Io e Luc eravamo di nuovo seduti al nostro tavolo, nella
stanza al primo piano. Ogni volta che andavamo lì, pulivamo un pezzettino
ed era, in breve diventata vivibile. I mobili non c’erano più: restava
il pianoforte roso dai tarli, le sedie e il tavolo. Era una camera immensa,
divisa in due parti. Nella “zona notte” c’erano ancora i resti di un baldacchino
con le sue tende sfilacciate. Uno specchio appannato e corroso dai secoli
lo rifletteva tristemente. Nella “zona giorno”, quella più illuminata,
c’eravamo noi che guardavamo pensierosi ed emozionati le pagine. Una vita
intera si stava svelando ai nostri occhi ed eravamo testimoni dei dolori
di un ormai non più giovane Werther:
“Che idea ti sei fatta di tutto questo?” mi chiese Luc.
Io presi tempo sorseggiando la bottiglietta d’acqua che avevo portato da
casa:
“Non so. Tutto questo mi affascina…una donna che comanda
le Guardie Reali nel ‘700…la sua vita così…lacerata, divisa tra
due identità…certo, il padre sembra molto dispiaciuto per quello
che ha fatto ma…
“Ma?”
“Ma non riesco a perdonarlo. Cioè, la mia parte
razionale lo comprende perfettamente, ma nonostante tutte le attenuanti
del caso non posso giustificarlo. Che diritto aveva di rovinare la vita
a sua figlia, solo per i suoi interessi? E’…disumano…”
“Beh, non esagerare”
“Non esagero! Ma ti rendi conto di quello che deve aver
passato quella ragazza?”
“Beh, anche tu ti vesti da uomo ogni carnevale e fai
finta di essere un maschio.”
“Sì, ma io lo faccio per lo spazio di una sera…e
per gioco. So che sono una ragazza e vengo anche considerata come tale.
Ma vivere in un mondo di uomini e comportarsi, agire come un uomo ventiquattrore
su ventiquattro, 365 giorni all’anno è quanto meno…stancante. Si
finisce per perdersi, per dare sempre meno spazio alla propria femminilità
e cosa si diventa? Niente. Un ibrido perfetto, senza definizione.”
“Ok ok. E’ meglio se continuiamo il nostro lavoro” Capisco
ora che Luc deve avere interrotto bruscamente la cosa per evitarsi una
tirata femminista da parte mia. A volte lo tiranneggiavo un po’ e lui mi
lasciava fare: salvo poi tornare alla carica quando mi ero calmata e diventavo
più ragionevole. Un po’ come l’Andrè del nostro diario, insomma.
Ancora adesso sono convinta che non conosca bene sua moglie, quanto conosce
me. Il legame che si è creato tra di noi durante quei giorni di
settembre è indissolubile e profondo. La complicità che abbiamo
acquisito insieme, ci legherà per sempre.
29 settembre 1789
Ed eccomi qui, di nuovo alle prese con me stesso, pronto
per affrontare un nuovo capitolo dei miei errori. Sono un soldato che davanti
a queste pagine combatte la sua battaglia. Un soldato che non sa se la
guerra sarà vinta o persa, se porterà a qualcosa o no. Sa
solo che deve combattere e lo farà. La battaglia che mi sto accingendo
a raccontare è una delle più dolorose, ma inevitabile.
Come sono passati in fretta questi anni! Stento a
rendermene conto. E’ come se la vita mi fosse scivolata di mano e io ne
avessi sentito il fruscio sul palmo. La routine, i doveri di tutti i giorni
scandiscono il tempo e se lo portano via senza che noi ce ne accorgiamo.
I giorni, i mesi, gli anni passarono alla Corte di
Versailles tra balli, feste e concerti. La regina Maria Antonietta si fece
vecchi e nuovi nemici e qualche amante di troppo. Anche quello svedese,
Fersen, che avevo intravisto qualche volta a Palazzo Jarjayes, era tra
le persone più intime. Era anche amico di mia figlia lo ricordo.
Ho scambiato qualche parola con lui nei saloni di Palazzo e mi era sembrato
un vero gentiluomo, non privo di classe e buongusto.
Tutto procedeva come al solito. Parigi era lontana,
i suoi rumori non arrivavano fino alla Reggia. Ero sicuro che la nomina
a Generale per mia figlia fosse vicina. Era solo una questione di tempo.
Probabilmente se lei l’avesse chiesta, Sua Maestà non l’avrebbe
rifiutata. Infatti, un giorno seppi che Oscar aveva chiesto udienza
a Maria Antonietta, cosa strana perché di solito avveniva il contrario.
Pensai subito che Oscar volesse avanzare quella richiesta che finora non
aveva fatto e non ci vedevo nulla di sbagliato. In fondo, sarebbe stato
un premio meritato per la sua fedeltà e gli anni trascorsi al servizio
dei sovrani. Considerando poi, la stima e l’affetto che la nostra Regina
aveva sempre accordato a Oscar, credevo fosse cosa fatta.
Il mio stupore quando appresi la notizia, invece,
fu indicibile. Non ci potevo credere. Oscar non aveva chiesto una promozione,
bensì di lasciare il comando della Guardie Reali. Inammissibile!
Quale fu la causa di tale comportamento non l’ho mai capito. Quelle che
posso fare sono solo congetture. La cosa mi preoccupò non poco.
Ormai non era più in mio potere fermarti. Ti conoscevo bene Oscar,
e quando mi dicesti: “Padre non insistete vi prego. La decisione è
presa” capii che nulla ti avrebbe riportato indietro. Mi preoccupò
perché il comando delle Guardie di Palazzo era un posto “sicuro”.
I membri del reggimento appartenevano alla nobiltà e accettavano
molto più facilmente di altri di essere comandati da una donna.
Erano di estrazione elevata e non ti avrebbero fatto impensierire più
di tanto. Qualsiasi altro corpo armato sarebbe stato peggiore. Quando poi
seppi che ti era stato affidato il comando dei Soldati della Guardia non
dormii la notte. Adesso posso dirlo. Posso dire quella frase che mi sono
negato per tanti anni. La mia bambina in mezzo a quel branco di rozzi e
maleducati non ci doveva andare. Ecco, l’ho detto. Per anni mi sono trovato
delle scuse e ho soffocato il pensiero di questa frase. Ma alla fine l’ho
fatta uscire e ora sono sollevato.
Sapevo cosa ti attendeva. Avrebbero infangato
il tuo nome, fatto pesanti allusioni e forse anche di peggio. Il rispetto
non era affatto assicurato perché eri nobile ed eri donna.
Credevo che tu non sapessi a cosa stessi andando incontro.
Pensavo che non avessi preso in considerazione questi fatti. Che dessi
per certo che la vita militare fosse tutta lì: comandare e vedere
eseguiti i propri comandi. Non ebbi tempo di parlare con te di queste cose.
Mi sfuggisti. Partisti per la Normandia per una settimana, in attesa dell’incarico
e io fui impegnato con le mie truppe fuori Parigi. Forse se avessimo potuto
confrontarci avrei capito la lampante verità: tu eri adulta ormai
e non avevi bisogno di guide e padri dispotici. Eri molto matura, sei sempre
stata molto più matura della tua età e non ti facevi illusioni.
Eri perfettamente conscia di ciò che avresti dovuto affrontare,
ma lo hai fatto lo stesso. Nemmeno io ho mai avuto tanto coraggio.
I se e i ma si sprecano. La realtà è
che, nella mia ignoranza, nella mia cecità commisi uno degli errori
più grandi della mia vita. Pensai al tuo matrimonio. Sarebbe stata
la via di fuga perfetta.
Ti vedevo tornare a Palazzo Jarjayes, la mattina presto,
dopo un massacrante turno di notte. Il viso era sempre più pallido
e tirato. Rughe di preoccupazione alteravano la tua bellezza innata. Sapevo
cosa non andava. Il Generale Bouillè mi aveva informato. I Soldati
della Guardia non ti volevano come comandante, Erano arrivati ad esprimere
apertamente il loro dissenso, scrivendo una lettera a Sua Maestà
nella quale chiedevano di destituirti dal tuo incarico. Fu allora che il
tarlo del dubbio si insinuò nella mia mente.
Si dice che la saggezza sia un frutto maturo. Io ero
ormai vecchio abbastanza per capire la grossolanità del mio errore.
Nonostante tutti i miei sforzi non ero riuscito a fare di te un uomo e,
contemporaneamente, a preservarti dai dolori e dalla durezza della vita
militare.
Ho ancora viva in me l’immagine di quel nostro colloquio
nel mio studio. L’ultimo mio tentativo di stabilire un contatto con te.
Tu esordisti sulla difensiva:
“Anch’io devo parlarvi padre. Vi invito fermamente
a non concedere la mia mano al giovane conte di Girodelle perché
io, padre, non intendo sposare nessuno!” Quando usavi quel tono non c’era
niente che poteva farti cambiare idea, testarda com’eri. Se fossi stato
più giovane anch’io mi sarei alterato, ma qualcosa avevo imparato.
Con calma ti chiesi di sederti. Non volevo uno scontro, ma un incontro.
Vidi allora, forse per la prima volta, cos’eri diventa realmente. Una donna:
una donna bellissima che vestiva un uniforme. Gli anni di fatiche, di sofferenze,
di dura vita militare non avevano alterato del tutto la grazia e
la delicatezza del tuo viso. C’era eleganza, raffinatezza, nobiltà
nei tuoi gesti, nel tuo portamento. Niente di tutto questo era stato cancellato.
Anche nella tua voce che ora mi parlava vi erano delle note dolci e morbide,
che mai, nessun soldato avrebbe avuto.
Mi dicevi che non era raro che un comandante incontrasse
degli ostacoli i primi giorni, che questi ostacoli erano uno stimolo per
te e che, in fondo, tutto ciò era più divertente che comandare
la Guardia Reale. Non ce la feci più. Dio cosa avevo creato! Avevo
fallito perché tutto di te diceva che eri una donna, ma stavi parlando
come il migliore dei figli. L’erede che avevo sempre desiderato stava pronunciando
le parole che volevo sentire e qualcosa si ruppe dentro. Non mi vergognai
di quelle lacrime davanti a te Oscar, perché so che tu le capisti.
Ti chiesi perdono, ancora convinto che si potesse rimediare. Tu mi confortasti
dicendomi di non disperarmi, che ti avevo permesso di fare cose che non
erano alla portata di altre donne e che avresti dovuto ringraziarmi per
questo. E poi aggiungesti che l’uniforme che portavi non ti aveva impedito
di innamorarti di un uomo. Fui sinceramente stupito. Dunque, amavi. O quanto
meno avevi amato: ma sempre in silenzio, perché né io né
tua madre ci accorgemmo di nulla. Ti avevo insegnato a reprimere i tuoi
sentimenti, le tue emozioni, la tua stessa natura. Come potevo pensare
che saresti corsa da me un giorno dicendomi: padre mi sono innamorata!
Le tue sorelle lo avevano fatto prima di te, ma tu non eri destinata a
questo. Hai amato Oscar, non so chi, ma intuii che fu questo amore infelice
ad averti fatto cambiare vita così repentinamente. Era per dimenticare
qualcuno, per fuggire da qualcuno che hai deciso di lasciare il servizio
di Sua Maestà?
Ma io non ti ascoltavo già più! Replicai
che ti avevo impedito di assaporare le gioie che le altre donne provavano,
ed era vero. Tutte le parole che dissi allora erano vere. Ormai avevo capito
il mio errore: non potevo farti diventare quello che non eri ed era inutile
che tu continuassi a farti del male, cercando di dimostrare a te stessa
e a me che potevi essere un vero uomo.
Dunque, se non potevi essere uomo (al diavolo la discendenza!)
però potevi essere donna. Semplice no? In quel momento volevo solo
la tua felicità. Riparare il mio torto e risarcirti con una vita
“normale”.
Tu non rispondesti, giocherellando con una rosa bianca.
Chi tace acconsente, con te, non ha mai funzionato. Tu tacevi per esprimere
il tuo dissenso. Tacevi, ma agivi. Non hai aperto bocca quella sera in
camera tua quando ti dissi del ballo in tuo onore. Continuasti a suonare
Bach senza proferire verbo. E quando dal mio letto di ferito, ti chiesi
di andare al ballo un’ultima volta (te lo chiesi come un ordine, lo so),
tu mi degnasti di un “certo”. Ma senza guardarmi negli occhi.
Dio Oscar! Di te non ho mai imparato niente. Il servitore
mi riferì che, sì eri andata al ballo, ma in uniforme e per
la seconda volta mi crollò il mondo addosso. Perché se prima
mi illudevo che ci fosse ancora tempo per riparare, con quel tuo rifiuto,
mi dimostravi che ormai era troppo tardi.
Anche l’ultimo mio tentativo di riavvicinarmi a te
era fallito.
Ci guardammo per un attimo, senza parlare. Guardammo fuori
un tramonto delicato scendere sulla campagna. Tutto si era ammantato di
una luce calda e morbida, che smorzava gli spigoli e i contrasti. Una luce
radente che indorava il paesaggio. Una leggera brezza scuoteva le chiome
degli alberi. Diressi il mio sguardo verso l’interno. Vidi ancora una volta
il pianoforte, ma ora con occhi diversi. Mi alzai e mi diressi verso quel
povero strumento: il tempo non aveva avuto pietà di lui. Alzai il
coperchio e comparve una tastiera ingiallita e polverosa. Alcuni tasti
pestavano a vuoto, perché all’interno, parecchie corde e martelletti
dovevano essere rotti. Sentii Luc avvicinarsi:
“Questa…doveva essere la sua stanza allora” gli dissi.
Lui appoggiò una mano sul pianoforte:
“Questo il suo pianoforte, quelle le sue sedie, il suo
tavolo…”
“Beh, magari è stato abitato da altri dopo Oscar
no?” Luc non era convinto:
“Altri che comunque, non hanno cambiato l’arredamento.
E’ tutto in stile Luigi XVI credimi, me ne intendo.” La madre di Luc era
arredatrice ed era una di quelle persone che hanno la fortuna di fare della
propria passione un lavoro. Luc, anche se indirettamente, aveva imparato
qualcosa da lei e sapeva riconoscere i mobili d’epoca:
“E’ una strana sensazione” dissi:
“Cosa?”
“L’essere qui, nella sua stanza. E’ come se…se qualcosa
di lei aleggiasse ancora nell’aria.”
“Già. Non è difficile immaginarsela intenta
a suonare o davanti allo specchio a sistemarsi la giubba dell’uniforme.”
Restammo a lungo in silenzio. Fuori una cornacchia lanciò il suo
urlo. Andai alla finestra per ammirare la tranquillità della campagna
al tramonto. Avrei voluto portare un po’ di quella tranquillità
via con me, metterla nel mio animo e lasciarla lì. La serenità
non è un luogo, ma il meno che si potesse dire di Villa Jarjayes
in un tramonto di settembre era questo: sereno.
Una cornacchia, la stessa che prima aveva gracchiato,
volò vicino alla finestra e quasi si avventò su di me con
le sue ali. Mi scostai appena in tempo per evitarla portandomi di riflesso,
una mano davanti al viso. L’uccello volò via e Luc si avvicinò
a me:
“Tutto bene?”
“Sì” risposi tenendomi la mano sanguinante: “Ma
ho la sensazione che qualcosa di brutto stia per accadere.” Luc mi prese
in giro:
“Ma va! Da quando in qua sei superstiziosa!!” Anch’io
mi sforzai di scherzare e di riderci su, ma quel presentimento non voleva
andarsene.
Ora so, che avevo ragione.
Fine 3° parte
Trinity