|
Il romanzo Il verro di Baragiano ha vinto il 1° premio della sezione Narrativa del concorso letterario Il Telescopio.
Così va l'Italia in guerra. Si dibatte come un serpe colpito a morte per cercare con guizzi finali di risorgere e scampare alla tragedia finale che si annida passo dopo passo.
Intanto dopo un gelido febbraio il paesaggio sembra ridestarsi, con le prime forme floreali colorate pronte a dare i primi spruzzi della nuova gioia solare.
In questo tempo, quando gli uccelli tornano sui tetti delle case crollate a cantare il loro canto di rinascita, mia madre viene ancora e se ne va. Una sera, una maledetta sera, una come tante, donna Giulia parte per non fare più ritorno. Tutto è accaduto.
Oggi è venerdì 3 marzo. Donna Giulia sarebbe dovuta partire ieri per Baragiano, ma un negozio era sfornito di biancheria, per cui ha dovuto rimandare a oggi la partenza.
Papà l'accompagnerà. Per questo stamattina vado da solo a lavorare al porto e già nella pallida luce dell'alba bacio mia madre che fa capolino tra i cuscini, sussurrandole: "Mammà, ve voglio tanto bbene!"
"Pur'io figlio mio! Và và, ce vedimmo tra quinnece juorne!"
A queste parole dal lettone si leva la mano di papà che mi carezza tra i capelli, bisbigliandomi con la voce impastata di sonno: "Ce vedimmo stasera Vicié. Bona jurnata!"
Li bacio tutti e due, i miei amati, e volo via. Mentre il tram sferragliando avanza verso Napoli, fermando a ogni stazione per prendere gli assonnati lavoranti, sono immerso tra immagini oniriche e pensieri strani.
Talora apro gli occhi e mi lascio abbagliare dall'alba che là fuori è chiara chiara.
Sembra proprio che oggi sarà bello. E infatti quando le ore del giorno si affacciano sul porto, dopo che già ho cominciato a scaricare da una nave, il mondo è inondato da un tempo che di prima mattina è decisamente uno schianto. Ha cominciato con una gran sole che spaccava le pietre e l'aria tiepida come se si fosse a maggio. Poi in coperta, mentro trascino casse di liquori, qualcosa cambia.
Vedo l'aria invasa da stormi di gabbiani che gracchiano come impazziti e, a questo sinistro presagio, si aggiunge laggiù, oltre il faro, una massa di nuvolaglia scura e minacciosa.
Improvvisamente si leva un gran vento di mare e provoca ondate talmente forti che la nave su cui sto lavorando sbatte furiosamente contro il molo, e quasi sembra che voglia spezzare gli ormeggi.
Tutto questo ribaltamento della natura mi dà un senso d'inquietudine crescente, che cerco invano di spiegare col fatto in sé della repentina bufera. Presto saprò cosa ho letto nello scatenarsi degli elementi sulla mia testa. Da questo momento come in un incubo ricostruisco, volando simile a un fantasma sugli avvenimenti cui non ho partecipato in prima persona, tutto quanto è accaduto.
È quasi l'una. Don Gennaro e la moglie reggendo le mappate di cose scendono dal tram.
Facendosi strada tra il diluvio d'acqua che si sta abbattendo sulla città, corrono per quello che possono con tutto quel carico ed entrano trafelati nella stazione di Napoli.
Don Gennaro è intriso d'acqua comm' a nu purpetiell' e va bestemmiando: "Mannaggia 'o pataturco! Isso e ll'acqua!"
Mia madre si è coperta bene con il lenzuolone imbottito di biancheria che ha messo sulla testa, e ha subìto meno danni.
Il treno sta appena appena per partire. Lo vedono laggiù col capotreno che già serra alcune porte.
"Curre Giulia! Curre!" fa papà, tirandole via anche l'ultima mappata di roba e lasciando che la compagna corra verso l'ultimo carro merci, dove alcune mani si protendono ad aiutare il passeggero ritardatario. Arrancando con le sacche che lo sballonzolano di qua e di là, e che sono tante da farlo sembrar avere non due ma cento mani, trafelato arriva anch'egli sotto il treno col capotreno che invita: "Ampressa, facite ampressa!".
Mammà da là sopra aiuta papà a scaricare la roba all'interno del convoglio. Indi anche lui si arrampica ed entra. Ha ancora il tempo di aiutarla a sistemarsi in un posto libero tra il fieno, facendosi strada tra la ressa di viaggiatori accaldati e puzzolenti per accalcare la roba in un angolo.
Fiii, fiii! È il fischio del capotreno che assale l'alzata dell'ultimo carico, tanto che donna Giulia invoca: "Gennà fa' subbeto! Ca 'o treno parte!" "Vaco, vaco".
Mio padre getta le braccia al collo di mamma la bacia, la stringe, scappa via, e salta giù che già il treno comincia a muoversi. Poi da laggiù prende a salutarla e a lanciarle un bacio nascosto, mentre lei sporgendosi dalla porta con gli occhi lucidi agita, in mezzo a mille altri mani vorticanti, il fazzoletto del giorno delle nozze.
Ciuf, ciuf, ciuf. La locomotiva a carbone ansimando trascina il pesante convoglio sul binario e lancia il suo fumo che penetra acre nei carri merci, andando a infilarsi negli spazi d'aria liberi lasciati dai nugoli di viaggiatori. Si tratta di maschi adulti, ma soprattutto di donne, vecchi, bambini con accanto i loro mucchietti di cose personali o da contrabbandare. Ancora il destino tesse le fila dei poveri mortali. Questo treno, uno dei pochi messi a disposizione dei civili, segue la routine e viene sovraccaricato per le necessità del trasporto militare. Come se non bastasse il peso già eccessivo di cose, mezzi bellici e uomini, a Salerno vengono aggiunti altri carri merci al convoglio, alcuni anch'essi ricolmi di passeggeri.
A seguito di queste manovre la carrozza di mia madre che fortunatamente per il ritardo era l'ultima diventa centrale.
Donna Giulia pensa al marito, a me, al giorno in cui tutta la famiglia si riunirà a Torre e quando assiste all'aggiunta di vagoni quasi ringrazia il Signore. Stando al centro potrà scendere a Potenza sulla banchina, e con tutta quella roba ingombrante e pesante non dovrà fare un lungo tratto a piedi sui binari. Ahimè cara mamma come le cose s'intrecciano in assurdi grovigli per cui, come il tempo di marzo, tutto si trasforma repentinamente, il male in bene e il bene in male.
Tutto quello che era scritto accade nella galleria di Balvano.
Là si ferma il treno, nel buio della notte che è ancora più cupa nel tunnel della morte eterna.
La locomotiva allo stremo si arresta per l'eccessiva zavorra di uomini e cose trasportate, che impedisce di montare in salita. Il fuochista, in minuti di follia che coinvolge anche il macchinista, non fa che alimentare il mostro infernale, il quale invece di sprizzare energia continua a sputare fuoco e fumo tanto da invadere sempre più la galleria.
Sulle prime nei vagoni tutti i passeggeri si sono accorti che il convoglio si è fermato e sono inquieti, anche se non sanno bene cosa stia succedendo.
Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di uomini e cose volano borbottii, commenti, lamenti, bestemmie.
Solo alla fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera sempre più fitta e la gente prende a tossicchiare, il panico comincia a diffondersi, anche se ancora nessuno osa muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo impedisce d'intuire il cosa fare.
Giulia nel suo cantuccio si afferra al fazzoletto e lo stringe alla bocca fino a farsi male, mentre tra sé e sé barbuglia: "Madonna mia! Nun voglio murì! Damme a Gennaro ancora!" Le zaffate di fumo divengono sempre più spesse. Ora tutti tossiscono, le donne si disperano e gridano: "Ch' è succieso?" "Che sta venenno?" "Scappamme! Chist' è bbeleno!" urla alla fine un vecchio.
"Fuimme genta gè!" fa eco una popolana.
Come una valanga, sbraitando, spingendo, coi bambini piangenti che strillano nel buio "Oi mà!Mammà!", tutti si avviano verso il varco ligneo e si buttano giù.
Donna Giulia ha un attimo d'indecisione e si schiaccia contro la parete mentre bisbiglia: "'A rrobba!"
Svelta si accuccia per terra, ma invano si allunga cercando di aggrapparsi almeno al manico del sacco con la biancheria.
Viene subito travolta dalla massa e, sospinta via, cade giù dal treno, andando a finire su una pietra.
Con la gamba dolorante, con le labbra attaccate al fazzoletto, prende ad avanzare insieme agli altri che ora si sono sparpagliati in fila indiana. I giovani più veloci corrono avanti, ma molti di loro sono rallentati proprio per dare aiuto ai loro vecchi e ai bambini.
Si avanza al buio palpando con le mani ora il ferro freddo del convoglio ora il muro umido della galleria, mentre il fumo diventa sempre più intenso e acre e ha ormai completamente invaso lo spazio, che sembra nello scurore immane l'antro stesso dell'inferno.
Molta gente tossisce in rigurgiti sempre più spasmodici, e presto i primi fuggiaschi cominciano a cadere, sicché urlando e piombando giù quelli che vengono dietro si trovano innanzi, nuovi ostacoli, i corpi delle prime vittime asfissiate e falciate dai gas venefici. E allora nel contatto ecco elevarsi nuovi sinistri ululati di donne e pianti di bimbi.
Donna Giulia ha appena il tempo d'intravedere laggiù lontano uno spiraglio minuscolo macchiato da un raggio bluastro e di pensare: "Chella è a luna!", che piomba a terra in mezzo ad altri corpi per non più rialzarsi.
Dopo la galleria della strage c'è la stazione di Balvano. Là invano il capostazione e alcuni parenti di passeggeri stanno in attesa del treno notturno.
Quando il ritardo diventa preoccupante il dirigente fa scattare l'allarme e invia una locomotiva di soccorso.
Quale spettacolo orrendo si para innanzi agli occhi del macchinista! Davanti alla sua motrice spunta ancora fumante la testa del convoglio, sinistramente immota.
Sotto di lui sbucano da chissà dove i conducente del treno che, agitando le mani, gridano: "Aiutateci! È una tragedia!"
Sceso rapido con gli uomini del soccorso armati di torce, il macchinista, con l'aria che è tornata appena respirabile, li guida all'interno del tunnel, dove presto si parano davanti agli occhi, tra i fasci di luce, i nugoli di cadaveri riversi, anneriti, con le bocche spalancate alla vana estrema ricerca di quell'aria che non c'era più.
Molti, i più vecchi, neppure si sono mossi dai loro giacigli notturni sui convogli.
Li trovano là attaccati alle loro cose, immoti tra quella marea fuggiasca di commercianti di guerra, con la testa appoggiate ai loro lenzuoli, alle valigie, aggrappati alle cose della sopravvivenza nel baratto.
Che macabro spettacolo! Sono quasi tutti morti i passeggeri della miseria in quella grigia alba tra le montagne brulle. Solo quelli che, in coda, erano vicini all'uscita della galleria, sono riusciti a salvarsi.
Li trovano là fuori allo sbocco opposto della galleria urlanti, piangenti, con la bocca piena di parole di grazia ricevuta dalla Madonna e dal Signore.
|
|