ZATOICHI Giappone, 2003 (116' - colore) Regia: Takeshi Kitano Interpreti: Beat Takeshi, Tadanobu Asano, Michiyo Ogosu. |
Dire che Takeshi Kitano sia uno dei migliori registi oggi in circolazione è quasi una banalità, ma ribadirlo dopo aver visto questo chambara (il cappa e spada giapponese) è doveroso. In 15 anni ci ha proposto dieci film, tutti di ottimo livello. L’attore comico Beat Takeshi ha esordito con un sorprendente film noir – Violent Cop (1989) – trasformato in un opera quasi sperimentale che ha saputo infondere nuova vita a tutti i cliché del cinema d’azione, continuando poi con opere che non hanno deluso, raggiungendo vette altissime con film come Sonatine, Hana-Bi o il più recente Dolls.
La necessità di fare un altro film su Zatoichi nasce dal fatto che l’ultima pellicola dedicatagli risale a più di dieci anni fa. Con il suo film il regista ha voluto far riscoprire – o far conoscere – ai giapponesi più giovani uno degli eroi più famosi del dramma storico giapponese, e per fare questo ha dovuto creare un modello nuovo di questa icona, che risultasse accettabile al momento storico in cui è stato girato e che, soprattutto, risultasse "suo". Infatti non si può parlare di un film prettamente "alimentare": avendo avuto carta bianca per quanto riguarda le modifiche sia fisiche che psicologiche al personaggio, Kitano ha avuto la possibilità di misurarsi con un soggetto non personale e per di più posto in ambientazione storica, regalandogli – e regalandoci – un’esperienza stimolante.
Fermo restando che Zatoichi è, e doveva rimanere, un massaggiatore cieco, abile maestro di spada e genio del gioco d’azzardo, il samurai di Kitano ha volutamente delle connotazioni particolari ed eccentriche: i capelli biondo platino e una spada in un fodero di bambù rosso sangue. Anche sotto il profilo caratteriale, il suo Zatoichi è più schivo rispetto ai suoi predecessori, per cui ha preferito allontanarsi dai rapporti quasi commoventi che intrecciava con i cittadini buoni e umili, e lasciare che semplicemente ammazzasse i cattivi che incontrava sulla sua strada.
Dall’altro lato della macchina da presa Kitano lascia il suo segno, come sempre. Regia rigorosa, attenzione per le scenografie e le dissonanze visive, ritmo dilatato con la violenza che emerge improvvisa, inserimenti grotteschi e comici: «ma in Zatoichi c’è una programmaticità teorica nel mostrare zappatori che vanno a tempo, finti samurai imbecilli o personaggi-cabarattesti come l’attore Guadalcanal Taka, che si becca le legnate sulla testa. L’assurdo in Zatoichi diventa categoria ontologica del cinema. […] Kitano dimostra di essere al di sopra del semplice concetto di contaminazione tra commedia, musical e cappa e spada. Perché Zatoichi è un guerriero dell’assurdo, un corpo-cinema che viaggia nel fantastico trasformando ciò che tocca in percezione». (Mauro Gervasini)
Questa sua ultima opera dimostra ancora una volta di essere uno dei pochi registi contemporanei che si chiede ancora dove collocare la macchina da presa e come montare le immagini, senza accettare nessun tipo di convenzione. Ed è anche la dimostrazione della volontà di non abbandonare la sua cinematografia nazionale per un cinema "pulito" blockbuster: «un po’ perché non so parlare inglese, un po’ perché non voglio fare la fine commerciale e artistica di John Woo…».