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Il racconto di Nadia Agati, qui di seguito pubblicato, si è classificato al secondo posto nella sezione Narrativa del 1° premio letterario Il Telescopio.
Sono passati quasi quarant'anni eppure quella ragazzina quattordicenne, piena di vita, di speranza, di gioia di vivere mi sembra quasi di toccarla; dove sei piccola "bionda arrabida" come ti chiamavano i tuoi amici contadini "della bassa"?
La pianura padana, altro dolce ricordo, con le sue campagne dai mille colori e odori, quello acre e pungente delle canne da canapa che maceravano nelle acque degli stagni e quello dolciastro delle barbabietole da zucchero scapicozzate, dalla chioma verde, dalle abili mani dei braccianti e il profumo inebriante del fieno tagliato di fresco, tutto questo le mie nari sentono ancora e il ricordo mi fa tornare là sulle rive del Reno in un caldo pomeriggio d'agosto quando con un'amica decidemmo di andare a fare il bagno al fiume.
Un fiume che nei mesi estivi era avaro di acque tanto da lasciare nel suo alveo solo grandi pozzanghere, e a noi ragazzi, che non avevamo mai visto il mare, quelle pozze sembravano più belle delle piscine, anche quelle peraltro mai viste se non nei films o in qualche rivista.
Il fiume Reno era per i paesani di Poggio Renatico motivo di grande orgoglio, anche perché nel paese non avevano altro a parte l'Abbazia.
E così fiume e Abbazia erano le sole e uniche ricchezze. Il fiume però occupava il primo posto nel cuore di tutti ed era amato e odiato contemporaneamente.
Quando d'inverno mostrava tutta la sua forza e cercava di straripare i paesani lo imprecavano come se avessero di fronte un uomo; "cat vegna un cancher" gli gridavano, e combattevano contro la sua forza cercando di sottometterlo, ma quando riuscivano ad imbrigliarlo, lo lodavano e lo amavano di nuovo.
Tornando a quel pomeriggio d'estate io e la mia amica cercavamo la compagnia di due ragazzi, perché senza di loro difficilmente saremmo arrivate al fiume che distava dal paese qualche chilometro, e poiché le biciclette le avevano loro, li invitammo.
Alle tre in punto ci vennero a prendere e ci fecero sedere sulla tavoletta di legno posta davanti alla bici da donna. I ragazzi pedalavano con vigore e noi con i capelli al vento e le gambe nude ridevamo felici.
Nella borsa di paglia avevamo la merenda e una grossa sorpresa per i ragazzi.
La sera precedente io e la mia amica Pina, per essere un po' diverse e un tantino sexy, ma soprattutto per stupirli, avevamo confezionato i nostri costumi: un "due pezzi" con la stoffa di un vecchio paio di pantaloni di mio padre; la stoffa era ruvida e pungente, ma l'effetto che il costume ebbe su di noi fu sorprendente.
I ragazzi rimasero a bocca aperta, quella piccola striscia di pelle rosa che il nostro corpo giovane e acerbo mostrava li aveva turbati e per nascondere la loro emozione corsero via dicendo: "andiamo a raccogliervi le more".
Noi sdraiate al sole con un atteggiamento da dive degli anni trenta, rispondevamo: "tante eh!".
E continuammo a crogiolarci al sole e a ridere.
Remo e Federico tornarono dopo un po' con le mani tutte graffiate dai rovi ma colme di more succose.
Col fare di due gattine smorfiose ci riempivamo la bocca di quei dolci frutti e il succo ci colorava le labbra come se avessimo messo del rossetto.
Così ricordo quella splendida giornata, che si concluse al calar del sole, quando a malavoglia e con un po' di tristezza, i nostri amici ci misero sulle biciclette e ci riportarono a casa.
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