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Leone XIII
Au milieu
In mezzo alla sollecitudine della Chiesa universale, ben sovente, nel corso del Nostro Pontificato, Ci piacque attestare la Nostra affezione per la Francia e pel suo nobile popolo. E abbiamo voluto, con una delle Nostre Encicliche, ancor presente alla memoria di tutti, esprimere solennemente a tal riguardo tutto il fondo dell’animo Nostro. Fu precisamente questa affezione che incessantemente Ci tenne attenti a seguire collo sguardo e poi a ripensare in Noi stessi il complesso dei fatti, ora tristi, ora consolanti, che da parecchi anni si sono svolti fra voi.
E penetrando a fondo, anche presentemente, la portata della vasta congiura che alcuni uomini hanno ordita per annientare in Francia il Cristianesimo, e l’animosità che mettono a raggiungere il compimento del loro disegno calpestando le più elementari nozioni di libertà e di giustizia riguardo al sentimento della maggioranza della nazione ed al rispetto dovuto agli inalienabili diritti della Chiesa Cattolica, come non saremmo Noi compresi da un vivo dolore? E quando vediamo rivelarCisi, l’una dopo l’altra, le conseguenze funeste di questi colpevoli attentati che cospirano alla rovina dei costumi, della Religione ed eziandio degli interessi politici saggiamente compresi, come esprimere le amarezze che Ci inondano e le apprensioni che Ci assediano?
D’altra parte Ci sentiamo grandemente consolati allorché vediamo questo stesso popolo francese raddoppiare, per la Santa Sede, d’affezione e di zelo, a misura che la vede più derelitta, dovremmo dire più combattuta sulla terra. A più riprese, mossi da un profondo sentimento di Religione e di vero patriottismo, i rappresentanti di tutte le classi sociali sono accorsi dalla Francia fino a Noi, lieti di sovvenire alle incessanti necessità della Chiesa, desiderosi di chiederCi lume e consiglio, per esser certi che frammezzo alle presenti tribolazioni essi per nulla si scosteranno dagli insegnamenti del Capo dei credenti. E Noi, reciprocamente, sia per iscritto, sia a viva voce, abbiamo apertamente detto ai figli Nostri ciò che essi avevano il diritto di domandare al loro Padre. E lungi dal portarli allo scoraggiamento li abbiamo fortemente esortati a raddoppiare d’amore e di sforzi nella difesa della Fede cattolica nel tempo stesso che della loro patria: due doveri di primo ordine, ai quali nessuno, in questa vita, può sottrarsi.
Ed anche ora Noi crediamo opportuno, anzi necessario, di alzare nuovamente la voce per esortare più instantemente, non diremo soltanto i Cattolici, ma tutti i Francesi onesti e sensati, a respingere da sé ogni germe di dissensi politici, alfine di consacrare unicamente le loro forze alla pacificazione della loro patria. Di questa pacificazione tutti comprendono l’alto pregio, tutti ognora più l’affrettano coi loro voti. E Noi che la desideriamo più di tutti, poiché rappresentiamo sulla terra il Dio della pace: "Non è infatti Dio di discordia, ma di pace" (I Cor. XIV, 53), invitiamo colle presenti Lettere le anime rette, i cuori generosi a secondarsi per renderla stabile e feconda.
Anzitutto prendiamo qual punto di partenza una verità notoria, ammessa da tutti gli uomini di buon senso ed altamente proclamata dalla storia di tutti i popoli, cioè che la Religione, e la Religione soltanto, può creare il vincolo sociale; che essa sola basta a mantenere su solide basi la pace di una nazione. Quando diverse famiglie, senza rinunciare ai diritti e ai doveri della società domestica, si uniscono, sotto l’inspirazione della natura, per costituirsi membri di un’altra famiglia più vasta, chiamata la società civile, il loro scopo non è soltanto quello di trovarvi il mezzo di provvedere al loro benessere materiale, ma soprattutto di attingervi il beneficio del loro perfezionamento morale. In caso contrario la società si eleverebbe poco al di sopra di una aggregazione di esseri senza ragione, la cui vita intera consiste nella soddisfazione degli istinti sessuali. Vi ha di più: senza questo perfezionamento morale difficilmente si dimostrerebbe che la società civile, lungi dal divenire per l’uomo, in quanto uomo, un vantaggio, non gli tornerebbe che a detrimento.
Ora la moralità, nell’uomo, pel fatto stesso che deve mettere d’accordo tanti diritti e tanti doveri dissimili, poiché entra come elemento in ogni atto umano, suppone necessariamente Dio e con Dio la Religione, questo sacro legame il cui privilegio è di unire anteriormente ad ogni altro vincolo, l’uomo a Dio. Infatti l’idea di moralità importa anzitutto un ordine di dipendenza a riguardo del bene che è la fine della volontà; senza il vero, senza il bene non vi è morale degna di questo nome.
E qual è dunque la verità principale ed essenziale, quella da cui ogni verità deriva? È Dio. Qual è dunque ancora la bontà suprema da cui ogni altro bene procede? È Dio. Qual è infine il creatore ed il conservatore della nostra ragione, della nostra volontà, di tutto il nostro essere, come è il fine della nostra vita? Sempre Dio. Poiché dunque la Religione è l’espressione interna ed esteriore di questa dipendenza che dobbiamo a Dio a titolo di giustizia, ne emerge una grave conseguenza che si impone: tutti i cittadini sono tenuti ad allearsi per mantenere alla nazione il sentimento religioso vero, e per difenderlo al bisogno, se mai una scuola atea, in dispetto delle proteste della natura e della storia, si sforzasse di cacciar Dio dalla società, sicura con ciò di annientare tosto il senso morale al fondo stesso della coscienza umana. Su questo punto, tra uomini che non hanno perduto la nozione dell’onestà, nessun dissidio è possibile.
Nei cattolici Francesi il sentimento religioso deve essere ancor più profondo e più universale, poiché hanno la fortuna di appartenere alla vera Religione. Se, infatti, le credenze religiose furono, sempre e dappertutto, date come base alla moralità delle azioni umane ed all’esistenza di ogni società ben ordinata, egli è evidente che la Religione Cattolica, pel fatto stesso che è la vera Chiesa di Gesù Cristo, possiede più che ogni altra l’efficacia voluta per ben regolare la vita nella società come nell’individuo. Ne occorre egli uno splendido esempio? La Francia stessa lo dà. A misura che progrediva nella Fede cristiana, la si vedeva salire gradatamente a quella grandezza morale che raggiunse con potenza politica e militare.
Gli è che alla generosità naturale del suo cuore, la carità cristiana era venuta ad aggiungere un’abbondante sorgente di nuove energie; gli è che la sua attività meravigliosa aveva incontrato, come sprone e al tempo stesso luce direttiva e garanzia di costanza, quella Fede cristiana che per mano della Francia, tracciò negli annali del genere umano pagine cotanto gloriose. E anche adesso la sua Fede non continua forse ad aggiungere alle glorie passate, glorie novelle? La si vede, inesauribile di genio e di mezzi, moltiplicare sul proprio suolo le opere di carità; la si ammira partire per Paesi lontani ove col suo oro, coi sudori dei suoi missionari, a prezzo perfino del loro sangue, essa propaga d’un colpo stesso la rinomanza della Francia ed i benefici della Religione Cattolica. Niun francese oserebbe, qualunque siano d’altronde le sue convinzioni, rinunciare a tali glorie: sarebbe rinnegare la patria.
Ora la storia d’un popolo rivela in modo incontestabile quale è l’elemento generatore e conservatore della sua grandezza morale. Ond’è che venendo questo elemento a mancargli, né la sovrabbondanza dell’oro, né la forza delle armi potrebbero salvarlo dalla decadenza morale, forse dalla morte. Chi non comprende ora che per tutti i Francesi professanti la Religione Cattolica, suprema sollecitudine deve essere di assicurarne la conservazione; e ciò con tanto maggior attaccamento quanto più frammezzo a essi il Cristianesimo è fatto segno, per parte delle sette, alle più implacabili ostilità? Su questo terreno essi non possono permettersi né indolenza nell’azione, né divisione di partiti: l’una accuserebbe una viltà indegna del Cristiano, l’altra sarebbe la causa di una debolezza disastrosa.
E qui, prima di andar più lungi, Ci occorre segnalare una calunnia astutamente sparsa per accreditare contro i Cattolici e contro la Santa Sede stessa, imputazioni odiose. Si pretende che l’accordo e il vigore d’azione inculcati ai Cattolici per la difesa della loro Fede, hanno per segreto movente ben meno la salvaguardia degli interessi religiosi che l’ambizione di procurare alla Chiesa una dominazione politica sullo Stato. — Veramente è voler risuscitare una calunnia ben antica, poiché la sua invenzione appartiene ai primi nemici del Cristianesimo. Non venne forse essa formulata dapprincipio contro la persona adorabile del Redentore? Sì, veniva accusato di agire per mire politiche, quando Egli illuminava le anime colla Sua predicazione ed alleviava le sofferenze corporali o spirituali degli infelici coi tesori della Sua divina bontà. "Noi abbiamo trovato quest’uomo che si adoperava a sconvolgere il nostro popolo, proibendo di pagare il tributo a Cesare ed intitolandosi Cristo re. Se tu gli rendi la libertà, tu non sei amico di Cesare: perché chiunque si pretende re, fa opposizione a Cesare... Cesare è per noi il solo re" (Hunc invenimus subvertentem gentem nostram, et prohibentem tributa dare Cæsari et dicentem se Christum regem esse. — Luc. XXIII, 2 —. Si hunc dimittis, non es amicus Cæsaris; omnis enim qui se regem facit contradicit Cæsari... Non habemus regem nisi Cæsarem — Joan. XIX, 12-15 — ).
Furono queste minacciose calunnie che strapparono a Pilato la sentenza di morte contro Colui che a più riprese egli aveva dichiarato innocente. E gli autori di queste menzogne, o d’altre di egual forza, nulla omisero per diffonderle lontano, per mezzo dei loro emissari, come San Giustino Martire rimproverava ai Giudei del suo tempo: "Lungi dal pentirvi, dopo che avete appresa la sua risurrezione dai morti, voi avete inviato da Gerusalemme uomini abilmente scelti per annunciare che una eresia ed una setta empia era stata suscitata da un certo seduttore, chiamato Gesù di Galilea" (Tantum abest, ut poenitentiam egeritis, Post quam Eum a mortuis resurrexisse accepistis, et etiam... eximiis delectis viris, in omnem terrarum orbem eos miseritis, qui renunciarent hæresim et sectam quamdam impiam et iniquam excitatam esse a Jesu quodam galileo seductore. — Dialog. cum Triphone).
Col diffamare sì audacemente il Cristianesimo, i suoi nemici sapevano ciò che facevano: il loro disegno era di suscitare contro la sua propagazione un formidabile avversario, l’Impero romano. La calunnia fece la sua strada: e i pagani, nella loro credulità, andavano a gara qualificando i primi Cristiani come "esseri inutili, cittadini pericolosi, faziosi, nemici dell’Impero e degli imperatori" (Tertull. in Apolog.; — Minutius Felix, in Octavio).
Invano gli apologisti del Cristianesimo coi loro scritti, invano i Cristiani colla loro bella condotta si applicarono a dimostrare tutto ciò che avevano di assurdo e di reo quelle qualifiche: si sdegnava perfino di udirli. Il solo loro nome valeva una dichiarazione di guerra, e i Cristiani pel semplice fatto che erano Cristiani, non per altra causa, si vedevano forzatamente posti in questa alternativa: o l’apostasia o il martirio. Le stesse accuse e gli stessi rigori si rinnovellarono più o meno nei secoli successivi, ogni qualvolta si rinvennero governi sragionevolmente gelosi del loro potere e animati ad intenzioni malevole contro la Chiesa. Essi seppero ognora presentare al pubblico il pretesto delle supposte usurpazioni della Chiesa sullo Stato, per fornire allo Stato apparenze di diritto nelle sue persecuzioni e nelle sue violenze verso la Religione Cattolica.
Ci stette a cuore richiamare in brevi tratti questo passato, perché i Cattolici non si sgomentino del presente. La lotta in sostanza è sempre la stessa: sempre Gesù Cristo posto a bersaglio delle contraddizioni del mondo, sempre gli stessi mezzi posti in opera dai nemici moderni del Cristianesimo, mezzi in fondo antichissimi, appena modificati nella forma, ma sempre anche gli stessi mezzi di difesa chiaramente indicati ai Cristiani dei tempi presenti dai nostri apologisti, dai nostri dottori, dai nostri martiri. Ciò che essi hanno fatto, spetta a noi di farlo a nostra volta. Mettiamo dunque al di sopra di tutto la gloria di Dio e della sua Chiesa; lavoriamo per lei con un’applicazione costante ed effettiva e lasciamo la cura dell’esito a Gesù Cristo che ci dice: "Nel mondo voi sarete oppressi, ma abbiate f cucia, io ho vinto il mondo" (In mundo pressuram habebitis: sed confidite, ego vici mundum. — Joan. XVI, 33).
Per riuscire a ciò, già l’abbiamo accennato, è necessaria una grande unione, e se si vuole ottenerla è indispensabile bandire ogni preoccupazione capace di menomarne la forze e l’efficacia. Qui Noi principalmente intendiamo alludere alle divergenze politiche dei Francesi sulla condotta da tenere verso la Repubblica attuale: questione che desideriamo trattare colla chiarezza richiesta dalla gravità del soggetto, partendo dai principi e scendendo alle conseguenze pratiche.
Diversi governi politici si succedettero in Francia nel corso di questo secolo e ciascuno colla sua forma distintiva: imperi, monarchie, repubbliche. Racchiudendosi nelle astrazioni si riuscirebbe a definire qual è la migliore di queste forme, considerate in se stesse: si può parimenti affermare in tutta verità che ciascuna di esse è buona, purché sappia procedere diritta al suo fine, cioè il bene comune pel quale è costituita l’autorità sociale; conviene aggiungere finalmente che, da un punto di vista relativo, tale o tal’altra forma di governo può essere preferibile, come quella che meglio si adatta al carattere ed ai costumi di tale o tal’altra nazione. In quest’ordine di idee speculative i Cattolici, come tutti i cittadini, hanno piena libertà di preferire una forma di governo all’altra, precisamente in virtù di ciò che nessuna di queste forme si oppone, per sé, né ai dati della sana ragione, né alle massime della dottrina cristiana. E ve ne è abbastanza per giustificare pienamente la sapienza della Chiesa, allorché nelle sue relazioni coi poteri politici, essa fa astrazione dalle forme che li differenziano per trattare con essi i grandi interessi religiosi dei popoli, sapendo che essa ha il dovere di prenderne la tutela al disopra di ogni altro interesse. Le Nostre precedenti Encicliche hanno già esposto questi principi; era tuttavia necessario di ricordarli per lo sviluppo dell’argomento che Ci occupa oggi.
Che se si discende dalle astrazioni sul terreno dei fatti, occorre prendersi guardia dal rinnegare i principi testé stabiliti; essi restano incrollabili. Soltanto, incarnandosi nei fatti, essi vi rivestono un carattere di contingenza determinato dall’ambiente in cui si produce la loro applicazione. In altre parole, se ciascuna forma politica è buona per sé e può essere applicata al governo dei popoli, nel fatto, però, non si incontra presso tutti i popoli il potere politico sotto una stessa forma; ciascuno possiede la sua propria. Questa forma nasce dall’assieme delle circostanze storiche o nazionali, ma sempre umane, che fanno sorgere in una nazione le sue leggi tradizionali ed anche fondamentali; e per mezzo di queste si trova determinata tal forma di governo, tal base di trasmissione dei poteri supremi.
Inutile il ricordare che tutti gli individui sono tenuti ad accettare questi governi e a nulla tentare per rovesciarli o per mutarne la forma. Egli è perciò che la Chiesa, custode della più vera e della più alta nozione sulla sovranità politica, poiché la fa derivare da Dio, ha sempre riprovato quelle dottrine e sempre condannato quegli uomini che si ribellano all’autorità legittima. E ciò fece nei tempi stessi in cui i depositari del potere ne abusavano contro di essa, privandosi così del più potente appoggio dato alla loro autorità e del mezzo più efficace per ottenere dal popolo l’obbedienza alle loro leggi. A questo proposito non potrebbero mai essere abbastanza meditate le celebri prescrizioni che il Principe degli Apostoli, frammezzo alle persecuzioni dava ai primi Cristiani: "Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al Re" (Omnes honorate, fraternitatem diligile, Deum timete, regem honorificate. — I Petr. II, 17). E quelle di San Paolo: "Io dunque vi scongiuro anzitutto: abbiate cura che si facciano fra voi i sacrifici, le orazioni, le istanze, i ringraziamenti per tutti gli uomini; per i re e per tutti coloro che sono elevati in dignità, affinché conduciamo una vita tranquilla in tutta pietà e castità, imperocché è cosa buona e gradita al cospetto di Dio nostro Salvatore" (Obsecro igitur primum omnium fieri obsecrationes, orationes, postulationes, gratiarum actiones, pro omnibus hominibus, pro regibus, et omnibus qui in sublimitate sunt, ut quietam et tranquillam vitam agamus, in omni pietate et castitate; hoc enim bonum est, et acceptum coram Salvatore nostro Deo. — I Tim. II, 1 e segg.).
Pure bisogna qui accuratamente notarlo: qualunque sia la forma dei poteri civili in una nazione, non si può considerarla come talmente definitiva che debba restare immutabile, fosse anche questa l’intenzione di coloro che in origine l’hanno determinata. — Solo la Chiesa di Gesù Cristo ha potuto conservare e conserverà sicuramente, fino alla consumazione dei secoli, la sua forma di governo. Fondata da Colui che "era", che "è" e che "sarà nei secoli" (Jesus Christus Peri, et hodie; ipse in specula. — Hebr. XIII, 8), essa ha ricevuto da Lui, fino dalla sua origine, tutto ciò che le occorre per compiere la sua missione divina attraverso il mobile oceano delle vicende umane. E lungi dall’aver bisogno di trasformare la sua costituzione essenziale, essa non ha neppure il potere di rinunciare alle condizioni di vera libertà e di sovrana indipendenza, di cui la Provvidenza l’ha munita nell’interesse generale delle anime. — Ma quanto alle società puramente umane è un fatto scolpito cento volte nella storia che il tempo, questo grande trasformatore di tutto quaggiù, opera nelle loro istituzioni politiche profondi mutamenti. Talvolta si limita a modificare qualche cosa alla forma di governo stabilita; altre volte giunge fino a sostituire alle ferine primitive altre forme totalmente differenti, senza eccettuarne il modo di trasmissione del potere sovrano.
E come vengono a prodursi questi mutamenti politici, di cui parliamo? Succedono talora a crisi violente, troppo spesso sanguinose, in mezzo a cui i governi preesistenti spariscono di fatto: ecco l’anarchia che domina; ben tosto l’ordine pubblico è sconvolto fin dalle fondamenta. Allora una necessità sociale s’impone alla nazione; essa deve, senza indugio, provvedere a se stessa. Come mai non avrebbe essa il diritto, anzi più, il dovere di difendersi contro uno stato di cose che la turba sì profondamente, e di ristabilire la pace pubblica nella tranquillità dell’ordine? Ora questa necessità sociale giustifica la creazione e l’esistenza dei nuovi governi, qualunque forma assumano; poiché nell’ipotesi, di cui discorriamo, questi nuovi governi sono necessariamente richiesti dall’ordine pubblico, ogni ordine pubblico essendo impossibile senza un governo.
Da ciò segue, che, in siffatte circostanze, tutta la novità si riduce alla forma politica dei poteri civili, o al loro modo di trasmissione; essa non tocca per nulla il potere considerato in se stesso. Questo continua ad essere immutabile e degno di rispetto; perocché, riguardato nella sua natura, è costituito e s’impone per provvedere al bene comune, scopo supremo onde ha origine la Società umana.
In altri termini, per qualunque ipotesi, il potere civile, considerato come tale, è da Dio, e sempre da Dio, "giacché non vi ha potere se non da Dio" (Non est enim potestas nisi a Deo. — Rom. XIII, 1).
Per conseguenza, quando i nuovi governi che rappresentano questo immutabile potere sono costituiti, l’accettarli non solamente è permesso, ma è richiesto, anzi imposto dalla necessità del bene sociale che li ha fatti e li mantiene. Tanto più che la insurrezione attizza l’odio fra i cittadini, provoca le guerre civili, e può gettare la nazione nel caos dell’anarchia. E questo grande dovere di rispetto e d’indipendenza continuerà, finché le esigenze del bene comune lo richiederanno, poiché questo bene è dopo Dio, nella Società, la legge prima ed ultima.
Quindi si spiega da se stessa la sapienza della Chiesa nel mantenimento delle sue relazioni coi numerosi governi che si succedettero in Francia in meno di un secolo, né mai senza produrre scosse violente e profonde. Un tal contegno è la più sicura e salutare linea di condotta per tutti i Francesi, nelle loro relazioni civili colla Repubblica, che è il governo attuale della loro nazione. Lungi da essi quei dissensi politici, che li dividono; tutti i loro sforzi debbono combinarsi per conservare o rialzare la grandezza morale della loro patria.
Ma si presenta una difficoltà: — "Questa Repubblica, osservasi, è animata da sentimenti così anticristiani, che gli uomini onesti, e molto più i Cattolici non potrebbero coscienziosamente accettarla". — Ecco soprattutto ciò che ha dato origine ai dissensi e li ha aggravati. — Si sarebbero evitate queste rincrescevoli divergenze, se si fosse saputo tener conto accuratamente della distinzione notevolissima che vi ha tra poteri costituiti e legislazione. La legislazione differisce a tal punto dai poteri politici e dalla loro forma, che sotto il regime la cui forma è più eccellente, la legislazione può essere detestabile, mentre all’opposto, sotto il regime di più imperfetta forma può incontrarsi una eccellente legislazione.
Sarebbe agevole cosa provare colla storia alla mano questa verità; ma a qual pro? Tutti ne sono convinti. E chi mai è in grado di saperlo meglio della Chiesa, che si adoperò a mantenere relazioni abituali con tutti i regimi politici? Al certo, più di qualunque altra potenza, essa saprebbe dire ciò che spesso le hanno arrecato di consolazioni e di dolori le leggi dei diversi governi che hanno successivamente retto i popoli, dall’impero romano fino a noi.
Se la distinzione or ora stabilita ha la sua massima importanza, ha eziandio la sua ragione manifesta; la legislazione è l’opera degli uomini investiti del potere, e che, di fatto, governano la nazione. Donde risulta che in pratica la qualità delle leggi dipende più dalla qualità degli uomini che dalla forma del potere. Queste leggi saranno dunque buone o cattive, secondo che i legislatori avranno la mente imbevuta di buoni o di cattivi principi, e si lasceranno dirigere o dalla prudenza politica o dalla passione.
Che in Francia, da parecchi anni, diversi atti importanti della legislazione siano stati ispirati da tendenze ostili alla Religione, e
quindi agli interessi della nazione, è cosa da tutti riconosciuta e purtroppo confermata dall’evidenza dei fatti. Noi stessi, obbedendo ad un dovere sacro, ne rivolgemmo lagnanze vivamente sentite a colui che trovavasi allora a capo della Repubblica. Queste tendenze tuttavia perdurarono con persistenza, il male si aggravò, e non è a stupire che i membri dell’Episcopato francese, posti dallo Spirito Santo a reggere le loro varie ed illustri Chiese, abbiano stimato, ancor di recente, stretto obbligo loro l’esprimere pubblicamente il loro dolore per la condizione fatta in Francia alla Chiesa Cattolica. Povera Francia! Dio solo può misurare l’abisso di mali in cui piomberebbe, se questa legislazione, lungi dal migliorarsi, s’ostinasse in un tal traviamento, che finirebbe per strappare dalla mente e dal cuore dei Francesi la Religione che li ha resi così grandi.
Ed ecco precisamente il terreno sul quale, messo da banda ogni dissenso politico, i buoni debbono unirsi come un sol uomo per combattere, con tutti i mezzi legali ed onesti, tali abusi progressivi della legislazione. Il rispetto che si deve ai poteri costituiti non potrebbe farvi ostacolo; ché esso non vuol significare né rispetto né molto meno obbedienza illimitata ad ogni qualsiasi disposizione legislativa decretata da quei poteri stessi. Non devesi dimenticare che la legge è una prescrizione ordinata secondo ragione e promulgata, pel bene della comunità, da coloro che hanno ricevuto a tale scopo il deposito del potere. In conseguenza non si possono mai approvare quei punti di legislazione, che siano ostili alla Religione e a Dio; v’è, al contrario, il dovere di riprovarli.
Ed è ciò appunto, che il grande Vescovo d’Ippona, Sant’Agostino, metteva in perfetta luce con questo ragionamento pieno di eloquenza: "Qualche volta le potenze della terra sono buone e temono Iddio; altre volte esse non lo temono. Giuliano era un imperatore infedele a Dio, un apostata, un perverso, un idolatra. I soldati cristiani servirono questo imperatore infedele. Ma appena trattavasi della causa di Gesù Cristo, più non conoscevano se non Colui che è nei Cieli. Giuliano loro intimava di onorare gli idoli ed incensarli, essi mettevano Dio al di sopra del Principe. Ma s’ei loro diceva: "Formate le schiere per marciare contro la tal nazione nemica", ecco che obbedivano all’istante. Essi distinguevano il Signore Eterno dal signore temporale, e tuttavia in riguardo all’Eterno Signore, ad un tal signore temporale si assoggettavano" (Aliquando... potestates bonæ sunt et timent Deum, aliquando non timent Deum. Julianus extitit infidelis imperator, extitit apostata iniquus, idolatra; milites christiani servierunt Imperatori infideli; ubi veniebatur ad causam Christi non agnoscebant nisi illum qui in coelis erat. Si quando volebat ut idolo colerent, ut thurificarent, præponebant illi Deum; et quando autem dicebat: Producite aciem, ite contra illam gentem, statim obtemperabant. Distinguebant Dominum æternum a domino temporali; et tamen, sudditi erant propter Dominum æternum, etiam domino temporali. — Enarrat. in Psalm. CXXIX, n. 7. fin.).
Ben lo sappiamo, l’ateo per un deplorevole abuso della sua ragione e più ancora della sua volontà, nega questi principi. Ma in fondo, l’ateismo è un errore così mostruoso che non potrà mai, sia detto ad onore dell’umanità, annientarvi la coscienza dei diritti di Dio per sostituirvi l’idolatria dello Stato.
I principi che debbono regolare la nostra condotta verso Dio e verso i governi umani essendo così definiti, nessun uomo imparziale potrà accusare i cattolici Francesi se, non risparmiando né fatiche né sacrifici, lavorano a conservare alla loro patria ciò che è per essa una condizione di salvezza, ciò che riassume tante tradizioni gloriose registrate dalla storia, e che ogni Francese ha il dovere di non dimenticare.
Prima di terminare la Nostra lettera, vogliamo toccare due altri punti fra loro connessi, e che, rannodandosi più da vicino agli interessi religiosi, hanno potuto suscitare qualche divisione fra i Cattolici.
Uno di essi è il Concordato, che, per tanti anni, ha facilitato in Francia l’armonia fra il governo della Chiesa e quello dello Stato. Sul mantenimento di questo patto solenne e bilaterale, sempre fedelmente osservato da parte della Santa Sede, gli avversari della religione cattolica non si accordano essi stessi fra loro. — I più violenti vorrebbero la sua abolizione per lasciare allo Stato ogni libertà di molestare la Chiesa di Gesù Cristo. — Altri, al contrario, con maggiore astuzia, vogliono, o almeno assicurano di voler la conservazione del Concordato: non già perché riconoscano allo Stato il dovere di adempiere verso la Chiesa l’impegno pattuito, ma unicamente perché esso approfitti delle concessioni fatte dalla Chiesa; come se si potessero a talento separare gli impegni assunti dalle concessioni ottenute, mentre queste due cose fanno parte sostanziale di un solo tutto. Per essi il Concordato non resterebbe dunque che come una catena atta a vincolare la libertà della Chiesa, quella santa libertà, a cui essa ha un diritto divino ed inalienabile. Di queste due opinioni quale prevarrà? Noi lo ignoriamo. Abbiamo voluto solamente ricordarle, per raccomandare ai Cattolici di non provocare scissioni su di un argomento, di cui spetta alla Santa Sede occuparsi.
Non terremo lo stesso linguaggio sull’altro punto, concernente il principio della separazione dello Stato e della Chiesa, il che equivale a separare la legislazione umana dalla legislazione cristiana e divina. Non vogliamo fermarsi a dimostrare qui tutto ciò che ha di assurdo la teoria di questa separazione; ognuno lo comprenderà da se stesso. Quando lo Stato ricusa di dare a Dio ciò che è di Dio, ricusa per necessaria conseguenza di dare ai cittadini ciò, a cui hanno diritto come uomini; giacché, vogliasi o no, i veri diritti dell’uomo nascono precisamente dai suoi doveri verso Dio. Onde segue che lo Stato, venendo meno, sotto questo riguardo, al fine principale della sua istituzione, giunge in realtà a rinnegare se stesso e a smentire ciò che forma la ragione stessa della sua esistenza.
Queste verità superiori sono sì chiaramente proclamate dalla voce stessa della ragione naturale, che s’impongono ad ogni uomo non accecato dalla violenza delle passioni. I Cattolici perciò si guardino con somma cura dal sostenere una tale separazione. Infatti, volere che lo Stato si separi dalla Chiesa, sarebbe per conseguenza logica volere che la Chiesa fosse ridotta alla libertà di vivere secondo il diritto comune a tutti i cittadini.
Questa situazione, egli è vero, si produce in certi Paesi. È una maniera d’essere che, se ha i suoi numerosi e gravi inconvenienti, offre anche alcuni vantaggi, soprattutto quando il legislatore, per una felice incoerenza, non tralascia d’ispirarsi ai principi cristiani, e questi vantaggi, benché non possano giustificare il falso principio della separazione, né autorizzare a difenderlo, rendono però meritevole di tolleranza uno stato di cose, che, praticamente, non è il peggiore di tutti.
Ma nella Francia, nazione cattolica per le sue tradizioni e per la Fede presente della grande maggioranza dei suoi figli, la Chiesa non deve essere posta nella condizione precaria, che subisce presso altri popoli. I Cattolici possono tanto meno approvare la separazione, quanto meglio conoscono le intenzioni dei nemici che la desiderano.
Per questi ultimi, e lo dicono abbastanza chiaramente, questa separazione è l’indipendenza totale della legislazione politica verso la legislazione religiosa; anzi più, è l’indifferenza assoluta del Potere riguardo agli interessi della Società cristiana, cioè della Chiesa, e la negazione stessa della sua esistenza.
Essi fanno tuttavia una riserva, che si formula così: — Appena la Chiesa, giovandosi dei mezzi che il diritto comune lascia al menomo cittadino francese, avrà saputo, con un raddoppiamento della sua attività nativa, far prosperare la sua opera, allora intervenendo tosto lo Stato, potrà e dovrà mettere i cattolici Francesi fuori dello stesso diritto comune. Per dir tutto in una parola, l’ideale di questi uomini sarebbe il ritorno al paganesimo: lo Stato non riconosce la Chiesa, se non quando gli piace perseguitarla.
Abbiamo spiegato, Venerabili Fratelli, in modo abbreviato ma netto, se non tutti, almeno i principali punti sui quali i cattolici Francesi e tutti gli uomini di senno debbono praticare l’unione e la concordia alfine di guarire, per quanto ancora è possibile, i mali da cui è afflitta la Francia, e per rialzare la sua stessa grandezza morale.
Questi punti sono: la Religione e la Patria, i poteri politici e la legislazione, la condotta da tenersi riguardo a questi poteri e a questa legislazione, il Concordato, la separazione dello Stato e della Chiesa.
Nutriamo speranza e fiducia che la delucidazione di questi punti dissiperà i pregiudizi di molti uomini di buona fede, faciliterà la pacificazione degli animi e per essa l’unione perfetta di tutti i Cattolici per sostenere la grande causa di Cristo che ama i Franchi.
Quale consolazione al Nostro cuore incoraggiandovi in questa via e contemplandovi tutti pronti a corrispondere docilmente al Nostro appello!
Voi, Venerabili Fratelli, con la vostra autorità, e con lo zelo sì illuminato per la Chiesa e per la Patria, onde andate segnalati, arrecherete un potente soccorso a quest’opera pacificatrice.
Amiamo anzi sperare che quelli, che sono al potere, vorranno apprezzare le Nostre parole, che mirano alla felicità e alla prosperità della Francia. Intanto, come pegno del Nostro affetto, impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, al vostro clero, e a tutti i Cattolici di Francia, la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 16 Febbraio 1892, anno XIV del Nostro Pontificato.