ORA O MAI PIU' Italia,
2003 – Colore, 105’ Regia:
Lucio Pellegrini Sceneggiatura:
Roan Johnson, Angelo Carbone, Lucio Pellegrini. Interpreti:
Jacopo Bonvicini, Violante Placido, Edoardo Gabbriellini, Elio Germano,
Riccardo Scamarcio. |
Dopo
il fiume di immagini vere partorite dal G8 deI 20 luglio 2001, ecco - sui fatti
e fattacci - il primo lungometraggio di finzione a firma Lucio Pellegrini, uno
che ha cominciato con la commedia e che qui vira a 360, pur mantenendo tratti
alla Virzì nelle dinamiche tra i personaggi e nella quotidianità reinventata
dei centri sociali. Gruppo di giovani in un interno e nel loro esterno, che
cercano di rilanciare le utopie, rincorrendo altri mondi possibili e rapporti
quanto meno diversificati. Materia che scotta solo a toccarla, difficile da
riportare in ambito “fiction”. Tra l’altro, Pellegrini non poteva
ricostruire le spaventose contraddizioni consumatesi a Genova, perché già
setacciate e vivisezionate come mai era successo in passato a un qualsiasi altro
evento. Malgrado le difficoltà e le acerbità di alcuni attori, qualche
scivolata nello stereotipo e nel cliché del prototipo no-global, il film regge
e comunica sensazioni forti. Soprattutto là, dove le migliaia di telecamere e
telecamerine non erano arrivate, e dunque nel triste lager di Bolzaneto, dove
decine di ragazzi sono stati picchiati e umiliati per giorni, alla faccia della
democrazia e dello stato di diritto. Fresca e ingenua come un adolescente che
pulsa di futuro, la pellicola indigna e si indigna, svolazza e corre, dentro e
fuori gli spazi alternativi. Nel gruppone dei protagonisti si stagliano il bravo
Edoardo Gabbriellini e la volitiva Camilla Filippi. Una produzione Fandango.
Ovvero: un’altra scommessa vinta dal capitano coraggioso Domenico Procacci.
Aldo Fittante, “Film Tv” (26 novembre 2003)
In genere alla domanda se quelli rappresentati siano i giovani d'oggi si risponde, un po' ipocritamente, negando la pretesa universalità della storia e sottolineandone piuttosto la peculiarità. Non si tratta mai di storie esemplari quanto delle azioni e dei patimenti di un gruppo preciso di individui. Qualcuno potrebbe riconoscersi in loro ma questo è un puro accidente. Sicché lo spettatore non sa mai quale dovrebbe essere la sua posizione di fronte a quel mondo: simpatia oppure orgogliosa rivendicazione di diversità. Ora o mai più porta con sé proprio quest'ambiguità. […] Pellegrini dirige con sapienza gli attori e riesce a tratti, specie nella vicenda di Bolzaneto, a segnare il film di una certa angoscia. Il problema però è nella descrizione dei personaggi e nelle loro azioni. Più che un gruppo di spaesati rivoluzionari sembrano boy scout in gita, che occupano una palazzina per il piacere di ballare e fumare spinelli, che manifestano in piazza come in una pantomima divertente ma priva di forza. Non è che siano macchiette, a tratti presentano anche profondità psicologiche interessanti. Il fatto è che sembrano usciti da un corso avanzato di sceneggiatura. Come se sommassero in sé tutti gli elementi che devono loro essere ascritti. Come se quelli fossero gli unici giovani che il cinema può e deve rappresentare. Il cinema s'ispira al cinema in un involontario e perverso processo di drammatizzazione postmoderna. Così tutti i personaggi appaiono un po' scontati e già visti, conosciamo le loro vite prima che ci vengano descritte e le loro reazioni prima che abbiano corso. C'è il leader del gruppo simpatico ma un po' folle, la bella e irraggiungibile piena di passione e insicurezze, lo studente fascistello fancazzista ma simpatico, il padre severo ma pieno di bonaria saggezza. Tutti rispondono a uno schema preordinato, incapaci fino in fondo di scostarsene. Così lentamente il film perde la sua volontà polemica diventando una tradizionale commedia sentimentale che stempera la condanna a una democrazia imperfetta lasciando l'amaro in bocca per l'amore potenziale dei due giovani.
Massimo Galimberti, “duellanti” (dicembre 2003)
[…] Le drammatiche giornate di Genova del luglio 2001 e gli abusi delinquenziali del governo, ridotti a sfondo e ad alibi per un mediocre e un po’ ipocrita film d’”iniziazione”, realizzato come un telefilm e dove il personaggio principale appare lo specchio involontario del qualunquismo amorfo del regista.
Roberto Chiesi, “Segnocinema” (n. 129, settembre-ottobre 2004)
Pellegrini racconta il mondo giovanile con oleografia e superficialità, intrecciando nel modo più prevedibile la scoperta dei sentimenti (con tanto di citazione di Jules e Jim) ed epocali prese di coscienza. Le sequenze piuttosto dure degli sbirri aguzzini sembrano l’alibi politicamente corretto per un’operazione scopertamente ruffiana. Produce la Fandango di Domenico Procacci, che rischia di diventare un marchio e uno stile: voce narrante, montaggio videoclippato, star in erba.
Il
Mereghetti - Dizionario dei film 2006