1 - Una carovana verso est
Al limitare della pianura infuocata, il nastro argentato del Nilo Bianco serpeggiava, riflettendo la luce rubata al sole morente.
Djibril strinse gli occhi: due fessure nere come pietre dell’Ahaggar che brillavano tra le onde blu del taguelmoust che gli avvolgeva la testa. Rapito dal palpito magico, cercò di sollevarsi dalla sella, ma la tunica si tese impertinente. La stoffa grezza scendendo verso le ginocchia lo rendeva un tutt’uno col dromedario. Indispettito, strattonò le redini, fermò l’animale e cercò di liberarsi. Quando ci riuscì, puntò i piedi sulle staffe, si sollevò e abbandonò lo sguardo giù nella valle.
All’improvviso, l’orizzonte era solo un profondo squarcio nel tempo. Ricordò quando avevano attraversato il passo di Umm Dibaikarat con l’azalai guidata dal padre Ghissa. Gli sembrò di rivederlo, in sella al dromedario, fiero e indomito come una roccia scura guizzata fuori dalla sabbia dorata. Era stato l’ultimo viaggio comandato dall’anziano Tuareg; molti anni prima. Una lieve emozione lo assalì; quell’immagine era marchiata a fuoco sul cuore.
Spinto da un soffio vitale, portò la mano alla collana, scostò la stoffa del taguelmoust e strinse il contenitore degli ettouben. Da quando il padre lo aveva lasciato, occupava il posto d’onore tra gli amuleti di cuoio. Chiuse gli occhi, chinò la testa e poi, in un bisbiglio, formulò il ringraziamento.
Un attimo dopo, Djibril si voltò indietro, fece un cenno di assenso al Tuareg che lo stava raggiungendo sulla cresta del costone poi, con un balzo, saltò giù dalla sella. Vide Kaumai ricambiare il cenno e, senza una parola, voltare il dromedario iniziando a percorrere a ritroso la carovana.
L’ordine di serrare i ranghi per predisporsi al bivacco serale era dato.
INCIPIT racconto lungo "IL PREZZO DELL'INGENUITA'"
IL PREZZO DELL'INGENUITA'
I
Adesso – 4 Novembre 1925 ore: 12:00 – Roma, Interno di un portone in un vicolo del centro.
— Cosa c’entro io? Dammi ancora un po’ di tempo! Per favore… per favore! Non hai capito!
— Al diavolo! Crepa!
Guardò per l’ultima volta gli occhi dell’uomo che gli stava di fronte, poi abbassò lo sguardo sulla mano con la pistola. La vide contrarsi e l’indice schiacciò con forza. Prima che l’acre tanfo di zolfo e cenere gli arrivasse al naso, le orecchie gli saltarono in aria per la deflagrazione. Il proiettile gli entrò nella carne come un dito nella marmellata. Si meravigliò di non avvertire alcun dolore, finché un incendio non gli divampò nel ventre. Chinò la testa e si guardò l’addome; spingendo con le mani cercò di contrastare quel crampo nelle viscere, ma un attimo dopo sentì il gusto dolciastro e metallico del sangue inondargli la bocca. La vertigine che gli fece perdere l’equilibrio arrivò insieme ai lampi accecanti che cancellarono tutto attorno a lui. Stramazzò a terra con la mente che riusciva ancora a registrare e soprattutto a ragionare, a collegare, a giudicare e… a domandare: — Perché?
Era davvero quello il prezzo da pagare per l’ingenuità?
C’era un unico dubbio che ora non aveva più. Morire era una cosa semplice.
Lunedì 16 marzo 1931 - Castiglion della Pescaia, Locanda Giusti.
La serata è calma e limpida, l’Orsa Maggiore brilla in mezzo allo spicchio di cielo visibile dalla via. Una Lancia Lambda color fegato si è appena fermata davanti alla locanda Giusti. Un uomo in divisa bianca da aviatore scende dal predellino e si avvia verso l’ingresso. Prima di entrare si ferma davanti alla porta del locale e dal vetro sbircia gli avventori seduti ai tavoli. Vede la signora Lina attraversare la sala con un litro di rosso da servire e coglie l’attimo per entrare e farsi riconoscere.
— Buonasera, signora. — Si toglie il berretto e accenna un inchino.
— Buonasera, Eccellenza, avete ancora bisogno della mia ospitalità?
— Sì, e vorrei occupare la stessa stanza… se possibile. Questa volta per un mese.
— Ne sono lusingata, signor ministro, provvedo subito. Volete cenare?
— Sì, certamente, dove posso sedermi?
— Se può andarvi bene, è libero il tavolo dietro al tramezzo.
— Andrà benissimo.
— Bene… vengo subito ad apparecchiarvi.
Italo Balbo allunga lo sguardo e ammira l’ambiente. Le ampie volte di mattoni avvolgono lo spazio e si chiudono sulla colonna dove inizia il tramezzo intonacato. Appeso c’è un quadro raffigurante una mucca maremmana che si incammina tra i canneti. Per un attimo il gerarca fascista si sofferma a studiare il dipinto, poi abbassa lo sguardo e individua il tavolo. Dopo aver appoggiato il berretto sulla seggiola, si toglie la giacca. Prima ancora di sedersi, la sua attenzione è attratta da una voce che si distingue dal brusio; si volta in ogni direzione e si rende conto che proviene da dietro al tramezzo. Finalmente si siede e, per un riflesso condizionato, si accarezza il pizzo “di ferro”. Intanto continua a sentire quella voce nelle orecchie, insistente. Incuriosito, cerca di intuire il senso delle parole. In breve capisce che al tavolo oltre il muro sono seduti in due e stanno giocando a carte.
La sua attenzione è interrotta dalla signora Lina, che mentre apparecchia la tavola lo interroga per prendere l’ordinazione. Balbo va sul sicuro, la Lina in fatto di cibo è una garanzia. Appena l’ostessa si allontana, per ammazzare l’attesa, torna ad ascoltare le chiacchiere dei due tizi e, senza sforzo, riesce a immaginarsi la partita, ma anche i bicchieri di rosso. Infatti di strafalcioni ne ha sentiti, di vino devono averne bevuto abbastanza. All’improvviso, però, il viso sorridente che manifestava una certa benevolenza nei confronti dei vicini buontemponi s’incupisce; il tizio dalla voce più forte ha iniziato a parlare del Consorzio della Bonifica Grossetana.
— Un ammanco di due milioni, ti dico… — sente ripetere dalla voce.
— Ecco, Luciano, ora l’hai detta davvero grossa! Tu come fai a saperlo? — La domanda del compagno di tavolo gli arriva con più difficoltà; il tono della voce si è fatto più esile.
— Come faccio a saperlo? Lo so… perché lo so. — Balbo adesso si concentra sul dialogo per non perdersi una sillaba della conversazione. — I conti della Bonifica passano tutti sulla mia scrivania e io sono un tipo preciso, che segna tutto — aggiunge il fantomatico Luciano.
— Ma se non ci sono state denunce! O quelli del Fascio sono proprio fessi, oppure… — Il compagno si è interrotto e ora attende trepidante la risposta.
— Eh, quelli del Fascio… — Balbo sente l’uomo esitare e poi bloccarsi di colpo. La parola Fascio deve aver colpito nel segno e sbaragliato i fumi dell’alcol.
INCIPIT romanzo breve "LA SACRA SCHEGGIA"
LA SACRA SCHEGGIA
Prima parte – Volterra, A.D. 1291
I – Cattedrale di Santa Maria Assunta - Marzo, decimo giorno.
Le vetrate policrome della cattedrale si ingrigivano nel crepuscolo e il silenzio lisciava i colonnati; la chiesa era deserta. Sotto l’aggetto dell’organo, proprio dove l’oscurità si faceva nero profondo, qualcosa si mosse e uno scalpiccìo si perse tra gli affreschi delle navate. Un uomo, celato per intero dal saio, comparve furtivo sotto la luce fioca delle candele. Sfiorò il retro dell’altare minore e giunse in prossimità del tabernacolo. Si voltò e guardò verso l’entrata. I suoi occhi saettarono irrequieti. Un lieve tintinnìo aveva attratto la sua attenzione. Si fermò in ascolto con i sensi in allarme; sapeva che in quel momento non avrebbe dovuto trovarsi lì. Una goccia gelida gli solcò la faccia e si perse sulla stoffa grezza del cappuccio. Percepì dei lievi fruscii che si avvicinavano. Chi lo aveva convocato in quel luogo, stava arrivando?
Rimase fermo nel silenzio, poi lentamente si spostò verso il transetto, ma non vide nessuno. Tornò indietro e si avvicinò all’altare maggiore. La luce lugubre delle candele rendeva gli oggetti minacciosi e tutto affondava nell’ombra. Proveniente da un lato dell’abside, dove la luce non riusciva ad arrivare, gli sembrò di percepire il ritmo di un respiro affannato. La paura gli penetrò nelle viscere, dimenticò la prudenza e con quattro passi arrivò davanti all’altare maggiore. Sentì di nuovo e più nitido il tintinnìo. Si fermò; era disorientato e non capiva cosa stesse accadendo. Con uno scatto innaturale corse di nuovo vicino all’altare minore, davanti al tabernacolo della Sacra Scheggia. In preda al panico s’inginocchiò, giunse le mani e iniziò a pregare. Un lieve vento lo fece riscuotere, voltò appena la faccia e… non ebbe nemmeno il tempo di gridare.
II – Palazzo del Polpolo – Marzo, undicesimo giorno.
L’aria fresca della mattina attraversava le bifore del palazzo del Popolo e riempiva la sala del podestà. Ranieri degli Ubertini era seduto al suo tavolo da lavoro. Il suo profilo florido, dal naso leggermente uncinato, si rifletteva sulla superficie di legno lucido. Il suo ghigno orrendo rivelava un livello di bile ormai al colmo.
— Un frate morto nella cattedrale di Santa Maria Assunta? — La domanda era rivolta al comandante della milizia, Amerigo Narbona, che se ne stava immobile in mezzo alla stanza.
— Come vi ho detto signore. Padre Martino d’Elci dopo i salmi del vespero serale, ha trovato frate Ubaldo da Solaio, morto stecchito davanti all’altare della Sacra Scheggia. Aveva la testa aperta in due.
— Allora è stato ammazzato!
— Su questo, non credo ci siano dubbi. Non mi sono permesso di fare un sopralluogo; volevo prima avere il vostro consenso. Ma dalle notizie riferitemi, si tratta sicuramente di un omicidio.
Dopo quella conferma da parte del capitano, il podestà chinò la te-sta e infilò le dita tra i capelli. Era un gesto che ripeteva ogni volta che doveva affrontare un argomento che non avrebbe voluto affrontare. Un frate morto davanti alla Sacra Scheggia, quella maledetta storia continuava a perseguitarlo. Aveva trascorso tutto il suo mandato a tranquillizzare gli animi dei cittadini Volterrani traditi nel loro credo. Le scelte fatte dal vescovo Monteforti, lo avevano messo seriamente in difficoltà. L’alto prelato non perdeva mai l’occasione per cercare di imporre la supremazia temporale su quella secolare, ma quelli non erano più i tempi dei Pannocchieschi.
Interrotto il filo dei pensieri Ranieri rialzò la testa e si accorse che accanto a Narbona era comparsa la fantesca. La donna se ne stava lì col vassoio della colazione tra le mani. Il podestà la ignorò, spostò indietro il busto e si rivolse di nuovo al suo interlocutore.
— Allora questa è una maledizione! Non doveva succedere… ora basta! — La potenza di quelle parole impressionò la domestica che, capita l’antifona, si dileguò e, a passi leggeri, inforcò la via delle cucine.
Amerigo Narbona rimase impassibile. Aveva imparato da tempo a controllare le emozioni. L’esperienza poi, aiutata dall’apertura mentale, ne rendevano le valutazioni sempre equilibrate. Il capitano era un robusto quarantenne dal portamento austero e il nero corvino di barba e capelli, contribuiva ad aumentarne l’autorevolezza.
Sapeva bene che in quei momenti il podestà, poteva diventare pericolosissimo e, pur avendo un buon ascendente su di lui, poiché proveniva da una stirpe di commercianti sempre fedeli alla famiglia Ubertini, non aveva osato parlare. Solo quando percepì il regolarizzarsi del suo respiro, decise di avvicinarsi con circospezione.
— La notizia ormai è sfuggita. Padre Martino è stato troppo precipitoso. Col vostro permesso, potrei occuparmene per placare il clamore e gestire la questione col vescovo — propose, lisciandosi con la mano i baffi e la barba.
— Amerigo… in tutta confidenza, voi credete quello che credo io: la faccenda delle due schegge non è ancora finita?
— Be’, il frate ucciso è un Domenicano… Se vale il proverbio: “Chi la fa l’aspetti,” penso proprio di no.
— Come avete detto che si chiamava? — chiese il podestà già proiettato in avanti.
— Ubaldo da Solaio.
— Ubaldo da Solaio… — ripeté Ranieri, come se inseguisse un ri-cordo nella mente.
— Secondo me, è quel frate che portò il braciere al cospetto del ve-scovo durante la cerimonia della prova del fuoco — sostenne Narbo-na anticipando il podestà.
— Certo! Avete buona memoria Amerigo! — esclamò Ranieri. — Il vescovo Monteforti e la sua dannata cerimonia!
— sbottò. — Dovremo fargli intendere ancora una volta che i vecchi tempi sono finiti, Volterra non è più proprietà della chiesa.
Ascoltate quelle parole, Narbona annuì.
— Allora Eccellenza devo occuparmene io? — chiese il capitano concreto.
— Certo, ma voglio essere informato di tutto.
Amerigo, dopo aver assicurato la sua ubbidienza, guardò il podestà allungare una mano e tirare una fascia di stoffa. Una campanella emise una serie di rintocchi argentini. Qualche attimo dopo la fantesca comparve nella stanza.
INCIPIT racconto "LA STRADA FERRATA DELLA VITA"
LA STRADA FERRATA DELLA VITA
1 – Il comandante
Il comandante dei gendarmi, Giovacchino Marani, si passa una mano sulla ferita che gli attraversa la guancia. Sente il dolore riacutizzarsi; il tempo sta cambiando. Da Pistoia, in lontananza, vede la vetta del Monteacuto perdersi nella nebbia. Aprile sta per finire, ma l’aria fredda conquista ancora le creste dell’Appennino e scontrandosi con lo scirocco s’intorbida spargendo di caligine i castagni appena germogliati. Una violazione territoriale ben visibile.
Il gendarme è fermo in Piazza del Duomo e legge il titolo sul giornale: “Passerà per Prato o Pistoia la ferrovia transappenninica?”
Quella notizia attrae la sua attenzione; nella disputa per la ferrovia c’è invischiato fino al collo. E rispetto a dare la caccia ai liberali, come vorrebbero gli austriaci, è un impegno che preferisce. Tra le due città toscane è in corso una disputa infuocata. La sottoscrizione della convenzione tra gli stati confinanti, nel maggio del 1851, ha riacceso il contenzioso tra il progetto del suo amico, l’ingegner Leandro Cioni di Pistoia e l’altro pro-getto di un certo ingegner Achille Pardi di Prato. Entrambi hanno concepi-to una strada ferrata passante per la propria città. Chi riuscirà a spuntarla?
Una strana sensazione anima il cuore del comandante; nella pagina successiva è riportato uno stralcio della convenzione e decide di approfondire l’argomento:
«La santa Sede, il granduca di Toscana, l'impero Austriaco ed i duchi di Modena e di Parma, penetrati dalla importanza di agevolare i mezzi di comunicazione fra i loro Stati ed ampliare così le scambievoli relazioni di buona vicinanza, concordano la costruzione di una strada ferrata che assumerà il nome di "Strada ferrata dell'Italia centrale", e che partendo per una parte da Piacenza si debba dirigere per Parma a Reggio, e per l'altra parte staccandosi da Mantova proceda egualmente a Reggio, e di colà per Modena e Bologna a Pistoja o a Prato, secondo che sarà riconosciuto più agevole e meno dispendioso il passaggio dell'Apennino, congiungendosi infine nell'una o l'altra di dette città alla rete delle strade ferrate toscane.»
Il rumore di una carrozza lo distrae, smette di leggere e controlla chi è quel damerino che è sceso sul marciapiede opposto. Non è il suo amico ingegnere. Si stringe nella redingote scura che indossa sopra la divisa d’ordinanza. Controlla il cipollone: Cioni è in ritardo, ma non è una novità. Marani non può fare a meno di ricordare. Già nel ’48, durante la spedizione in Lombardo-Veneto contro gli austriaci, lo ha servito come attendente nell’esercito del granducato, e ha dovuto armarsi di pazienza molte volte, ma nonostante questo gli sarà per sempre riconoscente. Il gendarme si accarezza di nuovo la ferita sulla guancia, il ricordo della brutta avventura militare è ritornato nella mente nitido e doloroso.
Cioni e Marani si erano arruolati come volontari nel contingente inviato dalla Toscana in aiuto del regno di Sardegna; il primo come tenente del genio, e il secondo come attendente di campo dello stesso Cioni.
Il piano strategico dell’offensiva Sabauda prevedeva la presa del paese di Goito. Il ponte sul Mincio, una volta conquistato, avrebbe permesso di oltrepassare il fiume per tentare l’aggiramento di Mantova. Dopo una sanguinosa battaglia, e una strenua difesa da parte degli austriaci, i bersaglieri di La Marmora avevano messo in rotta le linee nemiche. Gli austriaci in fuga erano riusciti comunque a far saltare il ponte. Per creare un’alternativa alla sua ricostruzione, fu deciso di integrarlo con un ponte di barche. Cioni aveva effettuato la perlustrazione per individuare un restringimento del fiume. Trovato il punto, fu pianificata l’azione.
Una mattina, con uno squadrone di soldati al seguito, Cioni e Marani attraversarono la corrente per insediare la testa di ponte. Avevano appena toccato la sponda opposta, quando un drappello di dragoni austriaci calarono al galoppo dalla collina. Cioni non si perse d’animo, nonostante la superiorità numerica del nemico potevano fronteggiarli.
Il colonnello asburgico scandì alcuni ordini, i suoi uomini si fermarono e si disposero a semicerchio. Lui avanzò di qualche metro e si fermò davanti a Marani che in quel momento era l’uomo più avanzato.
– Siete genieri? – domandò il graduato guardando Marani con disprezzo.
– Siamo il problema più grosso che avete mai incontrato nella vostra carriera militare – rispose l’attendente spavaldo.
– Non vi ho attaccato armi in pugno perché sarebbe stato troppo facile – infierì l’austriaco.
– Siete solo un pallone gonfiato. Smontate se avete coraggio! – lo sfidò Marani portando la mano all’elsa della sciabola.
Il colonnello senza esitare sfilò la sua arma d’ordinanza dal fodero e colpì Marani alla guancia scaraventandolo a terra.
Cioni che stava per intervenire, vide il sangue sgorgare dalla faccia dell’attendente. Raggiunse il colonnello con la sciabola sguainata.
– Scendete se avete il coraggio! – gridò. – È facile così, di sella al cavallo. Avanti affrontatemi se non siete una donnicciola!
L’austriaco si sentì pungere nell’orgoglio. Per non sfigurare davanti ai suoi uomini, dovette accettare la sfida lanciata dal tenente Sabaudo. Dopo un attimo di indecisione smontò dalla cavalcatura e si pose col sole alle spalle.
– Avanti, sono qui! – gridò, ma la voce tradì tutta la sua tensione.
Cioni lentamente si chinò a terra, raccolse della sabbia e si strofinò le mani. Recuperò la sciabola e fece aderire con cura ogni dito all’impugnatura. Poi con passi decisi si avvicinò al colonnello, lo vide indietreggiare e seppe di averlo in pugno. Erano bastati quei pochi gesti melodrammatici a farlo crollare.
Alzò la sciabola e scagliò il primo fendente. L’austriaco parò il colpo e contrattaccò con una stoccata al fianco. Il tenente scartò di lato ed evitò la lama, si trovò oltre il colonnello che fu alla sua mercé; avrebbe potuto ucciderlo. Prima che potesse girarsi, gli infilò la lama nella cinta dei pantaloni e la tranciò di netto. Il colonnello sentì le braghe allentarsi e calargli lungo le gambe. Disorientato, lasciò cadere la sciabola, trattenne i panta-loni e con due salti fu di nuovo in sella. Gridò un ordine stridulo e lo squadrone di dragoni si dileguò in una nuvola di polvere.
Marani riemerge dai ricordi. Sono passati quattro anni, ma non potrà mai dimenticare. Cerca di non pensare più alla ferita. Ora l’attenzione deve essere rivolta alla questione della ferrovia. Le eminenze grigie di Leopoldo II non hanno mai preso una decisione e la schermaglia tra Cioni e Pardi è diventata sempre più aspra. Per questo l’ingegnere pistoiese ha chiesto il suo aiuto. Ha bisogno di lavorare tranquillo, e lui può essere la sua garanzia di sicurezza.
Ora lo sta aspettando per accompagnarlo all’incontro che deciderà le sorti della “Società Anonima della Strada ferrata dell'Italia Centrale”. Il ministro Serristori, adesso plenipotenziario del granducato, ha convocato tutti i soggetti interessati per comunicare quale delle soluzioni sarà adottata per la realizzazione della ferrovia del futuro. E comunque vada, a far prendere la decisione definitiva saranno gli interessi asburgici.