SEGRETO DI STATO

Italia, 2003 – Colore, 84’

Regia: Paolo Benvenuti

Sceneggiatura: Paola Baroni, Paolo Benvenuti.

Interpreti: Antonio Catania, David Coco, Aldo Puglisi, Sergio Graziani, Francesco Guzzo.

 

Utilizzando documenti italiani e statunitensi desecretati, le inchieste di Danilo Dolci (alla cui memoria è dedicato il film) e le ricerche di storici siciliani (primo fra tutti Giuseppe Casarrubea), Benvenuti vede nel massacro di Portella (1° maggio 1947) i prodromi di quella strategia della tensione messa in atto per tenere i comunisti (che avevano appena vinto le elezioni siciliane) lontano dal governo. Non cerca di "ricostruire" la Storia (come fece Rosi con Salvatore Giuliano), ma di "riflettere" sui modi in cui il cinema può raccontarla, preoccupato soprattutto di raffreddare una materia incandescente (un modellino per ripercorrere la dinamica della strage, un gioco di carte per ipotizzare le responsabilità politiche). Anche se la scelta espressiva del didascalismo brechtiano finisce per essere inadeguata ai "colpi di vento" che scompaginano le informazioni e fanno dubitare dell’inconoscibilità della Storia.

Il Mereghetti - Dizionario dei film 2006

 

Una lezione di storia, però con la maiuscola, di quelle che nelle scuole italiane non si sono mai fatte. Ma anche di cinema. Segreti di Stato è un film importante per più motivi. Perché Benvenuti è accolto per la prima volta in una manifestazione maggiore. Perché porta a compimento una ricerca decennale di stile, di metodo, di linguaggio, essendo Benvenuti allievo del Rossellini didascalico, ma in questo settore molto migliore del maestro, ed è di Straub piuttosto un fratello minore che un allievo. Perché riesce a fare quello che a nessun "brechtiano" è mai riuscito, e tanto meno al cinema di denuncia all'italiana, sempre retorico e pieno di ricatti e di trappole che fanno appello al cuore e alle viscere o olle logiche di schieramento e molto poco, o niente, al cervello. Perché contiene alcune sequenze di grande cinema: l'assassinio di Pisciotta visto dagli specchi di un mobiletto di bagno, degno di Hitchcock; e quella delle carte-fotografie che dimostrano la rete di collegamenti che, da un nome all'altro, stabiliscono la rete dell'occulto che sta dietro una strage, e che un colpo di vento butta all'aria. Dietro ogni strage italiana, quale infinita rete di responsabilità! Se il pozzo della storia lontana è forse impenetrabile, lo è ormai ancora di più quello della storia vicina, sulla quale, come è il caso di Portella, è nata ahinoi! la nostra Repubblica. La Lezione di storia di Paolo Benvenuti, allargando il quadro delle responsabilità, rimettendo in discussione le interpretazioni già date, compresa ovviamente quella del bel film di Rosi, non dice certo che le responsabilità non sono indicabili, ma che esse sono più vaste e complesse di quello che non abbiamo pensato finora. Riporta la storia italiana, dal 1945 a oggi, come un pezzo di storia dell'impero di cui l’Italia è, da allora, parte o colonia.

Goffredo Fofi - "Film Tv" (9 Settembre 2003)

 

[…]Fedele a un’idea che considera il cinema come "un teatro filmato", Benvenuti mette in scena una ricostruzione storica che si affida a un conduttore, una sorta di deus ex machina nel ruolo dell’avvocato di Pisciotta (il misurato Antonio Catania), che assolve il compito didattico di condurre lo spettatore verso una chiara, anche se ipotetica soluzione. Benvenuti conosce bene la lezione del cinema didascalico di Rossellini e la interpreta correttamente, aggiornandola con nuovi sussidi, dal plastico ai disegni, autentico story-board in diretta, opera del fumettista Loredano Ugolini, alle ricostruzioni e alle testimonianze tra i monti, sul posto. La scansione dei dialoghi, attraverso domande e risposte che permettono allo spettatore di non perdersi nelle complesse ricostruzioni processuali, provengono direttamente dal modello didattico che Rossellini sperimentò nella Presa del potere da parte di Luigi XIV e negli altri film prodotti dalla Rai negli anni Sessanta. A essi aggiunge una componente narrativa ad effetto, che deriva dall’opera dei pupi e dalle rappresentazioni profane popolari, di cui la stessa Sicilia è ricca e, non ultima, la forte presenza di un altro influsso, quello di Jean-Marie Straub. […] Più vicino all’inchiesta di stampo psicologico e processuale, all’americana, che al cinema di denuncia all’italiana, come già fu con Rosi e proprio per Salvatore Giuliano, Segreti di Stato emana un’eccessiva claustrofobia propria di una certa paranoia politica, che vede complotti ovunque, sottolineata dai ricorrenti luoghi chiusi, dal carcere alle gabbie degli imputati, dagli archivi ai magazzini dove giacciono le carte processuali.

Michele Gottardi, "Segnocinema" (n. 124, novembre-dicembre 2003)