Riflessi


PIER MARIA PASINETTI
APPUNTI SU DUE LUOGHI OPPOSTI
da AA. VV.: Campiello - Antologia 1983, editore Tornese
(estratto annotato da Marion/Chiara Sambo)

La prima volta di PMP in America è del 1935; dopo la laurea in lettere conseguita all'università di Padova con una tesi su James Joyce, ottiene una graduate fellowship e soggiorna dapprima a Baton Rouge, Louisiana, e in seguito a Berkeley, California. Non è il suo primo viaggio all'estero, ma è il primo di così vasta portata e significato; adolescente, era già stato in Inghilterra con il padre e il fratello maggiore (quel Francesco Pasinetti cui il Cinema italiano deve tanto) al seguito della zia materna Emma Ciardi – apprezzata pittrice – e di quel viaggio, che probabilmente contribuì a innamorarlo della lingua inglese e ad approfondirne la padronanza, scrive testualmente "mi ha cambiato la vita" (dal messaggio di saluto inviato al Convegno su Emma Ciardi tenutosi a Venezia il 13 giugno 2003).

Andai in America la prima volta a ventidue anni e ci rimasi due anni: il primo nella Louisiana, il secondo a Berkeley in California. Ci furono naturalmente anche diversi viaggi, e lo spostamento da una sede all'altra avvenne durante l'estate, la prima parte in macchina e la seconda in treno.
Quella che nella stilizzazione del ricordo mi rimane come la prima veramente decisiva scossa di "mal d'America" la ebbi nella prima parte del viaggio mentre con amici carissimi attraversavamo in macchina l'Oklahoma e durante una sosta guardando intorno e non vedendo segno di abitazioni in tutto il vasto giro dell'orizzonte pensai che quasi di certo in quel pezzo d'America nessun essere umano doveva aver mai passato una notte.

[...]

Del resto, in quei tempi per andare da Berkeley a San Francisco si poteva ancora attraversare il Golden Gate con un ferry boat bianco e vecchio il cui stile poteva abbastanza ricordare i battelli fluviali che avevo conosciuto in Louisiana, sul Mississippi. Per trarre un'altra immagine emblematica dal mondo dei mezzi di trasporto, ricorderò che passai le vacanze di Natale e Capodanno nella California meridionale e che il mio primo ingresso in quella parte di Los Angeles che si chiama Hollywood lo feci a bordo di un tram.

A questo primo viaggio oltre oceano ne sono poi seguiti a decine quando, dopo la guerra, gli spostamenti tornano ad essere possibili e consentiti; nel 1940, sentendosi in patria in qualche imbarazzo a causa di suoi espliciti atteggiamenti ed esternazioni antitedeschi (pare che il suo maggior desiderio di allora fosse raggiungere gli Stati Uniti e ottenervi la cittadinanza), aveva tentato invano in molte maniere di ottenere il visto per partire, e solo nel 1946 otterrà il via libera. Da quel momento inizia la sua lunghissima carriera accademica presso l'UCLA (University of California, Los Angeles), dove insegnerà per quasi quarant'anni e dove contribuisce a fondare il dipartimento di letteratura comparata.

Molto diversa la Los Angeles di una dozzina d'anni dopo quando ci tornai per lavoro; avevo ricevuto un'offerta dall'Università di California d'inaugurare e gestire un corso di letteratura generale destinato a non-specialisti (dagli studenti di arti teatrali o di management a quelli di fisica o di batteriologia, tanto per dire). Importante o addirittura decisiva era la vecchia considerazione che in USA uno può procedere nella carriera accademica non a dispetto del fatto che scrive romanzi ma appunto perché ne scrive. Per molti anni ho dato all'Università di California due dei tre trimestri accademici e ciò ha significato passare metà anno là e metà in Europa con centro a Venezia. Ho allora osservato in varie occasioni che nonostante la crescente disinvoltura degli spostamenti aerei anche molto ampi, uno che conducesse un'esistenza così divisa a metà, presso certuni riusciva un po' sospetto. Nel caso mio, come poteva occuparsi di Venezia uno che stava tanto tempo "via"?

Il concetto che più di frequente viene associato a Pasinetti è il "cosmopolitismo", anzi è un attributo che gli viene assegnato quasi automaticamente anche per il solo fatto di essere veneziano. Per il dizionario di italiano, cosmopolitismo è "indirizzo dottrinale e politico tendente ad abolire ogni divisione nazionale in nome di una comune fratellanza tra gli uomini", e stando così le cose – e soprattutto guardando alla Storia – mi pare alquanto forzato gemellarlo dogmaticamente alla venezianità: non si può dire che sia stato per amor di fratellanza se i Veneziani sono famosi per aver tanto girato il mondo viaggiando per mare. Probabilmente il punto di riferimento risiede negli aspetti leggendari della figura di Marco Polo, un eroe pacifico nel quale si riconoscono meglio gli spunti che piace ascrivere a un "cosmopolita", ossia la curiosità di conoscere altri Paesi e la disponibilità ad adattarvisi senza interporre barriere di alcun tipo. In questo senso, definire PMP un cosmopolita non può che essere pertinente, avendo egli dimostrato con tutta la sua vita una naturale e felice disinvoltura nell'accogliere nuovi stili di vita e ritmi così profondamente lontani da quelli d'origine. Ma senz'altro si attaglia alla perfezione a Pasinetti anche la definizione canonica del vocabolario, secondo la quale cosmopolita è chi nutra verso il prossimo (e quindi verso la vita e verso se stesso) sentimenti sovra-nazionali o extra-nazionali, o a-nazionali tout-court, intendendo ovviamente per nazionalismo quel distorto senso di appartenenza che suggerisce smania di superiorità e ostilità verso gli altri. Pasinetti ha rimosso dal repertorio dei suoi sentimenti ogni pulsione morbosa in questo senso, vivendo viceversa uno stato di completa libertà confessionale e aprendo la mente a ogni esperienza e diversità, infiniti e svariatissimi esempi delle quali deve aver cercato e trovato, lui nato nell'isola delle calli e delle gondole, proprio all'altro capo del mondo, nel continente dei grattacieli e delle superstrade. A un personaggio emblematico, anche lui veneziano trapiantato a Los Angeles, il Gilberto Rossi de "Il ponte dell'Accademia", fa dire le seguenti frasi illuminanti: "[...]  un minimo di felicità e di ragionevolezza potrà esserci nel mondo solo a partire da quando si sarà presa l'abitudine di mettere la nazionalità al quattordicesimo o quindicesimo posto nell'elenco dei dati caratteristici di un essere umano. Con l'andare del tempo anzi si spera di giungere alla totale eliminazione di tale dato dalla lista. Sarebbe ideale che un giorno l'Institute, il quale tratta parole, arrivasse a compilare una lista di criteri per definire un uomo, che potessero rimpiazzare quelli irreali che vengono messi ora sui passaporti."

E invece, più ho fatto questa ampia spola, più nel corso degli anni mi si è rafforzata un'idea che ho avuto occasione di ripetere tante volte: ossia che quella dello scrittore "trapiantato" o "sradicato" è una fantasia ormai priva di riscontro nella realtà. Con tutti i disagi che comporta (economici, di "pubbliche relazioni" mancate, e altro) questa specie di doppia vita era la sola possibile per il genere di lavoro che stavo conducendo. Una esperienza illumina e rafforza l'altra, l'incrocio delle visuali è essenziale perché la materia di romanzo o di reportage acquisti un certo spessore. Avrò torto, ma sono ormai arrivato alla conclusione che un significativo romanzo moderno non può essere scritto da chi sia rimasto strettamente attaccato al proprio ambiente originario. La distanza mi pare indispensabile per conseguire un più giusto e ricco rapporto con i propri materiali nativi. L'esercitarsi su mondi lontani dal proprio originario raffina gli strumenti dell'osservazione e suscita, di fronte ai luoghi anche più familiari dove uno è nato e cresciuto, scintille di novità.

Interessante e molto istruttivo questo punto di vista, e assai ragionevolmente condivisibile. Esso mette in luce, fra l'altro, il senso dell'essere scrittore, ossia interprete, mediatore, e quindi non egoistico cultore di autoreferenzialità fini a se stesse, nonché sottintende, in questa difficile ma privilegiata professione, una capacità di umiltà e sacrificio, necessari per raggiungere quel distacco che solo può assicurare una narrazione equilibrata e universale, anche a costo che questo distacco diventi cosa fisica, materiale, e si concreti in una serie di partenze, lontananze, addii.

[…]

LOS ANGELES

[…]

Oceano, montagna, deserto eccetera sono però a portata di mano anche di moltitudini d'individui assai meno strettamente vegetativi che ne usufruiscono con soddisfazione e ai quali non andrebbe affatto di abbandonarli. Trovano che si può vivere qui con un certo fondamentale senso di libertà e di spazi aperti pur conoscendone le contropartite (sensi d'isolamento, scomodità delle distanze ecc., per non parlare di episodi clamorosi come gli incendi forestali in zone urbane) ammesso che si abbiano i gusti adatti, specie per quel che riguarda il rapporto fra l'individuo e, genericamente parlando, le presenze della Natura.

La notte può accadere di sentir abbaiare il coyote in zone di collina del tutto "residenziali"; per un lungo periodo sotto la mia terrazza di legno, una specie di grande altana, abitò una famiglia di cerbiatti; sentivano i miei passi sull'impiantito, che per loro era soffitto, e allora si vedeva sbucarne fuori un paio, mettiamo madre e figlioletto, che scendevano giù per la collina come volando. Collina molto ripida e con vegetazione spontanea e primordiale. Anche cespugli di fiori coloratissimi.

In questo iniziale tratteggio dei luoghi californiani dove Pasinetti ha scelto di trascorrere metà della sua vita, già emerge chiara una sua posizione di ammirazione e affetto. Ammirazione – o stupore, o sbalordimento – per l'ampiezza degli spazi e la loro deserticità, che a un veneziano abituato alle angustie spesso asfittiche della città lagunare devono aver suscitato impressioni tali da far perdere il fiato. La natura è un elemento lontano e sconosciuto, per Venezia, dove non crescono alberi e erba se non in rari angoli fuori mano o nei nascosti giardini interni di case patrizie. Il confronto, sul piano della varietà e delle dimensioni, è di quelli che tramortiscono. Ancora Gilberto Rossi, al suo arrivo in California: " [...] In quell'abbandonato silenzio salta lo scoiattolo, la lucertola avanza a scatti, abbagliata; e ogni tanto si scoprono cespugli di fiori dalle tinte di una vivezza accecante". Ciò non evita che, alla distanza, gli affetti e la nostalgia possano tendere tranelli altrettanto sconvolgenti, come condensa lo stesso Gilberto in un altro intenso passaggio: "A certe memorie sarebbe forse meglio darci un taglio – dissi. Avrei voluto aggiungere che le memorie, qui, possono essere una cosa insostenibile, un bagliore violento, uno spacco.

[…]

È insomma l'America metropolitana-suburbana nei suoi casi più spinti, il rustico e il primordiale circondati da tutte le possibili attenzioni tecnologiche, i cavi TV che scorrono sotto piccole giungle, il rosmarino che cresce selvaggio accanto alla casa tutta piena di risorse elettrodomestiche, il limone spiccato senza intervallo da albero a tavola di cena, in piccole terrazze anche di case molto qualunque, la carne arrostita all'aperto non per snobismo naturista ma per tramandata abitudine western, il golf, reclamizzato ad alto livello dai vari Bing Crosby e Bob Hope, Eisenhower e Jerry Ford, ma poi anche, a più semplici livelli, "sentito" quasi come da noi le bocce; le piscine abbondanti, non solo private ma di gruppo, scuole, clubs; il jogging, nato da queste parti come la contestazione; le chiese i cui rami di follia non hanno necessariamente sviluppi macabri come nel caso del reverendo Jones con il suo Tempio finito in autocarneficina; la terapia psichica di gruppo; i grandi e piccoli ritrovi per apertura di massima o minima mostra d'arte o per lettura di poesia o altro, e quelli per raccogliere fondi con cui finanziare una causa ecologica, un museo, un politico in campagna elettorale, una ricerca contro una malattia perniciosa, eccetera, oppure per consegnare oscar e globi d'oro ma anche pergamene e chèques premio a giovinetti in cravattino nero e giovinette in abito lungo, tutti puliti, sicuri di sé e già un po' antipatici a quell'età, che hanno efficacemente fondato e gestito corporations in miniatura andando a vendere il "prodotto" di casa in casa e così preparandosi imberbi alla vita di business; e via e via, tutte le activities che impegnano organizzativamente dozzine e dozzine di signore ben tenute e vigorose ma anche banchieri, divi, chirurghi, ammiragli, activities che si riproducono a tutti i livelli e in tutti i formati, adunando in atmosfere energicamente festose anche gli svariati gruppi etnici, neri, cinesi, giapponesi, l'immenso contingente messicano...
E distanze magari come da Venezia a Vicenza per raggiungere i templi di questi innumerevoli happening, lasciando le macchine sull'asfalto di sterminati parcheggi irrorati di luce al neon. Ricevimenti con chilometri di buffet ma anche poi cene in dimore che possono andare dall'unicamera alla villa ampia e tutta comoda dove magari ci sono ospiti che cucinano e lavano piatti e coppie giovani con problemi di babysitter. Sono sicuro che queste cose accadono dappertutto nel Paese, nell'Ohio, nel Nebraska, solo che qui c'è l'abbondanza dovuta all'estensione del territorio, è una "città" ma tutto rimane sparso ed aperto, oltre al fatto che ogni cosa tende ad essere più lucente e nuova del normale; qui insomma giunge alle sue punte estreme, insieme a tante altre cose, anche il principio per il quale una casa (salvo eccezioni, particolari proprietari, gruppi attivi "per la preservazione") viene trattata in modo non poi tanto diverso da come il normale consumista tratta un'automobile o un video; dopo un certo tempo viene fuori il modello nuovo che soppianta il precedente demolito oppure anche smerciato di seconda mano a chi deve accontentarsene.
E direi senz'altro che non esiste, rispetto ai vecchi edifici, il genere di mercato che fiorisce invece nel caso delle automobili di anziani modelli, per le quali si pagano stragi di soldi e alle quali il proprietario dedica affetti caldi e gelosi; e una volta ho anche conosciuto un furibondo collezionista di apparecchi televisivi antiquati. All'opposto, un'associazione di "conservazionisti" ha recentemente lottato invano e a lungo allo scopo di tenere in piedi una di quelle straordinarie, fantasiose case di legno del tardo Ottocento, tutte loggette, cimase e abbaini, di cui a San Francisco ci sono strade intere una più bella dell'altra, e che qui invece era rimasta come uno degli ultimi esemplari rilevanti, buttata giù per lasciare il posto a un condominio efficiente e di buon reddito.

Anche di fronte a queste disomogeneità e contraddizioni – che pur portando la data degli anni '80 sembrano tuttora presenti nel continente USA come del resto in molti, e forse tutti, i paesi cosiddetti civilizzati – l'atteggiamento di PMP appare quello di un osservatore curioso e obiettivo, esente dal giudizio di merito. PMP resta anche nei suoi reportage quello che è di fondo nella sua natura, ossia un narratore, capace di uscire da sé e di guardare fuori con visione a 360 gradi, pulita, senza ombre né filtri. Al limite, un minimo di indulgente affettuosità, ma anche di questa solo un sospetto.

Né d'altronde si è manifestata maggiore pietas per la leggenda aurea di "Hollywood", intesa come marca di fabbrica o vago simbolo aziendale più che come località, e per le sue manifestazioni architettoniche cariche di ricordi; cadde già molti anni fa il consunto Hollywood Hotel, sul boulevard omonimo, e cadde analogamente, sul Sunset Boulevard, il Giardino di Allah, specie di lussuoso motel in stile figlio dello sceicco, nei cui bar e sulle sponde della cui piscina si aggiravano le memorabili ombre di tanti grandi nomi degli anni trenta, scrittori specialmente, che venivano a scrivere per il cinema. F. Scott Fitzgerald, William Faulkner. Al suo posto, la solita cassa di risparmio e prestiti, savings and loan association.
Uno dei casi più clamorosi di tale tipo di trasformazioni rimane Century City, development che occupa la massima parte di quelli che furono gli stabilimenti della Twentieth-Century-Fox con i loro pezzi fissi "più veri del vero": la stazioncina western, la piazzetta europea polinazionale – bastava cambiare la figura del personaggio a cavallo sul monumento, le insegne dei negozi , la vecchia strada newyorkese, eccetera; ne hanno preso il posto i soliti altissimi edifici "manageriali" metallico-cristallini, generalmente parallelepipedi ma anche di forme meno regolari, disposti anche in modo sparso e ad angolazioni varie dati i larghi spazi, ottenendo così giochi notevoli di luci e ombre al tramonto; e in mezzo, l'estesa area pedonale con i supermarket e i grandi magazzini e i negozi d'ogni genere, cui si emerge per scale mobili da sconfinati garages sotterranei.
L'ingresso principale di ciò che resta là della vecchia Fox è tuttora sul Pico Boulevard, che prende il nome da Pio Pico, ultimo governatore messicano del territorio, e circa di faccia all'ingresso si apre una lunga strada tutta curve che scende sino a Culver City e alla sede della Metro-Goldwyn-Mayer, una volta immensa e ora assai ridotta anche quella. L'evocatore di ombre s'immaginerebbe che ai tempi lontani e fastosi dell'industria classica quel percorso dovesse essere tutto un andirivieni di Rolls Royce e magari di Hispano Suiza; invece pare che ancora all'epoca di Clark Gable e Gary Cooper giovanotti, andassero al lavoro servendosi di un pittoresco trenino locale.
Non è che un esempio emblematico del ritmo trasformativo della "città"; un tempo la sua industria più rappresentativa fu quella del cinema, superatissima poi economicamente e urbanisticamente dalle altre, petrolifera, elettronica, aeronautica, aerospaziale, con il crescente tessuto connettivo delle banche, e c'è sempre, al fondo, quel dato indispensabile e permanente, l'onnipresenza dell'industria edilizia, cioè l'afflusso di gente nuova, l'arrivo all'ultimo Far West, moto che si riproduce nell'interno della città dove i quartieri con vecchie magioni vengono via via occupati dalle cosiddette minoranze etniche ossia dai meno privilegiati in cerca di status la cui spinta verso le zone residenziali oggi più desiderate è un po' una miniatura, in proporzioni civiche, delle grandi migrazioni storiche verso il Pacifico.

A proposito di Hollywood e del suo mito tramontato, può essere curioso notare come anche su questo argomento, per molti versi caro a Pasinetti prima di tutto in quanto fratello di celebrato cineasta ma poi perché attivo nel cinema in prima persona come sceneggiatore o consulente in un certo numero di produzioni italiane e in quella, famosa, del Julius Caesar di Mankiewicz (1953), l'Autore scelga di esprimersi con la pacatezza di un narratore di aneddoti, lasciando cioè completamente da parte ogni possibile e prevedibile tono commemorativo o recriminatorio. Sembra serenamente conscio che ogni trasformazione richiede una amputazione più o meno cruenta, e che la perdita o lo sbiadimento di una realtà è per far posto a un avanzamento, o quanto meno a un rimescolamento di carte dal quale chissà, l'ingegno o semplicemente l'innata voglia di azzardo del genere umano potrebbero o potranno tirar fuori qualcosa di buono; di meglio, perfino, a patto di non soffermarsi sul culto del passato, rimpiangerlo, e così facendo impoverirsi. C'è sempre un dopo, un più avanti che aspettano di essere testati, e vale la pena provarci. Nel pensiero di PMP, scomparso ultranovantenne in piena attività intellettuale e lucidità di spirito, l'idea del movimento, del cambiamento, è sempre solidamente presente. Ha sempre visto di buon occhio e con positività il futuro.

[…]

Intendiamoci, i grandi "temi" di questa città-regione non sono nati ieri; certi spunti erano là da sempre, cioè da quando Los Angeles non era né città né regione. Nasce in una periferia alquanto remota e sdrucita dell'impero spagnolo, prosegue messicana e poi yankee ma soprattutto mistura d'individui d'ogni provenienza etnica. I primi bianchi furono frati spagnoli e uno di loro, Fray Juan Crespi, ha lasciato impressioni abbastanza paradisiache della "spaziosa vallata, con tutti i requisiti per un'ampia colonizzazione"; il "genio" di Los Angeles è che si possono trovare in mezzo alla metropoli frammenti di quella visione, rimasti, si può supporre, fondamentalmente tali e quali.
Da qualche decina di migliaia d'anni ci stavano naturalmente già gli indiani, che all'ingresso dei visitatori spagnoli nella polverosa main street, o meglio calle principal del loro villaggio "presero a urlare come lupi". Correva l'anno 1769; sette anni dopo, le tredici colonie britanniche sull'opposta sponda atlantica, che è come dire in un altro pianeta, si sarebbero autonominate Stati, e riunite a formare il primissimo nucleo degli USA (la California diverrà Stato dell'Unione nel 1850).

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Negli anni sessanta dell'Ottocento la città passava appena i cinquemila abitanti e nei decenni successivi la crescita comincia già a diventare furiosa e con essa i sempre più altisonanti metodi pubblicitari e d'imbonimento; vanno e vengono i booms edilizi e l'unità di misura può essere l'appezzamento di terreno o la singola casa, ma tipicamente anche un quartiere, un "villaggio" o altro, nuovo di sana pianta; e il moto non si è fermato. I territori conquistati possono crescere in relativo isolamento ma poi s'incorporano nella metropoli senza soluzione di continuità se non quella catastalmente indicata dai cartelli stradali che - per tenerci a zone ormai classiche - a un certo punto indicano che da un settore di Los Angeles si entra, mettiamo, a Beverly Hills, e poi che si entra di nuovo nella City of Los Angeles, e poi sempre andando dritti verso l'oceano si entra in Santa Monica, magari per un vialone con al centro un percorso per cavalli oggi sempre occupato dall'andirivieni dei patiti del jogging.

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Ambedue le versioni estreme dell'immagine di Los Angeles – mostruosità balorda, e modello di "megalopoli" industriale e culturale sono rimaste in vigore, e non c'è quasi bisogno di dire che delle due, nel corso del tempo, la seconda è prevalsa sulla prima non soltanto nell'animo dei notabili più attivi ma anche in quello della vasta maggioranza della popolazione in genere. Il fatto essenziale e relativamente nuovo è che la megalopoli non è più sentita come un disordinato progetto "avveniristico" ma come una realtà presente che ha superato la fase febbrile e ha raggiunto quella della maturità. La si vede come un concentrato delle grandi imprese del nostro tempo, industriali, e culturali nel senso più largo, che hanno alcune delle loro sedi centrali di sperimentazione e di messa in opera in questa zona affacciata da una parte verso gli USA e dall'altra verso l'Oriente, e che vanno, tanto per buttar là due esempi geograficamente opposti, dal politecnico, situato, vedi caso, a San Marino come la Huntington Library, e dove si gestiscono le esplorazioni del Voyager verso i più lontani pianeti, a quella "tank di cervelli" a Santa Monica dove si conducono, fra cento altri, i più aggiornati studi sul terrorismo nel mondo.
Si smantellano vecchi edifici e la pietas storica si rifugia nelle biblioteche, splendidamente comode da adoperare. Quella dell'Università di California a Los Angeles ha raggiunto già vario tempo fa i quattro milioni di volumi (incidentalmente, con un libro spagnolo del cinquecento). Quanto poi all'espansione futura dell'area in genere, si prevede ormai con tranquillità una megalopoli costiera che andrà da Santa Barbara a San Diego, al confine messicano.

Anche qui, in chiusura di questo excursus sulla città di Los Angeles e prima di affiancargli il confronto con quella così diversa di Venezia, nessuna enfasi celebrativa verso un esempio di progresso dalle proporzioni colossali, e tuttavia una specie di compiacimento, quasi di contenuto orgoglio verso una realtà alla quale Pasinetti riserva, nell'intimo, una forte riconoscenza per le opportunità che gli ha offerto. Opportunità che, va comunque ricordato, è andato a cercarsi e a meritare con caparbietà e fiducia, offrendo in cambio decenni di vita e di lavoro ad alti livelli di professionalità. A Los Angeles e negli Stati Uniti in generale Pasinetti ha "messo su casa" (in senso anche letterale: a Beverly Hills si era fatto disegnare e costruire una villa di un certo impegno progettuale e architettonico), si è creato un entourage, ha fondato amicizie e seminato idee. Probabilmente, il reciproco gradimento è stato in gran parte determinato da un iniziale altrettanto reciproco atteggiamento di parità e disponibilità, che ha permesso un incontro privo di barriere psicologiche e nazionali, basato su un condiviso desiderio di scambio, di conoscenza, di messa in comune di risorse e strumenti personali. Il tutto, anche, grazie a una bonomia caratteriale di fondo, questa forse sì, più tipicamente veneziana.



VENEZIA

Per tanto tempo, ed è forse naturale, ho visto Venezia molto dal di dentro, era il Luogo, completo e autosufficiente. Era una Nazione, aveva nel proprio ambito gli equivalenti, o se volete le metafore, i segni emblematici, di nuclei cittadini e climi culturali molto assortiti, solo che tutti questi svariatissimi punti, nel suo caso, erano raggiungibili a piedi o comunque non su strade ferrate o asfaltate, tutt'al più in tragitti relativamente brevi su strade d'acqua.
Da bambini, quando cioè si è bassi di statura e corti di gamba, e si dispone di fantasie meno inceppate, certe operazioni molto concrete della fantasia riescono benissimo: per uno che dimorasse, mettiamo il caso, a Santo Stefano o a Santa Maria del Giglio, abituato quindi a passare molto per Calle Larga 22 Marzo diretto verso la Piazza, una passeggiata, supponiamo, a Cannaregio poteva avere le novità e le attrazioni di un viaggio all'estero. Paragonare Lista di Spagna a Calle Larga 22 Marzo sarebbe, tanto per dare un'idea a caso, un po' come paragonare una strada di Napoli a una di Trieste.
Già che ci siamo, fermiamoci un attimo all'esempio della Lista di Spagna, tutta folla e mercatini e alberghetti di comodo vicini alla stazione (mentre la Calle Larga 22 Marzo è molto banche e callette laterali ben tenute con gli ingressi di terra dei grandi alberghi). Lista di Spagna è a sua volta il prolungamento di un percorso cittadino, interno ma che riproduce più o meno la corrispondente ansa del Canalazzo; inizia, con la Strada Nova, a Santi Apostoli e conduce alla stazione, mettendo cammin facendo a portata di mano importanti microcosmi e macrocosmi – il vetusto Cinema Teatro Italia e il Ghetto, volendo dare un singolo esempio per sorte troppo numerosi per essere anche solamente elencati.
Il caso vuole che io sia nato a Santi Apostoli e se prendo quel punto come centro, vedo subito anche nelle altre direzioni oltre a quella di Strada Nova (direzioni che condurrebbero, per dare esempi "macro", a mondi urbani come le Fondamente Nuove, l'Ospedale a San Giovanni e Paolo, il movimentato centro di smistamento del Campo San Bartolomeo) una non meno fitta presenza di "cosmi": non pietre miliari ma piuttosto, direi, metriche, altrettanto impossibili da elencare.
Questa diversità entro uno spazio insulare relativamente molto piccolo, per cui accade che tutto conti e tutto possa essere insieme utile e gradevole come nell'Eldorado di Candide, insomma questo potere che ha la diversità, di mettere in luce e di dare fibra a ogni punto di Venezia facendo passare l'osservatore, che non sia schiavisticamente turistico, da un felice sbalordimento all'altro, definisce il famoso carattere "unico" della città in maniera migliore delle tante altre che ci sono, e fra le quali primeggia la più veneranda delle ovvietà ossia che a Venezia non circolano le automobili. Però queste circolano, sia detto di sfuggita, in cittadine splendide e così palesemente "veneziane" come Portogruaro e Chioggia.

Presentare Venezia – che lo faccia un veneziano oppure no, non fa grande differenza – senza cadere nella retorica o nell'ovvio è un bel banco di prova. Pasinetti/Marco Polo ci prova a modo suo, partendo col piede giusto di chi ha imparato a prendere ogni argomento, anche il più impegnativo o il più sfruttato, con lucidità di analista ma anche con il sorriso sornione di chi non si lascia impaniare in effetti scontati ma, avendo già superato e smantellato quella fase, punta al nocciolo, e cioè al nocciolo della sua esperienza reale. Le annotazioni qui sopra, nella loro originale semplicità, illustrano in effetti la più quotidiana delle verità veneziane: la molteplicità. E' questa una caratteristica particolarmente curiosa in una città dalle dimensioni alquanto limitate, che a chiunque abbia un minimo di buona volontà consente di essere percorsa da un'estremità all'altra e in tutte le sue circonvoluzioni integralmente a piedi - fatta eccezione per località come la Giudecca, il Lido e le altre isole della laguna - garantendo in cambio dell'impegno un godimento e delle scoperte impagabili a ogni passo. Tutt'oggi i sestieri veneziani hanno conservato, seppure impallidita, una loro storica identità e differenziazione, e c'è da supporre che i legami affettivi delle persone con il sestiere di nascita siano in tutto simili a quelli che manifestano i senesi nei confronti delle loro contrade di appartenenza.

[…]

Nel corso dei tempi, l'unicum veneziano è stato anche ripetutamente espresso da storielle sulla drastica divisione del mondo in due, che i cittadini di quest'isola farebbero: da una parte, "Venezia", e dall'altra, tutto il resto, cioè "la campagna". Ossessivamente ripetuto è l'aneddoto del gondoliere di casata che offrendo il braccio perché il nobiluomo in visita ci si appoggi scendendo in barca, vuole spiegarsi il suo accento forestiero e gli domanda di dov'è; viene la conferma, è di Milano, "gò sentio, mi, che 'l gèra da campagna".
È una boutade che può deliziare un certo tipo di veneziano dal campanilismo istrionico, ma che dice pochissimo, se non altro perché c'è campagna anche dentro a Venezia, rappresentata non solo dai giardini, che non sono poi tanto rari, ma pure, con effetti anche più importanti, da alberi sparsi, o da erba fra pietre, in luoghi disparatissimi come San Trovaso o San Giacomo dall'Orio, o dalle molte zone di verde campestre e trasandato come quella che serve da deposito a un marmista alla Misericordia, con in fondo anche una stalla dove credo fino a una ventina d'anni fa tenevano ancora la mucca; oppure quella di un commerciante di mobili usati e d'ogni altro genere di oggetti vecchi, alla Giudecca (grande trovarobista, per film girati a Venezia).
Ci sono portoni come porte carraie, anche a Dorsoduro, ai Carmini, che danno su atrii dal selciato disuguale, colonico, aperti su giardini molto poco azzimati, bellissimi. Campagna. In fondo a uno, resti del casino di caccia. Ci sono file di alberetti perfino nel Rio Terrà dei Pensieri, quello che costeggia le prigioni, donde il suo nome. Certe case settecentesche sono lontane dal palazzo archiacuto e rinascimentale quanto sono lontani dalla Piazza le dozzine di campielli d'uso quotidiano, uno più bello dell'altro; e come architettura, quelle case hanno esattamente la faccia campagnola di villette venete.

Due osservazioni. La prima riguarda l'atteggiamento dei veneziani nei confronti della terraferma. Che quest'ultima sia sempre stata – e tuttora – considerata dagli abitanti della città con una ironica sufficienza, è un dato di fatto, ma è il caso di ridimensionare questo sentimento, che non è ostile o snobistico come verso soggetti inferiori, bensì volto a rimarcare la profonda differenza che li divide, e che è "costituzionale", essendo basata su un sistema di vita che non può avere, per forza di cose, punti di contatto. Venezia è nata da un esilio di massa, per così dire, dalle campagne dell'entroterra in un territorio paludoso che nessuno avrebbe potuto concepire come idoneo a una qualsiasi forma di insediamento stabile e difendibile, e tuttavia su questi bassifondi lagunari è riuscita a fondare non una città ma una civiltà. Va detto però che la sua natura l'ha resa sempre vulnerabile in quanto dipendente dalla terraferma per le risorse primarie, e ne ha determinato la costante proiezione verso il mare, che riusciva a dominare con più naturalezza. E giova sottolineare come, intorno al nucleo originario della minuscola comunità nata dal caso e dalla tenacia, solidale nelle asprezze dell'habitat e delle minacce esterne, sia cresciuto e sia stato sempre coltivato un incrollabile senso di orgoglio e di indipendenza, basato sulla necessità vitale di mantenere una forte coesione dando fondo alle sole risorse umane e naturali disponibili. Questo attaccamento, questa identità così precoce, era sentita con la stessa intensità in tutti gli strati sociali, fra i quali non sono mai esistite quelle macroscopiche (spesso tragiche) differenze che si riscontravano nelle società contemporanee. E' questo che ha consentito a Venezia di costituirsi a repubblica in epoche lontanissime, e repubblica di stampo democratico e parlamentare quando anche il solo concetto era pressoché sconosciuto. Da un passato come questo è comprensibile che nasca e resti tuttora presente la coscienza di una diversità prima ancora che di una superiorità, e che i veneziani, anche quelli di oggi, indulgano al vezzo di uno snobismo burlone nei confronti dei terricoli, ai quali sotto sotto non possono disconoscere i vantaggi logistici.
La seconda non è un'osservazione ma una nota sul privato di Pasinetti. Là dove cita i giardinetti nascosti in questa città di acqua e di pietre, fa pensare al suo, di giardinetto, quello della sua residenza veneziana in Dorsoduro, tra le non pochissime ma comunque poche privilegiate da qualche metro quadro di erba e alberi che si intravedono da un cancelletto riparato in fondo a una calle riservatissima e perciò ancora più sorprendente. Uno dei tanti esempi di microcosmo in Venezia.

Tornando al mio punto di partenza, quando parlo di visione "molto dal di dentro" voglio continuare dicendo che pur dopo aver superato l'infanzia non mi era particolarmente accaduto di vedere la città in immagine d'insieme, cartografica, collocata e orientata giusta nella Laguna.
Uno si trova, supponiamo, in Campo Santo Stefano e si muove per andare alle Zattere; bene, il campo è semplicemente qui, le Zattere sono semplicemente là; nel percorso si passeranno il Ponte dell' Accademia e gli Alboretti e tutto è chiaramente là, ovvio, sicuro; ogni località, voglio dire, è così assolutamente se stessa, la sua identità è così lampante, che basta come punto di orientamento; non si ha presente la direzione geografica dei nostri passi più di quanto non la si abbia movendo in casa propria dalla camera da letto allo studio.
Una visione personale e aneddotica di Venezia è il tema di queste note; perciò senza riguardi pesco di nuovo nell'autobiografico per rilevare che un senso della città geograficamente comprensivo, topograficamente orientato, con tutti i suoi punti cardinali a posto, l'ho acquistato in gran parte da quando, e sono già parecchi anni, per ragioni del caso e per necessità di lavoro, divido più o meno il mio tempo fra Venezia e quello che senza troppo sbagliare può definirsi il suo opposto urbanistico, l'area metropolitana di Los Angeles in California.
Là, come è noto, si gira sempre in macchina con a bordo mappe delle varie zone abitate, e se ci si ferma a un distributore di benzina per chiedere indicazioni è probabile che queste siano più o meno del tipo "continui a nord fino al punto tale, poi giri a est fino al punto talaltro" eccetera. Applicati, diciamo, questi parametri al mio senso di Venezia, devo dire che tutto risultava anche meglio di prima, tutto si arricchiva, tutto, più che mai, veniva buono.

Un'altra delle riflessioni (constatazioni) tipicamente pasinettiane nella loro inconfutabile semplicità e verità; probabilmente molti veneziani, pur vivendo quotidianamente questa realtà, non ne hanno coscienza, e la acquistano forse solo dopo avere sperimentato il ben diverso modo di spostarsi - e di organizzare preventivamente gli spostamenti - in terraferma. Se ne rendono conto molto più facilmente i turisti che si ripromettono di girare Venezia muniti di piantine: nulla di meno attendibile di una piantina, a Venezia, e nulla di più scoraggiante che tentare di seguirla come se contenesse indicazioni precise e esaustive. Ma nemmeno più comodo o sicuro risulta chiedere tali indicazioni ai veneziani: i giri, le svolte, sono sempre troppi perché il più volonteroso e didascalico possa elencarli. Bisogna arrendersi all'idea che spesso e volentieri si parte da un punto A per raggiungere un punto B ma ci si arriva solo per caso e dopo svariati stordimenti. La città va girata con fantasia, perché sorridendo depista.

[…]

"Pensate un momento a quella città, a quell'opera d'arte preziosissima posata sul moliccio traditore della laguna, pensate al lavoro pazzesco e titanico che c'è sotto un'impresa del genere. Curioso che Venezia sia stata presa per un simbolo di decadenza; non c'è di più vitale. Città forte e tremenda con geli senza riparo e nebbie invernali e umido e disagi atroci, dove ci si deve muovere a piedi per la rete di stradine la cui complicazione toglie il respiro e sgomenta i visitatori. In secoli di riscaldamenti insufficienti, sul fango, mediante organizzazioni architettoniche e strutturali estremamente ardue, hanno creato i commerci, le galere, le arti, i divertimenti. È una città dura, dura, con inondazioni ogni anno e non in campagne palustri ma nel più splendido centro della città, con spelonche sommerse che furono un tempo magazzini di spezie orientali o cripte di chiese. E geli, e nebbie nelle ossa, e poi viceversa estati in cui la pietra continua a scottare anche durante la notte... La durezza di Venezia, mistura indissolubile di fantasia e di calcolo, di solidità e di follia. Pietra, pietra, e dentro ai palazzoni di pietra, boudoiretti settecenteschi finti-fragili, e dentro a quelli, eventi sessuali stupefacenti...".

Il brano riportato è un'auto-citazione dello stesso Pasinetti dal suo romanzo "Il sorriso del leone" (riedizione del 1980 del precedente La confusione, uscito nel 1964). Un ritratto-verità di Venezia che da solo basta a far tacere secoli di retorica e mitologia, e a ridicolizzare la più scontata delle obiezioni che vengono tradizionalmente poste al sistema-Venezia, ossia che si tratti di città invivibile a causa del disagio dei suoi trasporti interni. Come fosse questa, la vera difficoltà, il vero aspetto della durezza della vita a Venezia. Paradossale che si tenda a considerare come segno di arretratezza l'assenza di automobili, attribuendo loro evidentemente il ruolo di definire lo sviluppo di una città, e non ci si soffermi sui disagi quotidiani di una vita isolana e isolata, disagi ai quali – beninteso – i veneziani sono non solo abituati ma per la maggior parte affezionati, che non cambierebbero a cuor leggero con le trappole tecnologiche di una metropoli ma che non si aspettano certo che possano essere né compresi né accettati da chi veneziano non è.

È notissimo che l'Italia Una non possiede un'emblematica ufficiale molto riuscita; quella specie di Minerva dal capo turrito che può ornare medaglie o carte bollate non c'entra per nulla con nessuno di noi. Né esistono, Dio sa, corrispettivi di un John Bull o di uno zio Sam come macchiette nazionali.
Un po' diverso dai due estremi, forse più significativo e familiarizzabile, mi sembra il protagonista del vessillo veneziano, il leone di San Marco, specie nella varietà a solo busto e ali, detta leon moleca (granchio). Ancora una volta faccio ricorso a un mio personaggio, quello che lo vide sorridere: "Il leone araldico della patria veneta appare in pose varie ma con analoghe espressioni del viso nobile e sostenuto... Quei leoni lo avevano sempre attratto per la loro capacità d'unire, nell'espressione del volto, familiare socievolezza e riservato distacco. Percorreva con lo sguardo quelle fronti aggrondate, quei larghi nasi schiacciati, a cappa di caminetto. Per vie ataviche si identificava con loro, gli si presentavano parole nella sua lingua: contemplava ed amava quei visi che facevano il pégio, scendeva con lo sguardo lungo quelle sbarbàgole senza età. Con le orecchie dell'immaginazione udiva ruggiti rattratti, profonde e poderose fusa. Alla base, come un filo steso sopra il mento, era la bocca chiusa e sottile sulla quale i suoi occhi un po' miopi avevano sempre intraveduto un sapiente, ilare e insieme disperato sorriso. Dopo avere riconosciuto e salutato quei leoni, tornava alla finestra guardando di sottecchi il Canal Grande sfociante nella laguna veneta, verso il Lido autunnale, i porti, i fari, l'Oriente...".

Un altro passaggio estrapolato dalla stessa fonte (Il sorriso del leone, storia fra l'altro di un veneziano di nome Bernardo che torna alla sua città dopo un lungo esilio) nella quale Pasinetti in qualche modo rende omaggio a quello che anche oggi è sentito dai veneziani come un simbolo sacro di identità. Il culto per San Marco è tuttora vivissimo e perpetuato in città, e il leone ne è l'alfiere. Curioso - e terribile - dover ricordare come in tutta la città di Venezia le effigi del leone di pietra siano pressoché inesistenti: erano un migliaio quelle che ornavano le facciate delle case, e che furono asportate e distrutte nella sciagurata epoca napoleonica in quanto ritenute emblema del passato Governo.

Con questa tendenza a familiarizzare e ridurre, per dir così, a personaggio locale anche l'emblema politico-religioso della patria veneta, e in genere con i pensieri accennati nelle note precedenti, direi che il mio atteggiamento, per quel che può valere, verso la città, ha almeno due punti abbastanza chiari, che potranno apparire giusti e apprezzabili o potranno anche sembrare, invece, idee fisse e strambessi maniaci. Il primo riguarda le mie preferenze e affinità con Venezia come luogo vissuto oggi, il secondo quelle con Venezia come luogo pieno di storia evocabile. Per il primo punto, la maniera più svelta di esprimermi è dichiarare la mia completa inettitudine non dico a capire le visioni di Venezia basate su parole-standard come decadenza, fatiscenza eccetera, ma anche a farmi un'idea di cosa possano essere la struttura psichica e le suppellettili mentali di chi tali visioni ha perpetuato e diffuso. Se c'è un edificio che va a pezzi o un ponte che si sgretola, io tendo forse follemente a ritenere che la malavoglia e l'incuria prevalgono sulla mancanza di soldi, e comunque, che le capacità tecniche locali per ripararli ci sarebbero in abbondanza; e che il problema è tutto lì, senza tante angosce e compiacenze estetiche e titillamenti e logorree burocratiche. E poi anche, uno nutre certi sospetti. Ossia, che la visione genericamente decadentistica, in fondo, "piaccia", "incontri", sia una migliore garanzia di accettabilità culturale e mondana.
Visioni di Venezia & Morte come quella famosissima impersonata dal turista forestiero, colto e abbiente che sta al centro del racconto di Mann-Visconti intitolato appunto, con distaccato e sinistro compiacimento, Morte a Venezia, non ci farebbero di per se né caldo né freddo se non fosse che tali visioni sono state adottate e accarezzate un po' dappertutto e anche localmente, magari anche soltanto proprio per il solito snobismo xenofilo. Nelle conversazioni spesso vivaci, intelligenti e sostanziose dei frequentatori di bàcari, che sono i pubs di questa città, codeste visioni non trovano luogo, esse sono per così dire scritte in lingua estera; né lo troverebbero, credo, all'Ospedale, dove per esempio mio padre già lavorava all'epoca del colera tanto vezzeggiato da Mann-Visconti, e di cui a me fu trasmessa, da quel primario medico, una versione molto pratica, molto preoccupata e tecnica. Servendomi di questo esempio emblematico dirò dunque, rinunciando a tutti i possibili vantaggi culturalmondani della posizione opposta, che io mi sento dalla parte del bàcaro e dell'Ospedale.

E qui appare in consolante chiarezza come in PMP sia del tutto naturale considerarsi sempre libero da luoghi comuni e da facilonerie spacciate per dogmi. Nessuno, men che meno i veneziani residenti, può negare gli evidenti aspetti di degrado che attraversano la città, ma fra il degrado da vecchiezza e erosione anche climatica e la fatiscenza da abbandono c'è un abisso, quello che la retorica qui tanto allignante preferisce colmare con formule retoriche che fanno presa facilmente su un immaginario collettivo fin troppo influenzabile. Se c'è una città che ha dato prova di vitalità e senso pratico a oltranza, è Venezia, che convive con un clima assurdo, con l'assedio delle acque, con la scomodità e i costi dei rifornimenti, e tuttavia mantiene e offre tesori di altrove rara quantità e qualità, fra l'altro con il privilegio di poterli difendere da fattori di rischio ben più aspri e colpevoli quali l'inquinamento e il traffico cittadini.

[…]

Il fatto di essere nati e cresciuti qui portò sino dalla primissima età - senza che ci mettessimo, per così dire, nulla di nostro - alla tendenza anti-sogno nei riguardi della città; ricordo che da ragazzo in una rivistina locale scrissi un pezzo intitolato La prosa di Venezia in cui devo avere espresso, malamente senza dubbio, la noia verso la Ca' d'Oro "che esagera" o verso i palazzi "pesanti" come il Rezzonico o il Pesaro, o addirittura verso la Salute, a cagione forse di pesantezza non tanto del tempio in sé quanto di stilemi del poeta-soldato, personaggio visto del resto molto affabilmente a Venezia come "el D'Anunsio". Una volta, chissà quando, mia madre me lo indicò, in Piazzetta San Marco: aveva gli stivali e un levriero al guinzaglio. Sono sicurissimo di questo. Quanto alla Salute, per lui si trattava di "tempio nettunio costrutto a similitudine delle tortili forme marine". "Eh, però, bello", dice un certo tipo di lettore veneziano sentendosi flatté dall'imaginifico, e noi anche, in fondo, ci divertiamo con lui.
Anche più che con il ridimensionamento dei mostri architettonici sacri, ci rendevamo colpevoli di lesa Venessia-mia esprimendo simpatia verso il progetto di costruire un Ponte dell'Accademia in cristallo, e complicavamo la nostra posizione manifestando, non molto dopo, nostalgia verso il Ponte dell'Accademia in ferro, quello "messo dall'Austria" e fatto più o meno, immagino, della stessa materia dei vecchi e rimpianti fanali di Piazza o anche, della Torre Eiffel. Per non parlare della nostra simpatia verso il Mulino Stucky alla Giudecca o del richiamo a città anseatiche fra gli ingredienti di quello straordinario miscuglio che è - vista appunto dalla Giudecca - la skyline delle Zattere.

Venezia, come si sa, è città di canali e innumerevoli ponti, ma sul Canal Grande ne esistono, o meglio ne esistevano fino a pochissimo tempo fa e comunque quando PMP scriveva queste pagine, solo tre: il ponte della stazione o degli Scalzi, il ponte di Rialto e il ponte dell'Accademia. Per passare da una riva all'altra in zone troppo distanti da questi ponti, esiste la possibilità del traghetto, una gondola che funge da navetta. Il quarto ponte, logisticamente quantomai opportuno, è al momento alle fasi finali di collaudo e collegherà le rive del Canal Grande a ridosso di piazzale Roma, facilitando così enormemente gli spostamenti soprattutto (diciamo pure quasi esclusivamente) turistici in una zona nevralgica. L'opera si presenta come il migliore progetto pensabile per essere inserito in modo indolore in una cornice che più esigente non potrebbe essere: lo slancio del suo arco è di commovente genialità, e sarebbe interessante sapere cosa ne penserebbe Pasinetti, peraltro notoriamente vicino a ogni forma d'arte oltre che alla letteratura, e certamente in grado di esprimere giudizi estetici e funzionali di grande autorevolezza.

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Da varie cose già dette prima, potrà essere abbastanza chiaro che in me non operano molto fervidamente e concretamente, come veneziano e come romanziere, immagini e vicende e glorie storico-artistiche medievali, Rinascimento, e anche dopo, della Serenissima; l'interesse s'intensifica verso la chiusa del Settecento, con quella caduta della Repubblica che è già solidamente e spiritosamente vista in azioni e personaggi inventati dal nostro romanziere più "fruibile", il prodigioso giovanissimo Nievo. Non da ieri mi affascinano l'Ottocento "austriaco" - specie il periodo '59-'66: tra Villafranca e Lissa diciamo su cui c'è pochissimo, e Venezia come capitale di retrovia della Grande Guerra.
Perché? Semplicemente anche, forse, perché siamo stati "tirati su così". Un mio insegnante di quarta e quinta ginnasio, che era patrizio veneto, diceva: "Io, è dal 1797 che brontolo", mentre il professore d'italiano al liceo, allievo del Carducci, avendoci dato da fare l'"analisi estetica" d'una pessima poesia del Tommaseo e ricevendo da uno di noi che era "bravissimo in italiano", l'indimenticabile Sergio Fadin, una "stroncatura" in cui il poeta veniva sempre designato come "il signor Tommaseo", oltre a dargli voto pessimo si legò la cosa a un dito. Tempo dopo, il docente porta il discorso sulla difesa di Venezia contro l'Austria nel Quarantotto e cita con commozione, amarezza e ironica sottolineatura i nomi dei leaders: "Daniele Manin, il signor Tommaseo, e al loro fianco, mio zio!".
"In piedi!" grida Fadin con ispirazione improvvisa. Lo scatto della classe è generale e irresistibile. Naturalmente non si potrà mai definire se il momento fosse solenne o burlesco, se ci fosse commozione seria o sbracato boresso. Le due cose insieme, è chiaro.

Indubbiamente, se le conquiste sui mari sono il passato glorioso della Serenissima, è il settecento la sua epoca più significativa per le conseguenze storico-politiche, ed è anche, per veneziani di cultura come PMP e quelli che era più solito frequentare, il ricordo di una ferita mai perfettamente guaribile. L'orgoglio della repubblica caduto sotto l'arroganza e il delirio di onnipotenza di un Napoleone che vedeva in Venezia un nemico fastidioso, un rivale da schiacciare senza il minimo rispetto per il patrimonio anche culturale che incarnava. La successiva svendita all'Austria, la prolungata sudditanza, i moti del 1848, la coraggiosa resistenza di Daniele Manin, ultimo doge, sono memorie che più intimamente si scolpiscono nell'animo della città, la quale ne porta tuttora le cicatrici se non altro in quel depauperamento di tesori di cui fu fatta oggetto.

[…]

Oggi direi che si ritorna, nonostante tutto, a questa città bellissima e antiretorica, la cui vita pubblica è tanto martoriata, fra l'altro, dalle logorree dei Partiti e degli Enti - specie nelle zone delle Gestioni artistiche e delle Iniziative culturali - come a una fonte, ancora abbastanza viva e solida, e magari nutrita di esperienze e ricordi privati, di quel che si dice Certi Valori, mantenuti da quel che si diceva Uomini di Carattere, pieni di estri, talvolta secchi e caparbi, silenziosi coltivatori di lunghe fissazioni, idiosincrasie, crucci, ma anche di lunghe opere, condotte a regola d'arte, generalmente un po' folli ma appunto per questo, ho idea, bravi e precisi nel lavoro. L'abitudine a considerare il lavoro serio e bene eseguito come cosa di routine. L'abitudine al ridimensionamento ironico di sé e degli altri, garanzia di equanime accoglienza al forestiero, guardato con affabile interesse, e amalgamato con naturalezza.

[…]

Personaggi e immagini della nostra vita: professionisti delle arti, manovali e gondolieri abilissimi, donne di spirito, la fibra e la chiacchiera, il gusto a volte ossessivo di gestire la scena, il dialogo, magari soltanto progettato ("Ho deciso, vado io da lui e gli dico: "Senta, Alvise..." e avanti, con tutta la sceneggiatura preventiva"); la motivata spocchia dei grandi maestri vetrai; una bella stanza o una bella sedia, cioè comoda e intonata all'ambiente; un rimorchiatore piccolo e robusto che traina con abilità unica il transatlantico o la petroliera attraverso il Bacino San Marco e il Canale della Giudecca; un ritratto, che colga, magari senza saperlo, anche il ridicolo, la simpatia, la pomposità del ritrattato; una difficile diagnosi medica ben ragionata e azzeccata. E via e via. Il contrario dell'alienazione: eseguire con viva consapevolezza tecnica ciò che si sta eseguendo. Può essere che il rinnovato gusto per tali ricordi e valori, che tanti di noi hanno in versioni proprie d'ogni genere, e che io ho in versioni veneziane e familiari, rientri in ciò che da qualche tempo si chiama il ritorno al "privato", e che forse non sia il peggiore dei contributi al tentativo di salvare il poco o il molto che rimane delle speranze d'Italia.

Queste frasi suonano senz'altro come un omaggio ai tanti veneziani in gamba e rispettabili che PMP aveva conosciuto, e forse più ancora come una speranza che di così seri e affidabili ne esistano ancora. Nel remoto passato, i veneziani hanno dimostrato in tanti capacità di ideali e doti di laboriosità e fermezza, questo forse vuole dire Pasinetti ai suoi stessi concittadini, e, in fondo, agli italiani nel loro insieme. Lo fa col suo modo affabile, sornione, indulgente nel tono ma tuttavia ben solido nelle premesse, in quella intransigenza morale che, avendo chiesto sempre a se stesso, vuole potersi aspettare da tutti i suoi simili.