Mani
di Patrick Leigh Fermor, traduzione di Franco Salvatorelli
Adelphi, pp. 380, 24 euro

Mani è uno dei più bei racconti di viaggio dello scrittore inglese Patrick Leigh Fermor, Paddy per gli amici. Quel genere di libri che compendiano geografia, storia, antropologia, mitologia, storia dell’arte, linguistica con gli occhi puntati su questa piccola (e alcuni decenni addietro molto poco sviluppata economicamente e culturalmente) provincia della Grecia meridionale, nel Peloponneso. Terra rocciosa, dalle impervie e aride montagne, cosparsa di torri di pietra, abitata da gente rude e fiera. «Fino al 1830 e oltre non c’era nel Mani una scuola», scrive Fermor, «e la regione è senza dubbio la più arretrata della Grecia». Oggi, naturalmente, dal 1958 quando è stato pubblicato il libro in edizione originale, molte cose sono cambiate, il Mani dispone di una rete stradale decente e parecchi stranieri, soprattutto inglesi e tedeschi, costruiscono ville, ristrutturando le vecchie torri. Anche se, va detto, i manioti non sono cambiati.
Questo volume è un minuzioso rendiconto evocativo e poetico del viaggio che l’autore assieme alla moglie Joan, fotografa, compì alla fine degli anni Cinquanta. Un viaggio lungo e affascinante, fatto di innumerevoli tragitti in corriera, di lunghi tratti a cavallo sui pendii del monte Taigetos, a dorso di mulo, a piedi e caicchi interinsulari, e molto di rado, per un paio di settimane, su uno yacht. Partiti dai sobborghi di Sparta, i due scalano questo promontorio sino al cavo Matapan dove la mitologia vuole che vi fosse uno degli ingressi all’Ade: «Tutta la Grecia è talmente ricca d’interesse. Non c’è rupe o corso d’acqua senza una battaglia o un mito, un miracolo, un aneddoto contadino o una superstizione; e storie e vicende sempre curiose o memorabili, si addensano a ogni passo sul cammino del viaggiatore».
Lo stile discorsivo, erudito ed elegante è un concentrato di tutte le qualità di questo scrittore autodidatta, nato nel 1915. A 18 anni Fermor intraprende una traversata a piedi dell’Europa, da Londra a Istanbul. È il primo dei numerosi viaggi che lo porteranno dalla Patagonia in Asia, dalle Antille al mare Egeo. Il grande amore è la Grecia, alla quale ha dedicato molte opere e che considera la sua seconda patria. Qui è vissuto, nel Mani, a Kardamili, nel golfo di Messenia, l’estremo sud del Peloponneso. Durante la Seconda guerra mondiale Fermor ha combattuto con il grado di maggiore nella Grecia del Nord con i partigiani anti-monarchici e poi a Creta

Esperienze che tornano in Mani, inestimabile fonte di informazioni su tutta la Grecia, i Balcani, sull’impero ottomano che per 400 anni, dopo i franchi e i bizantini, occupò l’area insieme ai veneti, sulla storia, le usanze e i costumi di queste terre. Una suggestiva testimonianza della vasta cultura e della profonda conoscenza degli argomenti studiati nei 20 capitoli. Ognuno dei quali è un breve saggio sugli argomenti più disparati. La storia del Mani coincide con quella di Sparta sino alla fine della monarchia, tra il III e il II secolo a.C. quando la crudeltà del tiranno Nabide indusse molti spartani a fuggire oltre il Taigetos e a fondare, con gli abitanti laconici già stanziati nella penisola, la Repubblica dei Liberi Laconi, il Mani appunto. Dopo la conquista romana, Mani passò sotto il dominio bizantino e poi quello franco.
Le secolari faide tra villaggi, famiglie e clan rivali diventarono guerricciole e per secoli, dal XIV sino verso la fine del XIX secolo, tennero il Mani in stato di sanguinosa turbolenza. La vita dei manioti, come la descrive Fermor, era di duri stenti, «miserrima e velata di tristezza. Rarissimo che un maniota vada a servizio. Di mendicanti manioti non si ha notizia. Il furto di bestiame non esiste, e le porte non sono mai chiuse a chiave». Interessante, infine, il capitolo Un’aristocrazia guerriera e i manioti di Corsica dedicato al trapianto di alcune centinaia di manioti in Toscana, dove Cosimo III, il figlio del granduca Ferdinando II de’ Medici, li accolse nel 1670 e diede loro terre da colonizzare. Altri manioti, accolti dalla Repubblica ligure, si trapiantarono qualche anno più tardi, nel 1676, in Corsica, dove si trovano ancor oggi tracce della loro presenza.