Fu in un pomeriggio di inizio settembre che la scoprimmo.
Le scuole dovevano ancora cominciare e io spendevo gli ultimi brandelli
di vacanza a Versailles, a casa mia.
All’epoca vivevo con i miei genitori in quella cittadina
alle porte di Parigi, in un piccolo appartamento vicino alla Reggia. Dall’ultimo
piano si scorgeva un pezzo dei Giardini, sempre disseminati di puntini
colorati: i turisti che, instancabili, andavano a visitare quella meraviglia
che stava sotto al portone di casa mia.
Ma non voglio dilungarmi. Ho detto che fu in settembre
che la scoprimmo. Voi mi domanderete cosa, e con chi. Beh, inizio dall’ultima
domanda. La scoprimmo io e Luc. Luc è un mio amico d’infanzia, allora
mio vicino, con il quale ho condiviso buona parte della mia vita: dalla
carriera scolastica alla prima comunione, dalle botte nel cortile alle
chiacchierate sugli amori impossibili.
Insomma, siamo una bella coppia. Adesso lui è
sposato con un figlio e ci frequentiamo di meno. Pazienza. Così
è la vita.
Ma allora eravamo ancora inseparabili.
Gli ultimi giorni di vacanza sono i più noiosi.
Non si sa bene cosa fare con lo spettro della campanella che aleggia già
sulle teste dei poveri studenti. Annoiati e disillusi, quel pomeriggio
decidemmo di fare un giro in bici, nella campagna intorno a Versailles.
Il tempo minacciava fulmini, ma Luc voleva andare lo stesso:
“Al massimo ci bagnano un po’” mi gridò dal cortile.
Era il sella alla sua mountain bike nuova. Io guardai le nubi cupe, dubbiosa.
Ma era un prezzo onorevole per ammazzare il tedio.
Pedalammo oltre i Giardini, oltre il Parco. Dribblammo
il traffico fino a trovarci su una strada dissestata che conduceva in mezzo
ai campi. La seguimmo a lungo, fino all’inizio di un boschetto che si stagliava
davanti a noi. Lungo tutto il perimetro del bosco, correva un muro abbastanza
alto ma decrepito, pieno di muschio e dalle pietre rotte. La strada lo
affiancava e le nubi si abbassavano sempre di più sulla linea retta
del nostro percorso:
“Hai mai visto questo posto?” mi domandò Luc voltandosi
verso di me. Io alzai le spalle:
“No, è la prima volta. Senti, non è meglio
tornare indietro. Qua tra un po’ si scatena il diluvio.” Luc mi sorrise:
“Eddai! Non fare la “piagnola! ” (1)Proseguimmo
lungo il perimetro di quella che sembrava essere una proprietà privata,
oltre la quale il bosco era fitto e scuro. Dopo qualche minuto però,
la selva si diradò e s’intravidero i tetti rossi di una abitazione
molto grande:
“Guarda là!” mi disse Luc indicandomela. Un tuono
sottolineò le sue parole. In un battibaleno ci arrivò addosso
una catinella d’acqua. Temporali così violenti ed improvvisi li
avevo visti solo in Bretagna. Litri di liquidi si scaricarono sulla campagna
e sopra le nostre teste, senza che avessimo il tempo di pensare. Odiavo
Luc e il suo ottimismo e già mi prefiguravo un raffreddore da fieno.
Svoltammo a destra sempre seguendo il muro e ci trovammo
così al cancello d’entrata di una villa abbandonata. Cancello che
era un ammasso di ruggine: a malapena se ne stava in piedi, tutto sbilenco
e semi aperto.
Oltre la cancellata, sulla quale spiccava un leone a
due code che sorreggeva una spada, la malerba e la gramigna avevano fatto
man bassa di tutto il terreno disponibile. La facciata della villa era
orba di vetri alle finestre, e la porta di entrata era un buco nero aperto.
Non so perché, mi venne in mente una bocca senza un dente:
“Penso sia meglio se andiamo dentro a ripararci. Non
ha l’aria di smettere in fretta” disse Luc:
“Alla buon’ora! Te ne sei reso conto eh!” Adesso mi spiace
di avergli risposto male, ma in quel momento proprio non lo sopportavo.
Con sforzi non indifferenti riuscimmo a trascinare le bici dentro il cortile
della villa e a spingerle avanti. Superanno una fontana rotonda che si
stagliava nel mezzo di quello che una volta doveva essere stato lo spiazzo
antistante l’entrata.
Facendo molta attenzione a non scivolare, portammo i
nostri cavalli a due ruote sulla scalinata che conduceva all’interno. Finalmente
fummo all’asciutto:
“Wow che temporale”. Appoggiamo le bici per terra in
un atrio che era una piazza d’armi. Ci guardammo intorno stupiti.
Nonostante il tempo non avesse avuto pietà di
quel luogo, non era riuscito a strappargli la sua imponenza. I marmi, corrosi
dagli elementi, lasciavano intravedere una bellezza perduta: una lunga
e larga scalinata polverosa conduceva al piano superiore e ancora era possibile
immaginare dame dai ricchi abiti e uomini dal piglio militare scendere
quei gradini. Il soffitto poi, iniziava metri e metri sopra di noi:
“Ma che posto è questo?” sussurrò Luc.
Lo disse piano, quasi fosse intimidito dal luogo. La eco si sparse comunque.
Anch’io parlai piano girando gli occhi increduli:
“Non ne ho la più pallida idea. Ma sembra abbandonato
da un’infinità di tempo.”
“Già” Nessuno dei due riusciva a dire di più
per lo stupore. Fuori il temporale imperversava e noi eravamo bagnati fradici.
Ma non sentivamo nulla. Era come se lì, il tempo si fosse fermato.
Una bolla sospesa nel vuoto, trasparente:
“E’ strano” notò Luc: “Di solito i posti così
abbandonati sono pieni di scritte sui muri, ceneri per terra e cose così.
Qualche vagabondo li scova sempre. Ma qui sembra che non ci sia venuto
mai nessuno.” Luc era un maestro del brivido. Per fare paura era il migliore.
Da piccola mi faceva scherzetti idioti e mi raccontava storie di fantasmi
che poi mi sognavo la notte. Non si smentì neanche quella volta,
ma aveva ragione:
“Che ne dici di dare un’occhiata al resto della casa?”
proposi io:
“Buona idea”. Il cielo diede il suo consenso con una
scarica vicina e assordante.
Non senza difficoltà ci muovemmo nelle altre stanze,
tra polvere e ragnatele. Gli ambienti erano per lo più vuoti, con
le finestre rotte e brandelli di tende. I muri erano nudi e con delle ampie
chiazze di umidità. Qua e là si trovavano mobili rotti, vetrine
fatte a pezzi chissà da chi: se dai rivoluzionari del settecento
o dai vandali del novecento. Di quella che una volta doveva essere
stata la cucina non restava nulla, nei saloni immensi e freddi il vento
ululava.
Ci inoltrammo al piano superiore per scoprire camere
da letto altrettanto grandi, con affreschi sbiaditi sul soffitto:
“Certo che si trattavano bene i signori” dissi: “Camera
mia in confronto è un ripostiglio.” Luc disse la sua:
“Lasciamo perdere. Nella mia c’è posto a malapena
per me. Magari potremmo trasferirci qui”
“Siii. Basta una spolveratina, un po’ d’ordine ed è
fatta. Guarda, c’è anche un pianoforte.” Dissi io indicando un relitto
abbandonato:
“Carino. Alla sera si potrebbe suonare qualcosa. Ti piace
Bach?” Ci mettemmo a ridere pensando al genere di musica che ascoltavamo
noi e quelle battute servirono a rendere l’atmosfera meno lugubre.
Tornammo al piano inferiore ed entrammo in un salone
senza paragoni. Le altre camere erano abbastanza buie perché, fuori,
la luce non era sufficiente ad illuminarle. Ma lì si vedeva tutto
benissimo. E si vedeva soprattutto, un quadro molto grande appeso sopra
un camino. Ci avvicinammo: raffigurava Marte, il dio della guerra, in sella
al suo destriero pronto all’attacco. Ma era un Marte da capelli biondi
e dai tratti molto femminei, cosa alquanto strana, perché di solito
i pittori esaltavano la sua mascolinità. Luc espresse il suo punto
di vista:
“Per me è gay”
“Sarà pure gay, ma è…affascinante” replicai:
“Se lo dici tu…io vado a finire il giro.” Avrei voluto
seguirlo ma proprio non riuscivo a staccare gli occhi da quel quadro. Certo,
era tutt’altro che in buono stato, ma la figura alta e slanciata del cavaliere
era ancora evidente. Quello che in realtà mi colpì (e lo
capisco solo ora), furono i suoi occhi azzurri. Il pittore aveva dovuto
penare parecchio per trovare quella tonalità così rara e
reale. Lo sguardo catturava, rapiva: forse perché era la parte della
tela meno consunta, ma quel magnetismo conferiva all’opera un ché
di eterno. Fu la voce di Luc a riportarmi alla realtà.
“EHIIII. VIENI A VEDERE” mi urlava da un’altra ala. Uscii
seguendo il suono della sua voce. Era capitato nella biblioteca. Scaffali
di libri ammuffiti e ormai ridotti in cenere ricoprivano i muri fino quasi
al soffitto. La casa delle meraviglie continuava ad offrirci i suoi segreti
e noi restavamo lì a bocca aperta. Fuori il temporale brontolava
ormai lontano, anche se la pioggia continuava a scrosciare. Alcuni volumi
si trovavano per terra e un vecchio scrittoio zoppo marciva in un angolo:
“E’ incredibile. Tutto questo ben d’iddio a due passi
da casa nostra!” Luc era più incredulo di me. Ma fu anche il primo
a riaversi ed è per questo che lo scoprì lui. Aveva l’occhio
più acuto. Si chinò nell’ultimo scaffale in basso per estrarne
un volumetto.
Una sera a cena (molto tempo dopo) mi disse che fu la
costina a richiamare la sua attenzione. I libri vicino erano tutti più
grossi e con la stessa costina bordata d’oro. C’erano scritte sbiadite
che rendevano i volumi tutti uguali. Tutti tranne quello. Quello era anonimo,
blu scuro, senza nessuna scritta. Luc lo prese in mano delicatamente e
lo aprì. Una scrittura fitta e incomprensibile riempiva pagine e
pagine. Pochi spazi vuoti in quella grafia obliqua e ordinata. Le ultime
pagine erano candide. Leggemmo con lo sguardo acceso e tremante:
“17 luglio 1789….3 settembre 1789….14 agosto 1790…è
un diario.” Disse Luc. Sì, lo era. Un diario bell’e buono. Cercammo
di decifrare la scrittura ma era tutt’altro che facile. La luce era fioca
e la grafia difficile. Riuscimmo a scorgere solo alcune parole come “rivoluzione”,
“sovrani”, “battaglia” e un nome: Oscar.
Io e Luc ci guardammo confusi. Il cuore andava a mille
e non sapevamo cosa fare. Portarlo via? Lasciarlo lì? Dirlo a qualcuno?
Tenere il segreto?
Approntammo un piano di battaglia:
“Senti, è troppo tardi ormai per qualsiasi cosa.”
Disse Luc: “Ha smesso di piovere e secondo me sarebbe meglio approfittarne
per tornare a casa prima che i nostri rientrino dal lavoro.”
“Già, eviteremmo le loro urla.”
“Te l’immagini mia madre se mi vede conciato così?
Io dico: prendi il diario, portalo a casa tua e mettilo in un posto sicuro.
Nessuno deve vederlo. I miei vanno a teatro dopo cena. Potresti venire
da me e lì vedere cosa fare. Poi, domani torniamo qui e vediamo
di saperne di più ok?”
“Ok.”
Prima di andarcene, perlustrammo la biblioteca ma senza
trovare altri diari.
Quando uscimmo il sole tramontava facendo capolino tra
le nuvole. Le avrebbe squarciate da lì a breve.
Faceva un freddo cane.
La sera alle nove suonai il campanello di Luc, puntuale.
Lui mi venne ad aprire con un sorriso complice:
“L’hai preso?”
“Certo” dissi entrando. Tra le braccia avevo un quaderno
blu scuro avvolto in un panno rosso. Andammo nella sua stanza e lo aprimmo
sotto la luce della sua scrivania:
“Pensavo: come ha fatto il diario ad arrivare intatto
fino a noi?” mi domandò Luc: “Insomma, voglio dire, come ha fatto
a mantenersi a non sfaldarsi in mille pezzi?”
“Non so. Forse è fatto di una carta migliore del
resto dei libri…e poi l’ambiente era il meno umido della casa.”
“Già è vero. Ho notato anch’io che non
c’era muffa alle pareti”
“E poi aveva ancora i vetri alle finestre. Di certo questo
ha aiutato.” Luc si alzò per prendere una penna e un block notes:
“L’importante e non rovinarlo adesso. Cerchiamo di mantenerlo
intatto.” Vidi che, oltre a carta e penna, aveva preso anche un altro oggetto
strano. Sembrava un cucchiaio dal manico lungo, d’argento finemente lavorato.
Ma all’estremità aveva una mano aperta:
“E’ un regalo che mi ha portato Jacques da Gerusalemme.
La usano gli ebrei per voltare le pagine della Torà, in modo da
non toccarla con le mani. Potrebbe essere utile.” Lo era. La usammo subito
mettendoci al lavoro. In realtà non sapevamo se stavamo facendo
bene o male. Eravamo solo due ragazzini che giocavano a fare Indiana Jones,
troppo presi dal loro mistero per sapere ciò che facevano. Aprimmo
il diario e iniziammo a leggere. Fu tutt’altro che facile. Nel settecento
non scrivevano certo come noi e tutte quelle righe oblique e uniformi facevano
venire il mal di testa. Tuttavia le righe, perfettamente equidistanti le
une dalle altre, testimoniavano una natura ferma e disciplinata, avvezza
all’ordine e alla logica.
Io e Luc lavoravamo in tandem. Entrambi cercavamo di
tradurre la grafia, poi lui dettava e io scrivevo. Se oggi posso raccontare
tutto questo è perché ancora posseggo quegli appunti. Ricordo
che la prima sera trascrivemmo poco più di una pagina ed eravamo
così euforici che la notte non riuscimmo a dormire:
17 luglio 1789 Non so nemmeno io perché sto scrivendo questo
diario. Non ho mai fatto una cosa del genere in vita mia. L’ho sempre considerata
una debolezza. Ma ormai il mondo sta crollando a pezzi e la mia vita è
appesa a un filo. Questa potrebbe essere l’ultima notte, le mie ultime
ore di vita. Non m’importa ormai. Niente ha più senso. Solo, vorrei
liberare la mia coscienza da questo peso che la opprime e morire più
sollevato. Non avendo un prete a disposizione, affido la mia anima a queste
pagine.
Inutile dire che Luc ed io respiravamo a fatica. Quelle
prime parole ci avevano folgorato. Fuori i rumori della notte erano scomparsi
ed io e lui eravamo al centro del mondo. Continuammo nella lettura:
Il peccato che ho commesso è forse imperdonabile,
ma lo commisi in buona fede. I pazzi agiscono sempre in buona fede poiché
non sanno quello che fanno. Io sono stato pazzo per anni e troppo tardi
sono rinsavito. La mia famiglia, la sua lunga tradizione militare
è stata testimone del mio crimine. I miei valori, l’onore, la lealtà,
la fermezza di spirito, mi hanno aiutato a commetterlo. Poche cose posso affermare con certezza al giorno
d’oggi. Una di questa è che ho amato e continuo ad amare mia moglie.
E’ stata una delle cose più preziose che Dio ha voluto donarmi e
del quale ancora lo ringrazio. E Lui mi è testimone quando dico
che mai la giudicai per le figlie che mi diede, mai gliene feci una colpa. Ho visto nascere le mie cinque figlie, sicuro che
prima o poi sarebbe arrivato un maschio. Le ho viste crescere e ho sempre
fatto il mio dovere di padre nei loro confronti. Mai ho fatto mancare loro
qualcosa e ho organizzato per loro i matrimoni migliori. L’affetto, quello
forse è mancato. Ma un generale può solo provare tenerezza
nei confronti delle donne. L’orgoglio, la stima, l’amore più grandi
può accordali solo ad un figlio maschio. Perché sarà
lui a portare avanti il nome della famiglia, lui a prendere il mio posto
quando non ci sarò più. Lui ad onorare il nome dei Jarjayes
sul campo di battaglia. Una donna questo non può farlo. Ecco cosa pensavo allora. Ero un giovane e promettente
ufficiale al servizio di Sua Maestà Luigi XV, monarchico credente.
Come potevo servire al meglio la monarchia, se non offrendole un figlio? Quella notte ero convinto che questa volta non poteva
essere altrimenti. Sarebbe stato maschio. Era la notte di Natale, il 25 dicembre 1755. Scrivo questa data con mano tremante, non perché
nascesti tu, figlia mia, ma perché fu allora che perpetrai il mio
delitto. Un delitto codardo e vile, a danno di un innocente che non poteva
difendersi. Ti presi tra le braccia e ti innalzai sopra il mio capo, cieco,
folle. E come un pazzo fuori di sé per la nascita dell’ennesima
figlia femmina, pronunciai quelle tremende parola. Tu crescerai come un
maschio e d’ora in poi il tuo nome sarà Oscar.
Io e Luc eravamo basiti. Davanti ai nostri occhi si apriva
l’immagine mefistofelica di un uomo con la luce della follia negli occhi
e un ghigno criminale sul volto. Un uomo dalla voce stentorea che pronunciava
quelle parole, in quelle stanze che avevamo visitato solo qualche ora prima.
Solo ora capisco ciò che ti ho fatto patire,
le conseguenze di quel mio insano gesto. Ed è per questo che sto
scrivendo in questa notte di luglio, sulla soglia di un mondo impazzito
quanto me: per cercare di perdonarti e di perdonarmi. Per cercare di capire
cosa ti abbia spinto a tradire me, la tua famiglia, la monarchia a tal
punto da lasciare la tua vita sulle barricate. Per cercare di capire me,
e andare fino in fondo a questo abisso che sono io e darmi quel perdono,
quella pace che non riesco a darmi. Che non riesco a darti.
Il campanello della porta suonò. Guardammo l’orologio.
Erano le undici e mezza e i genitori di Luc stavano rientrando:
“E’ tardissimo. Mia madre mi ucciderà” Dopo ore
passate a sentire parlare di crimini e delitti, quella battuta stonava
un po’. Salutai velocemente Luc e i suoi, precipitandomi giù per
le scale con il diario in mano.
Quando arrivai a casa, mia madre dormiva sul divano.
Sgattaiolai in camera mia pensando che la nostra avventura era cominciata
nel migliore dei modi.