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san Pio X
E supremi apostolatus


Programma del Pontificato di Pio X

Nel rivolgerCi la prima volta a voi dalla Cattedra del Supremo Apostolato, alla quale, per inscrutabile disposizione di Dio, fummo elevati, non fa d’uopo che ricordiamo con quali lacrime e calde istanze Ci adoperammo di allontanar da Noi questo formidabile peso del Pontificato. Benché affatto disuguali di merito, pur Ci sembra di far Nostre con verità le parole di Sant’Anselmo con cui si lamentava, quando contro voglia e riluttante fu costretto a ricevere l’onore dell’episcopato. Imperciocché a mostrar di quale animo e con quale volontà Ci siamo sottoposti al gravissimo incarico di pascere il gregge di Cristo, possiamo bene arrecare quelle stesse prove di dolore ch’egli per sé invocava. "Sono testimoni — così egli scriveva — le mie lacrime e le mie voci e i ruggiti provenienti dall’ambascia del mio cuore, quali mai non rammento essere da me usciti, per verun dolore, prima di quel giorno in cui parve di cadermi sopra quella grave sventura dell’arcivescovado di Canterbury. Né ci poterono ignorare coloro che, in quel giorno, fissarono lo sguardo nel mio volto... Io, più somigliante pel colore ad un morto che ad un vivente, ero pallido per lo stupore e per l’affanno. E all’elezione di me fatta, o meglio alla fattami violenza, finora, parlando con severità, ho riluttato quanto ho potuto. Ma già, voglia o no, sono costretto di confessare che i giudizi di Dio resistono ogni dì più ai miei sforzi, talché non vedo di poter scampare. Per lo che, vinto dalla violenza non tanto degli uomini, quanto di Dio contro la quale non v’ha accortezza, capisco non rimanermi altro partito, che, dopo aver pregato quanto ho potuto ed essermi adoperato affinché questo calice, ove fosse possibile, passasse da me senza che lo bevessi, posponendo il mio sentimento e la mia volontà, mi rimetta interamente al consiglio ed alla volontà di Dio".

Né per verità a questa Nostra riluttanza mancavano ragioni in gran numero e di sommo peso. Imperciocché, oltre allo stimarCi del tutto indegni dell’onore del Pontificato per la Nostra pochezza; chi non sarebbe stato commosso nel vedersi designato a succedere a Colui, che avendo, pressoché per ventisei anni, retta la Chiesa con somma sapienza, di tanta sublimità di mente, di tanto lustro di ogni virtù si mostrò adorno, da trarre in ammirazione di sé pur gli avversari e lasciar memoria di se stesso in imprese preclarissime? — Per tacere poi di ogni altro motivo, Ci atterrivano, sopra ogni altra cosa, le funestissime condizioni, in che ora versa l’umano consorzio. Giacché chi non iscorge che la società umana, più che nelle passate età, trovasi ora in preda ad un malessere gravissimo e profondo, che, crescendo ogni dì più e corrodendola insino all’intimo, la trae alla rovina? Voi comprendete, o Venerabili Fratelli, quale sia questo morbo: l’apostasia di Dio, di cui invero è più congiunto collo sfacelo, stante la parola del profeta: "Ecco che coloro i quali da te si dilungano, periranno" (Psal. LXXII, 26). Vedevamo pertanto che, in forza del Pontifical Ministero che Ci si voleva affidato, era per Noi doveroso accorrere a rimedio di tanto male, stimando come vòlto a Noi quel comando divino: "Io ti ho oggi costituito sulle genti e sui regni affinché svella e distrugga, ed edifichi e pianti" (Ier. I, 10). Ma, consapevoli della Nostra fiacchezza, rifuggivamo spaventati da un còmpito quanto urgente altrettanto difficilissimo.

Pure, poiché al voler divino piacque di sollevar la Nostra bassezza a tanta sublimità di potere, pigliamo coraggio in Colui che Ci conforta; e ponendoCi all’opera, appoggiati nella virtù di Dio, proclamiamo di non avere, nel Supremo Pontificato, altro programma, se non questo appunto di "ristorare ogni cosa in Cristo" (Eph. I, 10) cotalché sia "tutto e in tutti Cristo" (Coloss. III, 11).

Non mancheranno di sicuro coloro i quali, misurando alla stregua umana le cose divine, cercheranno di scrutare quali siano le secrete mire del Nostro animo, torcendole a scopo terreno ed a studi di parte. A recidere ogni vana lusinga, diciamo a costoro che Noi altro non vogliamo essere, né col divino aiuto altro saremo dinanzi alla società umana, se non il Ministro di Dio, della cui autorità siamo depositarî. Gli interessi di Dio saranno gli stessi Nostri; pei quali siamo risoluti di tutte spendere le Nostre forze e la vita stessa. Per lo che, se alcuno da Noi richiede una parola d’ordine, che sia espressione della Nostra volontà, questa sempre daremo e non altra: "Restaurare ogni cosa in Cristo".

Nella quale magnifica impresa C’infonde somma alacrità, o Venerabili Fratelli, la certezza che vi avremo tutti cooperatori generosi.

Del che se dubitassimo, dovremmo, ingiustamente, ritenervi o inconsci o noncuranti di quella guerra sacrilega che ora, può darsi in ogni luogo, si muove e si mantiene contro Dio. Giacché veramente contro il proprio Creatore "fremettero le genti e i popoli meditarono cose vane" (Psal. II, 1), talché è comune il grido dei nemici di Dio: "Allontanati da noi" (Iob. XXI, 14). E conforme a ciò, vediamo nei più degli uomini estinto ogni rispetto verso Iddio Eterno, senza più riguardo al suo supremo volere nelle manifestazioni della vita privata e pubblica; che anzi, con ogni sforzo, con ogni artifizio si cerca che fin la memoria di Dio e la Sua conoscenza sia del tutto distrutta. Chi tutto questo considera, bene ha ragione di temere che siffatta perversità di menti sia quasi un saggio e forse il cominciamento dei mali, che agli estremi tempi son riservati; che già sia nel mondo il figlio di perdizione, di cui parla l’Apostolo (II Thess. II, 5). Tanta infatti è l’audacia e l’ira con cui si perseguita dappertutto la religione, si combattono i dogmi della fede e si adopera sfrontatamente a sterpare, ad annientare ogni rapporto dell’uomo colla Divinità! In quella vece, ciò che appunto, secondo il dire del medesimo Apostolo (Sap. XI, 24), è il carattere proprio dell’anticristo, l’uomo stesso, con infinita temerità si e posto in luogo di Dio, sollevandosi soprattutto contro ciò che chiamasi Iddio; per modo che, quantunque non possa spegnere interamente in se stesso ogni notizia di Dio, pure, manomessa la maestà di Lui, ha fatto dell’universo quasi un tempio a sé medesimo per esservi adorato: "Si asside nel tempio di Dio mostrandosi quasi fosse Dio" (II Thess. II, 2).

Per verità nessuno di sana mente può dubitare con qual sorte si combatta questa lotta degli uomini contro l’Altissimo. Può l’uomo, abusando della sua libertà, violare il diritto e la maestà del Creatore dell’universo; ma la vittoria sarà sempre di Dio; ché, anzi, allora è più prossima la disfatta, quando l’uomo, nella lusinga del trionfo, si solleva più audace: Dio stesso di tanto ci assicura nei santi libri: "Quasi dimentico della sua forza e della sua grandezza, dissimula i peccati degli uomini (Sap. XI, 24); ma ben tosto, dopo queste apparenti ritirate, scosso quasi fosse risorto dall’ebbrezza (Psal. LXXVII, 65), stritolerà il capo dei suoi nemici (Ib. LXVII, 22); affinché tutti conoscano che Dio è il Re di tutta la terra (Ib. XLVI, 7), e sappiano le genti che son uomini" (Ib. IX, 20).

Tutto questo, Venerabili Fratelli, Noi crediamo ed aspettiamo con fede incrollabile. Ma ciò non toglie che ancor Noi, per quanto a ciascuno è dato, Ci adoperiamo ad affrettare l’opera di Dio non gia solo pregando assiduamente: "Levati, o Signore, non prenda ardire l’uomo" (Ib. IX, 19); ma, ciò che più monta, affermando "con fatti e parole, a luce di sole, il supremo dominio di Dio sugli uomini e sulle cose tutte, di guisa che il diritto ch’Egli ha di comandare e la Sua autorità siano pienamente apprezzati e rispettati".

Il che, non solo ci vien richiesto dal dovere che natura ci impone, ma altresì dal comune nostro vantaggio. Chi è infatti, Venerabili Fratelli, che non abbia l’animo costernato ed afflitto nel vedere la maggior parte dell’umanità, mentre i progressi della civiltà meritamente si esaltano, combattersi a vicenda cosi atrocemente da sembrar quasi una lotta di tutti contro tutti? Il desiderio della pace si cela certamente in petto ad ognuno e niuno è che non l’invochi con ardore. Ma voler pace, senza Dio, è assurdo; stanteché donde è lontano Iddio, esula pur la giustizia; e tolta di mezzo la giustizia, indarno si nutre speranza di pace. "La pace è opera della giustizia" (Is. XXXII, 17). Non pochi sono, lo sappiamo bene, che, spinti da questa brama di pace, cioè dalla tranquillità dell’ordine, si raggruppano in società e partiti, che chiamano appunto partiti d’ordine. Speranza e fatiche perdute! Il partito dell’ordine, che possa di fatti ricondurre la pace nella turbazione delle cose non è che un solo: il partito di Dio. Questo partito dunque dobbiamo promuovere, a questo attirare quanti più possiamo, se veramente ci spinge amore di pace.

Se non che, Venerabili Fratelli, questo richiamo degli uomini alla maestà ed all’impero di Dio, per quanto ci adoperiamo, mai non si otterrà se non per mezzo di Gesù Cristo. "Niuno, così ce ne avverte l’Apostolo, può porre altro fondamento all’infuori di quello che è stato posto, che è Gesù Cristo" (I Cor. III, 11). È Cristo il solo, "che il Padre santificò e spedì in questo mondo (Ioan. X, 36), splendore del Padre ed immagine della sua sostanza (Hebr. I, 3), Dio vero e vero Uomo; senza del quale veruno può conoscere Iddio, come si conviene a salute", imperciocché "né il Padre conobbe alcuno se non il Figlio e quegli cui volle il Figlio rivelarlo (Matth. XI, 27). Dal che consegue, che instaurare le cose tutte in Cristo e ricondurre gli uomini alla soggezione a Dio è uno stesso ed identico scopo. Qua pertanto fa mestieri volgere le nostre cure a ricondurre l’uman genere sotto l’impero di Cristo; con ciò solo, lo avremo ricondotto anche a Dio. A Dio intendiamo, non già a quello inerte e noncurante delle cose umane che immaginarono i sogni dei materialisti; ma Dio vivo e vero, Uno nella natura, Trino nelle persone, Creatore del mondo, sapientissimo ordinatore di ogni cosa, legislatore giustissimo, che punisce i malvagi e ha pronto il premio per la virtù.

Ora quale sia il cammino per giungere a Cristo, non è d’uopo di ricercarlo: è la Chiesa. Per lo che giustamente il Grisostomo inculcò: "La tua speranza è la Chiesa, la tua salute è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa". E per ciò infatti Cristo la fondò, guadagnandola a prezzo del sangue Suo; e la fece depositaria della Sua dottrina e delle Sue leggi, dandole insieme una ricchezza smisurata di grazie per santificazione e salute degli uomini.

Scorgete adunque, o Venerabili Fratelli, quale sia in fine il dovere che a Noi parimenti ed a voi venne imposto: richiamare alla disciplina della Chiesa il consorzio umano allontanatosi dalla sapienza di Cristo; la Chiesa, a sua volta, lo sottometterà a Cristo e Cristo a Dio. Il che se, per benignità di Dio medesimo, Noi meneremo a buon termine, saremo lieti di vedere il male dar luogo al bene; e udremo, per nostra felicità, una gran voce dal cielo che dirà: "Ora si è fatta la salute e la virtù e il regno del nostro Dio e la potestà del suo Cristo" (Apoc. XII, 10). Perché però tutto questo si ottenga conforme al desiderio, fa d’uopo che con ogni mezzo e fatica Noi facciamo sparir radicalmente l’enorme e detestabile scelleratezza, tutta proprietà del nostro tempo, la sostituzione cioè dell’uomo a Dio; dopo ciò, sono da rimettere nell’antico onore le leggi santissime ed i consigli del Vangelo: affermare altamente le verità insegnate dalla Chiesa e la dottrina della stessa circa la santità del matrimonio, l’educazione e l’ammaestramento della gioventù, il possesso e l’uso dei beni, i doveri verso coloro che reggono le cose pubbliche; per ultimo, restituire l’equilibrio fra le diverse classi della Società a norma delle prescrizioni e costumanze cristiane. Noi per fermo, nel sottometterCi ai divin voleri, tanto Ci proponiamo di cercare nel Nostro Pontificato, e con ogni industria lo cercheremo. A voi, o Venerabili Fratelli, si spetta di assecondare le Nostre industrie colla santità, colla scienza, coll’esperienza vostra, e soprattutto collo zelo della divina gloria; null’altro avendo di mira se non che si formi Cristo in ognuno.

Quali mezzi poi sia mestieri di adoperare per conseguire si grande scopo, sembra superfluo indicano; giacché son ovvî di per se stessi. Le prime vostre premure siano di formar Cristo in coloro i quali, per dovere di vocazione, son destinati a formarlo negli altri. Intendiamo parlare dei sacerdoti, o Venerabili Fratelli. Imperocché quanti sono insigniti del sacerdozio debbono conoscere che, in mezzo ai popoli coi quali vivono, essi hanno quella missione medesima, che Paolo attestava di aver ricevuto con quelle tenere parole: "Figlioletti miei, che io genero di nuovo finché si formi Cristo in voi" (Gal. IV, 19). Or come potranno eglino adempiere un tal dovere, se prima essi medesimi non si siano rivestiti di Cristo? E rivestiti in guisa, da poter dire coll’Apostolo: "Vivo io, non più io, ma vive in me Cristo (Ib. II, 20). Per me il vivere è Cristo" (Phil. I, 21). Per la qual cosa, benché a tutti sia rivolta l’esortazione di inoltrarsi verso l’uomo perfetto, nella misura dell’età della pienezza di Cristo (Eph. IV, 13); nondimeno è diretta pria d’ogni altro a coloro che esercitano il ministero sacerdotale; i quali perciò son chiamati un altro Cristo, non già solo per la comunicazione della potestà, ma eziandio per la imitazione delle opere, per cui debbono portare espressa in se medesimi l’immagine di Cristo.

Le quali cose essendo cosi, quale, o Venerabili Fratelli, e quanto grande sollecitudine deve porsi da voi nel formare il clero a santità! Qualsivoglia altro impegno uopo è che ceda a questo. Ond’è che la parte precipua delle vostre diligenze deve essere rivolta ad ordinare e governare come conviensi i vostri seminari, per modo che fioriscano del pari per l’integrità dell’insegnamento e per l’intemeratezza dei costumi. Riguardate il seminario come la delizia del vostro cuore; ed a vantaggio di esso nulla omettete di quanto il Concilio Tridentino determinò con somma provvidenza. Venuto poi il tempo in che i giovani candidati debbono promuoversi ai sacri Ordini, deh! non si dimentichi ciò che San Paolo scrive a Timoteo: "Non imporre con precipitazione le mani a veruno (I Tim. V, 22), riflettendo con somma attenzione che tali di via ordinaria saranno i fedeli, quali saranno quei che chiamerete al sacerdozio". Non vogliate adunque aver riguardo a interesse particolare di sorta; ma mirate unicamente Dio e la Chiesa e l’eterno bene delle anime, affinché, come l’Apostolo avverte, "non comunichiate nei peccati altrui". Inoltre non vengan meno le vostre industrie riguardo ai sacerdoti novelli e già usciti di seminario. Ve lo raccomandiamo dall’intimo dell’animo, accostateli sovente al vostro petto, che deve ardere di fuoco Celeste, accendeteli, infiammateli, perché ad altro non anelino che solamente a Dio ed a lucrare le anime. Noi, sì, Venerabili Fratelli, vigileremo con diligenza somma acciocché i membri del clero non siano tratti alle insidie di una certa nuova scienza e fallace, che in Cristo non s’insapora, e che con larvati e subdoli argomenti si studia di dar passo agli errori del razionalismo e semi-razionalismo; contro i quali l’Apostolo già avvertiva il suo Timoteo di premunirsi scrivendogli: "Custodisci il deposito, evitando le profane novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome, che taluni promettendo vennero meno della fede" (I Tim. VI, 20).

Ciò però non toglie che riputiamo degni di encomio quei giovani sacerdoti che si dànno allo studio di utili dottrine, in ogni genere di scienze, per poter quindi esser meglio apparecchiati a difendere la verità e a ribattere le calunnie dei nemici della fede. Pur nondimeno non possiamo nascondere, ma dichiariamo anzi apertissimamente, che le preferenze Nostre sono e saranno sempre per quelli, i quali, pur coltivando l’ecclesiastica e letteraria erudizione, si dedicano più da vicino al bene delle anime coll’esercizio di quei ministeri, che son propri d’un sacerdote zelante dell’onore divino. È grande tristezza ed un continuo dolore per il Nostro cuore (Rom. IX, 2) il ravvisare adattarsi pure ai nostri giorni il pianto di Geremia: "I pargoli domandarono pane, e non era chi loro lo spezzasse (Ier. IV, 4). Imperocché non mancano nel clero quei che, a seconda del proprio genio, si consacrano ad opere più apparenti che di solida utilità: ma forse non altrettanto numerosi sono coloro che, ad esempio di Cristo, prendono per sé le parole del Profeta: "Lo Spirito del Signore mi ha unto, mi ha mandato ad evangelizzare i poveri, a sanare i contriti di cuore, ad annunziare ai prigionieri la remissione e la vista ai ciechi" (Luc. IV, 18-19).

Pur chi non vede, o Venerabili Fratelli, che, conducendosi gli uomini colla ragione e colla libertà, la via principalissima a restituire l’impero di Dio nelle anime è l’insegnamento religioso? Quanti sono mai, che nimicano Cristo ed aborrono la Chiesa ed il Vangelo più per ignoranza che per malvagità di animo! Dei quali giustamente può dirsi: "Bestemmiano tutto quello che ignorano" (Iud. 10). Né ciò s’incontra solo nel popolo e nella plebe più abbietta, che perciò è tratta agevolmente in inganno; ma altresì nelle classi civili e perfino in quei che peraltro sono forniti di non mediocre istruzione. Di qui in moltissimi la perdita della fede. Giacché non è vero che i progressi della scienza estinguano la fede, ma piuttosto l’ignoranza; onde avviene che dove più domina l’ignoranza ivi fa più larga strage l’incredulità. E questa è la ragione per cui Cristo ordinò agli Apostoli: "Andando, ammaestrate tutte le genti" (Matth. XXVIII, 19).

Perché, però, da questo apostolato e zelo d’insegnamento si raccolga il frutto sperato ed in tutti si formi Cristo, si rammenti bene ognuno, o Venerabili Fratelli, che nulla è più efficace della carità. Imperocché il Signore trovasi nella commozione (III Reg. XIX, 11). Indarno si spera di attirare le anime a Dio con uno zelo amaro: che anzi il rinfacciare duramente gli errori, il riprendere con asprezza i vizi, torna sovente più a danno che ad utilità. Esortava, è vero, l’Apostolo a Timoteo: "Accusa, prega, riprendi"; ma soggiungeva pure: "con ogni pazienza" (II Tim. IV, 2). Certo Gesù cotali esempi ci ha lasciato. "Venite — così troviamo aver Egli detto — venite a me tutti voi che siete infermi ed oppressi, ed io vi consolerò" (Matth. XI, 28). Né altri intendeva per quegli infermi ed oppressi, se non coloro che sono schiavi del peccato e dell’errore. Quanta invero fu la mansuetudine di quel Maestro divino! Quale tenerezza, qual compassione verso ogni fatta di miseri! Ne dipinse stupendamente il cuore Isaia con quelle sue parole: "Porrò sopra di lui il mio spirito; non contenderà né leverà la voce; non ispessirà la canna già scossa né estinguerà il lino che fumiga" (Is. XLII, 1). La quale carità, paziente e benigna (I Cor. XIII, 4), dovrà protendersi a quelli eziandio che ci sono avversi e ci perseguitano. "Siamo maledetti — così San Paolo di sé protestava — e benediciamo, siamo perseguitati e tolleriamo, siamo bestemmiati e preghiamo" (Ibid. IV, 12). Essi forse appaiono peggiori di quel che veramente sono.

La convivenza con gli altri, i pregiudizi, gli altrui consigli ed esempi e finalmente una vergogna mal consigliata li hanno trascinati nel partito degli empi: ma la loro volontà non è poi si depravata, come essi stessi cercano di far credere. Chi ci toglierà di sperare che la fiamma della carità cristiana non abbia a dissipar le tenebre dai loro animi e ad apportarvi il lume e la pace di Dio? Tarderà forse talora il frutto delle nostre fatiche; ma la carità non si stanca mai nell’attendere, memore che Dio prepara i suoi premi non già all’esito delle fatiche ma alla buona volontà.

Vero è, o Venerabili Fratelli, che in questa opera così ardua di restaurazione dell’uman genere in Cristo non è Nostra intenzione che né voi né il vostro clero non ammettiate aiuto di sorta. Sappiamo che Dio raccomandò a ciascuno la cura de’ suoi prossimi (Eccl. XVII, 12). Non sono pertanto i sacerdoti solamente, ma i fedeli tutti senza eccezione, che debbono darsi pensiero degli interessi di Dio e delle anime: bene inteso, non già di proprio arbitrio e colle proprie viste, ma sempre sotto la direzione ed il comando dei Vescovi; giacché il presiedere, l’insegnare, il governare a niuno è concesso nella Chiesa fuorché a voi, che lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). I Nostri Predecessori, già da gran tempo, approvarono e benedissero i cattolici che, con vario scopo ma sempre con religiosi intendimenti, si legano fra sé in società. Noi pure non dubitiamo di tributare la nostra lode a tali egregie istituzioni, e molto desideriamo che si propaghino e fioriscano nelle città e nelle campagne. Se non che vogliamo che siffatte associazioni tendano innanzi tutto e principalmente a far sì che il vivere cristiano si mantenga costantemente in coloro che vi si ascrivono. Poco monta in verità che si discutano sottilmente assai questioni, che si discorra con facondia di diritti e di doveri, se tutto ciò sia disgiunto dalla pratica. I tempi che corrono richiedono azione; ma un’azione che tutta consista nell’osservare con fedeltà ed interezza le leggi divine e le prescrizioni della Chiesa, nella professione franca ed aperta della religione, nell’esercizio d’ogni opera di carità, senza verun riguardo a se stessi ed a vantaggi terreni. Tali luminosi esempi di tanti soldati di Cristo varranno assai meglio a scuotere gli animi e a trascinarli, che non le parole e le sublimi dissertazioni; e facilmente avverrà che, scosso l’umano rispetto, deposte le prevenzioni e le titubanze, moltissimi saranno tratti a Cristo facendosi a loro volta promotori della conoscenza e dell’amore di Lui che sono la strada per la vera e la sola felicità. Oh! senza dubbio, se in ogni città, se in ogni villaggio si adempierà fedelmente la legge del Signore, se si avrà rispetto alle cose sacre, se si frequenteranno i Sacramenti, se si osserverà quanto altro appartiene al vivere cristiano; non sarà per Noi mestieri, o Venerabili Fratelli, che più oltre Ci affatichiamo per vedere ogni cosa ristaurata in Cristo. Né da ciò si aspetti solo giovamento per l’acquisto dei beni terreni; se ne otterrà altresì aiuto grandissimo pei vantaggi del tempo e della umana convivenza. Poste infatti in sicuro le cose anzidette, i nobili e i ricchi sapranno essere giusti e caritatevoli a riguardo degli umili, e questi porteranno con tranquillità e pazienza le strettezze di uno stato più angustioso; obbediranno i cittadini non già al libito ma alle leggi; si guarderà qual dovere la riverenza e l’amore verso dei governanti, "la cui potestà non viene se non da Dio" (Rom. XIII, 1). Che più? Allora finalmente sarà chiaro ad ognuno che la Chiesa, quale da Cristo fu istituita, deve godere piena ed intera libertà ed indipendenza da ogni estraneo dominio e che noi, nel rivendicare questa libertà, non solo tuteliamo i diritti sacrosanti della religione, ma provvediamo eziandio al comun bene ed alla sicurezza dei popoli. Sta di fatto che "la pietà è utile ad ogni cosa" (I Tim. IV, 8) e ad essa incolume e fiorente "riderà", davvero, "il popolo nella pienezza della pace" (Is. XXXII, 18).

Dio, che è ricco in misericordia (Eph. II, 4), acceleri benigno questa restaurazione dell’uman genere in Gesù Cristo; giacché "non è opera di chi vuole né di chi corre, ma di Dio misericordioso" (Rom. IX, 16). E noi, Venerabili Fratelli, "nello spirito di umiltà" (Dan. III, 39), con preghiera continua ed insistente chiediamolo per i meriti di Gesù Cristo. Volgiamoci altresì alla intercessione potentissima della Madre divina per ottener la quale, giacché vi dirigiamo questa Nostra Lettera nel giorno appunto destinato a commemorare il Santo Rosario, disponiamo e confermiamo quanto il Nostro Predecessore ordinò circa il dedicare il presente mese alla Vergine Augusta, colla pubblica recita, in tutte le Chiese, dello stesso Rosario; ammonendo inoltre che si adoprino pure ad intercessori presso Dio lo Sposo purissimo di Maria patrona della Chiesa e i Santi Principi degli Apostoli Pietro e Paolo.

E perché tutto questo avvenga conforme alle Nostre brame ed ogni cosa a voi succeda prosperosamente, imploriamo larghissimi su di voi i doni delle grazie divine. A testimonianza poi della tenerissima carità, con cui abbracciamo voi e i fedeli tutti, che la Divina Provvidenza Ci volle raccomandati, a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al vostro popolo impartiamo con ogni affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 4 di ottobre 1903, l’anno I del Nostro Pontificato.


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