LEIBNIZ

(brani scelti)

… si può dire che, in qualunque maniera Dio avesse creato il mondo, esso sarebbe stato sempre regolare e conforme a un ordine generale.

Ma Dio ha scelto l'ordine più perfetto, cioè quello che nel medesimo tempo è piú semplice di ipotesi e piú ricco di fenomeni, come potrebbe essere una linea geometrica la cui costruzione sarebbe agevole ed avesse proprietà ed effetti ed una grande estensione, degni della piú grande ammirazione.”
(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 

“ I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi princípi, quello di contraddizione, in virtú del quale noi giudichiamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso.

E quello di ragion sufficiente, in virtú del quale consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna proposizione vera, senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia cosí e non altrimenti, per quanto queste ragioni il piú delle volte non possano esserci conosciute.

Vi sono pure due specie di verità, quelle di ragione, e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie ed il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile. Quando una verità è necessaria, è possibile trovarne la ragione, mediante l'analisi, risolvendola in idee e verità più semplici, fino a quando non si giunga alle verità primitive.

Ed è perciò che nelle matematiche i teoremi speculativi ed i canoni pratici sono ricondotti, mediante l'analisi, alle definizioni, agli assiomi ed ai postulati.

Vi sono infine idee semplici delle quali non è possibile dare la definizione: cosí vi sono assiomi e postulati, in una parola, princípi primitivi, che non possono essere provati, perché non hanno bisogno di prova: sono enunciati identici, il cui opposto contiene una contraddizione manifesta.

Ma la ragione sufficiente si deve trovare anche nelle verità contingenti o di fatto cioè nella serie delle cose sparse nell'universo delle creature; in esse la risoluzione in ragioni particolari può essere spinta senza limiti, a causa dell'immensa varietà delle cose della natura e della divisione dei corpi all'infinito. C'è un'infinità di figure e di movimenti, presenti e passati, che entrano nella causa efficiente del mio presente scrivere, e c'è una infinità di piccole inclinazioni e di disposizioni della mia anima, presenti e passate, che entrano nella causa finale.

E siccome tutto questo dettaglio non implica se non altri contingenti anteriori, ancora piú particolareggiati, ciascuno dei quali ha bisogno, perché se ne possa rendere ragione, di un'analisi simile, a questo modo non si avanza affatto e bisogna che la ragione sufficiente o ultima sia al di fuori della successione o della serie di questi dettagli delle contingenze, per quanto infinita possa essere.

È perciò che la ragione ultima delle cose deve trovarsi in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei mutamenti si trovi in modo eminente come in una fonte: è quello che chiamiamo Dio.

Ora, poiché questa sostanza è la ragione sufficiente di tutto quel dettaglio, che cosí è tutto legato, non c'è che un solo Dio e questo Dio è sufficiente.

Si può inoltre affermare che questa sostanza suprema, che è l'unica universale e necessaria, non avendo nulla al di fuori di sé che sia da essa indipendente ed essendo una conseguenza diretta dell'essere possibile, deve essere incapace di limiti e contenere la massima quantità possibile di realtà. “

(Leibniz, Monadologia, 31-40)

 

 

“ Una delle mie grandi massime e delle piú ricche di applicazioni, è che la natura non fa mai salti (natura non facit saltus): l'ho chiamata legge della continuità; ... l'uso di questa legge è molto importante nella fisica: essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai un movimento nasce immediatamente dal riposo, né vi giunga se non attraverso un movimento piú piccolo ... Giudicare altrimenti significa non conoscere a sufficienza l'immensa sottigliezza delle cose che implica sempre e ovunque un infinito attuale.”

(Leibniz, Nuovi saggi)

 

“ certamente non derivano dall'estensione né il movimento o azione,
né la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura che regolano
il movimento e l'urto dei corpi.

(Leibniz, Monadologia)

 

 

“se la massa è inizialmente continua, è necessario che le forme sorgano dal movimento .... perché dal movimento deriva la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai limiti delle parti le loro figure, le forme, quindi dal movimento derivano le forme. E’ chiaro da ciò che ogni tendenza alla forma è movimento.
(Leibniz , Lettera a Thomasius,)

 

 

“ Non si potrà mai, dunque, considerare come inizio ciò a cui si può togliere qualcosa. Ciò a cui non si può togliere alcuna estensione è inesteso; dunque, l'inizio del corpo, o dello spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto, il conatus, l'istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è inesteso il che era da dimostrarsi. Il punto non è cio che non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano le parti; ma ciò la cui estensione è nulla, cioè le cui parti non hanno distanza fra di loro, la cui grandezza non è da considerarsi, è inassegnabile.”

(Leibniz, Hyphothesis physica nova)

 

 

“ Sono capace di dimostrare dalla natura del movimento nel campo
fisico, da me scoperta, che il movimento non può esistere nei corpi presi
per sé, se non vi si aggiunga lo spirito; ... che lo spirito è incorporeo; che lo
spirito agisce su se stesso, che nessuna azione su se stesso può essere movimento, che l'azione del corpo non è se non il movimento, e che quindi lo
spirito non è corpo.”
(Leibniz, Lettera al duca di Hannover)

 

Infatti la materia. è di per sé priva di movimento. Principio di ogni movimento è lo spirito ".
(Leibniz, Lettera a Thomasius)

 

“ negli esseri corporei vi è qualche cosa al dì là dell'estensione, anzi prima dell'estensione: la forza della natura riposta ovunque dall'autore supremo, la quale non consiste soltanto in una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scolastici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario.
Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri sensi, e, a mio avviso, può essere dimostrato ovunque nella materia, anche là dove non è evidente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire a Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia immessa da lui nei corpi, in modo da costituirne l'intima natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze.

(Leibniz,  Specimen dinamicum)

 

“ Bisogna, quindi, che il termine del soggetto racchiuda sempre quello
del predicato, in modo tale che colui che comprendesse perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe giudicare che il predicato gli appartiene.”
(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 

 

“ Dio, mentre vede la nozione individuale di Alessandro, vi vede, al tempo stesso, il fondamento e la ragione di tutti i predicati che ad essa si possono con verità attribuire, come, per esempio, che egli vincerà Dario e Poro, fino a riconoscervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o di veleno, cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia. Cosí quando si considera bene la connessione delle cose, si può dire che in ogni momento si trovano nell'anima di Alessandro Magno le tracce di tutto ciò che gli è accaduto ed i segni di tutto ciò che gli accadrà, nonché le tracce di tutto ciò che accade nell'universo, sebbene
appartenga solo a Dio riconoscerle tutte.”

(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 

 

“ Potrebbe sembrare in tal modo che vada distrutta la differenza tra verità contingenti e verità necessarie, che la libertà umana non abbia piú luogo e che una fatalità assoluta regni su tutte le nostre azioni, come su tutti gli eventi del mondo. A ciò rispondo che bisogna distinguere tra il certo ed il necessario.
(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 

“ Si può anche dimostrare che la nozione della grandezza, della figura, del movimento, non è poi cosí distinta come s'immagina e che racchiude qualcosa di immaginario e di relativo alle nostre percezioni, come accade (sebbene in grado maggiore) per il colore, il calore ed altre qualità simili, delle quali si può dubitare se si trovino realmente nella natura delle cose fuori di noi. Ed è perciò che le qualità di questo genere non possono costituire alcuna sostanza.

(Leibniz, Discorso di Metaf, XII)

 

La sostanza è un essere capace di azione. Essa è semplice o composta. La sostanza semplice è quella che non ha parti. La composta è l'unione delle sostanze semplici o delle monadi. Monás è un termine greco, che significa unità, o ciò che è uno. I composti o i corpi sono moltitudini: le sostanze semplici, le vite, le anime, gli spiriti sono unità. Ed è necessario che ovunque vi siano sostanze semplici, perché senza il semplice non vi sarebbe nulla di composto. Di conseguenza tutta la natura è piena di vita.

Le monadi, non avendo parti, non possono essere formate né disfatte: esse non possono cominciare né finire secondo natura, perché durano quanto l'Universo che potrà essere modificato ma non distrutto. Esse non possono avere figure, altrimenti avrebbero parti: una monade, perciò, non può in se stessa e nel momento essere distinta da un'altra che per qualità e azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cioè le rappresentazioni, nel semplice, del composto o di ciò che è esterno); e le sue appetizioni (cioè le tendenze da una percezione all'altra), che costituiscono i princípi del cambiamento. La semplicità della sostanza, infatti, non esclude la molteplicità delle modificazioni, che devono trovarsi insieme nella stessa sostanza semplice e che devono consistere nella varietà dei rapporti con le cose che le sono esterne. é come un centro o punto, nel quale, per quanto semplice, si trovano una infinità di angoli, formati dalle rette che vi concorrono.

Nella natura tutto è pieno; ovunque vi sono sostanze semplici, effettivamente separate le une dalle altre, in forza di azioni proprie che cambiano continuamente i loro rapporti, e ciascuna sostanza semplice o monade separata, che costituisce il centro di una sostanza complessa (come per esempio di un animale), ed il principio della sua unicità, è circondata da una massa composta di una infinità di altre monadi, che costituiscono il suo corpo organico, proprio di quella monade centrale, seguendo le cui modificazioni quella monade si rappresenta, come in una specie di centro, le cose che le sono esterne. Questo corpo, poi, è organico, quando costituisce una specie di automa o una macchina della natura, macchina non solo nel tutto, ma anche nelle parti piú piccole che è possibile osservare. E poiché a causa della pienezza del mondo tutto è connesso, e ciascun corpo agisce su ciascun altro corpo, piú o meno a seconda della distanza, e per reazione ne viene modificato: ne deriva di conseguenza che ogni monade è uno specchio vivente, dotato di una attività interna, che si rappresenta l'Universo secondo il proprio punto di vista, ed è altrettanto regolata che l'Universo stesso. Le percezioni poi all'interno della monade nascono le une dalle altre in virtú delle leggi dell'appetizione o delle cause finali del bene e del male, che consistono nelle percezioni osservabili, regolate o no: cosí come i mutamenti dei corpi e i fenomeni esterni nascono in virtú delle leggi delle cause efficienti, cioè dei movimenti. Vi è cosí un'armonia perfetta tra le percezioni della monade e i movimenti dei corpi, un'armonia prestabilita fin dal principio tra il sistema delle cause efficienti e quello delle cause finali; ed è in essa che consistono l'accordo e l'unione fisica dell'anima e del corpo, senza che l'uno possa mutare le leggi dell'altra.”

(Leibniz, Princípi della Natura e della Grazia fondati sulla ragione)

 

 

“ È dunque infinitamente piú ragionevole e piú degno di Dio supporre che egli abbia creato, fin da principio, la macchina del mondo in modo che, senza violare ad ogni momento le due grandi leggi della natura, cioè quelle delle forze e della direzione, e seguendole, anzi, in modo perfetto (eccetto che nel caso dei miracoli), accada esattamente che i muscoli del corpo siano pronti a lavorare essi stessi come occorre, nel momento in cui l'anima ha un pensiero o una volizione conveniente, ch'essa ha avuto, del resto, in conformità degli stati precedenti del corpo, e che cosí l'unione dell'anima con la macchina del corpo e con le sue parti e l'azione dell'uno sull'altro consista solo in questa concomitanza che rivela la saggezza ammirabile del Creatore, molto meglio di ogni altra ipotesi. Non si può negare che questa ipotesi sia per lo meno possibile e che Dio sia un artefice cosí abile per poterla attuare; dopo, sarà facile giudicare che questa ipotesi è la piú probabile, perché è la piú semplice, la piú bella e la piú intelligibile e perché taglia di un colpo tutte le difficoltà; senza dir nulla delle azioni malvagie, per le quali sembra piú ragionevole non fare concorrere Dio, se non per la conservazione delle forze create.Per servirmi infine di un paragone dirò che, rispetto alla concomitanza che io sostengo, essa è simile a quella che ci sarebbe fra diverse orchestre e cori, che eseguano separatamente le loro parti e siano collocate in modo che non si vedano e neppure si odano e che, nondimeno, possano accordarsi seguendo le loro note, ciascuna le proprie, di modo che chi le ascolta, vi trovi un'armonia meravigliosa e molto piú sorprendente che se vi fosse una connessione fra loro. Potrebbe, anzi, accadere che uno, ponendosi accanto ad uno dei due cori, giudicasse dall'uno quello che l'altro esegue, e prendesse una tale abitudine (specialmente se si suppone che possa ascoltare il proprio, senza vederlo, e vedere l'altro, senza ascoltarlo) che, con l'aiuto dell'immaginazione, egli non pensi piú al coro in cui si trova, ma all'altro, oppure che consideri il proprio come un'eco dell'altro, non attribuendo a quello in cui si trova che taluni intermezzi nei quali non si manifestano talune regole della sinfonia con le quali giudica l'altro; oppure attribuendo al proprio certi movimenti, che fa eseguire dal suo lato, secondo certi motivi che egli crede imitati dagli altri a causa del rapporto con ciò che egli trova nello sviluppo della melodia, non sapendo che coloro che si trovano nell'altro coro svolgono in esso qualcosa di corrispondente, secondo i propri disegni.”

(Leibniz, Lettera ad A. Arnauld  30 aprile 1687)

 

 

 

 

“ La monade, di cui qui parleremo, non è altro che una sostanza semplice, la quale entra nei composti; semplice, cioè senza parti.

È necessario che ci siano sostanze semplici, poiché ci sono dei composti. Il composto, infatti, non è altro che un ammasso, o aggregato di semplici.

Dove non ci sono parti non ci sono né estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono perciò i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose.

Nemmeno c’è da temere una loro dissoluzione: è assolutamente impensabile che una sostanza semplice possa perire in modo naturale.

Per la stessa ragione è impossibile che una sostanza semplice inizi in modo naturale: non può formarsi per composizione.

Possiamo così asserire che le monadi non possono iniziare o finire se non in un lampo, cioè non possono iniziare se non attraverso creazione, né finire se non attraverso annichilazione; mentre ciò che è composto inizia o finisce tramite le parti.

Non c’è modo di spiegare come una monade possa venir alterata o mutata al suo interno da qualche altra creatura, poiché non vi si può trasporre nulla, né concepire in essa alcun movimento interno che possa essere suscitato, diretto, aumentato o diminuito, come invece è possibile nei composti, nei quali hanno luogo mutamenti tra le parti. Le monadi non hanno finestre attraverso cui qualcosa possa entrare in o uscire da esse. Gli accidenti non possono distaccarsi dalle sostanze né uscirne come, un tempo, le specie sensibili degli scolastici. Così, né sostanze né accidenti possono entrare, dal di fuori, in una monade. È necessario, tuttavia, che le monadi abbiano qualche qualità altrimenti non sarebbero nemmeno degli esseri. E se le sostanze semplici non differissero per nulla quanto alle loro qualità, sarebbe impossibile scorgere un mutamento nelle cose, poiché ciò che è nel composto non può venire che da elementi semplici. Se le monadi fossero senza qualità, sarebbero indistinguibili l’una dall’altra, poiché, parimenti, non differiscono per quanto concerne la quantità. Di conseguenza, supposto il pieno, nessun luogo in moto perpetuo riceverebbe altro che l’equivalente di quanto posseduto precedentemente, e uno stato di cose sarebbe indiscernibile dall’altro.

È necessario anche che qualsivoglia monade sia differente da qualsiasi altra. Infatti non ci sono mai in natura due esseri perfettamente identici e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su di una denominazione intrinseca.

Considero inoltre concesso che ogni essere creato sia soggetto al mutamento, e di conseguenza anche la monade creata, e anche che tale mutamento sia continuo in ognuna .

Da quanto detto segue che i cambiamenti naturali delle monadi provengono da un principio interno, poiché una causa esterna non può influire sul loro interno. E in generale è lecito affermare che la forza non è altro che il principio del cambiamento.

(Leibniz, Monadologia)

 

 

“ Lo stato transitorio che implica e rappresenta una moltitudine nell’unità o nella sostanza semplice non è altro che ciò che si chiama percezione, che dobbiamo distinguere dall’appercezione o coscienza…

L’azione del principio interno che opera il mutamento o il passaggio da una percezione a un’altra può essere denominato appetizione: è vero che l’appetito non può mai raggiungere interamente ogni percezione a cui tende, ma ne ottiene sempre qualcosa, e giunge a nuove percezioni.

Si potrebbero chiamare entelechie tutte le sostanze semplici o monadi create. Esse, infatti, portano in sé una certa perfezione, vi è in esse un’autosufficienza che le rende fonti quasi automatiche delle loro azioni interne e, per così dire, automi incorporei.

Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha percezioni e appetiti nel senso generale che abbiamo appena esplicato, tutte le sostanze semplici o monadi create si possono chiamare anime. Ma, poiché l’appercezione è qualcosa di più di una qualsiasi semplice percezione, consentiamo a che il nome generale di monadi ed entelechie si attribuisca esclusivamente alle sostanze semplici che godano di semplice percezione, e che si chiamino anime solo quelle la cui percezione è più distinta e unita a memoria.

Esperiamo infatti in noi stessi uno stato nel quale non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo alcuna percezione distinta, come quando perdiamo i sensi o quando siamo colti da un sonno profondo e senza sogni. In questo stato l’anima non si distingue sensibilmente da una semplice monade. Siccome però questo stato non perdura (essa ne esce) è necessario che l’anima sia qualcosa di più. Non ne segue affatto, allora, che la sostanza semplice sia priva di percezione. Questo non è possibile, anche per le ragioni suddette. Perché essa non può morire, non può nemmeno sussistere senza qualche affezione, che non è altro che la sua percezione..

Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci porta in possesso della ragione e delle scienze, mentre ci eleva alla conoscenza di noi stessi e di Dio. E questo è ciò che in noi si chiama anima razionale o spirito

… ogni corpo è affetto da tutto ciò che accade nell’universo, a tal punto che colui, il quale vede tutto, potrebbe leggere in ognuno, ovunque, ciò che accade e anche ciò che è accaduto o accadrà, osservando nel presente ciò che è lontano tanto secondo il tempo quanto secondo lo spazio… Ma un’anima non può leggere in sé stessa altro da quello che vi è rappresentato distintamente; non può svolgere tutto d’un tratto le sue pieghe, perché esse tendono all’infinito.

Così, benché qualsivoglia monade creata rappresenti tutto l’universo, essa rappresenta più distintamente il corpo che le è assegnato in modo peculiare e di cui costituisce l’entelechia. E come questo corpo esprime tutto l’universo attraverso la connessione di tutta la materia nel pieno, così anche l’anima rappresenta tutto l’universo rappresentandosi il corpo che le appartiene in maniera peculiare.

(Leibniz, Monadologia)

 

“ … l’ultima ragione delle cose deve essere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei cambiamenti non sia se non in modo eminente, come nella sua sorgente. Ed è questo ente che noi chiamiamo dio.

Ora, essendo questa sostanza una ragione sufficiente di tutto questo dettaglio, che è tutto concatenato con tutto, non c’è che un dio, e questo dio è sufficiente …

Da ciò segue anche che le creature hanno le loro perfezioni dall’influenza di dio, ma le imperfezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza limiti. In questo, infatti, si distinguono da dio.

È anche vero che si trova in dio non solo la fonte delle esistenze, ma anche quella delle essenze, in quanto reali, ovvero di ciò che vi è di reale nella possibilità: è perché l’intelletto di dio è la ragione delle verità eterne o delle idee da cui esse dipendono, e che senza di lui non ci sarebbe nulla di reale nelle possibilità, e non solo nulla di esistente, ma nemmeno alcunché di possibile.

Perché occorre che, se c’è una realtà nelle essenze o possibilità, ovvero nelle verità eterne, questa realtà sia fondata in qualcosa di esistente e attuale, e di conseguenza nell’esistenza dell’essere necessario, nel quale l’essenza include l’esistenza o nel quale è sufficiente essere possibile per essere attuale… Ma l’abbiamo appena provato anche a posteriori, poiché esistono degli esseri contingenti che non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non nell’essere necessario, che ha la ragione della sua esistenza in sé stesso….

Così, solo dio è l’unità primitiva o la sostanza semplice originaria, le cui produzioni sono tutte monadi create o derivative, e nascono, per così dire, attraverso delle continue folgorazioni della divinità di momento in momento, limitate dalla ricettività della creatura, cui è essenziale essere limitata.

C’è in dio la potenza, che è la sorgente di tutto, e poi la conoscenza, che contiene il dettaglio delle idee, e infine la volontà, che opera i mutamenti o le produzioni secondo il principio del meglio.

E questo risponde a ciò che, nelle monadi create, fa il soggetto o la base, la facoltà percettiva e la facoltà appetitiva. Ma in dio questi attributi sono assolutamente infiniti o perfetti, e nelle monadi create o nelle entelechie … non sono altro che imitazioni, secondo il loro grado di perfezione.

(Leibniz, Monadologia)

 

 

D'altronde vi sono mille segni che fanno giudicare che vi sono a ogni momento una infinità di percezioni in noi, ma senza appercezione e senza riflessione, cioè cambiamenti nell'anima di cui noi non ci accorgiamo perché le impressioni sono o troppo piccole o troppo numerose o troppo congiunte, sicché non si riesce a distinguerle se non in parte; ciò nonostante esse non cessano di far sentire i loro effetti e di farsi sentire almeno confusamente nel loro insieme. [...] Così vi sarebbero in noi percezioni delle quali non ci accorgiamo subito, non derivando l'appercezione che dall'avvertimento dopo un qualche intervallo, per piccolo che sia. E per meglio giudicare delle piccole percezioni che non sapremmo distinguere in una folla [di percezioni] sono solito servirmi dell'esempio del muggito o rumore del mare dal quale si è colpiti quando si è sulla riva. Per intendere questo rumore bisogna che se ne percepiscano le parti che lo costituiscono, cioè il rumore di ogni singola onda, benché ciascuno di questi brusii non si faccia conoscere che nell'insieme confuso di tutte le altre onde, cioè dentro questo muggito stesso, e non potrebbe essere notato, se questa onda che lo produce fosse sola. Perciò bisogna che si sia turbati, almeno un poco, dal movimento di ogni singola onda e che si abbia una qualche percezione di ciascuno di questi rumori, per quanto lievi siano, o altrimenti non vi sarebbe neppure quello di centomila onde, perché centomila niente non possono fare qualche cosa. [...] Quanto piú, infatti, si è attenti a non trascurare nulla di ciò che possiamo determinare, tanto piú la pratica risponde alla teoria: ma soltanto la Suprema Ragione, a cui non sfugge nulla, è in grado di comprendere distintamente tutto l'infinito, tutte le ragioni e tutte le conseguenze. Il nostro potere sull'infinito si limita a conoscerlo confusamente, e a sapere quanto meno, distintamente, che c'è. Diversamente noi giudicheremmo malissimo della bellezza e della grandezza dell'Universo, né potremmo disporre di una fisica efficace, che spieghi la natura delle cose in generale, e ancor meno di una buona pneumatica, che abbracci la conoscenza di Dio, delle anime e delle sostanze semplici in genere.

Tale conoscenza delle percezioni insensibili serve anche a spiegare perché e come due anime umane, o, in generale, di una stessa specie, non escano mai perfettamente simili dalle mani del Creatore, e abbiano ciascuna un rapporto originario con il particolare punto di vista da cui guarderanno l'Universo. Del resto, questo è una conseguenza di quanto ho già osservato degli individui: e, cioè, che la loro differenza non è mai esclusivamente numerica.”

(Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano)

 

“ Si dice che la creatura agisce al di fuori di sé in quanto ha della perfezione, e patisce da un’altra in quanto è imperfetta. Così attribuiamo l’azione alla monade in quanto essa ha delle percezioni distinte, la passione in quanto ne ha di confuse…

Ma nelle sostanze semplici solo un’influenza ideale di una monade sull’altra può avere il suo effetto unicamente attraverso l’intervento divino, in quanto nelle idee di dio una monade chiede, con ragione, che dio, ordinando le altre al principio delle cose, la consideri. Perché, siccome una monade creata non può influenzare fisicamente l’interno dell’altra, è solo per quel medio che l’una può dipendere dall’altra.

Ed è per questo che le azioni e le passioni tra le sostanze sono reciproche. Dio infatti, mettendo a confronto due sostanze semplici, trova in ciascuna dei motivi che lo obbligano ad adeguarla all’altra. Di conseguenza ciò che è attivo secondo un certo rispetto, è passivo secondo un altro: attivo in quanto ciò che in esso si conosce distintamente serve a rendere ragione di ciò che accade in un altro, e passivo in quanto la ragione di ciò che accade in esso si trova in ciò che, in un altro, è conosciuto distintamente.

Ora, siccome nelle idee divine ci sono infiniti universi possibili e di essi non ne può esistere che uno, occorre che ci sia una ragione sufficiente della scelta di Dio, la quale lo determini verso l’uno piuttosto che verso l’altro.

E questa ragione non può che trovarsi nella convenienza, nei gradi di perfezione che quei mondi contengono, poiché ogni possibile ha il diritto di pretendere all’esistenza in ragione della perfezione che implica.

E proprio questa è la causa dell’esistenza del migliore di essi, che dio conosce tramite la saggezza, sceglie in virtù della bontà e produce in forza della potenza.Ora, questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna, e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia dei rapporti che esprimono tutte le altre e che, di conseguenza, sia uno perpetuo specchio vivente dell’universo.

E come una stessa città vista da luoghi differenti sembra del tutto diversa ed è come moltiplicata prospetticamente, così accade che, a causa della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci siano altrettanti differenti universi che non sono perciò che le prospettive di uno solo secondo i diversi punti di vista di ogni monade.

E questo è il mezzo di ottenere la più grande varietà possibile, ma con il più grande ordine possibile: è il mezzo di ottenere quanta più perfezione possibile…

Questi principi ci hanno dato modo di spiegare naturalmente l’unione ovvero la conformità dell’anima e del corpo organico. L’anima segue le sue proprie leggi e il corpo le sue, e convengono tra sé in virtù dell’armonia prestabilita tra tutte le sostanze, poiché sono tutte delle rappresentazioni di uno stesso universo.

Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali attraverso appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei moti. E due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono tra loro armonici.

(Leibniz, Monadologia)

 

 

La nostra discordia verte su punti di una certa importanza. Si tratta di sapere se l'anima sia in se stessa del tutto vuota, a guisa di una tavoletta su cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), come vogliono Aristotele e l'autore del Saggio [J. Locke], e se tutto ciò che vi è tracciato derivi unicamente dal senso e dall'esperienza, o se, invece, l'anima contenga originariamente i princípi di molte nozioni e dottrine, che gli oggetti esterni non fanno altro che svegliare, come occasioni: come io credo con Platone, e anche con gli Scolastici, e con tutti coloro che danno questo significato al passo di san Paolo (Epistola ai Romani, 2, 15) in cui egli afferma che la legge di Dio è “scritta nei cuori”. [...]

Nasce, di qui, un altro problema: e cioè se tutte le verità dipendano dall'esperienza, ossia dall'induzione e dai casi particolari, o se ve ne siano alcune che hanno anche un altro fondamento. Se, infatti, taluni eventi si lasciano prevedere prima di averne fatto un qualsiasi esperimento, è palese che noi vi conferiamo qualcosa da parte nostra. Le sensazioni sebbene necessarie per tutte le nostre conoscenze in atto, non bastano punto a darci tutte le nostre conoscenze in genere: poiché esse non offrono mai altro che casi singoli, vale a dire verità particolari o individuali. Ma tutti gli esempi che confermano una verità generale, per quanto numerosi essi siano, non bastano a stabilire la verità universale di tale proposizione: non ne deriva, infatti, che ciò che è accaduto accadrà sempre allo stesso modo. Per esempio, i Greci e i Romani e tutti gli altri popoli della Terra conosciuta dagli antichi, hanno sempre osservato che, prima del decorso di 24 ore, il giorno si cangia in notte e la notte in giorno. Ma ci s'ingannerebbe se si credesse che la medesima regola si osserva ovunque, dopo che si è esperimentato che nella Nuova Zemplia accade il contrario. E, ancora, si ingannerebbe chi considerasse ciò una verità necessaria ed eterna per lo meno nei nostri climi: si deve infatti considerare che neppure la Terra e il Sole esistono necessariamente, e che vi sarà forse un tempo in cui questo astro splendente non sarà piú, almeno nella sua forma attuale, e, con lui, tutto il suo sistema. Si scorge, di qui, che le verità necessarie, quali si trovano nelle matematiche pure, e particolarmente nell'aritmetica e nella geometria, devono avere princípi la cui prova non dipende punto dagli esempi, né, di conseguenza, dall'attestazione dei sensi, anche se, senza i sensi, non si avrebbe mai l'occasione di pensarci. é questa una cosa che occorre distinguere bene; ed Euclide l'ha cosí ben capita che egli dimostra con la ragione anche ciò che si constata a sufficienza con l'esperienza e con le immagini sensibili. Anche la logica, con la metafisica e la morale - che danno luogo, in un caso, alla filosofia naturale, e nell'altro alla giurisprudenza naturale - sono piene di verità siffatte. Di conseguenza la loro prova non può derivare se non da princípi interni, che si chiamano innati.

(Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano)

 

 

“ L'Uno che domina l'universo, non solo regge il mondo, ma lo fabbrica e fa; è al di sopra del mondo e, per cosí dire, extramondano ed è inoltre la ragione ultima delle cose.”
(Leibniz, Sull'origine radicale delle cose)

 

“ Dalla necessità fisica o ipotetica, che determina le cose del mondo in
modo che le successive derivino dalle precedenti, bisogna arrivare a qualcosa che sia di necessità assoluta e metafisica, di cui non si possa render ragione... Pertanto, poiché la radice ultima dev'essere in alcunché che sia di necessità metafisica, è necessario che esista un Ente unico, di necessità metafisica, la cui essenza implichi l'esistenza.”
(
Leibniz, Sull'origine radicale delle cose)

 

 

“Poiché nelle idee di Dio c'è un'infinità di universi possibili mentre non può esisterne che uno solo, bisogna che ci sia una ragione sufficiente della scelta di Dio, la quale lo determini all'uno piuttosto che all'altro. E questa ragione non può trovarsi che nella convenienza o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono... Ciò è la causa dell'esistenza del meglio che la Saggezza fa conoscere a Dio, che la sua Bontà gli fa scegliere, e la sua Potenza gli fa produrre.”

(Leibniz, Monadologia)

 

 

“ E' bene riflettere che Dio non fa nulla fuori dell'ordine. Cosí, ciò che sembra straordinario lo è solo in relazione a qualche ordine particolare stabilito per le creature. Poiché, quanto all'ordine universale, tutto vi è conforme... Ora, poiché nulla può accadere che non rientri nell'ordine, si può
dire che anche i miracoli rientrano nell'ordine, come tutte le operazioni naturali.”

(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 


“[premesso] che la radice del male è nel nulla, cioè nella privazione o limitazione delle creature.”
(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 

 

“ bisogna che questo male si ricompensi ad usura nell'universo, che
Dio ne tirerà un bene piú grande e che insomma si troverà che questa sequenza di cose, nella quale è compresa l'esistenza del peccatore, è la piú perfetta fra tutte le altre possibili.
(Leibniz, Discorso di Metafisica)

 

 

“ Da tutto ciò si comprende in modo meraviglioso come nella stessa origine delle cose, si eserciti una certa matematica divina o meccanismo metafisico e si verifichi la determinazione del massimo... Con ciò una necessità fisica si ha da una necessità metafisica: infatti, sebbene il mondo non sia metafisicamente necessario, in modo che il contrario implichi contraddizione o assurdità logica, esso è tuttavia necessario o determinato, in modo che il contrario implica imperfezione o assurdità morale.”
(Leibniz, Sull'origine radicale delle cose)

 

 

Questo dialogo del Valla[1] è bello, benché io abbia qualche cosa a ridire, qua e là: l’errore principale è che egli taglia il nodo e sembra condannare la provvidenza sotto il nome di Giove, che quasi considera l’autore del peccato. Spingiamo allora più oltre la fiaba. Sesto lascia Apollo a Delfo e va a trovare Giove a Dodona. Egli compie i sacrifici e poi espone le sue lamentele. Perché, o gran Dio, mi hai condannato ad essere malvagio, ad essere infelice? Cambia il mio destino o riconosci il tuo torto. Giove gli risponde: “Se vorrai rinunciare a Roma, le Parche ti fileranno un altro destino e tu diverrai saggio e felice”. Sesto risponde: “Perché devo rinunciare alla speranza di una corona?” Non potrò essere un buon re?”. Giove: “No, Sesto, io so meglio di te ciò che ti bisogna. Se tu vai a Roma, sarai perduto”. Sesto non potendo risolversi a un così grande sacrificio, esce dal tempio e si abbandona al suo destino. Teodoro, il gran Sacerdote, che aveva assistito al dialogo di Dio con Sesto, indirizza queste parole a Giove: La tua saggezza è adorabile, o Padre degli Dei. Tu hai persuaso quest’uomo del suo errore: già fin d’ora è necessario che gli imputi la sua infelicità alla sua cattiva volontà: egli non può replicar parola. Ma i tuoi fedeli adoratori sono stupiti: essi desiderano ammirare la tua bontà, non meno della tua grandezza, dipende da te donargli una diversa volontà. Giove: Andate da mia figlia Pallade, ella vi dirà ciò che io dovevo fare.

Teodoro fa il viaggio fino ad Atene: gli si ordina di dormire nel tempio della Dea. Durante il sogno, si trova trasportato in un paese sconosciuto. Qui c’era un palazzo di splendore inimmaginabile e di grandezza immensa. La Dea Pallade appare alla porta, circondata dai raggi di una maestà smagliante.

Ella tocca il volto di Teodoro con un ramoscello d’olivo, che teneva nella mano. Di colpo egli diventa capace di sostenere il divino splendore della figlia di Giove e di tutto ciò che Lei gli deve mostrare. Giove che vi ama (così Lei dice), vi ha affidato a me perché vi istruisca. Ecco il palazzo dei destini, dei quali io ho la custodia. Qui ci sono le rappresentazioni non solo di quanto accade, ma anche di tutto ciò che è possibile: Giove, avendole passate in rivista all’inizio del mondo esistente, ha trasformato le possibilità in mondi, scegliendo il migliore di tutti. A volte egli torna a vedere questi luoghi, per prendersi il piacere di ricapitolare le cose e di rinnovare la propria scelta, della quale non può mancare di compiacersi. Io non ho che da parlare e noi vedremo tutto un mondo che mio Padre poteva produrre e nel quale si trova rappresentato tutto ciò che si può domandare, e con questo mezzo si può anche sapere ciò che accadrebbe, se questa o quest’altra possibilità dovesse esistere. E quando le condizioni non saranno determinate a sufficienza, ci saranno mondi tanto differenti tra loro, quanto si vorranno e che risponderanno in modo differente alla stessa questione, e in tutte le maniere possibili. Tu hai appreso la geometria quando eri ancora giovane, come tutti i greci bene educati. Tu sai perciò, che quando si domandano le condizioni di un punto, non le si determinano in modo completo, perché c’è un’infinità di punti, ed essi cadono tutti in quello che i geometri chiamano un luogo, e questo luogo almeno (che spesso è una linea) sarà determinato[2]. Così tu ti puoi immaginare una serie regolata di mondi che racchiuderanno tutti e soltanto il caso di cui si tratta e ne varieranno le circostanze e le conseguenze. Ma se voi supponete un caso che non differisca dal mondo attuale  che in una certa cosa e nelle sue conseguenze, un mondo ben definito vi risponderà: Questi mondi sono tutti qui, cioè nelle idee. Io vi mostrerò, dove si troverà, non già lo stesso Sesto che tu conosci e nella interezza (questo non è possibile, egli porta con sé ciò che sarà)[3], ma alcuni Sesto simili, che avranno tutto ciò che tu già conosci del vero Sesto, ma non tutto ciò che è già in lui, senza che lo si sappia né, di conseguenza, tutto ciò che gli succederà. Tu troverai, perciò, in un mondo un Sesto molto virtuoso ed elevato, in un altro un Sesto contento di uno stato mediocre, insomma Sesto di ogni specie e di ogni infinità di modi.

Detto ciò, la Dea condusse Teodoro in un appartamento: appena vi entrarono, non era un appartamento, era un mondo.

Per ordine di Pallade, si vide apparire Dodona con il tempio di Giove, e Sesto che ne usciva: lo si sentiva dire, che ubbidirebbe a Dio. Ed ecco che va verso una città posta tra due mari, simile a Corinto. Egli compra un piccolo giardino: coltivandolo trova un tesoro; diventa un uomo ricco, amato e considerato; muore in età avanzata, apprezzato da tutta la città. Teodoro vede tutta la sua vita con un colpo d’occhio, e come in una rappresentazione teatrale.  Nell’appartamento vi era un grande volume di scritti: Teodoro non può trattenersi dal domandare che cosa contenessero. E’ la storia del mondo che stiamo visitando, gli dice la Dea: è il libro dei destini. Tu hai visto un numero sulla fronte di Sesto; cerca in questo libro il passo che gli corrisponde. Teodoro lo cerca e vi trova la storia di Sesto raccontata in modo più esteso di quella che aveva vista come in un compendio. Metti il dito sulla linea che più ti piace, gli dice Pallade, e vedrai rappresentata in tutti i particolari ciò che la linea indica in modo sommario. Egli obbedisce e vede apparire in tutti i particolari una parte della vita di Sesto. Passa poi in un altro appartamento, ed ecco un altro mondo, un altro Sesto, che uscendo dal tempio e risoluto di obbedire a Giove si reca in Tracia. Ivi sposa la figlia del Re, che non aveva altri figli e gli succede al trono. E’ adorato dai suoi sudditi. Si reca in un’altra stanza e vede rappresentate altre scene.

Gli appartamenti costituivano come una piramide; a misura che si procedeva verso la cima, erano sempre più belli e rappresentavano mondi sempre più perfetti. Giunge infine nel più alto dove terminava la piramide e che era il più bello di tutti; infatti la piramide aveva un inizio, ma non una fine; aveva un vertice, ma non una base; perciò andava crescendo all’infinito. Ciò era perché (come spiegò la Dea) in una infinità di mondi possibili, c’è sempre il migliore di tutti, altrimenti Dio non sarebbe affatto determinato a crearne alcuno[4]; ma non ce n’è alcuno che non ne abbia uno meno perfetto al di sotto di lui; perciò che la piramide scende all’infinito. Teodoro entra nell’appartamento più alto, ma è subito rapito come in un’estasi: la Dea accorre in suo aiuto, una goccia di liquore divino messa sulla sua lingua, lo rimette. Egli si sente pieno di gioia. Noi siamo nel mondo attuale, gli dice la Dea, e tu sei presso la sorgente della felicità. Ecco ciò che Giove ti prepara, se tu continuerai a servirlo fedelmente. Ecco Sesto come è e come sarà. Egli, preso dalla collera, esce dal tempio, disprezzando il consiglio degli Dei. Tu lo vedi andare verso Roma, mettere in disordine la città, violare la moglie del suo amico. Eccolo cacciato con suo padre, umiliato, infelice. Se Giove avesse posto qui un Sesto felice a Corinto, o Re di Tracia, questo mondo non sarebbe più questo mondo[5]. E nondimeno Egli non poteva mancare di scegliere questo, che supera in perfezione tutti gli altri, e che costituisce il vertice della piramide: altrimenti Giove avrebbe rinunciato alla sua saggezza[6]; e mi avrebbe esiliata, io che sono sua figlia. Tu vedi che mio padre non ha fatto Sesto malvagio: egli lo era da tutta l’eternità e lo era liberamente; Giove non ha fatto che dargli l’esistenza che la sua saggezza non poteva rifiutare al mondo nel quale era compreso; Egli l’ha fatto passare dal regno dei possibili al regno degli esseri attuali[7]. Il delitto di Sesto giova a grandi cose: rende libera Roma, fa nascere un grande impero che fornirà esempi mirabili. Ma quel delitto era un nulla di fronte alla totalità del mondo, del quale tu annuncerai la bellezza, quando, dopo il felice passaggio dallo stato mortale ad uno migliore, Dio ti renderà capace di conoscerlo.

In questo momento Teodoro si sveglia: rende grazie alla Dea, rende giustizia a Giove e, persuaso di ciò che aveva visto e compreso, riprende la missione di grande Sacerdote, con tutta la gioia della quale un mortale è capace. Mi sembra che questa continuazione della finzione, può chiarire la difficoltà che il Valla non aveva voluto esaminare. Se Apollo ha ben rappresentato la scienza divina della visione (che riguarda le esistenze), io spero che Pallade non abbia rappresentato male il personaggio di quella che si chiama scienza della semplice intelligenza[8] (che si riferisce a tutti i possibili), nella quale, in ultima analisi, bisogna ricercare la sorgente delle cose.

(LEIBNIZ, Saggi di teodicea parte III)



[1] Qui Leibniz riassume la parte finale del dialogo di Lorenzo Valla: uno spagnolo chiede a Lorenzo come si conciliano la prescienza di Dio e la libertà dell’uomo. Se Dio ha previsto il tradimento di Giuda, se era necessario che egli tradisse, se era impossibile che egli non tradisse, in che consiste il suo peccato? (giacché all’impossibile nessuno è obbligato). Si risponde che Dio ha previsto il peccato, ma non ha forzato l’uomo a commetterlo; il peccato è volontario. La previsione di Dio delle cose future non le rende perciò necessarie. Occorre distinguere tra il necessario e il certo: non è impossibile che ciò che è stato previsto non accada; ma è infallibile che accadrà.

Per spiegare meglio il problema immaginiamo che un personaggio del paganesimo, Sesto Tarqinio, venuto a Delfi per interrogare l’oracolo di Apollo, abbia come risposta: “Povero e bandito dalla patria, ti accadrà di perdere la vita”. Alle lamentele e alle proteste di Sesto per il cattivo presagio, Apollo risponde che egli si limita a prevedere il futuro, ma non ne è responsabile. E’ Sesto che, con le sue cattive azioni future (superbia, adulterio, tradimento), meriterà il castigo che il destino gli prepara. Se vuol protestare si rivolga a Giove, che è il vero responsabile delle sorti umane. Giove ha fatto il lupo rapace, la lepre timida, l’asino stupido, il leone coraggioso. Alo stesso modo ha dato a Sesto un animo malvagio e incorreggibile.

Apollo rappresenta la prescienza, e si è mostrato che questa non è in contraddizione col libero arbitrio. Ma la difficoltà posta dallo spagnolo non è stata veramente risolta, bensì solo spostata (e anzi aggravata), trasferendola a Giove, che rappresenta la provvidenza. Perché Dio concede a uno un’anima buona e redimibile e a un altro una malvagia e incorreggibile? Non sono in più stridente contrasto la provvidenza divina e la libertà umana? Per risolvere questo secondo problema Leibniz immagina di proseguire il dialogo oltre il punto in cui Valla lo aveva interrotto.

[2] Il cerchio, per esempio, è il luogo di tutti i punti contenuti in un piano ed equidistanti dal centro.

[3]Per il principio degli indiscernibili non si possono concepire due individui perfettamente identici. Ciascuna monade individuale ha una definizione completa che comprende in sé la ragione sufficiente di ogni predicato che da essa si possa svolgere.

[4] Viene applicato il principio di ragion sufficiente. Se si dessero due casi individuali perfettamente identici non vi sarebbe una ragione per preferire l’uno anziché l’altro. Dio non avrebbe avuto una ragione per creare questo mondo, e quindi non lo avrebbe creato; ma Dio ha di fatto creato questo mondo, quindi esso deve essere il migliore di tutti.

[5] La presenza del male è dunque un ingrediente indispensabile alla bellezza e perfezione di questo mondo.

[6] Non poteva: non nel senso che vi fosse costretto, ma in quello che la volontà di Dio si lascia determinare dalla sua suprema intelligenza e saggezza. La volontà antecedente di Dio (che considera isolatamente i singoli beni) è certo rivolta al bene; ma la sua volontà conseguente (che risulta dal conflitto di tutte le volontà antecedenti) si indirizza al meglio. Essa considera cioè un bene non in astratto, ma in concreto, quale si realizza nella reciproca limitazione da parte di altri beni. La regola del meglio non è un criterio puramente logico, bensì morale.

[7] L’essenza di ciascuna monade individuale è inscritta dall’eternità nel mondo dei possibili. Dio non crea le essenze (in ciò simili al platonico mondo delle idee), ma si limita a dar loro l’esistenza. Il suo compito è di far passare gli esistenti dalla potenza all’atto.

[8] La distinzione tra “scienza della visione”  (la conoscenza degli avvenimenti che accadono attualmente nell’ordine dell’universo) e “scienza di semplice intelligenza” (la visione diretta, immediata, che Dio ha delle essenze, dei possibili)  è ripresa dai teologi che discutono della predestinazione. A mediare tra le due egli pone una “scienza media” che è scienza degli eventi condizionali che accadrebbero ad una certa condizione, se questa si traducesse in atto. La sua è una posizione che tenta di conciliare protestantesimo e cattolicesimo, predestinazione e libero arbitrio.