NIETZSCHE

(brani scelti)

 

“ Il fascino dionisiaco non ripristina solamente i vincoli tra uomo e uomo: anche la natura, straniera o ostica o soggiogata, celebra la festa di riconciliazione col suo figliuol prodigo, l'uomo. La terra getta di buon grado i suoi doni, e le belve rapaci delle rupi e dei deserti si avvicinano in pace... Ecco che lo schiavo è libero, ecco che tutti infrangono le rigide, nemiche barriere, che il bisogno, l'arbitrio o «la moda insolente» hanno piantato tra gli uomini. Ecco che nel vangelo dell'armonia universale ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma si sente fatto uno con lui, quasi che il velo di Maia fosse squarciato... Nel canto e nella danza l'uomo si palesa come componente di una comunità superiore: egli ha disimparato a camminare e a parlare, e danzando è in atto di volarsene via nell'aria. Nei suoi atteggiamenti parla la magia. E come frattanto gli animali ora parlano e la terra dà latte e miele, cosí anche da lui si propaga alcunché di soprannaturale: si sente come un dio, ed ora egli stesso incede rapito e sublime, come vide in sogno incedere gli dei. L'uomo non è piú artista; è divenuto egli stesso opera d'arte.
(Nietzsche, La nascita della tragedia)



“ Oggi tanti materialisti scienziati della natura si sentono soddisfatti della credenza in un mondo che dovrebbe avere il suo equivalente e la sua misura nel pensiero umano, in umani concetti di valore; in un "mondo della verità", a cui si potrebbe in definitiva accedere con l'aiuto della nostra quadrata piccola ragione umana. Come? Vogliamo davvero far sì che l'esistenza si avvilisca in un esercizio di contabili e in una vita da talpa per matematici? Innanzitutto non si deve voler spogliare l'esistenza del suo carattere polimorfo: lo esige il buon gusto, signori miei, il gusto del rispetto di fronte a tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! Che abbia ragion d'essere una sola interpretazione del mondo, quella in cui voi vi sentite a posto, quella in cui si può investigare e continuare a lavorare scientificamente nel vostro senso (per voi, in realtà, meccanicistico?), una siffatta interpretazione, che altro non ammette se non numeri, calcoli, uguaglianze, cose visibili e palpabili, è una balordaggine e una ingenuità, posto che non sia una infermità dello spirito, un'idiozia! [... ] Un'interpretazione scientifica del mondo, come l'intendete voi, potrebbe essere pur sempre una delle più sciocche, cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo, una delle più povere di senso: sia detto ciò per gli orecchi e per la coscienza dei signori meccanicisti che oggi s'intrufolano volentieri tra i filosofi, e sono assolutamente dell'opinione che la meccanica sia la teoria delle leggi prime e ultime, sulle quali ogni esistenza dovrebbe essere edificata come sopra le sue fondamenta. Tuttavia un mondo essenzialmente meccanico sarebbe un mondo essenzialmente privo di senso. Ammesso che si potesse misurare il valore di una musica da quanto di essa può essere computato, calcolato, tradotto in formule, come sarebbe assurda una tale "scientifica" misurazione della musica! Che cosa di essa avremmo mai colto, compreso, conosciuto? Niente, proprio un bel niente di ciò che propriamente in essa è "musica".

(Nietzsche, La Gaia Scienza)

 

“ Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti". La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che "niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano". Questa incondizionata volontà di verità, che cos'è dunque?[ ... ] Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?”

(Nietzsche, La Gaia Scienza)

 

 

     L’eccesso di storia ha intaccato la forza plastica della vita, essa non è piú capace di servirsi del passato come di un robusto nutrimento. Il male è terribile, e nondimeno, se la gioventú non avesse il dono chiaroveggente della natura, nessuno saprebbe che esso è un male e che si è perduto un paradiso di salute. Ma questa stessa gioventú indovina anche col salutare istinto della natura stessa come questo paradiso si possa riconquistare; essa conosce gli unguenti e le medicine contro la malattia storica, contro l’eccesso dell’elemento storico: come si chiamano?

      Non ci si stupisca, si chiamano con nomi di veleni: i rimedi contro l’elemento storico si chiamanol’antistorico e il sovrastorico. Con questi nomi ritorniamo all’inizio della nostra trattazione e alla sua serenità.

       Con il termine “l’antistorico” designo la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato; “sovrastoriche” chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione. La scienza – è essa infatti che parlerebbe di veleni – in quella forza, in queste potenze vede potenze e forze avverse: essa reputa infatti vera e giusta, ossia una considerazione scientifica, solo la considerazione delle cose che vede dappertutto un divenuto, un elemento storico, e in nessun luogo un ente, un eterno.

Allo stesso modo che essa vive in intima contraddizione con le forze eternizzanti dell’arte e della religione, cosí essa odia l’oblio, la morte del sapere, come pure cerca di eliminare tutte le delimitazioni dell’orizzonte e getta l’uomo in quel mare infinito e illimitato di onde luminose, nel mare del divenire conosciuto.

      Almeno vi potesse vivere! Allo stesso modo che per un terremoto le città crollano, si spopolano e l’uomo costruisce solo tremando e di nascosto la sua casa su un suolo vulcanico, cosí anche la vita si abbatte su se stessa, diventando debole e scoraggiata, se il terremoto di idee che la scienza provoca toglie all’uomo il fondamento di tutta la sua sicurezza e la sua pace, la fede in ciò che perdura ed è eterno. Ma la vita deve dominare sulla conoscenza, sulla scienza, oppure la conoscenza deve dominare sulla vita? Quale delle due forze è la piú alta e la decisiva? Nessuno può dubitarne: la vita è il potere piú alto, dominante, poiché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe nel contempo se stessa.”

(Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, Utilità e danno della storia per la vita)

 

 

 

 ” Trattenerci reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire un’eguaglianza tra la propria volontà e quella dell’altro: tutto questo può, in un certo qual senso grossolano, divenire una buona costumanza tra individui, ove ne siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva somiglianza in quantità di forza e in misure di valore, nonché la loro mutua interdipendenza all’interno di un unico corpo). Ma appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come principio basilare della società, si mostrerebbe immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita, un principio di dissoluzione e di decadenza. Su questo punto occorre rivolgere radicalmente il pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimentale: la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e piú debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel piú temperato dei casi, uno sfruttare – ma a che scopo si dovrebbe sempre usare proprio queste parole, sulle quali da tempo immemorabile si è impressa un’intenzione denigratoria? Anche quel corpo all’interno del quale, come è stato precedentemente ammesso, i singoli si trattano da eguali – ciò accade in ogni sana aristocrazia – deve anch’esso, ove sia un corpo vivo e non moribondo, fare verso gli altri corpi tutto ciò da cui vicendevolmente si astengono gli individui in esso compresi:

dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e perché la vita è precisamente volontà di potenza. In nessun punto, tuttavia, la coscienza comune degli Europei è piú riluttante all’ammaestramento di quanto lo sia a questo proposito; oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici travestimenti, di condizioni di là da venire della società, da cui dovrà scomparire il suo “carattere di sfruttamento” – ciò suona alle mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si astenesse da ogni funzione organica. Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri verso se stessi!”

(Nietzsche,  Al di là del bene e del male)

 

 

 “Ogni elevazione del tipo “uomo” è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e cosí continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitú. Senza il pathos della distanza, cosí come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell’obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, la elaborazione di condizioni sempre piú elevate, piú rare, piú lontane, piú cariche di tensione, piú vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo “uomo”, l’assiduo “autosuperamento dell’uomo”, per prendere una formola morale in un senso sovramorale. Indubbiamente, per quanto riguarda la storia delle origini di una società aristocratica (il presupposto, dunque, di quell’innalzamento del tipo “uomo”), non ci si può abbandonare ad alcuna illusione umanitaria: la verità è dura. Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà superiore è cominciata sulla terra! Uomini con un’indole ancora naturale, barbari in ogni terribile significato della parola, uomini da preda ancora in possesso di non infrante energie volitive e bramosie di potenza, si gettarono su razze piú deboli, piú ben costumate, piú pacifiche, forse dedite al commercio o alla pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto l’ultima forza vitale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali d’intelligenza e di pervertimento. La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica: la sua preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica, – erano gli uomini piú interi (la qual cosa, a ogni grado, significa anche lo stesso che “bestia piú intera”.

(Nietzsche,  Al di là del bene e del male)

 

 

 L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!

Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.

(Nietzsche, La gaia scienza)

 

1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in esso, lui stesso è questo mondo. (La forma più antica dell'idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi "Io, Platone, sono la verità").

 

2. il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso ("al peccatore che fa penitenza").(Progresso dell'idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile - diventa donna, si cristianizza ... ).

 

3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (In fondo l'antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l'idea sublimata, pallida, nordica, kónigsbergica).

 

4. Il mondo vero - inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a chi ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?... (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).

 

5, Il "mondo vero" - un'idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante - un'idea divenuta inutile e superflua, quindi un'idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

 

6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA).

(Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Storia di un errore)

 

 

“ Arrivato nella città più vicina, che sorgeva ai margini della foresta, Zarathustra vi trovò una gran folla radunata sulla piazza dei mercato: perché avevano detto che si sarebbe visto un uomo camminare sulla corda. E Zarathustra così parlò alla folla:

 

"Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto voi per superarlo?

 

Tutti gli esseri hanno finora creato qualcosa al di sopra di se stessi: e voi volete essere il riflusso di questo grande flusso e tornare piuttosto all'animale che superare l'uomo?

 

Che cos'è la scimmia per l'uomo? Una risata o una dolorosa vergogna. E proprio ciò dev'essere l'uomo per il superuomo: una risata o una dolorosa vergogna.

 

Voi avete fatto la strada dal verme all'uomo, e molto c'è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancora adesso l'uomo è più scimmia di qualunque scimmia.

 

Ma anche colui che è più saggio tra voi, non è che un dissidio, un essere ibrido fra la pianta e lo spettro. Ma vi ordino io di diventare spettri o piante?

Vedete, io vi insegno il superuomo!

 

Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: sia il superuomo il senso della terra!

 

Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no.

 

Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!

 

Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell'imperscrutabile maggior conto che del senso della terra!

 

Un tempo l'anima guardava al corpo con disprezzo: e allora questo disprezzo era la cosa più alta: essa lo voleva macilento, orribile, affamato. Così pensava di sfuggire ad esso e alla terra.

 

Oh, quest'anima era essa stessa ancora macilenta, orribile e affamata: e la crudeltà era la voluttà di quest'anima!

Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa rivela il vostro corpo della vostra anima? Non è la vostra anima povertà e sporcizia e un miserabile benessere?

 

In verità, un fiume lutulento è l'uomo. E bisogna essere un mare, per poter accogliere un fiume lutulento senza divenire impuri.

 

Vedete, io vi insegno il superuomo: esso è questo mare, in cui può inabissarsi il vostro grande disprezzo.

 

Qual è l'esperienza più grande che potete fare? Essa è l'ora del grande disprezzo. L'ora in cui anche la vostra felicità vi nausea, e così pure la vostra ragione e la vostra virtù.

 

L'ora in cui dite: "Che importa la mia felicità? Essa è povertà e sporcizia, e un miserabile benessere. E la mia felicità dovrebbe giustificare la stessa esistenza?"

 

L'ora in cui dite: "Che importa la mia ragione? Ha essa fame di sapere come il leone del suo pasto? Essa è povertà e sporcizia e un miserabile benessere!“ 

L'ora in cui dite: "Che importa la mia virtù? Essa non mi ha reso ancora furibondo. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è povertà e sporcizia e un miserabile benessere!"

 

L'ora in cui dite: "Che importa la mia giustizia? Non vedo che io sia brace ardente. Ma il giusto è brace ardente! "

 

L'ora in cui dite: "Che importa la mia pietà? Non è la pietà la croce sulla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione".

 

Parlaste già cosi? Gridaste già così? Oh, se vi avessi già sentito gridare cosi!

 

Non il vostro peccato, ma la vostra moderazione grida vendetta al cielo, la vostra avarizia nello stesso vostro peccato, grida vendetta al cielo!

 

Dov'è la folgore che vi lecchi con la sua lingua? Dov'è la follia che vi si dovrebbe inoculare?

 

Vedete, io vi insegno il superuomo: esso è questa folgore, esso è questa follia! 

Quando Zarathustra ebbe così parlato, uno di tra la folla gridò: "Abbiamo ascoltato il funambolo abbastanza; adesso vogliamo anche vederlo!". E tutta la folla rise di Zarathustra. Da parte sua il funambolo, credendo che quelle parole fossero rivolte a lui, sì mise all'opera. 

Zarathustra invece guardò la folla meravigliato. Poi così parlò:

 

"L'uomo è una corda, annodata tra l'animale e il superuomo - una corda tesa sopra un abisso.

 

Un pericoloso andare al di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso rabbrividire e fermarsi.

 

Quel che è grande nell'uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell'uomo è che egli è un passaggio e un trapasso.

 

Io amo coloro che non sanno vivere se non come quelli che vanno in rovina, perché essi sono quelli che vanno oltre.

 

Amo i grandi disprezzatosi, perché essi sono i grandi veneratori e frecce del desiderio dell'altra riva. 

Amo coloro che non stanno a cercar prima una ragione dietro le stelle per sacrificarsi e perire: ma che si sacrificano alla terra perché la terra sia un giorno del superuomo.

 

Amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere perché viva un giorno il superuomo. E così vuole la propria fine.

 

Amo colui che lavora e inventa, per costruire la casa al superuomo e preparargli la terra, l'animale e la pianta: giacché così egli vuole la propria fine.

 

Amo colui che ama la propria virtù: giacché la virtù è volontà di perire e una freccia del desiderio.

 

Amo colui che non serba per sé neanche una goccia di spirito, ma vuol essere in tutto lo spirito della sua virtù: così egli passa come spirito sopra il ponte.

 

Amo colui che fa della sua virtù la sua inclinazione e la sua fatalità: così egli vuole, per amore della sua virtù, vivere ancora e non vivere più.

 

Amo colui che non vuole avere molte virtù. Una virtù è più virtù di due, perché è più nodi a cui è annodata la fatalità. 

Amo colui la cui anima si dissipa, che non vuole ringraziamenti e che non restituisce: giacché egli dona sempre e non vuole conservarsi.

 

Amo colui che si vergogna se il dado riesce a suo favore e che allora si domanda: sono forse un baro? - giacché egli vuole perire.

 

Amo colui che getta parole d'oro davanti alle sue azioni e sempre mantiene ancor più che non prometta: giacché egli vuole la propria fine.

 

Amo colui che giustifica gli uomini dell'avvenire e redime quelli del passato: giacché egli vuole perire ad opera degli uomini del presente.

 

Amo colui che castiga il suo dio, perché ama il suo dio: giacché egli dovrà perire' per la collera del suo dio.

 

Amo colui la cui anima è profonda anche quando è ferita e che può perire per una piccola vicenda: cosi egli passa volentieri sopra il ponte. 

Amo colui la cui anima è stracolma, sicché dimentica se stesso, e tutte le cose sono in lui: così tutte le cose diventano la sua fine.

 

Amo colui che ha libero spirito e libero cuore: così la sua testa non è che le viscere del suo cuore, ma il suo cuore lo spinge alla rovina.

 

Amo tutti coloro che sono come gocce grevi, le quali cadono a una a una dalla nuvola scura incombente sugli uomini: essi annunciano l'arrivo del fulmine e, come annunciatori, periscono.

 

 

Vedete, io sono un annunciatore del fulmine e una goccia greve che cade dalla nuvola: ma questo fulmine si chiama il superuomo”

(Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

 

 “ Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compassione. Ma la compassione è l'abisso più fondo: quanto l'uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l'affonda nel dolore. Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice: "Questo fu la vita? Orsù! Da capo!". Ma in queste parole sono molte squillanti fanfare. Chi ha orecchi, intenda. "Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo - tu non potresti sopportarlo!". Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. "Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti - è un'altra eternità.

Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo''. Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?". "Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo". "Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato - e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo?

Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno?". Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare.
Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all'insù, tremebondo, nel più fondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri: - tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, - tacita, sul tetto piatto, come su roba altrui:-

ciò aveva inorridito il cane: perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E ora, sentendo di nuovo ululare a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà. Ma dov'era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare? Stavo sognando? Mi ero svegliato? D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.
Ma qui giaceva un uomo! E - proprio qui! - il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, - adesso mi vide accorrere - e allora ululò di nuovo, urlò: - avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?
E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e - lì si era abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.-

Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini!
Giacché
era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire?
Chi è il pastore, cui il serprente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?
- Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -; e balzò in piedi.-
Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, - e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa.
La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! – “

 (Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

 

“ Il nichilismo come stato psicologico subentra di necessità, in primo luogo, quando abbiamo cercato in tutto l'accadere un "senso" che in esso non c'è, sicché alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio. Il nichilismo è allora l'acquistar coscienza del lungo spreco di forze, il tormento dell'"invano", l'insicurezza, la mancanza dell'occasione di riposarsi in qualche modo, di tranquillizzarsi su qualcosa ancora - la vergogna di fronte a se stessi, come se ci fosse troppo a lungo ingannati ... Quel senso potrebbe essere stato: I'" adempimento" di un supremo canone morale in tutto l'accadere, l'ordine morale del mondo; o l'accrescimento dell'amore e dell'armonia nei rapporti fra gli esseri; o l'avvicinamento a uno stato universale di felicità; o anche il dirigersi verso uno stato universale del nulla - una meta è ancor sempre un senso. Ciò che è comune a tutte queste rappresentazioni è che si debba raggiungere qualcosa attraverso il processo stesso - e poi si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla ... Dunque la delusione su un preteso fine del divenire è una causa del nichilismo: sia in relazione a un fine del tutto determinato, sia, in modo più generale, come compressione dell'insufficienza di tutte le ipotesi finalistiche finora fatte, che riguardano l'intero "sviluppo" (l'uomo non è più collaboratore, per non dire centro, del divenire).

Il nichilismo come stato psicologico subentra, in secondo luogo, quando si è postulata una totalità, una sistematizzazione e addirittura un'organizzazione in tutto l'accadere e alla sua base, sicché l'anima assetata di ammirazione e venerazione gozzoviglia nella rappresentazione generale di una suprema forma di governo e amministrazione (se si tratta dell'anima di un logico, basta già l'assoluta consequenzialità e dialettica oggettiva per riconciliare con tutto quanto ... ). Una specie di unità, una qualunque forma di "monismo": e in conseguenza di questa credenza l'uomo ha un profondo sentimento della connessione e della dipendenza da un tutto a lui immensamente superiore, è un modus della divinità ... "Il bene dell'universale esige l'abbandonarsi del singolo" ... ma, guarda un po', un siffatto universale non c'è! In fondo l'uomo ha perduto la fede nel suo valore, se attraverso di lui non opera un tutto che abbia un infinito valore; egli cioè ha concepito un tale tutto per poter credere nel proprio valore.

Il nichilismo come stato psicologico ha ancora una terza e ultima forma. Date queste due constatazioni, che col divenire non si deve raggiungere niente, e che sotto ogni divenire non si ritrova per nulla una grande unità, dove l'individuo possa totalmente immergersi come in un elemento di supremo valore: non resta come scappatoia che condannare come illusione tutto questo mondo del divenire e inventare un mondo che sia al di là di esso, come mondo vero. Ma appena l'uomo si accorge che questo mondo è stato fabbricato solo in base a bisogni psicologici, e che in nessun modo egli ha diritto di far ciò, sorge l'ultima forma del nichilismo, che racchiude in sé l'incredulità per un mondo metafisica - che proibisce a se stessa di credere in un mondo vero. In questa posizione si ammette la realtà del divenire come unica realtà, ci si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a mondi dietro i mondi e a false divinità - ma non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare ... -

Che cos'è accaduto in fondo? Si raggiunse il sentimento della mancanza di valore, quando si comprese che non è lecito interpretare il carattere generale dell'esistenza né col concetto di "fine", né col concetto di " unità ", né col concetto di " verità ". Con ciò non si ottiene e raggiunge niente; nella molteplicità dell'accadere manca un'unità che permei tutto; il carattere dell'esistenza non è "vero", è falso.... non si ha assolutamente più ragione di favoleggiare un mondo vero...
Insomma: le categorie "fine", "unità", "essere", con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte - e ora il mondo appare privo di valore ...“

(Nietzsche, Frammenti postumi)

 

 

“ La domanda del nichilismo “a che scopo?” procede dalla vecchia abitudine di vedere il fine come posto, dato, richiesto dall’esterno – cioè da una qualche autorità sovraumana. Anche dopo aver disimparato a credere in quest’ultima, si continua a cercare, secondo la vecchia abitudine, un’altra autorità in grado di parlare un linguaggio assoluto e di imporre fini e compiti. Viene quindi in primo piano l’autorità della coscienza (quanto più si emancipa dalla teologia, tanto più la morale diventa imperativa), in sostituzione di un’autorità personale. O l’autorità della ragione. O l’istinto sociale (il gregge). O la storia con uno spirito immanente, che ha il suo fine in sé e a cui ci si può abbandonare. Si vorrebbe aggirare la necessità di avere una volontà, di volere uno scopo, il rischio di dare a se stessi un fine”.

(Nietzsche, Frammenti postumi)

 

“ 1. Il nichilismo come stato NORMALE

Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché? "; che cosa significa nichilismo? -  che i valori supremi si svalorizzano
Esso è AMBIGUO:
A. Nichilismo come segno della cresciuta potenza dello spirito: come
NICHILISMO ATTIVO.
Può essere un segno di forza: l'energia dello spirito può essere cresciuta tanto, che i fini sinora perseguiti ("convinzioni, articoli di fede") le riescano inadeguati.
- Una fede cioè esprime in genere la costrizione esercitata da condizioni di esistenza, una sottomissione all'autorità di situazioni in cui un essere prospera cresce, acquista potenza...
D'altra parte un segno di forza non sufficiente per porsi ora nuovamente, in maniera creativa, un fine, un perché, una fede.
Il SUO MASSIMO di forza relativa lo raggiunge come forza violenta di DISTRUZIONE, come nichilismo attivo. Il suo contrario sarebbe il nichilismo stanco che non aggredisce più; la forma più famosa di questo è il buddhismo, come nichilismo passivo.

     Il nichilismo rappresenta uno stato intermedio patologico (patologica è l'immensa generalizzazione, la conclusione che non c'è nessun senso):

     sia che le energie creative non siano ancora forti abbastanza, sia che la decadenza indugi ancora e non abbia ancora trovato i suoi rimedi.
B) Nichilismo come declino e regresso della potenza dello spirito
NICHILISMO PASSIVO:
come segno di debolezza: l'energia dello spirito può essere stanca, esaurita, in modo che i fini sinora perseguiti sono inadeguati ;e non trovano più credito la sintesi dei valori e dei fini (su cui riposa ogni forte cultura) si scioglie in modo che i singoli valori si fanno la guerra: disgregamento; tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce, sarà in primo piano, sotto diversi travestimenti, religiosi o morali o politici o estetici, ecc.
2. PRESUPPOSTI DI QUEST’IPOTESI
Che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, maniera creativa, un fine, un perché, una fede una "cosa in sé";
- ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo. Esso ripone il valore delle cose proprio nel fatto che a tale valore non corrisponda né abbia corrisposto nessuna realtà, ma solo un sintomo di forza da parte di chi pone il valore, una semplificazione ai fini della vita.”

(Nietzsche,  Frammenti postumi)

 

 

 “DARE UN SENSO – questo compito resta assolutamente da assolvere, posto che nessun senso vi sia già”

(Nietzsche,  Frammenti postumi)