LE ROSE DEL DESERTO

Italia, 2006 -  102' colore

Regia: Mario Monicelli.

Interpreti: Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber, Fulvio Falzarano, Moran Atias.

 

Il film è ambientato all'inizio del 1941, quando le truppe tedesche di Rommel vengono inviate in aiuto di quelle italiane in rotta. Ma si tratta di una commedia, potrebbe essere qualsiasi guerra, potrebbe essere qualsiasi ritirata.
Non qualsiasi regista però. Monicelli non appartiene alla schiera dei "vecchi" presi dalle ansie del rinnovamento: è tuttora sicuro che il suo modo di fare commedia, "all'italiana!" sembra affermare ad ogni fotogramma, sia il migliore possibile. Per lui, almeno. Si assiste cosi alla storia di un reparto sanitario, una Sturmtruppen pluri-dialettale, in cui gli stereotipi non provano quasi mai a trasformarsi in ruoli; in cui un'inflessione romanesca è più decisiva di ogni sentenza; in cui il generale (un magnifico Tatti Sanguineti, in baffoni e supponenza: "il cimitero è fatto! Ora bisogna riempirlo!") vuole solo non sfigurare con i colleghi. Nel film c'è forse qualche barzelletta di troppo ("Rommel? Rimmel? ma che è, quello che si mettono le donne?"), ma la misura è oltrepassata raramente. Monicelli si tiene stretti i cliché ma li rianima, ad esempio togliendo il ruolo dell'intellettuale sognatore al giovane soldato e affidandolo al maggiore Strucchi (Haber), presunto cornuto da commedia dell'arte, che cita Leopardi nel deserto e apostrofa tutti come un padre timido e burbero. L'irregolare è Michele Placido, pugliese e grottesco, dunque molto più credibile del solito: un prete del deserto, un fuoriuscito per ragioni ignote e perfettamente a suo agio tra gli indigeni, che si unisce al reparto. A lui è affidato anche il canonico e riuscito momento "serio": il matrimonio tardivo tra il tumulo del soldato Sanna e la lontana fidanzata, incinta e ignara della morte dei promesso, con l'intento di regalarle vedovanza e pensione. L'assurdità che ne consegue sostituisce ogni didascalia sulla stupidità della guerra. Vengono evitate anche le scene d'incontro e riconoscimento tra civiltà: gli arabi rimangono quelli col velo che coprono "ste belle donne" e noi quelli che parlano solo di sesso. E va bene cosi, che qualcuno riesca a restare in superficie, pur senza essere superficiale. La lezione di un maestro del genere, in tutti i sensi, corre solo un rischio: di essere perduta e di sparire assieme a lui. Ci auguriamo il contrario.
Antonio Bibbò (“Il Mucchio Selvaggio”, gennaio 2007)

 

Circola in questo bellissimo, vitale, crudele film di Monicelli, l' aria del tempo. Quello della guerra coloniale di Libia che nel ' 41, come raccontò Tobino, mandò ragazzi allo sbaraglio tra le dune; quello del racconto corale a lui congeniale della commedia italiana feroce e ironica, alle prese con un' altra piccola grande guerra; e quello dell' attuale mondo in bilico perché ogni riferimento non è puramente casuale. Il piacere del racconto di questi soldatini corti e dal sedere basso, come dice l' autore, che illusi credono nella guerra turistica invece e si perdono nel deserto. Macché mal d' Africa: è un Paese triste e monocolore, dove con gran tempismo di regìa, i personaggi si palleggiano battute e morale (il finale di memorabile cinismo) in mano a un gruppo di attori veri e verosimili, tra cui il magnifico prete cialtrone di Placido e il bravo soldatino Pasotti, intorno ad Haber, gran nevrotico.

Maurizio Porro (“Corriere della sera”, 6 dicembre 2006)

  

D'accordo tutto. D'accordo l'urgenza di parlare di guerra; la trasfigurazione del presente nel passato (tanto la Storia si ripete, e non è cambiato niente, e siamo sempre tutti uguali: cose altamente inquietanti); la necessità di smitizzare la tradizione e i racconti -orali e scritti- che la riguardano; gli ideali romantici di de-eroicizzazione di un sistema civile e sociale per buona parte fondato sull'immaginazione di realtà, e sulla promozione egemone che se ne fa. Va bene tutto. Ma non va bene che Le rose del deserto sia un film tecnicamente impresentabile, con un doppiaggio dilettantesco della pista sonora (non si capisce niente dei dialoghi) e con una regia che sembra non sapere bene dove mettere la mdp, e allora la lascia lì dove capita in attesa che la scena finisca. Non va bene che la macchietta e il grottesco, segni principe monicelliani, servano da cartolina turistica, e indichino in fondo un vecchiume semantico (per non dire ontologico) che oggi mette più tristezza che altro. Non va bene che Monicelli, che ha fatto almeno 3 o 4 capolavori in vita sua, voglia continuare a fare cinema: dovrebbe abbandonare, il ricordo ne guadagnerebbe. Per il bene che gli vogli(am)o.

Pier Maria Bocchi (“Film Tv”)