|
Il seguente racconto è tratto dal libro Colori d’autunno di Mauro Zulli.
Avevano tutti e due, Monica e Fabrizio, le stesse dannate intenzioni, gli stessi obiettivi e, celate fra effimere piaghe laceranti, le stesse inquietanti, cattive premonizioni.
Solo la prospettiva, l’angolo virtuale degli eventi, era difforme; per Monica era come se una inconsueta miopia maligna e progressiva falsasse i contorni di quel mattino ancora acerbo, un mattino tanto anelato, che avrebbe potuto e dovuto essere l'inizio di tante speranze e invece un cattivo presagio, come il ricordo d’un incubo sfumato nel lento oblio dei risveglio, le opprimeva l'animo.
Per lui invece tutto pareva percettibile e chiaro come, aldilà delle tendine a fiori, l'incanto di quell'orizzonte che confondeva l'azzurro d’un cielo geloso di nubi con i contorni nitidi delle Dolomiti innevate.
S’alzò con calma, ancora assonnato e pigro; arrotolò con cura lenzuola e coperte ai piedi d'un letto troppo vuoto e assente e, senza nemmeno mettersi le pantofole - l’ultimo suo regalo -, percorse gli angusti spazi che lo separavano dalla cucina.
Il caffè, riscaldato e forte, servì soltanto a scatenare la sua iracondia e la rabbia che la notte, faticosamente, aveva placato. In bagno, dopo aver inutilmente tentato di mitigare il nuovo umore sotto la doccia, sputò reiteratamente sullo specchio e su quel volto astioso e assurdo che non riconosceva.
Cercò di nascondere le rughe di rabbia e tutto il resto sotto una soffice e rassicurante schiuma, ma l'incurante rasoio gli rimandò intatto il dispiacere del suo viso su cui rimanevano intatte le sue angosce.
In un vecchio e fatiscente palazzo ai margini dei centro storico, in uno squallido e misero monolocale in subaffitto Monica, nel frattempo, metteva ordine ai suoi pensieri. Aveva già predisposto tutto meticolosamente la sera prima; le memorie delle miserie di quell'ultimo pezzo della sua vita erano lì, scritte, lette e rivissute affinché nulla fosse dimenticato, racchiuse in quei quattro fogli vergati con mano rabbiosa e tremante.
Il suo vestito rosso - ma non glielo aveva regalato lui l'ultimo S. Valentino? - attendeva il suo corpo ancora snello, morbido e sensuale accanto a quei fogli sul piccolo trumò antico i cui intarsi l’avevano così affascinata e invaghita; l’avevano acquistato insieme in quel bugigattolo impolverato, in fondo a via della Spiga. S’appuntò appena sopra il petto, la spilla - un bocciolo di rosa d'oro - che lui le aveva portato dal suo ultimo viaggio in Bretagna, e ravvivò con un gesto consueto i corti capelli castani. Una leggera e impalpabile nuvoletta di profumo - amava quel sapore intenso di viole - s’impadronì della sua pelle d'ambra e insinuò il ricordo dei suo sorriso, fra lei, e l’incombenza d’avvenimenti che premevano proprio sotto l’ignara spilla ......
Il Giudice di Pace De Ronchi Augusto attendeva, nel suo studio grigio e lucido come il suo cranio stempiato, di ricomporre un altro ennesimo rapporto.
Rilesse il fascicolo lentamente, pensando a tutt'altro - aveva il golf la mattina seguente - e distese le gambe in modo alquanto sconveniente sulla scrivania di mogano. S’accese una Gitane senza filtro.
Mentalmente ripassò la sua collaudata ramanzina rare volte efficace, con i pensieri che rimbalzavano fra quella maledetta dodicesima buca - non riusciva mai ad andare sotto il par - e le note stonate di parole che non avrebbero convinto nessuno.
Socchiuse gli occhi e, mentre le lenti scivolavano fin sulla punta adunca del naso, s'assopì.
Fabrizio raccolse, con circospezione inconsueta, la piccola e luccicante Beretta in fondo al comodino e la infilò fra la cintura e il fegato.
"Se doveva finire quella dannatissima storia, sarebbe finita solo così", pensò serrando, fino a dolersi, i denti; non intravedeva altra soluzione, altro che separazione, conciliazione, divorzio…una bella, dorata e penetrante pillola calibro 22 e bum... bye, bye amore mio, Monica vai aff...
Il massiccio portone di legno e ferro battuto, al n° 45 di viale Botticelli, era socchiuso e ansimante in attesa d’eventi consueti, ma ogni volta inaspettati e ignoti.
Monica attendeva già da venti minuti, erano le nove e un quarto, e l'appuntamento con l'avvocato De Ronchi era fissato per le nove. Quel ritardo l'aveva avvolta, inconsapevole, in pensieri, ricordi e dolci memorie; lasciò che l'accarezzassero con un abbandono denso d’emozioni. Il frastuono della sirena di un’ambulanza la fece riemergere da quel torpore; capì in un sol colpo che tutta quella vicenda non sarebbe finita ineluttabilmente, né quel mattino né mai più. Amava quel bastardo più di quanto l'avesse mai meritato e, al diavolo il De Ronchi e tutti gli avvocati di questo mondo, non appena l'avesse visto gli si sarebbe buttata al collo. Fabrizio scese dai taxi dall'altra parte della via; inciampò maldestramente con la mano nella rassicurante Beretta, mentre affannosamente cercava il danaro per pagare la corsa.
Traversò la strada incurante del lento traffico e si diresse, la mano ben serrata sul caldo, rassicurante metallo, verso un inatteso e sconvolgente sorriso..
"Sarà l'ultimo, l'ultimo" pensò, schivando a stento un ciclomotore nero come un gatto nero e rumoroso come i suoi passi grevi, "l’ultimo tuo ghigno beffardo e ipocrita" e, proprio nell’istante in cui estraeva l'evento finale lei gli si appese e aggrovigliò al collo, ansimando convulsamente tra lacrime scomposte e rimmel liquefatto che gli imbrattava la camicia ..........
Il sibilo sordo e incosciente del proiettile uscì dalla canna rovente; si perse, nel fragore della via, aldilà delle braccia di lei, finendo la sua breve e definitiva corsa al primo piano, interno sei, numero 45 di viale Botticelli… proprio nel bel mezzo della fronte, fra gli ormai inutili e inutilizzabili pensieri dell’avvocato De Ronchi Augusto.
|
|