GLI SCALPELLINI

DEL VILLAGGIO SCOMPARSO

DI RONCAZ

(L’Amico del Popolo, 04.10.1997 n. 39 - 11.10.1997 n.40 - 18.10.1997 n.41)

 

In un passato non tanto remoto la fluitazione del legname fu per lungo tempo una delle attività più fiorenti in alcuni comuni dell'Agordino insieme all'agricoltura e all'allevamento del bestiame.

Esisteva poi un'altra attività che per l'originalità creativa di chi lo praticava lo poneva ai confini dell'arte: era il mestiere di scalpellino.

A quanto sembra a Cencenighe il lavoro di tagliapietra sarebbe stato praticato a lungo e con una certa maestria da parte di qualcuno.

Una ragione plausibile che giustifica la diffusione di questa attività a Cencenighe è da ricercare nella presenza in loco di alcune cave dalle quali venivano estratte le pietre grezze lavorate dalla mano esperta degli scalpellini.

Grazie all'abilità dei tagliapietra prendevano forma oggetti di uso comune: recipienti e vasi che servivano per conservare il burro (tine), ma anche gradini, soglie, pavimenti di abitazioni e fontane (naf).

Alcuni esempi di fontane indispensabili per attingere l'acqua di sorgente necessaria per i bisogni idrici di ogni villaggio si possono ancora osservare nelle frazioni di Cavarzàn, Martìn, Bogo, Chioit e Pradisopra. Ne esiste una anche al centro della piazza di Canale d'Agordo che fu realizzata utilizzando la pietra dei Mesaroz.

La capacità degli scalpellini si espresse poi nella realizzazione di statue di un certo interesse artistico oltre che storico.

Un esempio è costituito dalla serie di statue che ornano il parco -giardino della villa veneta Crotta ad Agordo conosciuta anche come villa De' Manzoni, dal nome degli ultimi proprietari che vi dimorarono.

Le sculture rappresentano, seppure rozzamente, antiche Veneri e personaggi della mitologia ispirati ai canoni della bellezza rinascimentale. Per il loro gusto ben si integrano nell'architettura della villa e nello spazio circostante.

Alcuni modelli sembrano rievocare per la loro plasticità le figure scultoree del classicismo ma si differenziano da queste per la evidente ruvidezza delle pietre.

Le sedici opere, conosciute come "i pòp o mut de Gròta", furono realizzate su commissione nel 1692 da Simon De Biasi e Vincenzo Mazzaruol seguendo le indicazioni di un certo scultore Lombardo.

Si racconta che avessero ricevuto in cambio due staia di granoturco (doi sach de sorech) per ogni statua modellata.

Ottone Brentari nella sua "Guida storico alpina di Belluno Feltre Primiero Agordo Zoldo" data alle stampe nel 1887 riporta una memoria rinvenuta nei registri della famiglia Crotta:

"Adì 16 Zugno 1692. Resti dichiarito in virtù della presente pubblica Scrittura, qualmente M.r. Vincenzo Mazzaruol e Simone de Biasi ambi da Cencenighe hanno promesso, e si sono obligati di cavar a Cencenighe delle Piere per formar delle statue alli S.S. ri Zuanne Tambosio e Bernardin Probati ambi Agenti del N.U. Alessandro Crotta, quella quantità che saranno ricercati di altezza di piedi quattro, e onze quattro, di larghezza di piedi due incirca, e di grossezza piedi uno a tutte sue spese, e quelle condurle, parimente a tutte sue spese in Agordo.

E questo, perché all'incontro detti S.S.ri Agenti hanno promesso, e si sono obligati di dare per ogni statua abbozzata e condotta come sopra staia due sorgo turco; dovendo per tutto il mese di novembre condurne almeno sei, e tutte quadre conforme la misura sopradetta così convenuti promettendo sott'obligazione."

Ferdinando Tamis e Bepi Pellegrinon nella pubblicazione "Primo elenco degli artisti agordini" (Nuovi Sentieri editore, 1973), sostengono che i tagliapietre di Cencenighe formassero delle piccole maestranze. Alcuni lavori, opera degli scalpellini cencenighesi, sono conservati nelle chiese di Caprile, Tisèr e Cencenighe in forma di altari e di capitelli. A Cencenighe furono i maestri Giovanni Buogo ed Ortensio Mattei a realizzare nel 1726 l'altare laterale in pietra di San Francesco nella chiesa parrocchiale come testimonia un antico documento.

Alla lavorazione delle pietre era collegata l'arte degli intagliatori del legno che lasciarono testimonianza del loro talento nella pregevole finitura degli altari.

Tra questi vanno ricordati Giovanni Manfroi (intaiador e indorador) e Antonio Costa che nel 1753 scolpirono l'altare maggiore nell'abside della chiesa di Cencenighe.

Per modellare le statue era indispensabile utilizzare un tipo di pietra che si prestasse facilmente ad essere lavorata per questo gli scalpellini utilizzavano la dolomia dei Mesaròz, un macereto naturale di frana caduta a più riprese in tempi remoti su un fronte di circa 1,6 chilometri.

Uno studio geomorfologico della zona è stato condotto qualche anno fa dal geologo Vittorio Fenti.

L'area si caratterizza per il paesaggio disseminato di rocce e massi che affiorano in modo disordinato ed è visibile salendo lungo la statale da Cencenighe verso Vallada alla destra idrografica del torrente Biois, circa all'altezza della dismessa galleria delle Anime.

L'estrazione dei massi avveniva a Le Fòpe a monte della frazione di Chioit lungo il versante del monte Pape.

Una zona che si caratterizza per la presenza di anfratti e di cavità ricoperte da una fitta vegetazione boschiva che ne rendono difficile l'accesso.

In prossimità della busa del giaz, una cavità naturale caratterizzata da una temperatura particolarmente bassa , è ancora visibile seppure quasi completamente nascosta dai cespugli, una cava dove in passato si estraevano i blocchi di pietra.

I massi venivano lavorati sul posto e successivamente si procedeva al trasporto a valle dei sassi lavorati mediante i korli (tronchi corti e robusti che fungevano da rulli) e la stroza da sas (slitta priva di pioli munita di due pattini e di traverse orizzontali sulle quali si appoggiava il carico).

Un'attività faticosa e paragonabile, seppure con qualche evidente differenza, a quella dei costruttori delle piramidi egiziane.

E' lecito supporre che in prossimità dei luoghi di estrazione delle pietre si fossero formati anche dei villaggi.

A Chioit già nella seconda metà del Seicento è documentata la presenza della famiglia di tayapiera Zannettin.

Un cognome che fu presente in particolare nel villaggio scomparso di Roncàz.

Di Roncàz si è spesso sentito parlare dalla gente di Cencenighe ma finora non sono mai state condotte indagini sull'argomento.

Qualche utile indicazione è contenuta nella raccolta "Leggende agordine" (a cura del Circolo Culturale Agordino, Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali, Belluno, 1979) si legge che "nel piccolo villaggio di Roncaz, appena sopra Ru de Tòrcol, vivevano in epoche lontane alcune famiglie di tagliapietra (...).

Una triste notte di ottobre, successiva a giorni e giorni di maltempo, un frastuono terribile rintronò per la valle... Una enorme frana era precipitata travolgendo le case e gli abitanti di Roncàz." Secondo il racconto quindi, la frana cadendo avrebbe investito l'abitato in una notte d'ottobre di epoca imprecisata.

Un riferimento a Roncaz è contenuto nella guida turistica "La valle del Cordevole" pubblicata nel 1928 dal maestro elementare di Cencenighe Silvio De Biasio: (provenendo da Agordo) "la strada sale in dolce pendio e dopo una svolta si presenta il villaggetto del Ghirlo più in alto a tergo d'una rotonda collinetta il paesello di Campo, tra i campi che gli danno il nome.

Si vede sulla destra del Cordevole scendere la boscosa valle di Roncàz che raccoglie le acque che scendono da San Lucano e Pape, dappresso la spianatina dei Lares". Nessun riferimento comunque alla frana che avrebbe travolto l'abitato.

Il glottologo nativo di Cencenighe Giovanni Battista Pellegrini, nel suo studio "I nomi locali del Medio e Alto Cordevole", parla testualmente di "casali sotterrati da una frana nei pressi di Faè".

Il significato del termine Roncàz è riferito ad un terreno sterposo posto in una località disagiata.

E'probabile perciò che alcune famiglie di scalpellini avessero fissato la loro dimora in questo luogo proprio per lavorare i grossi massi di pietra nera rinvenuti nel Gàon dei lares e nella valle del torrente Torcòl, a monte del villaggio.

Fatto curioso è che registri parrocchiali della seconda metà del 600 attestano la presenza a Roncàz di alcune famiglie di tagliapietra con il cognome Zannettin: Zanmaria Zannettin da Roncaz, Domenico Zannettin, Valentin e Francesco Zannettin. Quest'ultimo insieme a Bartolomeo Mazzarol si sarebbe obbligato nel 1661 a costruire, entro due anni al prezzo di quattrocento ducati, l'altare del Santo Rosario nella Chiesa di Cencenighe: "conforme quello, e stato fabricatto à Caprile, et insieme con li suoi capitelli di pierra finna il tutto, e niente ecetuatto, dalla pianta alla cima."

Nello stesso abitato sarebbero vissuti anche quel Vincenzo Mazzaruol e Simon De Biasi autori delle statue che ornano il parco della villa Crotta di Agordo come confermano i registri di morte del 1709 "Antonio figlio di Vincenzo Mazzaruol da Roncaz" e del 1744 "Gioachino figlio di Valerio q. Simon De Biasio".

Sfortunatamente non esistono documenti che forniscano una testimonianza attendibile dell'accaduto.

Secondo quanto contenuto nella leggenda la frana scendendo a valle avrebbe travolto anche gli abitanti del villaggio ma nei registri parrocchiali non figura alcuna vittima né è contenuto alcun riferimento alla sciagura.

Ciò rende particolarmente difficile stabilire l'epoca precisa in cui si sarebbe verificato l'evento anche se esistono elementi credibili che fanno supporre l'avverarsi del fatto nella prima metà del 700 dal momento che l'ultima attestazione ufficiale dell'esistenza del villaggio si ha intorno al 1744.

L'ipotesi più plausibile è che la frana sia caduta in occasione della "furiosa inondazione" che nelle parole dello stesso De Biasio (a pag. 36 della sua guida), avrebbe distrutto il ponte del Ghirlo, gli stabilimenti di colatura del ferro e la metà del vecchio cimitero della borgata di Veronetta.

A Cencenighe è tuttora vivente qualcuno che ricorda di aver sentito raccontare della frana che avrebbe travolto Roncàz.

Testimonianze orali che si rivelano utili nella ricostruzione dei fatti. Albino Soppelsa, nato nel 1911 nella frazione di Faè, ricorda perfettamente il racconto della nonna deceduta ottantaduenne all'inizio degli anni Venti.

Una testimonianza avvalorata da alcuni elementi attendibili.

La bòa staccatasi dallo Spiz di san Bold, uno spuntone di roccia situato in prossimità del Col delle scandole e del Col dal Péz sarebbe precipitata a valle travolgendo l'abitato di Roncàz, che secondo l'ipotesi più probabile sarebbe stato costituito da un grappolo di costruzioni localizzate sulla destra idrografica del ru de Tòrcol, un'area posta a valle della frazione di Pradimezzo e a monte dell'attuale stabilimento di occhiali.

A confermare l'ipotesi è il ritrovamento casuale di alcune inferriate (friàde) appartenenti alle abitazioni di Roncàz rinvenute in zona dallo stesso Soppelsa.

Lo conferma ancora la traccia dell'alveo originario del Tòrcol, di un tratto di argine e dell'invaso largo circa una ventina di metri in cui il torrente sfociava nel Cordevole.

In seguito ai lavori di asportazione del materiale ghiaioso dall'attuale greto del Ru del Torcòl furono casualmente riportati alla luce le buse del sorech, alcuni fazzoletti di terra fertile coltivata probabilmente a granoturco.

Un altro elemento è costituito dal rinvenimento in zona di due ruote di mulino che forse sarebbero appartenute ai casali di Roncàz.

La frana avrebbe anche ostruito il corso del Cordevole tanto da allagare l'abitato del Ghirlo depositando fango e detriti.

Una delle abitazioni più antiche del Ghirlo presenta ancora i segni ben visibili della melma (leda) che avrebbe ostruito parzialmente l'ingresso della abitazione fino all'altezza di circa un metro.

Non è ancora definito se gli abitanti di Roncàz furono travolti insieme alle loro case o se invece con più probabilità riuscirono a mettersi in salvo dal momento che non furono riportati nomi di defunti legati a questo evento.

La dinamica della sciagura è ancora da chiarire ma è lecito supporre che la progressiva piena del torrente successiva alle piogge abbondanti, avesse permesso agli abitanti di Roncàz di mettersi in salvo.

Una supposizione plausibile se si considera che il Tòrcol (e ciò è attestato dall'esistenza di alcuni precisi documenti), costituiva una vera minaccia per l'incolumità degli abitati limitrofi, Faè in particolare.

Altri sostengono che a Roncàz si fosse salvata solo una persona, ma è leggenda.

Durante la caduta i massi sfiorarono il soprastante abitato di Pradimezzo.

Per ricordare quella sciagura che salvò miracolosamente la frazione ai primi di ottobre è tradizione celebrare una funzione religiosa nei pressi del capitello (triol) dedicato a san Francesco.

Un fatto è certo: il mestiere di scalpellino andò scomparendo gradatamente anche se ancora nel 1849 si ha notizia dei tayapiere Vincenzo Fontanive e Tiziano Soppelsa impegnati nella preparazione delle pietre dell'orchestra e degli scalini per la costruzione della scala di accesso al coro nella chiesa di Cencenighe.

Una foto dei primi del novecento scattata dal fotografo cencenighese Matteo Faè ha ripreso il vecchio scalpellino Costantino Mazzarol (classe 1857) al lavoro con ponta e mazot.

In un prospetto delle principali cave di pietra esistenti nella provincia di Belluno (contenuto nella "Carta topografica della Provincia di Belluno" pubblicata nel 1866 dal litografo bellunese Angelo Guernieri), si legge che a Cencenighe si scava "pietra dolomitica grigia biancastra appartenente alla formazione della creta ed adatta a pavimenti, coperti, soglie, scalini, tavolini, ecc." estratto da un "numero medio di cinque lavoranti" in quantità di circa 200 metri cubi l'anno per una valore di "2.000 fiorini".

Si specificava inoltre che l'estrazione era gratuita.

Con la fine del secolo si aprivano anche per i cencenighesi le vie dell'emigrazione nelle vicine valli del Tirolo e chi era armato di spirito d'avventura si spingeva anche al di là dell'Atlantico in cerca di fortuna che spesso tardava ad arrivare. Così anche il mestiere di tagliapietra andò scemando cedendo invece il posto ad attività più redditizie.

Degli Zannettin, di cui molte famiglie di scalpellini di Roncàz portavano il cognome (oggi completamente scomparso a Cencenighe e nell'Agordino ma presente nel Cadore) e di altri maestri nella lavorazione delle pietre, non si hanno più notizia, rimangono solo le loro opere a testimoniare l'abilità artistica degli scalpellini di Cencenighe.

Completata la stesura di questo studio, in un'abitazione privata, è stato rinvenuto casualmente e con mia sorpresa un documento datato 1838 che riporta la seguente annotazione "Memoria del vilagio di Roncaz distruto l'an 1748."

Una nota breve (ma per chi scrive preziosa ed entusiasmante), a confermare l'ipotesi che l'evento si sia verificato proprio in quell'anno.

Si ringraziano per la collaborazione fornita Albino Soppelsa, Silvio e Augusto De Biasio, don Gabriele Bernardi, Matilde Soppelsa, Vittorio Costa e in particolare il geologo dr. Vittorio Fenti.

Luisa Manfroi