Gli studiosi ci hanno proposto varie interpretazioni della civiltà inca, descrivendola ora come un agghiacciante totalitarismo ora come un'utopia arcadica. Le cause di questa difficoltà nell'interpretare la natura di quella civiltà sono molteplici. Gli Incas non hanno lasciato testi o codici, per cui quasi tutto ciò che sappiamo su di loro è di fonte spagnola. Ma anche gli spagnoli più comprensivi mancavano dell'apertura mentale necessaria per interpretare correttamente quello che vedevano. La Spagna del XVI secolo era una nazione che praticava un Cristianesimo assolutista e non si distingueva certo per la sua capacità di comprendere visioni diverse del mondo. I cronisti dovevano poi vedersela con le difficoltà della lingua quechúa, la scarsa capacità e la tendenza a distorcere dei nativi che facevano da interpreti, la dubbiosa affidabilità degli informatori, i quali, temendo per le loro vite, cercavano di ingraziarsi con le loro confessioni gli invasori. Gli spagnoli inoltre giunsero nel mezzo di una feroce guerra civile, trovando versioni contrastanti sui governanti inca. La nostra visione degli Incas è quindi forzatamente "occidentale" ma quella cultura fu un fenomeno esclusivamente andino, molto diverso dalle altre civiltà progredite della storia. La società inca era certamente gerarchica e profondamente strutturata, ma non per questo tirannica e repressiva. Ognuno aveva il suo posto e un ruolo da impersonare. La vita non era facile, ma cibo e risorse erano immagazzinati e distribuiti, in modo da nutrire e vestire tutti. La proprietà privata non esisteva e tutto veniva organizzato in comune. Si può pensare che la maggioranza accettasse il proprio ruolo, senza sentirsi lesa o sfruttata. Il sistema inca era piramidale. Alla cima si trovavano l'imperatore regnante e la sua coya, o regina; immediatamente sotto c'erano i nobili, i "Capac lnca", i presunti discendenti di Manco Capac il fondatore, divisi in dieci o dodici panaca, o case reali. Ogni imperatore fondava una panaca quando saliva al potere, e quella del regnante era quindi l'unica ad avere un capo vivente; le altre panaca fondavano la loro esistenza sul culto dei resti mummificati di un imperatore precedente. La città di Cuzco era piena di grandi palazzi costruiti dai governanti per ospitare la loro panaca, cioè il loro seguito, i loro discendenti, figli delle varie mogli e concubine, e infine la loro mummia. La mummia riceveva lo stesso trattamento che era riservato all'imperatore in vita: veniva consultata da veggenti e da medium su tutte le questioni importanti; riceveva ogni giorno offerte di cibo e bevande, e nel corso di certe feste veniva tolta dal sarcofago e portata in corteo per le strade di Cuzco. Anche altri nobili venivano mummificati e posti in templi minori. Nel corso di una festa annuale le mummie venivano trasportate in campagna, rivisitando i luoghi ad esse cari quando erano in vita. La nobiltà inca si concedeva molti privilegi, selezionandone la concessione agli estranei. La poligamia era diffusa, ma esclusivamente fra aristocratici. Anche masticare le foglie di coca e indossare capi di vigogna erano prerogative della casta nobiliare. I maschi della nobiltà portavano dei grossi orecchini d'oro e le loro splendide tuniche recavano i simboli araldici chiamati topaku. Ogni cittadino vestiva e portava i capelli a seconda del proprio rango e gruppo etnico. Le strade di Cuzco erano colorate dai diversi abiti delle centinaia di gruppi diversi che popolavano la città. C'erano decine di dialetti locali, ma la lingua ufficiale dell'impero era il quechúa, che tuttora viene parlato in un'area che si estende dall'Ecuador settentrionale al sud della Bolivia. Le origini di questa lingua sono oscure e si ritiene che gli Incas ne abbiano mutuato l'uso da un altro gruppo etnico. I nobili utilizzavano anche un dialetto particolare, probabilmente un linguaggio cavalleresco "alto", che doveva comprendere elementi sia del quechúa che dell'aymará della regione del Titicaca. 1 maschi delle classi elevate si appassionavano alla caccia. Una battuta di caccia reale era un evento spettacolare, con migliaia di battitori che circondavano una vasta area e spingevano gli animali al centro. Le prede non venivano massacrate indiscriminatamente, ma selezionate. Le femmine giovani di ogni specie venivano lasciate libere per permettere loro di generare altri cuccioli. Secondo la mitologia del potere inca, l'imperatore era un essere divino, distinto dai comuni mortali; era discendente diretto del Sole, come il suo antenato Manco Capac, il fondatore della dinastia, e impersonava il tramite incarnato della divinità, esprimendone i desideri e le intenzioni. Alcuni cronisti spagnoli videro in questo un cinico inganno ai danni del popolo. Il Sole probabilmente divenne il dio supremo degli Incas dopo l'ascensione al potere del nono imperatore, Pachacuti; prima di allora, la divinità principale era Viracocha, un potente dio creatore venerato anche in altre culture. Ma il culto inca non si limitava al Sole e a Viracocha. Coricancha, il grande tempio di Cuzco, conteneva i sacrari dedicati alla Luna, al Fulmine, alle Pleiadi, a Venere e all'Arcobaleno. Esistevano inoltre templi dedicati a decine di divinità locali, idoli o reliquie sacre portate a Cuzco dalle innumerevoli tribù e regioni annesse dagli Incas, che non cercarono di imporre il proprio culto, ma semplicemente inserirono gli altri dei in un pantheon in costante espansione. A fianco delle divinità locali e celesti c'erano gli apu, che di solito erano gli spiriti delle grandi montagne, e le huaca, cioè pietre, sorgenti rocciose, caverne, grotte, fonti e cascate ritenute dimore di potenti spiriti. Nei dintorni di Cuzco c'erano più di trecento huaca, molte delle quali ospitavano le mummie della nobiltà minore, tutte toccate da linee immaginarie che irradiavano dal Coricancha di Cuzco come i raggi di una ruota. Questa concezione geografica sacra, nota come sistema delle ceque, era strettamente legata alla vita rituale ed economica di Cuzco. Le panaca e gli ayllu curavano i vari huaca e una parte delle linee ceque. Fra l'altro le ceque delimitavano i possedimenti terrieri, assegnando diritti e responsabilità all'interno del complesso sistema d'irrigazione e di controllo del livello delle acque di Cuzco.
Come altri popoli del Nuovo Mondo, gli Incas non conoscevano le tecniche di fusione dei minerali ferrosi. Avevano però raggiunto un livello sofisticato nell'uso di altri metalli: conoscevano bene varie tecniche di lavorazione dell'oro e dell'argento, e avevano ideato diverse leghe in bronzo per usi vari. Ma anche il migliore bronzo era troppo fragile per lavorare la pietra, che era una delle attività a cui gli Incas si applicavano con più attenzione. Moderne ricerche hanno dimostrato che le loro pietre finemente lavorate venivano inizialmente tagliate e modellate usando delle mazze di pietra più dura; un procedimento laborioso, ma non lento come potrebbe sembrare. La loro grande disponibilità di manodopera e la loro evidente ammirazione per il materiale li resero capaci di lavorare per decenni e addirittura per generazioni al completamente di opere titaniche, quali Machu Picchu e Sacsahuamán. Il modo in cui le pietre venivano spostate e lavorate rimane un mistero. Si pensa che venissero utilizzati rulli e carrucole, ma nessuna teoria ha ancora spiegato come lo sforzo di 2.500 uomini (il numero che si ritiene necessario per spingere le pietre più grandi sulla rampa di Ollantaytambo) venisse applicato a una sola pietra. Per quanto riguarda la lavorazione, si riteneva che il procedimento fosse quello di sistemare le pietre nel loro alloggiamento, riestraendole e riadattandole finché non coincidevano perfettamente con le altre. Ma questa teoria è plausibile solo per chi non ha mai visto le pietre in questione: macigni così colossali che il solo pensiero di sollevarle sembra folle. Una recente ipotesi suggerisce che i contorni delle pietre venissero adat- tati fra loro mediante un procedimento simile, su vasta scala, al nostro sistema per la duplicazione delle chiavi. Il territorio andino ha uno sviluppo verticale unico al mondo e il solo animale che gli Incas avevano a disposizione come mezzo di trasporto era il piccolo e leggero lama, che cede sotto un peso superiore ai 45 chilogrammi. L'assenza della ruota è quindi comprensibile, e la mancanza delle cause prime per escogitarne la forma stessa fece sì che gli Incas non ne scoprissero altre applicazioni, come ad esempio il tornio del vasaio. Conoscevano però il fuso per filare, che era utilizzato da millenni sulle Ande. Un'altra conoscenza fondamentale dell'ingegneria del Vecchio Mondo che gli Incas non possedevano era l'arco. Per superare i grandi valichi costruivano solidi ponti sospesi. La loro caratteristica architettonica era l'apertura trapezoidale. Questa forma, assottigliata in alto, portante un architrave in legno o in pietra, sopporta bene il peso. Le quattro pareti di quasi tutti gli edifici inca erano inclinate verso l'interno, per renderle più stabili. Questa tecnica, insieme all'eccellente giunzione dei blocchi di pietra, rendeva le loro costruzioni più o meno antisismiche, una caratteristica molto utile in Perú. La totale assenza di ogni forma di scrittura è più difficile da spiegare. I simboli dei tessuti tokapu e i quipu erano le forme di comunicazione più avanzate che raggiunsero. Il quechúa è un idioma carico d'ambiguità, giochi di parole, giustapposizioni e doppi sensi, il cui significato è strettamente legato al contesto; lo stile è quello di una cultura orale, ma è impossibile dire se questo sia causa o conseguenza della mancanza di un linguaggio scritto, e sebbene gli Incas fossero privi di certe caratteristiche per noi essenziali, questo non impedì che dessero vita a una civiltà raffinata, i cui echi ancora risuonano fra le Ande.