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Paolo VI
"Il signore dell'altissimo canto": Dante Alighieri


[Introduzione]

[1.] Quest’anno ricorre un centenario del signore dell’altissimo canto, di Dante Alighieri, centenario degno di celebrazione: sono trascorsi infatti sette secoli da quando egli nacque a Firenze, città generosa nutrice anche di altri agili e poderosi ingegni.

[2.] È perciò degno e giusto che soprattutto il popolo italiano onori e commemori con grande ossequio e a gara il suo massimo poeta, l’onore luminosissimo della sua letteratura. Egli infatti è il principale creatore della sua lingua e rimane, attraverso le età, protettore e custode della sua civiltà, così come ne espresse e ne rappresentò la forma e l’immagine.

[3.] E invero anche le altre nazioni formate alla civiltà cristiana —— e non sono poche — desiderano partecipare a questa solenne rievocazione, e il nome di Dante, che gode e sempre godrà ovunque della fama di una gloria immortale, ora certamente rifulge ancor di più, quasi fiaccola portata in un luogo più eccelso.

[4.] Ed è pure chiara l’opportunità che la Chiesa cattolica sia presente nel tributare l’onore di una tale lode: essa lo annovera infatti fra gli uomini illustri adorni di valore e di sapienza, inventori di melodie musicali, amanti del bello (1).

[5.] Nell’eccelso coro dei poeti cristiani, dove si distinguono Prudenzio, sant’Efrem Siro, san Gregorio Nazianzeno, sant’Ambrogio vescovo di Milano, san Paolino da Nola, sant’Andrea di Creta, Romano Melode, Venanzio Fortunato, Adamo di San Vittore, san Giovanni della Croce e non pochi altri più recenti, che sarebbe lungo nominare a uno a uno, l’aurea cetra di Dante, la sua armoniosa lira risuonano con una melodia ammirevole per la grandezza dei temi trattati e per la purezza dell’afflato e dell’ispirazione, meravigliosa per il vigore congiunto a una squisita eleganza.

[6.] Per questo — seguendo l’esempio del Nostro Predecessore Benedetto XV, che pubblicò nella ricorrenza del sesto centenario della morte di Dante Alighieri la lettera enciclica In praeclara summorum (2) — anche Noi vogliamo tributare un segno di omaggio all’illustrissimo poeta. E questo non solo per rendergli gloria in questa circostanza passeggera, che s’inserisce nel corso del tempo e subito ne è travolta, ma per perpetuarne in qualche modo la gloria, non con l’erigere un silenzioso e gelido monumento di pietra o di bronzo, ma piuttosto con il far zampillare una fonte che fluisca di acque perenni, sia in sua lode sia a beneficio di una promettente gioventù. Perché i giovani — uno dopo l’altro affidati alla sua scuola e divenuti alunni di un tale maestro — diventino capaci d’illustrare la sua memoria e la sua opera, perché la sua poesia davvero verdeggi nel campo delle discipline letterarie, perché la sua sapienza umana e cristiana si affermi con nuova forza nella tradizione culturale degl’italiani, secondo la consuetudine e l’uso degli antenati che a giustissimo titolo venerarono Dante Alighieri come padre della loro lingua viva.

[7.] Abbiamo istituito perciò — in accordo con le competenti autorità accademiche — un insegnamento o Cattedra di Studi Danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quel grande ateneo a cui il Nostro venerabile Predecessore Pio XI dedicò tanta cura e tanta sollecitudine, e che i Romani Pontefici suoi successori — e Noi pure, sempre, ma in modo particolare quando svolgemmo il Nostro ministero come arcivescovo in Milano — hanno sempre trattato con grande onore e con pari benevolenza. Stabiliamo perciò motu proprio e per Nostra iniziativa che essa abbia un insegnamento o cattedra che promuova gli Studi Danteschi.

[8.] E Ci dà una grande gioia il fatto che questa fondazione testimoni pubblicamente la singolare venerazione che Noi abbiamo per il cantore della Divina Commedia, venerazione che vogliamo venga accesa con una fiamma inestinguibile e alimentata con maggior forza fra i giovani studenti, che vengono istruiti in quell’ateneo nelle migliori discipline e arti. Ne usciranno — questa è la Nostra speranza — alunni notevoli per l’acume dell’ingegno e per la pietà, essi stessi capaci a loro volta di farsi divulgatori di questi studi, da cui derivano tutte le ricchezze dell’aurea miniera dantesca; e queste ricchezze possano essere note a quanti amano il sapere e offrire alla letteratura delle future generazioni una fioritura rinnovata.

[9.] Qualcuno potrebbe forse chiedere come mai la Chiesa cattolica, per volontà e per opera del suo Capo visibile, si prenda così a cuore di celebrare la memoria del poeta fiorentino e di onorarlo. La risposta è facile e immediata: perché Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò molto la Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò nel Romano Pontefice il Vicario di Cristo in terra.

[10.] Né rincresce ricordare che la sua voce si sia levata e abbia risuonato duramente contro alcuni Pontefici Romani, e che abbia ripreso con asprezza istituzioni ecclesiastiche e uomini che furono ministri e rappresentanti della Chiesa. Non passeremo sotto silenzio a questo proposito l’inclinazione del suo temperamento, questo aspetto della sua opera. Conosciamo bene infatti quanta e quale fu l’amarezza del suo animo, amarezza che fu tale da non risparmiare ben più duri rimproveri alla sua patria dilettissima, Firenze. Senza dubbio bisogna concedere alla sua arte e alla passione politica, soprattutto perché riprende vizi deplorevoli, una benigna indulgenza, che il compito di giudice e di correttore che egli rivendica a sé gli concilia.

[11.] Del resto è noto e riconosciuto che il suo temperamento così animoso non ha mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione verso la Santa Madre Chiesa.

[12.] Dante è nostro, Ci sia lecito ripetere a ragione, e lo affermiamo non per gloriarci di un tale trofeo per un amore ambizioso e orgoglioso, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo tale, e di esplorare nella sua opera le ricchezze inestimabili della forza e del senso del pensiero cristiano, convinti come siamo che solo chi scava nelle segrete profondità dell’animo religioso del sommo poeta può comprendere a fondo e gustare con pari piacere i meravigliosi tesori spirituali nascosti nel poema.

[Catarsi e afflato religioso nella "Divina Commedia"]

[13.] E che ciò si esiga dal genere stesso del poema di Dante Alighieri risulta manifesto. Ogni poema degno di questo nome infatti eccita e solleva gli animi a pensieri e a sentimenti nuovi e possenti grazie a quella forza detta catarsi, forza propria della vera arte e della vera poesia. E questa elevatezza e sublimità, che risplende nella Divina Commedia in modo notevolissimo e singolare, scaturisce e deriva dal senso religioso, e più distintamente dalla fede cattolica.

[14.] Certamente la fede, che "come stella in cielo in me scintilla" (3), e che Dante Alighieri possiede in modo tale da non considerare nulla maggiore a essa, "[...] questa cara gioia / sopra la quale ogni virtù si fonda" (4), riempie — dal fondamento alla sommità, in tutte le sue parti — di luce e di calore questo tempio di poesia, che è tempio di fede. Per questo, da ciò su cui si fonda, il poema è detto sacro: "Se mai continga che ‘l poema sacro, / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per più anni macro, / vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, ed in sul fonte / del mio battesmo prenderò ‘l cappello" (5).

[Dante coronato
poeta ecumenico nel suo "bel San Giovanni"]

[15.] A questo punto Ci sia lecito esprimere la nostra perfetta e piena gioia per il fatto che — a dar compimento al voto e al presagio di Dante Alighieri — abbiamo felicemente potuto far sì che nel battistero del "mio bel San Giovanni" (6) — dove, purificato dal sacro lavacro, divenne cristiano e fu chiamato Dante — con grande concorso di Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II fosse incastonato in una corona d’alloro dorata il monogramma in oro di Cristo, dono da Noi inviato per attestare la grandissima riconoscenza del mondo cristiano per aver cantato in modo mirabile "la verità che tanto ci sublima" (7).

[16.] L’alloro, di cui è adorno il capo di Dante Alighieri, onore e ornamento dell’Italia e di tutto il genere umano, non è mai seccato né inaridito. Tuttavia era opportuno che fosse accresciuto di nuove fronde, poiché egli merita, per la grandezza dell’ingegno e dell’opera, il titolo di poeta appartenente a tutte le genti, o ecumenico, illustrissimo, degnissimo di uno studio e di un ascolto assidui.

[17.] Certamente il poema di Dante Alighieri è universale: nella sua immensa larghezza abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta alla divina Rivelazione e quella attinta dal lume della ragione, quanto egli aveva conosciuto per esperienza diretta e le memorie della storia, l’età in cui visse, e le antichità greche e romane; insomma, costituisce evidentemente il monumento più rappresentativo del Medioevo. E se si osserverà la sua forma e il suo contenuto, vi si vedranno certamente i frutti della sapienza degli orientali, del lógos dei greci, della civiltà dei romani, e vi si vedranno raccolte in sintesi le ricchezze del dogma della religione cristiana e dei precetti della legge, soprattutto così come furono elaborati dai dottori. Dante Alighieri segue Aristotele in filosofia, Platone nella tensione dell’intelletto a contemplare i modelli esemplari delle cose, sant’Agostino nel modo di concepire la storia e nell’importanza che vi attribuisce, è alunno fermo e fedele di san Tommaso d’Aquino in teologia, così che la sua opera — fra l’altro — è quasi uno specchio costituito di frammenti della Somma teologica del Dottore Angelico. E questo è certamente vero in generale; ma tuttavia è anche vero che Dante è mosso non poco dall’autorità di sant’Agostino, di san Bernardo, dei Vittorini, di san Bonaventura, né è estraneo a qualche influsso apocalittico dell’abate Gioachino da Fiore, è solito infatti protendersi verso cose che albeggiano o che, non ancora nate, sono contenute nel grembo del futuro.

[Il fine della "Divina Commedia" è soprattutto pratico e trasformante]

[18.] Il fine della Divina Commedia è anzitutto pratico ed è volto a trasformare e a convertire. Essa in realtà non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma soprattutto di cambiare radicalmente l’uomo e di condurlo dal disordine alla sapienza, dal peccato alla santità, dalle sofferenze alla felicità, dalla considerazione terrificante dei luoghi infernali alle beatitudini del Paradiso. E il sommo vate l’afferma chiaramente nella lettera a Cangrande della Scala: "Il fine del tutto e della parte potrebbe essere molteplice, ossia prossimo e remoto; ma, tralasciando un esame minuzioso, si può dire brevemente che il fine del tutto e della parte è allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità" (8).

[19.] Stando così le cose, la Divina Commedia può essere chiamata un itinerarium mentis in Deum, dalle tenebre della dannazione eterna alle lacrime della penitenza purificatrice e, di grado in grado, da una luminosa chiarezza a una ancor più lucente, da un amore fiammante a uno ancor più fiammante, su su fino alla Fonte della luce, dell’amore e della dolcezza eterna: "Luce intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore" (9).

[20.] E i temi della poesia in effetti sono offerti come testimonianze sicure e moniti perché si ascenda a Dio. La natura e l’ordine soprannaturale, la verità e gli errori, il peccato e la grazia, il bene e il male, le opere degli uomini e gli effetti che ne conseguono, tutti sono considerati, giudicati, valutati al cospetto di Dio, e mostrano il loro vero valore nella prospettiva dell’eternità. E questa ascesa, rivolta a ciò che più è segreto ed eccelso, diventa epos di vita interiore, epos di grazia celeste, epos di viva esperienza mistica, di virtù multiforme; diventa teologia della mente e teologia del cuore.

[Dagli abissi infernali alla visione della Santissima Trinità. I santi e la Regina dei santi]

[21.] Gli abissi della pena dei vizi, i regni sereni dove le anime vengono purificate da ogni macchia, le ardue vette a cui conducono i molteplici cammini di santità, e coloro che furono altissimi modelli di santità — quali lodi vengono tessute di san Francesco, san Domenico, san Pier Damiani, san Benedetto da Norcia, san Romualdo, san Bernardo! —, tutto ciò sale a raggiungere un vertice. Per chi dunque ne coglie il senso salutare, i cento canti costituiscono cento gradini di una scala, come quella che Giacobbe vide in sogno, che salgono dai luoghi più bassi alla luce della Santissima Trinità. E prima del gradino più elevato sta la Vergine Maria, Madre di Dio, che san Bernardo prega di aiutare come avvocata propizia il pellegrino nuovo e inesperto affinché il suo desiderio supremo venga soddisfatto.

[22.] Certamente Maria — "Il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e mane e sera" (10), colei "che là su vince, come qua giù vinse" (11) — appare al poeta fiorentino amministratrice dei doni celesti; essa, fulgida porta del cielo, rimuove le distanze che separano il Creatore e le creature e introduce a fissare la mente in Cristo e nella Verità Suprema: "Or questi, che da l’infima lacuna / de l’universo infin qui ha vedute / le viste spiritali ad una ad una, / supplica a te, per grazia, di virtute / tanto, che possa con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute. / E io, che mai per mio veder non arsi / più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei preghi / ti porgo, e priego che non sieno scarsi, / perché tu ogni nube li disleghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi (12).

[È simboleggiato il genere umano in cerca della pace]

[23.] Protagonista è lo stesso poeta, che rappresenta il genere umano; egli, sempre sotto il velo dell’allegoria, lo conduce a riconoscere le proprie colpe e a riprendere la via della virtù, a lasciarsi illuminare e purificare; a unirsi finalmente e ad aderire alla somma Verità e al sommo Bene.

[24.] La legge divina è stata data agli uomini perché, seguendola, raggiungessero la felicità sia in questa vita terrena sia in quella eterna a cui aspirano, seguendo il vero bene che ispira il retto amore, e fuggendo il male, origine di un amore distorto, della cupidigia e della malizia.

[25.] "È chiaro che nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, il genere umano si trova nelle migliori condizioni per perseguire il suo fine specifico, che è quasi divino, secondo quel famoso passo: "l’hai fatto poco meno degli angeli" (Ps. VIII, 6)" (13).

[26.] Questa pace — che riguarda i singoli, le famiglie, le nazioni, il consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica —, questa tranquillità dell’ordine è turbata e scossa perché la pietà e la giustizia vengono disprezzate. Perciò, per restaurare l’ordine e la salvezza, vengono chiamate a illuminare, in reciproca armonia, la Fede e la ragione, Beatrice e Virgilio, la Croce e l’Aquila, la Chiesa e l’Impero, la ridestata coscienza della condizione in cui sono posti gli uomini sulla terra; e intanto viene predicato l’universale annuncio — oscuro ma certo — del secolo venturo. Il cielo e la terra insieme fanno risuonare questo Vangelo di pace.

[27.] Certamente la Divina Commedia è poema di pace: lugubre canto della pace per sempre perduta nell’Inferno; dolce canto della pace verso cui sospira la speranza è il Purgatorio; e il Paradiso è un magnifico canto di esultanza della pace posseduta nella pienezza e per sempre.

[Tempio di sapienza e d’amore]

[28.] Similmente la Divina Commedia è tempio di sapienza e d’amore, di una sapienza che spira amore e di un’amore ripieno di sapienza. Chi può negare che i versi del divino poeta ardano d’amore per gli uomini, amore da cui nasce un pressante ed efficace ammonimento a essere — in qualsiasi stato e condizione di vita — migliori, e a dirigersi verso le mete loro poste dal provvidentissimo Dio?

[29.] Per questo il poema ha cura di purificare ogni aspetto della società, con l’affermare una libertà che affranchi dalla schiavitù del male, e che spinga a trovare e ad amare Dio nel giusto uso dei suoi doni, sia quelli che riguardano la storia, sia quelli che riguardano tutti gli aspetti della vita. Dante infatti professa una stima e una valorizzazione di quanto è umano, i cui aspetti principali riteniamo opportuno spiegare come si conviene.

[Umanesimo di Dante]

[30.] Quest’umanesimo del sommo poeta trae origine da un aspetto della dottrina di san Tommaso d’Aquino, e si distingue per il suo carattere ottimistico. Si basa su sicuri fondamenti, cioè che la grazia non distrugge la natura, ma la risana e la perfeziona, e che "persona est nomen dignitatis" (14). Si oppone diametralmente ad alcune tesi ascetiche e mistiche secondo cui tutti dovrebbero aspirare al contemptus mundi come unica forma di vita perfetta.

[31.] Dante Alighieri non solo approva tutti i valori umani — intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili —, ma addirittura li esalta. E ciò che va soprattutto tenuto presente è che questi beni vengono apprezzati e stimati quando egli s’immerge nel divino, dove la contemplazione delle cose celesti avrebbe potuto rendere senz’altro vuoti e inutili i beni terreni. Anzi, la sua umanità si delinea lì ancor più pienamente e si perfeziona nel vortice dell’amore divino; anche in seno alla splendente immensità dei cieli egli si sente preso dall’urgenza del messaggio di verità e di bontà che "l’aiuola che ci fa tanto feroci" (15), quel lontanissimo punto della nostra infelice terra, attende da lui.

[32.] Per quanto riguarda l’antichità classica, egli ritiene che sia stata una provvidenziale preparazione alla religione cristiana e che ne abbia spesso offerto allegorie; diversamente rispetto a quanto accadde nel cosiddetto Rinascimento, o almeno presso molti uomini di quel periodo, che valutava i beni umani indipendentemente da Dio; nel medesimo periodo poi l’umanesimo si volgeva alle istituzioni e ai costumi pagani, e veniva inficiato dall’errore pelagiano.

[Visione politica]

[33.] Ci sia lecito accennare di passaggio alla sua dottrina politica.

[34.] Le due potestà, la Chiesa e l’Impero, sono state ordinate da Dio perché conducano gli uomini a conseguire la felicità, la prima quella celeste, il secondo invece quella terrena; e come quelle felicità sono distinte fra loro, benché la seconda sia subordinata alla prima, così ciascuna potestà — nella sfera e nell’ambito propri — è indipendente dall’altra, e questo per evitare la confusione fra quanto è sacro e quanto è profano. Tuttavia esse devono aiutarsi reciprocamente, e certamente, in materia di fede e di morale, questo aiuto consiste in una pronta ubbidienza dell’imperatore al Sommo Pontefice; l’una potestà e l’altra poi sono al servizio della res publica christiana.

[35.] La Chiesa, libera e non impacciata dal fardello di un inutile fasto, priva di preoccupazioni terrene, si dedica con ogni zelo a proclamare la verità e a farla fruttificare: "Non vi si pensa quanto sangue costa / seminarla nel mondo, e quanto piace / chi umilmente con essa s’accosta" (16).

[36.] E sicuramente ciò non ha nulla a che vedere con la tesi, introdotta da Marsilio da Padova e diffusasi nella nostra epoca, secondo cui la città terrena deve essere radicalmente separata dalla Chiesa.

[37.] All’imperatore è affidato il compito, più che altro di ordine morale, di far trionfare la giustizia e di annientare l’avidità, che è causa di disordine e di guerre: da ciò appare necessaria una monarchia universale. Questa — tratteggiata in termini medievali — esige una potestà sovranazionale, che faccia vigere un’unica legge a tutela della pace e della concordia dei popoli. Il presagio del divino poeta non è affatto utopistico, come ad alcuni potrebbe sembrare, dal momento che ha trovato nella nostra epoca una certa attuazione nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con estensione e beneficio che tendono a riguardare i popoli del mondo intero.

[Poeta dei teologi, teologo dei poeti]

[38.] Non possiamo esimerCi dall’accennar pure brevemente a quali relazioni intercorrano fra la verità della religione e quella della poesia, e questo per porre maggiormente in luce come tali rapporti si realizzino nella Divina Commedia e per trattare in breve dell’arte poetica di Dante Alighieri, dal momento che soprattutto ciò è, per molti motivi, richiesto perché la poesia rifiorisca, sia in generale sia, particolarmente, quella religiosa.

[39.] Giovanni di Virgilio preparò per il sepolcro di Dante un epitaffio in cui così lo lodava: "Dante teologo, di nessuna dottrina ignaro, / che filosofia scaldi nel suo nobile seno".

[40.] Da questi egli è stato onorato soprattutto con il titolo di teologo. È prevalso tuttavia — per consenso che non tardò a farsi unanime — l’appellativo di sommo poeta, con cui lo acclamarono i secoli; e divina è stata chiamata la sua Commedia.

[41.] L’onore di entrambi i titoli gli si addice giustamente. E tuttavia non va considerato poeta, bensì teologo, ma ancor meglio va proclamato signore dell’altissimo canto, poiché si rivelò teologo dalla mente sublime.

[42.] La nobiltà, la grandezza, i pregi grandissimi della sua poesia sono a tal punto evidenti che non è affatto il caso di ricorrere, per provarle, a complicate argomentazioni. L’eccelsa cima di un monte, non toccata — per tanto trascorrere di tempo — dall’erosione delle acque, non ha bisogno di discorsi lunghi e prolissi per mostrarsi nella sua grandezza: è sufficiente darle un rapido sguardo.

[Mistagogo nel santuario dell’arte]

[43.] È più utile che, come Virgilio fu guida a Dante, così Dante possa essere per altri, quanto più numerosi possibile, un secondo Virgilio, che li introduca nel santuario dell’arte, e soprattutto dell’arte poetica. E questo è ancor più auspicabile ai nostri tempi, in cui al progresso economico e tecnologico non di rado corrisponde un regresso della vita spirituale. L’arte soffre d’indigenza: assai spesso viene portata a espressioni inconsistenti e unilaterali, viene ridotta a un soggettivismo — per così dire — manicheo, sprezzante della natura, viene trasformata in riso cinico, in descrizione ed esaltazione dei vizi; e, per quanto riguarda la poesia, si ammette solamente o di gran lunga si preferisce la lirica, poiché si pongono restrizioni e limitazioni sterili e per nulla indispensabili.

[Essenza della poesia]

[44.] Ci sono alcuni che deducono da princìpi filosofici da loro inventati o abbracciati che non v’è differenza fra poesia e prosa; altri invece, pur riconoscendo tale distinzione, attribuiscono alla poesia il carattere di liricità, teso a commuovere l’animo, ed esigono da essa il solo linguaggio del sentimento e dell’intuizione, mentre alla prosa attribuiscono il carattere logico, scientifico, oggettivo.

[45.] È evidente che nella profondità dello spirito si può trovare il luogo da cui la poesia trae i propri temi. Ma pure, quando abbandona o disprezza la facoltà intellettiva, non giunge mai a qualcosa di logico, perspicuo, concreto; e così viene alla luce gracile, oscura, sostenuta da uno stile ampolloso, e produce emozioni che si spengono in vuoto languore.

[46.] La costruzione poetica invece non va affatto svalutata per la sua grandezza. Presso gli antichi le forme poetiche più apprezzate erano il poema epico e la tragedia. Platone attribuiva il primato alla prima, Aristotele invece alla seconda (17), poiché riteneva che vi fossero contenute le arti più sublimi.

 

[Psicagogia, ispirazione e ritmo]

[47.] Il criterio per determinare il grado di bellezza e di perfezione era richiesto soprattutto alla psicagogia, ossia alla potenza con cui l’autore — in modo efficace, conveniente e compiuto — conduce gli animi là dove si era proposto. E anche Orazio attribuisce all’arte questa regola imprescindibile: "Non basta che i componimenti poetici siano belli; siano piacevoli: / E conducano ovunque vogliano l’animo dell’uditore" (18).

[48.] Ora, tutto ciò si può ottenere con il linguaggio proprio della poesia, e soprattutto con quella facoltà, certamente misteriosa e che forse mai sarà ben conosciuta, che chiamiamo ispirazione divina. Questa non abbatte né disprezza affatto la ragione, ma costituisce piuttosto un altro modo di conoscere, un’altra via per impossessarsi della realtà, e scopre così rapporti che quella non vede. Ma l’arte ha bisogno della ragione nell’attività tumultuosa che precede il bagliore dell’ispirazione, che viene a illuminare, placare, rendere semplice tutto quanto era stato abbozzato; e della medesima ragione ha bisogno pure per il successivo completamento dell’opera, che va senza dubbio condotto con abilità e talento, per partecipare agli altri gli stati e le disposizioni d’animo non solo suscitando idee, immagini, affetti, ma anche con una perfetta fusione e armonia dei diversi elementi: infatti "principio e fonte del bello scrivere è l’esser saggio" (19).

[49.] A ciò s’aggiunga che è necessario produrre quasi un fluido, come una forza magnetica, grazie all’ordine e all’accorta congiunzione delle parole, alla dolcezza del suono, al ritmo: "A chi abbia ingegno, mente più divina e bocca / che canti grandi cose, darai l’onore di un tale titolo [di poeta]" (20).

[Eccellenza di forma e di pensiero nella "Divina Commedia"]

[50.] E certamente in Dante Alighieri la forza come di fiamma e l’ispirazione sono le cause che animano la sua opera e la sollevano a una mirabile altezza quasi in un abbraccio di tutto il mare dell’essere: "[...] I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando" (21).

[51.] Nella Divina Commedia si trovano tutti i generi poetici: vi sono infatti l’epico, il lirico, il didascalico, il satirico, il drammatico, e di quest’ultimo sia quello di carattere che quello d’azione; e ciò viene ottenuto con un continuo combinare elementi diversi e molteplici, conservando l’armonia di una splendida unità architettonica. E tutti i sentimenti e i toni vi sono chiamati a risuonare: dolci e bellicosi, tristi e lieti, pieni di sprezzo e di ammirazione, esprimenti ira, terrore, paura, amore, preghiera, adorazione, dolce riso, estasi.

[52.] Con il suo stile tutto proprio, il sommo poeta canta le realtà più misteriose e sublimi della vita, i misteri di Dio e i più alti pensieri degli uomini. Quella fonte da cui sgorga un così largo fiume di eloquenza appare cosa grandiosa e straordinaria, sol che si pensi che si serve di quella lingua italiana allora neonata e informe, senza alcuna esperienza di espressione artistica. E proprio essa, "pane orzato [...] [e] sole nuovo" (22) —, che di fronte a Dante Alighieri potrebbe dire: "da mia natura / trasmutabile son per tutte guise" (23) —, gli si offre come strumento docile per esprimere — ora con dignità aristocratica, ora con una certa rozzezza popolare, ora con forza, ora con delicatezza — con molteplice timbro e colorito musicale tutto quanto muove il suo animo o rapisce la sua mente, accessi d’ira e slanci d’amore, rimproveri e lodi, le grida dei dannati nell’Inferno e le preghiere dei santi in Paradiso, visioni, sogni, presagi, decisioni, le sottigliezze della filosofia e le vette della teologia.

[Rapporti fra teologia e poesia]

[53.] Questo accenno alla teologia apre un problema che la riguarda. Alcuni critici hanno sostenuto che la Divina Commedia non fosse poetica quando e dove è impregnata di teologia. Altri invece ritengono diversamente, certi che proprio in quei punti essa risplenda e brilli di una luce meridiana, tutta sua. Non siamo di parere diverso da questi ultimi, sia per ragioni generali, sia per ragioni particolari, relative al problema sollevato dalla teologia.

[54.] Chi può mettere in dubbio che il senso religioso, le verità di fede, gli aneliti che dal finito salgono verso l’Infinito, siano stati e siano sempre una fonte da cui la poesia sgorga abbondantemente? Non ne è questa la forma più alta e più pura? Quando con il linguaggio che le è proprio — preferisce cantare anziché parlare, dipingere anziché argomentare, e scolpire, quando vuol perorare — la poesia esprime l’esperienza mistica, i moti della grazia, l’estasi, quando si eleva alla suprema Bellezza, al Bene e al Vero che trascende l’umana intelligenza, di fronte a cui vien meno la capacità di dire — "alla etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende" (24) —, proprio allora essa diventa un dono preziosissimo della bontà divina, un riflesso della sua gloria: appare infatti: "[...] giorno a giorno / essere aggiunto, come quei che puote / avesse il ciel d’un altro sole adorno" (25).

[Preghiera e poesia]

[55.] Del resto i contemplativi, cioè gli uomini religiosi per eccellenza, sono portati più di tutti gli altri alla grande poesia; e meravigliosi esempi di essa sono da tutti considerati i vaticini dei profeti e i salmi di Davide.

[56.] Una segreta parentela unisce certamente i mistici e i veri poeti, e in generale gli artefici delle arti, di cui la poesia è generatrice e madre. In realtà il dono della poesia corrisponde, nell’ordine naturale, a quello della profezia e dell’estasi nell’ordine soprannaturale; infatti nella loro esplicazione vi è un analogo movimento e processo psicologico; mistici e poeti cercano la dimora più recondita dell’animo, il vertice dello spirito, il centro del cuore, dove gli uni sentono la presenza Dio, mentre gli altri vi percepiscono — benché non intimamente compresa, ma piuttosto sospettata e in qualche modo intuita — la presenza di un dono dell’"autore della bellezza" (26).

[Si coltivi la poesia religiosa: modello Dante Alighieri]

[57.] Cogliamo ora l’occasione che Ci si offre per esortare a coltivare la poesia religiosa, sia quella corale, accompagnata dalla musica, che raccoglie in sé i sentimenti della moltitudine nell’interpretazione delle vere voci della natura, nella celebrazione delle feste religiose e degli avvenimenti importanti — lieti e tristi — che accadono, sia di quella poesia che manifesta i colloqui dell’anima con Dio, che le apre la fonte della vita e la trascende.

[58.] Senza dubbio i credenti in Cristo, nel cui cuore, per la grazia della fede, abita come maestro e pedagogo il Verbo della vita, possono considerare loro propria in modo particolare l’arte della parola, anche se semplice e umile. La coltivino dunque, come un terreno fecondo, guardando all’esempio di Dante Alighieri, che ne è modello difficilmente superabile anche per le ragioni che esponiamo.

continua da pagina ventinove

[59.] Se si considera l’unione, nella sua opera, degli elementi dottrinali e dei princìpi dell’arte poetica, appare con evidenza l’opportunità e la validità della loro mutua alleanza. Nessuno dei due elementi — benché l’uno sia all’altro sottoposto — è giustapposto in modo disordinato all’altro, entrambi invece costituiscono un organismo vivo e armonioso, non diversamente che le ossa e la carne nel corpo umano: cosicché se l’uno viene a mancare anche l’altro non può sostenersi; la bellezza consiste infatti nel loro accordo.

[La bellezza ancella di verità e di bontà]

[60.] Di più: la teologia e la filosofia hanno un altro rapporto con la poesia, consistente in questo: la bellezza, offrendo alla dottrina il suo ornamento e la sua veste — ora con la dolcezza del canto, ora con le immagini dell’arte figurativa — apre la strada a che i suoi preziosissimi insegnamenti siano comunicati a molti.

[61.] Le alte disquisizioni e i sottili ragionamenti risultano inaccessibili agli umili, che pure — e sono una moltitudine — desiderano il pane della verità. Sennonché anch’essi avvertono, gustano, apprezzano l’efficacia e il dono della bellezza; e per questa via è più facile che la verità risplenda loro e li nutra. Questo si propose, questo realizzò l’autore dell’altissimo canto, per cui la bellezza divenne ancella della bontà e della verità, e la bontà materia della bellezza.

["Onorate l’altissimo poeta"]

[62.] Ma è giunto il momento di porre termine alla Nostra impari celebrazione delle lodi di Dante Alighieri, concludendo con la viva esortazione: "Onorate l’altissimo poeta".

[63.] Tutti l’onorino, poiché egli tutti riguarda: onore del nome di cattolico, cantore ecumenico ed educatore del genere umano: e con maggior diligenza e più fermo impegno l’onorino coloro che più gli sono vicini per religione, carità di patria, vicissitudini, affinità di studi.

[64.] Quelli poi che più sono dotati non solo abbiano in mano giorno e notte una copia della Divina Commedia, sublime capolavoro, ma approfondiscano anche tutto quanto vi rimane d’inesplorato e d’oscuro.

[65.] Cerchino tutti di leggerla integralmente, senza precipitazione né di corsa, ma con mente penetrante e attenta riflessione. Che se, per vari motivi, a molti ciò non riesca possibile, che difficilmente si trovi qualcuno che ne ignori il contenuto, gl’ideali, le parti e i versi più famosi.

[Conclusione]

[66.] Esortiamo infine gli uomini della nostra epoca a perfezionare e illuminare la loro cultura incontrandosi con un così alto spirito. Il settimo centenario della sua nascita infatti ce lo conduce quale astro luminosissimo, a cui volgere lo sguardo e a cui — ostacolati da una selva oscura — chiedere di orientarci verso "il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia" (27).

[67.] Noi, da parte Nostra — per tributargli onore nelle presenti solenni celebrazioni, e desiderando che se ne conservi il ricordo con un’iniziativa utile al suo culto — abbiamo istituito Motu proprio, come abbiamo detto sopra, un insegnamento o Cattedra di Studi Danteschi nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. E affidiamo tutto ciò che abbiamo stabilito motu proprio alla fedele esecuzione del nostro Venerabile Fratello Carlo Colombo, Vescovo titolare di Vittoriana, Preside dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Milano, e, per suo tramite, al Nostro diletto figlio Ezio Franceschini, Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

[68.] Quanto poi con questa lettera apostolica, data motu proprio, abbiamo stabilito, ordiniamo che sia sempre valido e stabile, senza che alcunché possa essere addotto a ostacolo.

Dato in Roma, il giorno 7 del mese di dicembre, festa di sant’Ambrogio Vescovo, anno 1965, terzo del Nostro Pontificato.

Paulus P. P. VI

Litterae Apostolicae Motu proprio datae "Altissimi cantus" septimo exeunte saeculo a Dantis Aligherii ortu, in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, anno e vol. LVIII, 1966, Città del Vaticano, pp. 22-37. Titolo, titoli intermedi e traduzione redazionali.


Note

(1) Cfr. Eccli. 44, 1-5.
(2) Cfr. A.A.S. XIII, 1921, pp. 209 ss.
(3) Par. XXIV, 147.
(4) Ibid., 89-90.
(5) Par. XXV, 1-9.
(6) Inf. XIX, 17.
(7) Par. XXII, 42.
(8) Ep. XIII, 15.
(9) Par. XXX, 40-42.
(10) Par. XXIII, 88-89.
(11) Ibid., 93.
(12) Par. XXXIII, 22-33.
(13) Monarchia, I, IV, 2.
(14) Cfr. Summa Theologiae, I, q. 1, a. 8 ad 2; I-II, q. 109, a. 8; I, q.29, a. 3 ad 2.
(15) Par. XXII, 151.
(16) Par. XXIX, 91-93.
(17) Plato, Leg. II, 658 d et ss.; Aristoteles, Poetica, 1461 b 26 et ss.
(18) Horatius, Ars poetica, 99-100; cfr. Epist. II, I, 212-214.
(19) Id., Ars poetica, 309.
(20) Id., Satir. I, IV, 43-44.
(21) Purg. XXIV, 52-54.
(22) Conv. I, 13.
(23) Par. V, 99.
(24) Ibid., 8-9.
(25) Ibid. I, 61-63.
(26) Sap. 13, 3; cfr. H. Bremond, Prière et poésie, Paris 1926.
(27) Inf. I, 77-78.


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