L'handicap
L'handicap é uno svantaggio, la condizione di "handicappato", nella nostra società' equivale a una condizione psicofisica inferiore ad una persona "normodotata".
Ricorrono abbastanza di frequente discussioni e dibattiti riguardanti la definizione di persone con limitate capacità motorie o psicomotorie, ed ogni volta si fanno sforzi per inventare definizioni nuove, cercando di salvaguardare, quasi a privilegiare, l'una o l'altra forma di menomazione. L'intento è quasi sempre quello di isolare, di bandire il termine "handicappato" considerandolo dispregiativo. Si cerca cioè di ammorbidire il termine, come se questo portasse in qualche modo alla riduzione della menomazione. L'errore ovviamente non sta nel termine, ma in chi usa tale termine in modo riduttivo. Sta di fatto che il termine handicappato è stato importato dall'Europa e si traduce dall'inglese col termine italiano "svantaggiato" (vi risparmio l'etimologia e la storia del termine originario cioé hand-in-cap dato ai fantini dei cavalli più veloci per equipararli a quelli più lenti). Quindi chiariamo una volta per tutte che handicappato vuol dire svantaggiato, è non è affatto dispregiativo, anzi, poiché siamo europei, lo sentiremo sempre più spesso e dovremo imparare a farne un uso corretto. D'altra parte anche il termine "deficiente" viene spesso usato in modo dispregiativo, eppure, ognuno di noi, in qualche settore, è realmente deficiente (cioè carente di cognizioni specifiche), così come ogni uomo in qualche circostanza è svantaggiato cioè handicappato.
Chi è l'handicappato? E' una persona che a causa di una situazione particolare, si trova impedito nel fare ciò che altre persone fanno. Un uomo paraplegico al tavolo di lavoro, in automobile, in barca, a tavola, è tutt'altro che disabile. Davanti ad una gradinata, ad un ascensore troppo piccolo, ad un mezzo di trasporto pubblico, è handicappato. Una donna in gravidanza o un vecchio col bastone sono, in questa società, handicappati.
Il nostro sforzo non dovrà essere quello di modificare i termini o di inventarne di nuovi, ma piuttosto quello di educare la gente a guardare ogni uomo per la dignità del suo essere tale, e non per le prestazioni che può dare; noi dobbiamo essere più attivi, la gente deve abituarsi a vedere le nostre carrozzine per strada, nei negozi, negli uffici pubblici, deve vederci anche in difficoltà: allora e solo allora capirà cosa sono le barriere architettoniche, allora e solo allora modificherà anche le "barriere mentali".
Credo sia necessario
ancora un lungo e paziente processo educativo perché si comprenda che l'handicap
è un problema sociale e le barriere mentali sono la vera fonte di tutte le
altre barriere.
Vorrei concludere
con un'affermazione del tutto personale sui veri handicappati, che a mio
parere sono coloro che non hanno accettato la propria condizione di vita.
Si badi bene, mi riferisco a tutte le persone. Coloro che non accettano la
propria posizione sociale, la propria condizione fisica, la propria età,
non troveranno mai equilibrio fra desideri e possibilità di realizzarli,
saranno questi, sempre, i più svantaggiati nella vita. Una disabilità
fisica comporta uno stato di crisi difficilmente spiegabile; per fare fronte
a questa quantità di situazioni diverse che si vengono sovrapporre, al riconoscimento
e ai cambiamenti fisici che il nostro corpo ha subito a seguito di un incidente
o una malattia, è richiesto un adattamento psicologico. Il processo di adattamento
mentale alla disabilità avviene solitamente per stadi e all'inizio dello
shock potremmo sentirci increduli, incapaci di comprendere quello che è successo,
potremmo addirittura rifiutare e negare la disabilità reale o permanente.
Quando però iniziamo a renderci conto di quello che è realmente successo
grazie ai medici, ai genitori, o comunque a chi ci sta vicino, ci pervade
un senso di angoscia, afflizione o depressione e reazione contro la dipendenza
da altri per svolgere i normali atti della vita.
La depressione,
nel mio caso è stata superata accettando il mio nuovo corpo con tutte le
limitazioni che mi poteva dare, irrobustire le parti funzionali in modo che
potessero supplire alle parti plegiche o comunque non motorie; quindi terapia
e sport. L'accettazione va oltre la riconciliazione con il proprio destino.
Rappresenta piuttosto un punto d'arrivo in cui la disabilità è ancora vista
come un inconveniente ma non più disonorevole né opprimente. Ma il muro
da superare è il ritorno alla normalità: il "fare tutto quello che si faceva
prima" non è una meta irraggiungibile, basta convincersi che si può fare,
occorre tentare a costo di sacrifici enormi sia in termini di tempo sia in
quantità di energie spese.
Vedrete che superato questo muro le porte della società si apriranno a voi, ma troverete altre difficoltà: scalini, buche, marciapiedi, edifici senza ascensori, parcheggi per disabili occupati da normodotati, da medici, da cassettoni dell'immondizia, gente che passando per le strade vi guarda in modo strano perché semplicemente ignora la vostra patologia.