IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI

Francia/Iran, 2002 (80' - colore)

Titolo originale: Zamani barayé masti asbha

Regia e sceneggiatura: Bahman Ghobadi

Interpreti: Nezhad Ekhtiar Dini, Amaneh Ekhtiar Dini, Ayoub Ahmadi, Royn Younessi.

Premi ai festival: Cannes 2000 (Camera d’oro; premio “Fipresci”), Chicago 2000 (Hugo d’argento), Sao Paulo 2000 (premio della giuria internazionale) e altri…

Il film è ambientato nei pressi del confine tra Iran e Iraq; nel Kurdistan iracheno. In un gruppo di bambini poveri, il regista concentra la sua attenzione su due orfani, fratello e sorella. Il maggiore dei due, gravemente ammalato deve essere operato al più presto altrimenti rischia la morte. Per questo motivo, la sorella accetta di sposare un pezzo grosso iracheno. Quando i due fratelli oltrepassano il confine, il futuro marito cambia idea e non vuole con sé il fratello ammalato. Ai due non rimane che un cavallo, con il quale in una landa desolata il ragazzo deve guadagnare il denaro per la sopravvivenza di entrambi e per la propria operazione.

C’è un popolo che vive ai margini del mondo, senza una patria e dimenticato da tutti. E’ il popolo curdo, circa 20.000.000 di persone che vivono qua e là tra l’Iran, l’Iraq e la Turchia. A dire il vero, non proprio dimenticato da tutti: l’Iraq e la Turchia se ne ricordano benissimo, e da anni stanno cercando di eliminarlo attuando un vero e proprio genocidio, con soldi e soprattutto armi di provenienza prevalentemente occidentale.

Di questo popolo fa parte il giovane regista di nazionalità iraniana Bahman Ghobadi che con Il tempo dei cavalli ubriachi porta a compimento il progetto iniziato con il cortometraggio Vita nella nebbia, vincitore del premio speciale della critica al festival di Clermont-Ferrand nel 1999 e premiato lo stesso anno anche a Pesaro.

Quello descritto nel film è un mondo di bambini costretti a diventare adulti troppo presto. Il finale è aperto, lasciando spazio alla speranza ma facendo anche intuire che le sofferenze non sono finite.

La camera a mano di Ghobadi scava nella sofferenza dei personaggi in un film crudo, senza velleità poetiche ma con il preciso e dichiarato obiettivo di denunciare le sofferenze di un intero popolo. Il cinema iraniano si conferma uno dei più vitali sulla scena mondiale; anche se qualcuno comincia ad avere perplessità dovute alla "furbizia" con cui certi film verrebbero confezionati per piacere al pubblico dei festival europei, mi pare che i risultati siano spesso di buon livello. Forse non è un capolavoro, sicuramente un film da vedere, soprattutto per chi ancora crede che il Cinema non debba essere solo intrattenimento ma anche arte, cultura, impegno.

"Il tempo dei cavalli ubriachi è interpretato da personaggi veri, presi per strada, ambientato in un paesaggio impervio, innevato, desolato, raccontato con toni struggenti e partecipati. Siamo nei territori consueti cui il nuovo cinema iraniano ci ha abituati: bambini come metafora, stile essenziale e quasi documentaristico, nessun compiacimento estetico, la politica che si fa poetica, una dignità espressiva vicinissima al neorealismo. Anche se il regista Barman Ghobadi, già aiuto di Kiarostami, è in realtà curdo, dunque rappresentante d'una minoranza etnica di un popolo in diaspora, d'una cultura oppressa". (Fabio Bo, "Il Messaggero", 6 aprile 2001)

"Il tempo dei cavalli ubriachi è ammirevole per come riesce a sfuggire a un'infinità di trappole implicite nelle sue premesse. A priori, non è certo difficile commuovere chi sta seduto in platea, protetto e al sicuro da ciò che vede, con un soggetto come questo. Molto più difficile riuscire a commuovere senza martirizzare i personaggi, senza rinunciare mai al pudore e alla dignità. A ben vedere, quella di Ghobadi è una posizione coraggiosa anche a fronte del cinema iraniano, oggi tra i migliori al mondo ma che mostra anche la tendenza a un certo conformismo 'di scuola'. Se il regista non ha nulla da invidiare al senso dell'inquadratura dei suoi connazionali più conosciuti, la sua scelta è molto più lontana dalla moda dei film alla Kiarostami: è soprattutto una scelta di emozioni, che rende questa storia intensa e coinvolgente nonché accessibile al grande pubblico. Qualcosa che evoca, e non soltanto per l'uso di attori non professionisti, l'esperienza del nostro neorealismo". (Roberto Nepoti, "la Repubblica", 8 aprile 2001)