+
Benedetto XV
Ad beatissimi apostolorum principis
Venerabili fratelli
Salute e apostolica benedizione
Non appena per gli inscrutabili consigli della Provvidenza divina, senza alcun Nostro merito, fummo chiamati ad assiderCi sulla Cattedra del Beatissimo Principe degli Apostoli, Noi, ascoltando come diretta alla Nostra Persona quell'istessa voce che il Nostro Signor Gesù Cristo rivolgeva a Pietro: "Pascola i miei agnelli, pascola le mie pecore" (Joan. XXI, 15-17), immediatamente rivolgemmo uno sguardo di inesprimibile affetto al gregge che veniva affidato alla Nostra cura: gregge veramente immenso, perché abbraccia, quali per un aspetto, quali per un altro, tutti gli uomini. Tutti, infatti, quanti essi sono, furono liberati dalla servitù del peccato da Gesù Cristo, che per loro offri il prezzo del Suo Sangue; né v'ha alcuno che sia escluso dai vantaggi di questa redenzione. Onde può ben dire il Divino Pastore che, mentre una parte dell'uman genere la tiene di già avventuratamente accolta nell'ovile della Chiesa, l'altra Egli ve la sospingerà dolcemente: "Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile; ed occorre che io le porti qui ed ascolteranno la mia voce" (Joan. X, 16).
Lo confessiamo, Venerabili Fratelli: il primo sentimento che abbiamo provato nell'animo, e che vi fu acceso di sicuro dalla divina bontà, è stato un incredibile palpito di affetto e di desiderio per la salvezza di tutti gli uomini; e nell'assumere il Pontificato Noi concepimmo quel medesimo voto che Gesù Cristo espresse già presso a morire sulla Croce: "O padre santo, conservali nel tuo nome, che Tu hai dato a me" (Joan. XVII, 11). Quindi è che allorquando da questa altezza dell'apostolica dignità potemmo contemplare con un solo sguardo il corso degli umani avvenimenti, e Ci vedemmo dinanzi la miseranda condizione della civile società, Noi ne provammo davvero un acuto dolore. E come sarebbe potuto accadere, che divenuti Noi Padre di tutti gli uomini, non Ci sentissimo straziare il cuore allo spettacolo che presenta l'Europa e con essa tutto il mondo, spettacolo il più tetro forse ed il più luttuoso nella storia dei tempi? Sembrano davvero giunti quei giorni, dei quali Gesù Cristo predisse: "Udirete le battaglie e le opinioni delle battaglie [...] Nascerà infatti gente da gente e regno da regno" (Matth. XXIV, 6,7). Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v'è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia per ciò, se ben fornite, come uomo, di quegli orribili mezzi che il progresso dell'arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che tali genti, l'una contro l'altra armate, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte dell'istessa natura, e parti tutte d'una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre da una parte e dall'altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, tristi seguaci della guerra: si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani: languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto.
Commossi da mali così gravi Noi, fin dalla soglia del Sommo Pontificato, ritenemmo Nostro dovere di raccogliere le ultime parole uscite dal labbro del Nostro Predecessore, Pontefice di illustre e così santa memoria, e di dar principio al Nostro Apostolico Ministero col tornare a pronunziarle: e così caldamente scongiurammo e Principi e Governanti affinché, considerando quante mai lagrime e quanto sangue sono stati già versati, s'affrettassero a ridare ai loro popoli i vitali benefizi della pace. Deh! Ci conceda Iddio misericordioso che, come all'apparire del Redentore divino sulla terra, così all'iniziarsi del Nostro ufficio di Vicario di Lui, risuoni l'angelica voce annunziatrice di pace: "Pace in terra agli uomini di buona volontà" (Luc. II, 14). E l'ascoltino, li preghiamo, l'ascoltino questa voce coloro che hanno nelle loro mani i destini dei popoli. Altre vie certamente vi sono, vi sono altre maniere, onde i lesi diritti possano avere ragione: a queste, deposte intanto le armi, essi ricorrano, sinceramente animati da retta coscienza e da animi volonterosi. È la carità verso di loro e verso tutte le nazioni che così Ci fa parlare, non già il Nostro interesse. Non permettano dunque che cada nel vuoto la Nostra voce di padre e di amico.
Ma non è soltanto l'attuale sanguinosa guerra che funesti le nazioni e a Noi amareggi e travagli lo spirito. Vi è un'altra furibonda guerra, che rode le viscere dell'odierna società: guerra che spaventa ogni persona di buon senso, perché mentre ha accumulato ed accumulerà anche per l'avvenire tante rovine sulle nazioni, deve anche ritenersi essa medesima la vera origine della presente luttuosissima lotta. Invero, da quando si è lasciato di osservare nell'ordinamento statale le norme e le pratiche della cristiana saggezza, le quali guarentivano esse sole la stabilità e la quiete delle istituzioni, gli Stati hanno cominciato necessariamente a vacillare nelle loro basi, e ne è seguito nelle idee e nei costumi tale un cambiamento che, se Iddio presto non provvede, sembra già imminente lo sfacelo dell'umano consorzio. I disordini che scorgiamo, sono questi: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell'autorità, l'ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale fatto unico obbiettivo dell'attività dell'uomo, come se non vi fossero altri beni, e molto migliori, da raggiungere. Son questi a Nostro parere i quattro fattori della lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque diligentemente adoperarsi a torre di mezzo tali disordini, richiamando in vigore i principi del cristianesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e di mettere in assetto la società.
Gesù Cristo disceso dal Cielo appunto per questo fine di ripristinare fra gli uomini il regno della pace, rovesciato dall'odio d Satana, non altro fondamento volle porvi che quello dell'amore fraterno. Quindi quelle Sue parole tanto spesso ripetute: "Io vi dò un nuovo incarico: di amarvi a vicenda (Joan. XIII, 34); questo è il mio precetto, che vi amiate a vicenda (Joan. XV, 12); questo vi ordino, di amarvi a vicenda" (Joan. XV, 17); quasi che tutta la Sua missione ed il Suo compito si restringessero a far sì che gli uomini si amassero scambievolmente. E quale forza di argomenti non adoperò per condurci a questo amore? Guardate in alto, ci disse: "Uno solo è infatti il Padre vostro, che è nei Cieli" (Matth. XXIII, 9). A tutti, senza che per Lui possa per nulla contare la diversità di nazioni, la differenza di lingue, la contrarietà di interessi, a tutti pone sul labbro la stessa preghiera: "Padre nostro, che sei nei Cieli" (Matth. VI, 9); ci assicura anzi che questo Padre Celeste, nell'effondere i suoi benefizi, non fa distinzione neppure di meriti: "Egli fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Matth. V, 45). Dichiara inoltre che noi siamo tutti fratelli: "Voi tutti poi siete fratelli" (Matth. XXIII, 8); e fratelli a Lui stesso: "Perché, tra i molti fratelli, Egli sia il primogenito" (Rom. VIII, 29). Poi, cosa che vale assaissimo a stimolarci all'amore fraterno anche verso di quelli che la nativa nostra superbia disprezza, giunse sino ad identificarsi col più meschino degli uomini, nel quale vuole si ravvisi la dignità della sua stessa persona: "Quanto avete fatto ad uno solo di questi miei umilissimi fratelli, lo avete fatto a me" (Matth. XXV, 40). Che più? Sul punto di lasciare la vita, pregò intensamente il Padre, affinché tutti coloro che avessero creduto in Lui, fossero per il vincolo della carità una cosa sola fra loro: "Come tu Padre sei in me, io sono in te" (Joan. XVII, 21). E finalmente, confitto sulla Croce, tutto il Suo Sangue riversò su di noi, onde plasmati quasi e formati in un corpo solo, ci amassimo scambievolmente con la forza di quel medesimo amore che l'un membro porta all'altro in uno stesso corpo.
Ma, purtroppo, oggigiorno diversamente si comportano gli uomini. Mai forse più di oggi si parlò di umana fratellanza: si pretende anzi, dimenticando le parole del Vangelo e l'opera di Cristo e della sua Chiesa, che questo zelo di fraternità sia uno dei parti più preziosi della moderna civiltà. La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe l'umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli odi di razza sono portati al parossismo; più che da confini, i popoli sono divisi da rancori: in seno ad una stessa nazione e fra le mura d'una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini; e fra gli individui tutto si regola con l'egoismo, fatto legge suprema.
Vedete, Venerabili Fratelli, quanto sia necessario fare ogni sforzo perché la carità di Cristo torni a dominare fra gli uomini. Questo sarà sempre il Nostro obbiettivo e questa l'impresa speciale del Nostro Pontificato. Questo sia pure, ve ne esortiamo, il vostro studio. Non ci stanchiamo di inculcare negli animi di attuare il detto dell'Apostolo San Giovanni: "Perché noi ci amiamo l'un l'altro" (Joan. III, 23). Sono belle, per fermo, sono commendevoli le pie istituzioni, di cui abbondano i nostri tempi; ma allora solo tradurranno un reale vantaggio, quando contribuiranno in qualche modo a fomentare nei cuori l'amore di Dio e del prossimo; diversamente non hanno valore, perché "chi non ama rimane nella morte" (Ibid. 14).
Abbiamo detto che un'altra cagione dello scompiglio sociale consiste in questo, che generalmente non è più rispettata l'autorità di chi comanda. Imperocché dal giorno che ogni potere umano si volle emancipato da Dio, Creatore e Padrone dell'universo, e lo si volle originato dalla libera volontà degli uomini, i vincoli intercedenti fra superiori e sudditi si andarono rallentando talmente da sembrare ormai che siano quasi spariti. Uno sfrenato spirito di indipendenza unito ad orgoglio si è a mano a mano infiltrato per ogni dove, non risparmiando neppure la famiglia ove il potere chiarissimamente germina dalla natura; ed anzi, ciò che è più deplorevole, non sempre si è arrestato alle soglie del Santuario. Di qui il disprezzo delle leggi; di qui l'insubordinazione delle masse; di qui la petulante critica di quanto l'autorità disponga; di qui i mille modi escogitati a fin di rendere inefficace la forza del potere; di qui gli spaventevoli delitti di coloro che, facendo professione di anarchia, non si peritano di attentare così agli averi come alla vita altrui.
Di fronte a questa mostruosità del pensare e dell'agire, deleteria di ogni esistenza sociale, Noi costituiti da Dio custodi della verità, non possiamo non alzare la voce; e ricordiamo ai popoli quella dottrina che nessun placito umano può mutare: "Non vi è potere se non da Dio: e le cose che sono, sono ordinate da Dio" (Rom. XIII, 1). Ogni potere adunque che si esercita sulla terra, sia esso di sovrano, sia di autorità subalterne, ha Dio per origine. Dal che San Paolo deduce il dovere di ottemperare, non già in qualsivoglia maniera, ma per coscienza, ai comandi di chi è investito del potere, salvo il caso in cui si oppongano alle leggi divine:"Laonde siate costretti della necessità, non solo per ira, ma anche per coscienza" (Ibid. 5). E conformemente a questi precetti di San Paolo, insegna pure lo stesso Principe degli Apostoli: "Siate soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio: sia al re perché capo, sia ai comandanti come quelli che sono da lui inviati" (I Petr. II, 13-14). Dalla qual premessa il medesimo Apostolo delle genti inferisce che chi si ribella alle legittime potestà umane, si ribella a Dio ed incorre nell'eterna dannazione: "Perciò chi resiste al potere, resiste all'ordine di Dio. E quelli che resistono, vanno in dannazione" (Rom. XIII, 2).
Rammentino questo i Principi e i Reggitori dei popoli, e vedano se sa sapiente e salutevole consiglio, per i pubblici poteri e per gli Stati, il far divorzio dalla Religione santa di Cristo, che è sostegno così potente delle autorità. Riflettano bene se sia misura di saggia politica il voler sbandita dal pubblico insegnamento la dottrina del Vangelo e della Chiesa. Una funesta esperienza dimostra che ivi l'autorità umana è disprezzata, donde esula la religione. Succede infatti alle società, quello stesso che accadde al nostro primo padre, dopo aver mancato. Come in lui appena la volontà si fu ribellata a Dio, le passioni si sfrenarono e disconobbero l'impero della volontà; cosi, allorquando chi regge i popoli disprezza l'autorità divina, i popoli a loro volta scherniscono l'autorità umana. Rimane certo il solito espediente di ricorrere alla violenza per soffocare le ribellioni: ma a che pro? La violenza opprime i corpi, non trionfa della volontà.
Tolto dunque o indebolito il doppio elemento di coesione di ogni corpo sociale, l'unione cioè dei membri fra loro per la carità vicendevole e l'unione dei membri stessi col capo per la soggezione all'autorità, qual meraviglia, o Venerabili Fratelli, che la società odierna ci si presenti divisa come in due grandi armate che fra loro lottano ferocemente e senza posa? Di fronte a coloro ai quali o concesse fortune o l'attività propria apportò una qualche abbondanza di beni, stanno i proletari e i lavoratori, accesi d'odio e d'invidia, perché mentre partecipano agli stessi costitutivi essenziali, pur non si trovano nella medesima condizione di quelli. Naturalmente, infatuati come sono dagli inganni dei sobillatori, ai cui cenni si mostrano d'ordinario docilissimi, chi potrebbe loro persuadere come dall'essere gli uomini uguali per natura, non segua che tutti debbano occupare lo stesso grado nel consorzio sociale, ma che ognuno ha quella posizione che con le sue doti, non contrariate dalle circostanze, si sia procacciata? Per il che, quando i poveri lottano coi facoltosi, quasi che questi si siano impadroniti d'una porzione di beni altrui, non soltanto offendono la giustizia e la carità, ma anche la ragione, specialmente perché anch'essi, se volessero, potrebbero collo sforzo di onorato lavoro riuscire a migliorare la propria condizione.
A quali conseguenze, non meno disastrose per gli individui che per la società, meni quest'odio di classe, è superfluo il dirlo. Tutti vediamo e lamentiamo la frequenza degli scioperi per i quali di subito si produce l'arresto della vita cittadina e nazionale nelle operazioni più necessarie: parimenti le minacciose sommosse e i tumulti, in cui spesso avviene che si dà mano alle armi e si fa scorrere il sangue.
Non vogliamo stare qui a ripetere le ragioni che provano a evidenza l'assurdità del socialismo e di altri simili errori. Leone XIII, Nostro Predecessore, ne trattò con grande maestria in memorabili Encicliche: e voi, o Venerabili Fratelli, cercate, col vostro abituale interessamento, che quegli autorevoli insegnamenti non cadano mai in dimenticanza, e che anzi nelle associazioni cattoliche, nei congressi, nei discorsi sacri, nella stampa cattolica si insista sempre nell'illustrarli saggiamente e nell'inculcarli secondo i bisogni. Ma in particolar modo - non dubitiamo di ripeterlo - con tutti gli argomenti che ci dà il Vangelo e che ci porgono la stessa umana natura e gl'interessi sì pubblici che privati, studiamoci di esortare tutti gli uomini ad amarsi tra loro fraternamente in virtù del divino precetto sulla carità. L'amore fraterno non varrà certo a togliere di mezzo la diversità delle condizioni e perciò delle classi. Questo non è possibile, come non è possibile che in un corpo organico tutte le membra abbiano una stessa funzione ed una stessa dignità. Farà non di meno che i più alti si inchinino verso i più umili e li trattino non solo secondo giustizia, come è d'uopo, ma con benevolenza, con affabilità, con tolleranza: i più umili poi riguardino i più elevati con compiacimento del loro bene e con fiducia nel loro appoggio: a quella maniera appunto che in una stessa famiglia i fratelli più piccoli confidano nell'aiuto e nella difesa dei più grandi.
Se non che, Venerabili Fratelli, quei mali che finora siamo venuti lamentando, hanno ora radice più profonda, a sterpar la quale, se non concorrono gli sforzi di tutti gli onesti, è vano sperare di conseguire l'oggetto dei nostri voti, vale a dire la tranquillità stabile e durevole negli umani rapporti. Quale sia questa radice l'insegna l'Apostolo: "Radice.. di tutti i mali è la cupidigia" (I Tim. VI, 10). E infatti, se ben si consideri, da questa radice si originano tutti i mali onde al presente è inferma la società. Quando invero con le scuole perverse, ove si plasma il cuore della tenera età malleabile come cera, colla stampa cattiva, che informa le menti delle masse inesperte, e cogli altri mezzi con cui si dirige l'opinione pubblica, quando, diciamo, si è fatto penetrare negli animi l'esiziale errore che l'uomo non deve sperare in uno stato di felicità eterna; che quaggiù; proprio quaggiù, può essere felice col godimento delle ricchezze, degli onori, dei piaceri di questa vita, non v'è da meravigliarsi che tali esseri umani, naturalmente fatti per la felicità, colla stessa violenza onde sono trascinati all'acquisto di detti beni, respingano da sé qualunque ostacolo che ne li trattenga od impedisca. Giacché poi questi beni non sono divisi ugualmente fra tutti, ed e dovere dell'autorità sociale d'impedire che la libertà individuale trasmodi e s'impadronisca dell'altrui, di qui nasce l'odio contro i pubblici poteri, di qui l'invidia dei diseredati dalla fortuna contro quelli che ne sono favoriti, di qui infine la lotta fra le varie classi cittadine, gli uni per conseguire ad ogni costo e strappare il bene di cui mancano, gli altri per conservare ed accrescere quello che possiedono.
Fu in previsione di questo stato di cose che Gesù Cristo Signor Nostro col sublime Sermone della Montagna spiegò a bello studio quali fossero le vere beatitudini dell'uomo sulla terra, e pose, per così dire, i fondamenti della cristiana filosofia. Quelle massime anche agli avversari della fede apparvero come tesoro incomparabile di sapienza e come la più perfetta teoria della morale religiosa; e certo tutti convengono nel riconoscere che prima di Cristo, verità assoluta, nulla di pari gravità ed autorità e di tanto alto sentimento fu mai da alcuno inculcato.
Or tutto il segreto di questa filosofia sta in ciò che i così detti beni della vita mortale sono semplici parvenze di bene, e che perciò non è col loro godimento che si possa formare la felicità dell'uomo. Sulla fede dell'autorità divina, tanto è lungi che le ricchezze, la gloria, il piacere ci arrechino la felicità che, anzi, se vogliamo davvero essere felici, dobbiamo piuttosto, per amore di Dio, rinunziarvi: "Beati i poveri....Beati voi, che ora piangete... Beati quando gli uomini vi odieranno e vi separeranno e scacceranno il vostro nome come un male" (Luc. VI, 20-22). Vale a dire, attraverso i dolori, le sventure, le miserie di questa vita, se com'è dover nostro, le sopportiamo pazientemente, ci apriamo da noi stessi l'adito al possesso di quei veri ed imperituri beni "che Dio ha preparato a quelli che lo amano" (I Cor. II, 9). Ma un così importante insegnamento della fede da molti purtroppo è negletto, e da non pochi è dimenticato del tutto. Tocca a voi, Venerabili Fratelli, di farlo rivivere negli uomini: senza cui l'uomo, e l'umana società, non avranno mai pace. Diciamo dunque a quanti sono afflitti o sventurati, di non fermare l'occhio alla terra, che è luogo di esilio, ma di levarlo al Cielo, al quale siamo diretti: perché "non abbiamo qui una città stabile, ma ne cerchiamo una futura." (Hebr. XIII, 13). Ed in mezzo alle avversità colle quali Iddio mette alla prova la loro perseveranza nel servirlo, riflettano sovente quale premio è loro riservato, se da tale cimento usciranno vittoriosi: "Poiché quella che oggi è per noi una momentanea e leggiera tribolazione, forma in noi il peso oltremodo sublime ed eterno della gloria" (II Cor. IV, 17). Da ultimo l'adoprarsi con ogni potere e con ogni attività per farli fiorire fra gli uomini la fede nella verità soprannaturale, e contemporaneamente la stima, il desiderio, la speranza dei beni eterni, sia la prima delle vostre missioni, o Venerabili Fratelli, e il principale intento del clero ed anche di tutti quei Nostri figli che, stretti in vari sodalizi, zelano la gloria di Dio e il bene vero della società. Perocché a misura che crescerà negli uomini il sentimento di questa fede, andrà scemando la smania febbrile onde si ricercano i vani beni della terra, e gradatamente andranno sedandosi i moti e le contese sociali.
E ora se lasciando da parte la società civile, rivolgiamo il pensiero alla considerazione di ciò che è proprio della Chiesa, vi è, senza dubbio, ragione perché l'animo Nostro, trafitto da tanta calamità dei tempi, almeno in parte si allieti. Infatti oltre agli argomenti, che si offrono da sé luminosissimi, di quella divina virtù ed indefettibilità di cui gode la Chiesa, non piccola consolazione Ci offrono quei preclari frutti che del suo operoso Pontificato Ci lasciò il Nostro Predecessore, Pio X, dopo aver illustrato l'Apostolica Sede con gli esempi di una vita tutta santa. Vediamo, infatti, per l'opera sua, acceso universalmente negli Ecclesiastici lo spirito religioso; ravvivata la pietà del popolo cristiano; promosse nelle società cattoliche l'azione e la disciplina; dove costituita la sacra gerarchia, dove ampliata; provveduto per l'educazione del giovane clero, conforme alla severità dei canoni, e, nella misura del necessario, a seconda della natura dei tempi; rimosso dall'insegnamento delle scienze sacre ogni pericolo di temerarie innovazioni; l'arte musicale ricondotta a servire degnamente la maestà delle sacre funzioni ed accresciuto il decoro del culto; il cristianesimo largamente propagato con nuove missioni di banditori del Vangelo.
Sono questi, in verità, grandi meriti del Nostro Antecessore verso la Chiesa, meriti dei quali conserveranno i posteri grata memoria. Tuttavia, poiché il campo del padre di famiglia è sempre esposto, così permettendo Iddio, alle male arti del nemico, non avverrà mai che non debbasi esso lavorare perché il fiorire della zizzania non danneggi la buona messe. Pertanto, ritenendo come detto anche a Noi ciò che Dio disse al profeta: "Ecco, e io ti ho posto oggi sulle genti e sui regni, perché tu tolga e distrugga... perché edifichi e pianti" (Jer. I, 10), per quanto starà in Noi avremo sempre la massima cura di rimuovere il male e promuovere il bene, fintantoché non piacerà al Pastore dei Pastori di domandarCi conto dell'esercizio del Nostro mandato.
Or dunque, o Venerabili Fratelli, mentre vi rivolgiamo questa prima Lettera Enciclica, ravvisiamo opportuno accennare alcuni dei punti principali a cui abbiamo in animo di dedicare le Nostre speciali cure; così studiandovi voi di secondare col vostro zelo l'opera Nostra, anche più sollecitamente si otterranno i desiderati frutti.
E innanzi tutto poiché in ogni umana società, qualunque sia stato il motivo della sua formazione, primo coefficiente di ogni operosità collettiva è l'unione e la concordia degli animi, Noi dovremo rivolgere un'attenzione specialissima a sopire i dissensi e le discordie tra i cattolici, quali esse si siano, e ad impedire che ne organo altre in avvenire, talché tra i cattolici, uno sia il pensare e uno l'operare. Ben comprendono i nemici di Dio e della Chiesa che qualsiasi dissidio dei nostri nella propria difesa, segna per essi una vittoria; laonde usano assai di frequente questo sistema che, allorquando più vedono compatti i cattolici, proprio allora, astutamente gettando tra di loro i semi della discordia, maggiormente si sforzano di romperne la compattezza. Piacesse al Cielo che tale sistema non così spesso avesse avuto l'esito desiderato, condanno tanto grave per la religione! Quindi, qualora la legittima autorità imparta qualche comando, a nessuno sia lecito di trasgredirlo, per la ragione che non gli piace; ma ciascuno sottometta la propria opinione all'autorità di colui al quale è soggetto, ed a lui obbedisca per debito di coscienza. Parimenti nessun privato, o col pubblicare libri o giornali, ovvero con tenere Pubblici discorsi, si comporti nella Chiesa da maestro. Sanno tutti a chi sia stato affidato da Dio il magistero della Chiesa; a Lui dunque si lasci libero il campo, affinché parli quando e come crederà opportuno. È dovere degli altri prestare a Lui, quando parla, ossequio devoto, ed ubbidire alla Sua parola.
Riguardo poi a quelle cose delle quali - non avendo la Santa Sede pronunziato il proprio giudizio - si possa, salva la Fede e la disciplina, discutere pro e contro, è certamente lecito ad ognuno di dire la propria opinione e di sostenerla. Ma in simili discussioni rifuggasi da ogni eccesso di parole, potendone derivare gravi offese alla carità; ognuno liberamente difenda la sua opinione, ma lo faccia con garbo, né creda di poter accusare altri di sospetta fede o di mancata disciplina per la semplice ragione che la pensa diversamente da lui. Vogliamo pure che i nostri si guardino da quegli appellativi, di cui si è cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da cattolici; e procurino di evitarli non solo come profane novità di parole, che non corrispondono né alla verità, né alla giustizia, ma anche perché né è ammissibile il più, né il meno: "Questa è la fede cattolica, alla quale chi non crede fedelmente e fermamente non potrà essere salvo" (Symb. Athanas.); o si professa intero, o punto non si professa. Non vi ha dunque necessità di aggiungere epiteti alla professione del cattolicismo; basti a ciascuno di dire così: "Cristiano il mio nome, e cattolico il mio cognome";soltanto, si studi di essere veramente tale, quale si denomina.
Del resto, dai nostri che si sono dedicati al comune vantaggio della causa cattolica, ben altro richiede oggidì la Chiesa che il persistere troppo a lungo in questioni da cui non si trae nessun utile: richiede invece che si sforzino a tutto potere di conservare integra la Fede ed incolume da ogni alito d'errore, seguendo specialmente le orme di colui che Cristo costituì custode ed interprete della verità. Vi sono oggi pure, e non sono scarsi, coloro i quali, come dice l'Apostolo: "Stimolati nell'orecchio, e non. sostenuti da una sana dottrina, ammucchiano le parole dei maestri secondo i propri desideri e dalle verità si sviano e si lasciano convertire dalle parole" (II Tim. IV, 3, 4). Infatti tronfi ed imbaldanziti per il grande concetto che hanno dell'umano pensiero, il quale in verità ha raggiunto, la Dio mercè, incredibili progressi nello studio della natura, alcuni, confidando nel proprio giudizio in ispregio dell'autorità della Chiesa, giunsero a tal punto di temerità che non esitarono a voler misurare colla loro intelligenza perfino le profondità dei divini misteri e tutte le verità rivelate, e a volerle adattare al gusto dei nostri tempi. Sorsero di conseguenza i mostruosi errori del Modernismo, che il Nostro Predecessore giustamente dichiarò "sintesi di tutte le eresie" condannandolo solennemente. Tale condanna, o Venerabili Fratelli, noi qui rinnoviamo in tutta la sua estensione; e poiché un così pestifero contagio non e stato ancora del tutto sradicato, ma, sebbene latente, serpeggia tuttora qua e là, Noi esortiamo che guardisi ognuno con cura dal pericolo di contagio; che ben potrebbe ripetersi di tale peste ciò che di altra cosa disse Giobbe: "È fuoco che divora. fino alla perdizione e che sradica tutti i germi" (Job. XXXI, 12). Né soltanto desideriamo che i cattolici rifuggano dagli errori dei Modernisti, ma anche dalle tendenze dei medesimi, e dal cosiddetto spirito modernistico; dal quale chi rimane infetto, subito respinge con nausea tutto ciò che sappia di antico, e si fa avido e cercatore di novità in ogni singola cosa, nel modo di parlare delle cose divine, nella celebrazione del sacro culto, nelle istituzioni cattoliche e perfino nell'esercizio privato della pietà. Vogliamo dunque che rimanga intatta la nota antica legge: "Nulla si rinnova, se non ciò che è stato, tramandato"; la quale legge, mentre da una parte deve inviolabilmente osservarsi nelle cose di Fede, deve dall'altra servire di norma anche in tutto ciò che va soggetto a mutamento; benché anche in questo valga generalmente la regola: "Non nova, sed noviter".
Ma poiché, o Venerabili Fratelli, ad una aperta professione di fede cattolica e ad una vita ad essa consentanea sogliono gli uomini essere stimolati, più che da altro, dalle fraterne esortazioni e dal mutuo buon esempio, perciò Noi Ci compiacciamo vivamente che sorgano di continuo nuove associazioni cattoliche. E non solo desideriamo che queste fioriscano, ma vogliamo che il loro incremento si giovi della Nostra protezione e del Nostro favore; e tale incremento non sarà per mancare, purché obbediscano costantemente e fedelmente a quelle prescrizioni che furono o saranno date dalla Sede Apostolica.
Tutti coloro pertanto che, iscritti in tali associazioni, tendono le loro forze per Iddio e per la Chiesa, non dimentichino mai il detto della divina Sapienza: "L'uomo obbediente parlerà di vittoria" (Prov. XXI, 28); perché se non obbediranno a Dio con ossequio verso il Capo della Chiesa, essi invano attenderanno l'aiuto del Cielo e invano altresì lavoreranno.
Ma affinché tutte queste cose siano mandate a effetto con quell'esito che Ci ripromettiamo, voi ben sapete, o Venerabili Fratelli, esser necessaria l'opera prudente ed assidua di coloro che Cristo Signore ha mandato "operai della sua messe", cioè del Clero. Perciò comprendete che la vostra cura principale deve essere di applicarvi a santificare sempre più, come esige il sacro stato, il Clero che già avete, ed a formare degnamente per l'ufficio così venerabile, con la più disciplinata educazione, gli alunni del Santuario. E benché la vostra diligenza non abbia bisogno di stimolo, pure Noi vi esortiamo e vi scongiuriamo a voler adempiere questo dovere colla massima solerzia.
Si tratta di cosa che per il bene della Chiesa ha importanza capitale; ma avendone i Nostri Predecessori di s. m. Leone XIII e Pio X trattato in proposito, non è il caso di aggiungere altri consigli. Solamente bramiamo che quei documenti di così saggi Pontefici, e più specialmente la "Exhortatio ad Clerum" della s. m. di Pio X, mercè le vostre insistenti premure giammai cadano in oblio, ma siamo sempre scrupolosamente osservati. Di una cosa peraltro non vogliamo tacere, ed è il ricordare ai sacerdoti di tutto il mondo, Nostri figli carissimi, l'assoluta necessità tanto per il vantaggio loro personale, quanto per l'efficacia del loro ministero, di stare strettamente uniti e pienamente ai propri Vescovi. Purtroppo dallo spirito di insubordinazione e d'indipendenza che ora regna nel mondo, non tutti, come con dolore accennammo più sopra, sono scevri i ministri del Santuario: né sono rari i Sacri Pastori che trovano angustie e contraddizioni proprio là, donde dovrebbero aspettarsi conforto ed aiuto. Orbene, se alcuno tanto miseramente vien meno ai dovere, rifletta e mediti bene che divina e L'autorità dei Vescovi, cui lo Spirito Santo ha destinati a reggere la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). Rifletta inoltre che se, come abbiamo visto, resiste a Dio chi resiste a qualsiasi legittima potestà, è assai più irriverente la condotta di coloro che ricusano di ubbidire ai Vescovi, cui Dio ha consacrati con carattere speciale per esercitare il suo divino potere. "Poiché l'amore - così scriveva il santo martire Ignazio - non permette di tacere di voi, perciò ho pensato ammonirvi di essere unanimi nella sentenza di Dio. Infatti Gesù Cristo, inseparabile dalla nostra vita, lo è per sentenza del Padre, come pure i Vescovi, stabiliti nelle plaghe del mondo, lo sono per sentenza del Padre. Onde a voi occorre convenire nella sentenza del Vescovo" (In Epist. ad Ephes., III). E la parola di quel martire insigne è stata, a traverso ogni età, la parola di tutti i Padri e Dottori della Chiesa.
Si aggiunga che già troppo grave, anche per le difficoltà dei tempi, e il peso che portano i Vescovi, e che più grave è ancora l'ansietà in che vivono per la responsabilità di custodire il gregge loro affidato: "Essi infatti vigilano come dovessero render conto delle vostre anime" (Hebr. XIII, 17). Non si deve dunque chiamare crudele chi, con la propria insubordinazione, ne accresce l'onere e l'amarezza? "Perché questo non vi giova" (Ibid. 17), direbbe a costoro l'Apostolo, e ciò perché: "La Chiesa è la plebe adunata intorno al sacerdote e il gregge raccolto intorno al pastore" (S.Cypr. Flor. et Pupp., ep. 66, al. 69); donde segue, che non è colla Chiesa chi non è col Vescovo.
Ed ora, Venerabili Fratelli, al termine di questa lettera, il Nostro cuore torna colà, donde volemmo prendere le mosse.
È la parola di pace che Ci torna sul labbro, per il che, con voti fervidi ed insistenti invochiamo di nuovo, per il bene tanto della società che della Chiesa, la fine dell'attuale disastrosissima guerra. Per il bene della società affinché, ottenuta che sia la pace, progredisca veramente in ogni ramo del progresso; per il bene della Chiesa di Gesù Cristo, affinché, non rattenuta da ulteriori impedimenti, continui fin nelle più remote contrade della terra ad apportare agli uomini conforto e salute. Purtroppo da lungo tempo la Chiesa non gode di quella libertà di cui avrebbe bisogno; e cioè da quando il Suo Capo, il Sommo Pontefice, incominciò a mancare di quel presidio che, per disposizione della divina Provvidenza, aveva ottenuto nel volgere dei secoli per tutela della Sua libertà. La mancanza di tale presidio è venuta a cagionare, cosa d'altronde inevitabile, un non lieve turbamento in mezzo ai cattolici: coloro difatti che si professano figli del Romano Pontefice, tutti, così i vicini come i lontani, hanno diritto d'essere assicurati che il loro Padre comune sia veramente libero da ogni umano potere, e libero assolutamente risulti.
Al voto pertanto d'una pronta pace fra le Nazioni Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale, in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti rispetti, alla stessa tranquillità del popolo. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori, indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, emisero più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica.
Rimane, o Venerabili Fratelli, che, siccome il cuore dei Principi e di tutti coloro ai quali spetta mettere fine alle atrocità e ai danni che abbiamo ricordati, sta nelle mani di Dio, a Dio supplici leviamo la voce, e, a nome dell'intera umanità, gridiamo: "Dacci la pace, Signore, nei nostri giorni". E chi disse di sé: "Io, Signore... faccio la pace" (Is. XLV, 6-7), Egli, placato dalle nostre preghiere, voglia quanto prima sedare i flutti tempestosi, dai quali sono agitate la Società civile e la Società religiosa. Ci assista propizia la Beatissima Vergine, Ella che ha generato lo stesso Principe della Pace; e l'umile Nostra Persona, il Nostro Pontificale Ministero, la Chiesa, e con essa le anime di tutti gli uomini, redente tutte dal Sangue divino del Suo Figlio, accolga sotto la Sua materna protezione.
Auspice dei Celesti doni e pegno della Nostra benevolenza, impartiamo di gran cuore, o Venerabili Fratelli, l'Apostolica Benedizione a voi, al vostro clero ed al vostro popolo.
Dato in Roma, presso San Pietro, il 1° Novembre 1914, nella festa di Ognissanti, del Nostro Pontificato anno I.