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Pio VI
Ignotae nemini
1. A nessuno sono sconosciute, né si possono ricordare senza lacrime le cause per le quali gli Arcivescovi, i Vescovi, i parroci, i sacerdoti, i chierici, le sacre vergini e moltissimi fra i regolari del regno delle Gallie, rese pubbliche le prove della loro fede, furono costretti a lasciare le sedi, le abitazioni e i beni e a cercare rifugio in diverse regioni, sia cattoliche, sia non cattoliche nelle quali poterono più facilmente emigrare chiedendo agli stranieri quegli aiuti che non potevano ottenere dai loro.
Questa dispersione del nobile clero in varie parti non poté non commuovere tutti gli animi: noi dobbiamo lodare grandemente non solo i principi, i pastori e i popoli cattolici che, ammaestrati dal Vangelo e infiammati di spirito di vera carità, accolsero benevolmente questi confessori della fede e a proprie spese li mantennero; siamo riconoscenti anche verso i principi e i popoli non cattolici, e fra questi specialmente l’illustre re della Gran Bretagna e la nobile nazione di quel regno che, spinti da un sentimento di umanità verso tutti i propri simili, come dice Sant’Ambrogio, fornirono aiuti ai medesimi imitando la gloria degli antichi Romani "ai quali sembrava molto conveniente aprire le case di uomini illustri agli ospiti illustri, e tornare ad onore dello Stato che quegli uomini stranieri non mancassero nella nostra città di questo genere di liberalità".
2. Per quanto spetta a Noi che, benché indegni, adempiamo l’ufficio di pastore universale e di padre di tutti i fedeli, abbiamo creduto di essere stretti da maggior impegno degli altri nel portare un pronto aiuto a questi infelici che si sono gettati fra le Nostre braccia.
Siamo pienamente convinti che in nessuna occasione più giusta né in alcun tempo si possano assegnare aiuti più nobilmente che a coloro i quali, per la causa di Cristo, sopportarono la perdita di tutti i beni e, cacciati dalle loro sedi con ingiuria e violenza, si aggirano per diverse regioni, costretti a vivere fra sconosciuti e quasi nella solitudine. Sin dall’inizio della crudele persecuzione esprimemmo palesemente vivi sentimenti di pietà ai Galli, sia ecclesiastici, sia laici, e li abbracciammo con ogni benevolenza e affetto.
3. Questi esuli, pieni di affanni, certamente speravano di condurre una vita se pur meno comoda, tuttavia priva di preoccupazioni e tranquilla in quei luoghi dove erano approdati, ma improvvisamente l’invasione dei soldati Galli, specialmente nella Savoia e nella città di Nizza e dintorni, li costrinse ad una nuova e più dolorosa fuga.
Noi, perseveranti nei medesimi sentimenti di carità e volontà di bene, pur fra le angustie delle cose nelle quali Ci troviamo, abbiamo raccomandato e ordinato che questi nuovi esuli siano accolti e mantenuti non solo nella Nostra città (Roma) ma anche nelle province della Nostra giurisdizione; per questa stessa causa con lettera enciclica del 10 ottobre testé trascorso Ci siamo dati premura di stimolare i Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi dello Stato pontificio affinché ciascuno di loro col proprio clero e le pie associazioni della propria diocesi partecipasse all’opera di misericordia e assecondasse le Nostre paterne preoccupazioni.
Perciò è avvenuto che non solo i sopra ricordati Venerabili Fratelli e il clero secolare e regolare, ma anche molti laici di qualsiasi condizione, a gara, imitando il Nostro esempio, si sono adoperati, tanto che è aumentato il numero dei nuovi ospiti accolti dopo l’occupazione della Savoia e di Nizza sino a giungere a duemila.
4. Sappiamo che parecchi altri ecclesiastici del regno della Gallia col favore del carissimo figlio Nostro in Cristo Francesco, eletto imperatore dei Romani, passarono in Germania dove non erano affatto necessarie le Nostre raccomandazioni per procurare mezzi di sussistenza a questi esuli. Non è ignoto, o Venerabili Fratelli e diletti Figli, che quanto a pietà e carità superate di gran lunga l’antica gloria dei vostri antenati. È stato tramandato che essi erano miti e cortesi verso gli ospiti: ai pellegrini infatti offrivano spontaneamente ospitalità e gareggiavano fra di loro per i servizi propri dell’ospitalità.
5. Per la verità, alcuni Nostri fratelli degni di ammirazione, come l’Arcivescovo di Parigi e i Vescovi di Saint-Bertrand, N"mes, Maclovien, Tresent e Langres, con lettera del 1¡ di questo mese a Noi indirizzata, continuando lodevolmente ad esercitare quell’ardore di carità con il quale essi stessi, esuli nella città di Costanza, e altri ecclesiastici Galli furono accolti in due abbazie prossime a quella città, Petershausen e Oreutzlingen, Ci hanno chiesto di intervenire presso i presuli, i prelati, gli abati e i capitoli della Chiesa germanica e di raccomandare i sacerdoti della Gallia, profughi per la fede apostolica e tanto provati per l’unità cattolica. Così Noi, volendo accogliere le loro giuste preghiere, volentieri mandiamo a Voi questa lettera affinché possiamo continuare a lodare sempre più quanto da parte Vostra si è già cominciato a fare, e possiamo raccomandare ancora una volta questi atleti di Cristo, che per la causa che hanno valorosamente sostenuto e per i loro distinti meriti di per sé si raccomandano.
6. Questa Nostra lettera vi dimostra chiaramente da quanta consolazione siamo confortati tra le gravi angustie dalle quali siamo afflitti da ogni parte per l’indubbia speranza che nutriamo nel profondo dell’animo, che voi, Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, terrete sempre presente l’aurea sentenza di San Paolo, "È necessario che il Vescovo sia ospitale": quella sentenza che sia i Santi Padri sia gli stessi Concilii grandemente lodano. Infatti, come scrive San Girolamo, "la casa del Vescovo deve essere l’ospizio comune di tutti; e se il laico accoglie uno o due o pochi, adempie il dovere dell’ospitalità; se il Vescovo non avrà accolto tutti, sarà da lui considerato inumano". Sono parole del VI Concilio di Parigi. Abbiamo la fondata speranza che anche voi, diletti figli, abati e abbadesse, terrete in mente e compirete con l’opera ciò che San Benedetto insegnò ai monaci, cioè che l’abate ogni giorno debba avere ospiti alla propria mensa e le abbadesse poi, secondo il Sinodo di Aquisgrana, abbiano ospiti davanti alla porta del monastero. Infine siamo certi che Voi, capitoli ed ecclesiastici di qualunque grado della nobile Chiesa germanica, considererete che tornerà a vostra gloria se vi sarà dato di seguire quelle esortazioni con cui il sacrosanto Sinodo Tridentino ammonisce: "Chiunque tiene benefici ecclesiastici, sia secolari, sia regolari, deve abituarsi a compiere prontamente e amorevolmente il dovere dell’ospitalità, spesso raccomandato dai Santi Padri, secondo le proprie possibilità, memore che coloro i quali amano l’ospitalità, negli ospiti ricevono Cristo".
Come il medesimo Sinodo Tridentino si diede premura di affidare ai Vescovi l’onere di questo tipo di carità, così siamo certi che Voi, Venerabili Fratelli, non solo cogli esempi ma anche con le parole e le esortazioni vi adoprerete a procurare a questi infelici sacerdoti francesi gli aiuti anche maggiori di quelli che per mezzo vostro si poterono procacciare, fin tanto che discenderanno su di Noi il giorno della consolazione e il tempo della pace; come disse Alessandro III, Nostro predecessore, mentre raccomandava alcuni ecclesiastici che i nemici della fede perseguitavano.
7. Moltissimi sono i premi che Dio ottimo e massimo ha promesso e che sempre ha dato a coloro che si sono distinti per il generoso servizio dell’ospitalità; noi confidiamo che quest’opera di misericordia congiunta a preghiere pubbliche Ci porterà quanto prima quella consolazione e quella pace che vivamente desideriamo.
Intanto, Venerabili Fratelli e diletti Figli, con sommo affetto impartiamo l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 novembre 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.