|
Almeno una volta l'anno andavo a trovarla.
Erano ormai gli ultimi suoi anni e della donna energica che avevo conosciuto, era rimasto ben poco. Arrivavo in treno, su quello che da Firenze passando per Marradi, il paese dei miei genitori, mi portava a Faenza.
Solitamente andavo verso la fine dell'estate. Poco prima di arrivare alla stazione mi affacciavo al finestrino. Dovevo salutare il mio casello ferroviario, quello in cui sono nata ed ogni volta era una sorta di rito. Il casello numero novantanove sulla via Emilia. Li ho vissuto i miei primi cinque anni. Zia Rosina mi aspettava al primo binario.
Ogni anno la trovavo sempre più stanca, "Oh, la mia Anna" - diceva - non posso portarti nemmeno la valigia". La guardavo. Se quando ero piccola mi era sembrata severa, adesso la trovavo tenera, desiderosa di buone parole e di un braccio che le circondasse le spalle.
Piangeva e mi raccontava di sé, di come al mattino, svegliandosi, parlasse con la foto dello zio Emilio per non sentirsi sola e per provare se la voce usciva ancora. La casa era vicina alla stazione. Una bella palazzina con un giardino pieno di rose. Una breve rampa di scale. La chiave che apriva la porta. La casa avvolta nel silenzio e un po' anche nella tristezza.
Poggiavo la valigia a terra ed entravamo in cucina. A volte, mi faceva trovare i cappelletti.
"Sei stanca?" - mi chiedeva - "siediti e raccontami di te e dei bambini." Mi ascoltava guardandomi.
"Oh, la mia Anna, sapessi come mi sento sola e tu che sei andata a sposarti così lontano, a Roma".
L'abbracciavo e lei continuava a piangere.
|
|