|
E venne il mio primo giorno di scuola, fui accompagnata da mia sorella Livia, nel mio grembiule nero nuovo con il collettino di pizzo bianco,ero perfetta!.
In testa avevo un enorme nastro bianco che tratteneva i lunghi capelli biondi, il cappotto che indossavo era gia stato "rivoltato" ed era un po' logoro, gli scarponcini alti, neri erano muniti di lunette metalliche sulle punte e sui tacchi.
Questo per non consumare le suole così preziose in quei tempi di austerità e per quelle scarpe grossolane e ferrate a volte venivo presa di mira dall' ironia di qualche amichetta ricca: "Nanà perché le tue scarpe sono così?".
Orgogliosamente e con il naso all'insù rispondevo: "Sai cara amica, mio zio che è un famoso ballerino e ha conosciuto a Hollywood Fred Astaire. Mi impartisce lezioni di tip-tap e per fare questo ballo occorrono scarpe ferrate, punta e tacco, amiche mie, punta e tacco” e accennavo qualche passo di danza.
Zaira e Cordelia mi ascoltavano con interesse ma poi mi dicevano: "Giura!"
Ed io che avevo raccontato un mare di balle, giuravo! Incrociavo gli indici li baciavo e poi sputavo tre volte a terra.
Appena arrivata davanti all'edificio scolastico mi prese il panico volevo scappare ma Livia mi teneva saldamente per mano, io le dicevo: "Non stringere, non scappo mica!"
Ma lei mi conosceva bene. "Meglio non rischiare con un tipetto come te..."
Io feci l'offesa e non le rivolsi più la parola. Mi lasciò la mano solo quando suonò la campanella e il bidello, un ometto piccolo e claudicante con un naso lungo e adunco tale da sembrare un rapace, urlò: "Entrare, entrare".
In quel momento però fui io a stringere forte la mano di mia sorella. Lei mi baciò sulle guance e sorridendo mi disse: "Vai, vai, non temere, ti troverai bene."
Entrammo tutti in classe, mi guardai intorno, non conoscevo nessuno. L'insegnante ci assegnò i posti, io finii in uno degli ultimi banchi perché ero piuttosto alta per la mia età.
La maestra era bassina, piuttosto brutta, aveva capelli ricci, neri e un po' unti, gli occhi erano rotondi e sporgenti, le mani grassottelle, scure e non molto curate, portava scarpe alte con la zeppa di sughero secondo la moda del tempo.
Si sedette dietro la cattedra e cominciò l'appello: "Accorsi Donata".
- "Presente", rispose una bambina dalle lunghe trecce fermate da due fascette di pelle nera "Agati Nadia".
- "Presente", dissi scattando in piedi, "Bartocci Manuela". E così fino a "Zanetti Antonio".
L' appello era ultimato, ora la maestra con l'elenco davanti fece qualche domanda alle sue alunne.
Che mestiere fa tuo padre? E tua madre? Hai sorelle? Fratelli? Dove abiti?
Tutti rispondevano timidamente con un filo di voce.
Quando arrivò il mio turno e appena sentii chiamarmi ero già in piedi e con sfrontatezza dissi: "Agati Nadia, chiamata dagli amici Nanà".
La maestra ebbe un'aria scocciata e con voce ironica: "Lascia perdere i soprannomi, non mi interessano".
- “Va bene, come vuole lei! Cosa desidera sapere? Che mestiere fa mio padre? È maresciallo dell'aeronautica, mia madre fa la madre e ho tre sorelle, vuole sapere qualche altra cosa? Piuttosto lei, come si chiama?”
La maestrina arrossì leggermente e rivolgendosi all'intera classe disse: "Scusatemi bambine, non mi sono presentata, mi chiamo Adiomilla Ardenzi. E sarò la vostra insegnante fino alla fine dell'anno.”
- “Maestra - dissi io alzando la mano - potremmo chiamarla Milla?"
- “Assolutamente no” - rispose lei seccata.
- "Ah, va bene, come vuole lei" E mi sedetti.
Le compagne mi bisbigliarono: "Ma stai un po' zitta! Perché ti vuoi mettere in mostra ad ogni costo? Stai diventando antipatica, lo capisci sì?"
Da quel giorno parlai sempre meno. Il bello è che parlavo poco pure alle interrogazioni.
Ora era l'Ardenzi che faceva la spiritosa dicendo: "Tanta lingua per le cose inutili e poca per quelle utili!"
Io abbozzavo. Ma il suo atteggiamento me la rendeva sempre più antipatica.
Anch'io non le andavo molto a genio, tanto che quando prima di andarsene si pettinava mi chiamava per soffiare sul suo grembiule dove si erano depositati capelli e forfora.
Questa incombenza mi faceva letteralmente schifo, ma lei mi imponeva questo strazio! E anche per questo detestavo sempre di più maestra e scuola.
A volte in classe portava le sardine e le puliva lì sulla cattedra, le teste le metteva in un sacchetto che poi faceva buttare a me fuori dalla scuola, io quelle teste di pesce gliele avrei fatte ingoiare!
Per non parlare di quando, sempre in classe, si faceva il caffè con una piccola macchinetta a spirito e poi la tazzina la dovevo lavare io nel bagno, per rabbia ci sputavo dentro, questa era la mia vendetta!
I voti sulla pagella erano bassi, i miei genitori mi sgridavano e subivo punizioni, ma io di studiare non ne volevo sapere.
A volte prendevo delle iniziative assurde. Il giorno che si dovevano fare le vaccinazioni scappavo dalla scuola, arrivavo a casa di soppiatto e poi mi nascondevo sotto qualche letto.
La preside era costretta a mandare le forze dell'ordine a cercarmi a casa.
Rovistavano dappertutto guardando persino nel pollaio, poi quando mi trovavano, come una delinquente, in mezzo a due carabinieri venivo accompagnata mio malgrado all'infermeria della scuola, dove due medici mi immobilizzavano e tra urla e imprecazioni mi vaccinavano.
La fine della scuola era imminente e io in tutto l'anno non avevo combinato nulla di buono.
Un giorno a mia madre venne in mente di preparare un dolce per “ammorbidire”, come diceva lei, la maestrina.
Le mie sorelle ed io dovevamo portarlo alla Ardenzi a Ferrara. Prendemmo il treno e con quell'enorme ciambellone ci sedemmo nello scompartimento.
Ad un tratto mia sorella Livia disse: "Io mi vergogno di portare questo dolce, non me la sento proprio! Ci vai tu Tilde?”
- “Io proprio no!” - rispose mia sorella maggiore.
- “Ma a mamma avevamo detto che l'avremmo consegnato! Ora cosa facciamo?”
Dovevamo decidere in fretta perché Poggio Renatico distava da Ferrara pochi chilometri. A me venne un idea!
- "E se ce lo mangiassimo tutto?"
Ci guardammo tutte e tre e decidemmo per quest'ultima soluzione.
Scartammo l'enorme pacco e voracemente ci ingozzammo di grosse fette di dolce, ma, mangia mangia, alla fine non ne potevamo più e il dolce non finiva mai! L'offrimmo persino alle persone che stavano nel nostro scompartimento.
Quando arrivammo a Ferrara ne avevamo ancora una fetta, che in una bella piazza regalammo ai colombi.
|
|