa nostra lettera iniziale nel nome del Dio immortale la nostra fraterna e paterna benedizione apostolica, che volentieri estendiamo a tutta la chiesa e all’intera umanità.

Dato a Roma, presso San Pietro nella Festa della Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo, il 6 agosto dell’anno 1964, secondo del nostro pontificato.


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