23 luglio 1789
Rileggendo le pagine di qualche giorno fa mi sono
reso conto della loro confusione, della totale mancanza di logica. Vorrei
allora, cercare di essere più chiaro, di mettere ordine nei miei
ricordi e intraprendere così un viaggio che, spero, mi porterà
a rischiarare la tenebra della mia vita.
Mettere in pratica quell’idea, quel tarlo che mi corrodeva
la mente ebbe le sue complicazioni. Decisi, innanzitutto di allontanarti
il prima possibile da tua madre, dalle tue sorelle. Avrebbero potuto avere
un’influenza negativa su di te. Ciò mi ossessionava. Dovevi vestire
come un maschio, avere i giocattoli che ogni bambino possiede, ma soprattutto
dovevi pensare come un uomo. I primi anni furono facili. Crescevi a vista
d’occhio e già si profilava in te una bellezza che era tutt’altro
che mascolina. Di questo fui felice. Sì, perché nonostante
tutto, una parte di me si ostinava a non far finta di niente, era consapevole
che tu eri una bambina. Una bellissima bambina dai capelli dorati e dagli
occhi azzurri come il mare.
Ma c’erano altri problemi da affrontare. Tua madre
non voleva accettare il fatto compiuto. Con la sua dolcezza, la sua tenerezza
sapeva cogliere il mio lato debole. Non sapevo rifiutarle niente e ogni
giorno di più mi ritenevo fortunato ad averla accanto. Il nostro
era un felice matrimonio dove le esigenze di casato si sposavano con quelle
del cuore. Lei imparò ad usare la sua persuasione come un arma.
Indirettamente, con frasi equivoche e, a volte, con occhiate esplicite,
non mancava di farmi notare la mia pazzia, la sua disapprovazione e la
mia testardaggine:
“Perché non vuoi capire François che
questa è un’idea assurda. Non riuscirai a fare di lei un uomo. Non
è in tuo potere.” Io mi irritavo davanti a questa affermazione.
Secondo lei, se Dio aveva voluto che Oscar nascesse femmina è perché
doveva crescere come una donna. Non si poteva cambiare la volontà
di Dio. Non era in mio potere. E io questo non potevo sopportalo. Dio non
era stato clemente con me, ormai sapevo che non avrei più avuto
un’altra occasione. Niente maschi. Solo femmine. Ma nella casa di un generale
c’è bisogno di un maschio! Era questo che ripetevo di continuo,
così come adesso mi ripeto di continuo che non era in mio potere.
Non era in mio potere. E mia moglie ha pietà di me. La sua pietà,
ora, è la mia punizione. Io che non ho mai sopportato di essere
compatito e che ti ho insegnato a darla la pietà, Oscar, ma mai
a riceverla, io adesso chino il capo. Adesso capisco che tua madre aveva
ragione.
“Poveraccio…” disse Luc.
“Che fai, lo compatisci?” risposi io ironica. Lui rise
divertito e si rimise al lavoro. Fu allora che capii:
“Il quadro” dissi. Dovevo avere lo sguardo un po’ spiritato
perché Luc mi guardava interrogativo:
“Il quadro cosa?”
“Il quadro nel salone, quello di Marte. E’ lei. E’ Oscar.”
Ci precipitammo giù a rotta di collo. Davanti al quadro gli sussurrai:
“Capelli dorati e occhi azzurri come il mare. Coincide.”
Lui non rispose. Adesso era Luc ad essere rapito dalla bellezza del dipinto:
“La prima cosa che hai detto è che, secondo te,
questo Marte era gay. E anch’io mi sono stupita per questa figura androgina.
Marte è un dio maschile, lo è sempre stato. Neanche i pittori
dell’Arcadia avrebbero immaginato tanta ambiguità. Si può
spiegare solo col fatto che il modello fosse a sua volta ambiguo. Proprio
come una donna vestita da uomo. Proprio come Oscar.”
Luc non mi rispose subito. Adesso ammirava la tela con
occhi ben diversi. Quella che seguì fu una delle sue battute più
classiche:
“Ah bè, allora è una gran bella figa.”
L’atmosfera fu smorzata in un battibaleno. Mi ricordo
di averlo massacrato a colpi di destro e sinistro, che lui incassava senza
rispondere, ma ridendo come un matto. In realtà non gli stavo facendo
male.
Tornammo su, al nostro tavolo per continuare il lavoro:
Il tempo passava e tu iniziasti ben presto a camminare
e a parlare. Il precettore era contento perché diceva che imparavi
in fretta. Diventavi ogni giorno più grande e il tuo temperamento
deciso e focoso già si delineava. Ti misi su un cavallo e tu fosti
felice.Ti misi una spada in mano e tu sorridesti. Ed io ero più
felice di te. Allora, la mia illusione di vederti in uniforme divenne una
certezza.
L’arrivo di Andrè fu una benedizione. Quando
la nostra anziana governante mi raccontò la disgrazia che era capitata
al suo giovane figlio, non potei che rattristarmi. Quando le offrii di
portare il bambino a Palazzo Jarjayes non avevo altre mire se non quella
di aiutare quel povero orfano. La fortuna fece il resto. Tu avevi bisogno
di un compagno, di un amico. Qualcuno che ti stesse vicino a parte me.
Andrè era perfetto. Era un maschio. Aveva la
tua età. Il suo carattere tranquillo ma deciso andava perfettamente
d’accordo con la tua irruenza. Vi trovaste subito.
Rivedere quegli anni alla luce dei recenti avvenimenti
mi fanno intendere molte cose. Adesso comprendo lo sguardo triste e rassegnato
di tua madre che ti osservava da lontano. Io mi dicevo: che ci sarà
mai da rattristarsi? I piccoli stanno bene insieme. Troppo bene, e tua
madre, con la sensibilità tipica del suo sesso, lo vide prima
di me.
Ma in quei giorni tutto scorreva liscio. Andrè
era un po’ timido, ma ben educato e aveva quella capacità di comprenderti
che io non ebbi mai. Sapeva persuaderti: sapeva convincerti con il suo
silenzio: forse ti diceva le parole giuste al momento giusto, non so. Resta
il fatto che tu lo ascoltavi. La sua tattica era chiara. Iniziava col darti
ragione, così tu non ti arrabbiavi e poi finiva per farti credere
che avevi torto. Smontava le tue difese pezzo dopo pezzo e con una sistematicità
impressionante. Il tuo alzare la voce, il tuo arrabbiarti con lui non lo
confondevano. Se aveva un progetto, lo portava a termine. Era determinato.
Proprio come te.
Ricordo che le prime settimane litigavate spesso,
ma poi tu ti calmasti. Con lui ridevi, scherzavi, parlavi tranquillamente,
senza indossare maschere.
Quelle che indossavi con me invece. Crescesti e ti
allontanasti da me. Ora lo so per certo. Le ore di estenuante allenamento
ci obbligavano a trascorrere molto tempo insieme. Io e te, una spada o
una pistola. E alla sera, se parlavano, era sempre di tattica, di strategia
militare, di reggimenti e uniformi. Ma ogni volta tu eri un passo più
distante. Più trascorrevano i giorni, più tu ti allontanavi.
Il tuo sguardo divenne sempre più impenetrabile e i tuoi silenzi
duri e pesanti come macigni. Non potevo rimproverarti nulla: i tuoi risultati
erano ottimi, in tutti i campi. Eri la mia gioia, quella del precettore
e del maestro di musica. Solo mi domandavo perché con Andrè
non fossi così.
Se c’è una cosa che mi rimprovero ora più
che mai è di non averti toccata. Mai un abbraccio, un bacio, un
gesto di affetto. Anche questo ti ha portata lontana, lo so. Avevi bisogno
di calore umano ed era la sola cosa che non potevo darti. Non potevo Oscar,
cerca di capire. Dovevi diventare un soldato. Avresti dovuto affrontare
situazioni nella quale il sangue freddo e il coraggio sono doti fondamentali.
Comandare uomini e guidarli nelle cariche sono cose che non ammettono debolezze.
Questo dovevo insegnarti. Era questo il mio compito. Perché se era
difficile per un uomo, lo sarebbe stato doppiamente per te. Ne ero consapevole
sai, sempre per via di quella parte di me che si ostinava a vederti come
una donna. E sapevo anche che una donna è più sensibile ed
emotiva, cosa che non ti avrebbe giovato affatto sul campo di battaglia.
Ti stavo facendo male, per il tuo bene.
Stolto. Stolto e stupido che fui. E tu mi facesti
capire la mia dabbenaggine e la mia idiozia con la tua prima ribellione.
Capii così, troppo tardi, quanto tu ti fossi allontanata da me,
quanto ti avessi già perduta. Quello che rimase tra di noi, fino
alla fine, fu il tuo doveroso affetto filiale: niente di più.
Io e Luc ci sedemmo sul davanzale della finestra. Davanti
a noi, il giardino era un groviglio di fiori ed erba. Al limitare del bosco,
un roseto selvatico si era fatto strada tra i ciuffi alti e sgraziati.
Rose bianche puntellavano un confine immaginario, oltre il quale cominciavano
gli alberi:
“Non doveva essere molto diverso nel 1700” notai.
“No, infatti. Anche se la campagna attorno a Versailles
è parecchio cambiata, da questo lato sembra rimasto tutto uguale.”
“E’ che non hanno potuto costruire. Se guardi bene quella
laggiù deve essere la Reggia. Quindi alla fine di questa proprietà
inizia il Parco, e poi i Giardini. Questo significa che nessuno ha potuto
tirare su case e centri commerciali. Del resto, guardati intorno. Ci sono
solo campi coltivati.” Luc assentì. Anche a lui piaceva la campagna.
Facevamo chilometri insieme, in mezzo al nulla della pianura circostante
Parigi. Le biciclette ci portavano via dai rumori della città, dal
traffico del martedì mattina, dalla quotidianità delle nostre
vite. Potevamo ancora sognare di scoprire il mondo come quando giocavamo
da piccoli. E dopo tanti anni di fantastiche peregrinazioni, finalmente
avevamo trovato un tesoro.
Eravamo assai turbati dalla lettura e più andavamo
avanti più il quadro si delineava ai nostri occhi:
“Dunque, riassumiamo” mi disse Luc addentando il suo
panino: “Un certo Generale…come si chiamava?…”
“Jarjayes”
“Sì, Jarjayes…vissuto nella seconda metà
del ‘700, ha la bellezza di cinque figlie femmine. Alla nascita della sesta
e ultima pargoletta, il povero Cristo decide di allevarla come un maschio,
cosicché possa diventare erede della casata dei Jarjayes. La bambina
cresce e nella famiglia si va ad aggiungere un nuovo elemento, un certo
Andrè che diventa il suo compagno d’arme e di giochi (buono ‘sto
panino). Ma chi era questo Generale Jarjayes, poi? I libri di storia non
ne parlano. Tu ti ricordi un tizio che si chiamava così durante
la Rivoluzione?”
Io negai:
“No, ma che vuoi: nei libri di storia compaiono sempre
gli stessi personaggi: Maria Antonietta, Luigi XVI, Robespierre, Danton,
Marat. Gli altri non esistono.”
Luc era d’accordo con me:
“E’ vero. Ma se andiamo in biblioteca sono convinto che
troveremo qualcosa di più. Dopotutto era un ufficiale di Luigi XV
e XVI…e molto vicino alla corona pare.”
Anch’io addentai il mio panino mentre rispondevo:
“Già. Potremmo fare un salto domattina e vedere
cosa c’è da scoprire.” La decisione fu presa. Restammo in silenzio
ad ascoltare gli uccellini canticchiare, con le mandibole piene. C’era
una pace quasi innaturale. Sembrava davvero un paradiso terrestre, un eden
tutto nostro:
4 settembre 1789
E’ difficile fare ordine nella propria memoria. Tanto
quanto fare ordine in questi giorni a Parigi. Dalla presa della Bastiglia
le cose vanno di male in peggio. Il popolo non riconosce più l’autorità
del sovrano e tutti i reggimenti del mondo non serviranno a sedare i disordini.
Io faccio il mio dovere ogni giorno e resterò al fianco del nostro
re fino all’ultimo. Anche se non ci sono molte speranze, io non sono un
traditore. Non volterò loro le spalle e non scapperò. I Jarjayes
non sono traditori. Non erano traditori.
Sei stata tu la prima a ribellarti Oscar e con il
tuo gesto hai infangato il nostro nome. Perché Oscar? Perché
mi hai dato questo dolore?
Avrei dovuto capirlo subito il mio errore, ma non
ne fui capace. Eppure le tue intenzioni erano chiare. Non dimenticherò
mai il tuo volto mentre dicevi: “E’ che io non ho nessuna intenzione di
proteggere una donna, padre.” Avrei dovuto capire il vero significato di
quelle parole: “Non ho intenzione di prendere un uniforme.” Era questo
che intendevi. Avevi 14 anni. Eri poco più di una bambina e stavi
per buttare all’aria tutto il mio lavoro, i miei sogni, le mie illusioni,
nonché la mia vita. Non potevo permettertelo. La rabbia e la paura
s’impossessarono di me. Ti scaraventai giù per le scale, ti presi
a schiaffi nelle scuderie dopo il tuo duello con il giovane conte di Girodelle,
che avevi sfidato impunemente, perché se non avessi ubbidito con
le buone lo avresti fatto con le cattive. Tu non avevi il diritto di decidere
della mia vita.
E io non ne avevo di farlo della tua.
Inconsciamente capivo ciò che stava succedendo.
Ormai non eri più convinta di essere un maschio, eri in un età
in cui queste differenze ormai si sanno. Un’età difficile nella
quale si scopre che il mondo può essere molto più cattivo
di quanto non si creda. Probabilmente era la prima volta che ti sentivi
veramente sola. Non potevi appoggiarti ad Andrè, lui era un uomo
e non avrebbe capito certi tuoi sentimenti di donna. Non potevi andare
da tua madre, lei non avrebbe capito certi tuoi pensieri di uomo. Forse,
per la prima volta ti sei chiesta chi eri e hai realizzato la tua situazione.
Quella nella quale io ti avevo messa. Non eri né uomo, né
donna. Il mio esperimento era fallito perché allora tu comprendesti
di essere intrappolata tra i due ruoli, senza appartenere realmente a nessuno
delle due metà del cielo.
Se il mio piano avesse funzionato tu avresti accettato
quell’uniforme con gratitudine e con gioia, perché saresti stata
un uomo e avresti pensato e agito come un uomo. Invece scegliesti di farlo
solo grazie all’intervento provvidenziale di Andrè, e dopo aver
preso in considerazione, anche se pur lontanamente, l’altra possibilità:
essere una donna. Ormai la tua consapevolezza era destata, non c’era più
nulla da fare.
Lo so. Tu a me certe cose non le hai mai dette. Ma
adesso che mi ritrovo solo con me stesso, ora che ho deciso di sondare
il vuoto che c’è nel mio cuore, comprendo anche il tuo. Capisco
il male che ti ho fatto e capisco che mille vite non basteranno a ripagare
il torto. Quindi vedi Oscar, tutte le volte che ti rimprovero qualcosa
mi ritrovo a fare i conti con me stesso.
Queste mie memorie stanno diventando un lungo dialogo
con la mia amata figlia. Ma nessuno le leggerà mai, quindi non vedo
perché preoccuparsi della forma. Sono solo una semplice, confusa
e dolorosa confessione di un uomo che ormai, non ha più nulla da
perdere.
Quella sera, quando io e Luc ci lasciammo, non ci dicemmo molto. Le frasi del Generale Jarjayes erano ancora troppo vive nelle nostre menti a tal punto da esserne frastornati. Stavamo leggendo la vita di un uomo del quale non si poteva, che lui lo volesse o no, che avere compassione. Quella sera ci salutammo consapevoli che, a volte, le colpe dei padri, oltre che ricadere sui figli, ricadevano anche su loro stessi.
La mattina dopo incontrai Luc davanti alla biblioteca
comunale. Sbadigliava appoggiato al muro, vicino alla sua bicicletta. Mi
sorrise e fece cenno di entrare:
“Hai l’aria di uno che ha dormito poco” gli dissi:
“Lascia perdere. Ho avuto gli incubi.”
“Ah sì? E cosa hai sognato?”
“Boh, battaglie, generali con la parrucca e il moschetto
in mano, e mia madre che mi diceva di non fare tardi per cena. Deve essere
stato il tonno e cipolla di ieri sera.”
Appena varcata la soglia della biblioteca i rumori del
traffico divennero un lontanissimo sottofondo, mentre le nostre scarpe
da ginnastica scricchiolavano insolenti sul pavimento lucido.
Io e Luc andammo a chiedere informazioni alla ragazza
al banco che, molto gentilmente ci tirò fuori tonnellate di volumi.
A quanto pare Jarjayes non era poi sconosciuto:
“Quanto meno non è sconosciuta la Rivoluzione
Francese” mi fece notare Luc. Scartabellammo per un bel po’, prendendo
appunti e tirando giù nomi e date. Alla fine quello che venne fuori
non era molto:
Generale Francois Augustin Reyner De Jarjayes
Nato a Grenoble il 24 ottobre 1745
Morto a Torino il 11 settembre 1822
Rampollo di una nobile famiglia dalle antiche tradizioni
militari, proveniente dalla regione delle Haute-Alpes, fu ufficiale sotto
i regni di Luigi XV e Luigi XVI. Monarchico fedele, rimase accanto ai sovrani
durante tutta la Rivoluzione Francese. Fu lui ad organizzare l’ultimo tentativo
di fuga della regina Maria Antonietta dalla Francia (8 marzo 1793), tentativo
rifiutato dalla regina stessa perché troppo rischioso per la vita
dei figli. Nello stesso anno si rifugerà in Italia, a Torino dove
morirà l’11 settembre 1822.
Restammo perplessi. In tutte quelle pagine, in tutte quelle
ore passate a leggere e rileggere non avevamo mai visto il nome di Oscar
de Jarjayes:
“Possibile che sia scomparsa nel nulla? Diavolo, se quel
conte di Girodelle era ufficiale delle Guardie Reali anche lei doveva essere
nello stesso reggimento no? Altrimenti non si spiegherebbe il duello.”
disse Luc. Io non ero così convinta. Il duello poteva avere mille
altri motivi che un semplice, chi vince diventa capitano. E poi, negli
scritti del Generale non si menzionava il grado né il ruolo che
svolgeva Oscar sotto Luigi XVI:
“Almeno, non ancora. Non ci resta che trascrivere il
resto del diario e vedere se diventa più esplicito.”
Ricordo ancora lo sguardo abbattuto di Luc. Sembrava
stanco:
“No, non sono stanco. E’ che credevo di saperne di più,
invece qui non ci caviamo un ragno da un buco.” Io cercai di tirarlo su
di morale:
“Nessuno ha detto che sarebbe stato facile. Ma siamo
i soli che possiamo scoprirlo. Facciamo così, vado in bagno e poi
diamo un’ultima occhiata ai volumi. Se non viene fuori nulla ce ne andiamo
ok?”
Mi replicò un poco sentito ok. Ma quando tornai
dalla toilette la scena che vidi fu del tutto inaspettata. Pensai subito
che fosse diventato matto, uno perché aveva tirato fuori il diario
nel bel mezzo della sala lettura della biblioteca comunale di Versailles
(per la serie: guardatemi, sono qui): due perché l’espressione di
giubilo nei suoi occhi non aveva paragoni. Un cambiamento totale da qualche
attimo prima. Mi avvicinai a lui con malcelata calma:
“No dico, sei impazzito! Mettilo via!” gli sussurrai
indicando il volume blu. Lui se lo appoggiò aperto sulle sue gambe,
sotto il tavolo e con un sorriso trionfante mi disse:
“Leggi un po’ qua” mi porse il diario indicandomi una
frase. Io feci di tutto per non dare nell’occhio:
“…Ora eri il Comandante delle Guardie Reali, colonnello
Oscar Francois De Jarjayes…”
Confesso che venne un attacco euforico anche a me. A
quanto pareva, dentro a quel diario c’era proprio tutto. Adesso sapevamo
perfettamente cosa cercare.
Passammo il resto della giornata in quel luogo, sotto
gli occhi incuriositi della giovane bibliotecaria che non aveva mai visto
tanto amore per lo studio in vita sua. Da bravi topi di biblioteca ci documentammo
a fondo, e il risultato fu sconfortante ma avvincente.
Nessuna traccia di Oscar Francois. Il padre era nominato
in diversi contesti e in vari volumi, ma della figlia niente. Come mai?:
“Secondo me c’è una sola spiegazione possibile”
dissi mentre ci rituffavamo nel caos cittadino. Erano le cinque di pomeriggio
e Versailles era impazzita di automobili e motorini:
“Jarjayes parla di tradimento, e dice esplicitamente
che Oscar ha tradito la Corona. Ciò significa che ad un certo punto,
lei è saltata dall’altra parte della barricata e ha combattuto dalla
parte del popolo. Di certo ha tirato un brutto tiro a Maria Antonietta
e C. Il fatto non viene perdonato, quindi lei perde il titolo nobiliare
e il grado militare.” Luc terminò la frase per me:
“Questo spiegherebbe la cancellazione del suo nome dalla
memoria pubblica.”
“Esatto. Ha tradito, quindi deve essere dimenticata.”
Il sole era pallido sulle nostre teste, ma vivo. Ci ritrovammo davanti
alle cancellate della Reggia che vomitava turisti giapponesi, italiani,
inglesi e chi più ne ha più ne metta. Era triste, ma sapevamo
di non sbagliarci: di Oscar Francois de Jarjayes ormai non restava traccia
se non in quel diario, ultima, debole fiammella, custode del suo ricordo.
Fine 2° parte
Trinity