Alain sedeva, di fronte al mare.
A un osservatore disattento sarebbe forse potuto sembrare che stesse contemplando
il tramonto, ma non era così. Alain non vedeva il mare, ma le strade
di Parigi, la città che aveva lasciato da… chissà quanto
ormai!
Vedeva in particolare una certa
strada e una certa piazza, che avevano a loro volta visto il mondo crollargli
addosso.
Erano passate ormai tre settimane
da quel giorno, quando avevano scoperto le malattie del loro comandante.
Già, era malata, nel corpo e nella mente. O forse, era più
giusto dire nell’anima. Malata. Malata quanto nessuno avrebbe mai potuto
immaginare. All’inizio erano rimasti confusi, senza sapere cosa fare. Avevano
parlato con Rosalie, con Bernard, col dottore. Era stato proprio lui a
dare l’idea. Loro avevano accettato, si sarebbero aggrappati a qualsiasi
cosa.
C’era stato qualche problema
organizzativo, del resto, loro erano abituati a eseguire gli ordini, non
a darli. Incredibilmente, era stata la stessa Oscar ad organizzare tutto.
Si rendeva volentieri utile, se si trovava il modo in cui prenderla. In
più, a volte il pensiero della sua malattia l’annoiava, e preferiva
aver qualcosa di diverso cui pensare.
Così, senza sapere che
quel viaggio era per lei, senza sapere che quel viaggio si sarebbe fatto,
l’aveva organizzato quasi nei minimi dettagli..
E ora, ora erano lì.
In quella piccola casetta vicino al mare, lui, Oscar e Rosalie continuavano
la loro vita, una di loro aspettando di morire, due di loro decisi a non
permetterglielo.
Non c’erano stati altri scoppi
della sua pazzia, erano stati molto attenti a evitare di turbarla, anche
se non sempre potevano riuscirvi. Spesso, il suo disappunto si manifestava
con un improvviso aggrottarsi della fronte, un indurirsi dello sguardo,
spesso per fatti banalissimi. Non sopportava che alcuno toccasse lei o
i suoi abiti. La sua uniforme non era stata più nemmeno sfiorata,
per nessuna ragione, da nessuno di loro. Lei continuava a indossarla, sempre,
in ogni occasione. Metà dei bottoni era andata persa, ma a lei non
importava che fosse un poco disordinata, per quanto lei detestasse il disordine.
Ma, a quanto pareva, per quella giacca non valeva ormai più nessuna
logica. Ora che le avevano tolto anche le strade della città che
aveva visto morire il suo amore, voleva almeno tenere quella giacca immutata,
forse anche temendo che ulteriori rimaneggiamenti potessero far sbiadire
ancora di più quella macchia di sangue, l’unico ricordo che conservasse
di lui.
Guardandola, non si sarebbe
mai detto che fosse malata. Era più bella che mai. Il suo corpo
flessuoso, la sua pelle quasi trasparente, gli occhi sempre persi dietro
a un sogno, ma luminosi, ossessionavano Alain. I suoi movimenti, da sempre
permeati di una grazia innata, dalla notte che aveva passato con Andrè
erano anche impregnati di una sensualità inconsapevole e istintiva.
Quante volte, la notte, si era ritrovato davanti alla sua porta, la mano
sulla maniglia, lottando tra il desiderio di entrare e lasciare libero
sfogo ai suoi desideri, e la consapevolezza della reazione che lei avrebbe
avuto, se si fosse svegliata e l’avesse trovato nella sua stanza, intento
a sfilarle la camicia da notte, intento a sfiorarla in una carezza che
sapeva bene impossibile. Ma sapeva bene che lei aveva il sonno leggero,
e la speranza che non si svegliasse era vana. Quasi tutte le notti, in
attesa davanti a quella porta, combattendo la sua personale battaglia,
la sentiva rigirarsi nel letto, o camminare per la stanza, o vedeva una
sottile luce che filtrava dalla porta.
Alain sentiva di amarla ogni
giorno di più, e ogni giorno di più si accorgeva che lei
stava inesorabilmente scivolando via da loro, da tutto e da tutti. Anche
se, negli ultimi tempi, aveva subito come un rallentamento. Probabilmente,
era da imputarsi al cambiamento d’aria, alla nuova compagnia che si era
trovata, o, per meglio dire, che l’aveva trovata.
Non aveva minimamente interrotto
le sue passeggiate. Ogni giorno stava ore e ore fuori casa, spesso non
rientrava neanche per i pasti. A questo proposito c’era stata una discussione
tra lei e loro, ricordò Alain con un sospiro. Discussione che aveva
portato ad un accordo: non avrebbero cercato di imporle limiti d’orario
(non ci sarebbero riusciti), ma lei si sarebbe portata appresso un cestino,
un sacchetto, con qualche cosa da mangiare. Così, da qualche giorno,
ogni volta che usciva, Oscar prendeva con sé il suo pranzo.
Ma quel cestino non pesava
a lungo sulle sue braccia. Appena lei compariva sulla porta, infatti, ecco
che appariva Fabrice.
Sembrava sbucare dalla sabbia,
quel ragazzino. Gli occhi verdi e i capelli biondi, aveva immediatamente
conquistato il comandante. E ne era stato a sua volta conquistato.
Aveva quattordici anni, l’età
dei colpi di fulmine, anche se ne dimostrava alcuni di meno. Oscar l’aveva
incontrato qualche giorno dopo essere arrivata. Era uscita per la sua quotidiana
passeggiata sulla spiaggia, ancora senza pranzo. Aveva fatto pochi passi,
quando l’aveva visto lì, seduto sulla sabbia. Lui guardava il mare,
eppure lei si sentiva osservata. Si era fermata, a pochi passi da lui,
osservandolo. Lui aveva girato la testa e le aveva sorriso. Non aveva potuto
resistere a quel sorriso. Gli si era seduta accanto, ma non abbastanza
vicino da toccarlo. Si era seduta sulla sabbia, sorridendo, anche se nel
suo sorriso perdurava un’ombra oscura.
- Ciao. - gli aveva detto -
come ti chiami?
- Ciao. - le aveva risposto
- io sono Fabrice. E tu?
- Io sono Oscar. Oscar François.
Piacere di conoscerti. - non gli aveva teso la mano, anche se era solo
un bambino, ma i suoi occhi blu si erano come rasserenati, guardando quelli
verdi di lui.
- Piacere mio, madame Grandier.
- lui, serissimo.
Oscar era trasalita al sentirsi
chiamare così, ma poi si era sentita stranamente sollevata. Madame
Grandier… sì, si meritava quell’appellativo. Meritava di portare
il suo cognome. Del resto, era come se lei fosse sua moglie. Che importava
una cerimonia? Loro avevano già fatto il loro giuramento, senza
bisogno di parole, mentre l’ultima, fragile barriera che divideva le loro
anime cadeva, in quella notte che era stata la sua ultima notte di vita.
In un certo senso, loro erano stati sposati per più di vent’anni.
Non c’era rito che potesse creare un legame più profondo del loro.
La loro unione non aveva bisogno di sacerdoti. Sì, lei era sua moglie,
la sua donna, la sua…
- Vedova- questa parola la
riportò bruscamente alla realtà, strappandola dai suoi sogni
ad occhi aperti. Crudelmente.
Fabrice ancora la guardava.
Non aveva aperto bocca, forse capiva che lei sognava, forse capiva che
lei teneva a quei sogni, che erano l’unica cosa che ancora la facevano
vivere.
- Quanti anni hai?- gli aveva
chiesto lei, cercando di non lasciarsi sopraffare dalla nostalgia.
- Quattordici madame. Quattordici
dal 13 luglio. - la risposta, sorridente.
Quella strana coincidenza la
colpì. O forse, fu solo il sentire ricordata quella data. Il compleanno
di quel bambino cadeva proprio il giorno in cui lei…in cui lui…in cui loro…
Lo guardò più
attentamente. I capelli erano tagliati corti, ma non abbastanza da impedire
di notare quanto fossero biondi, e ricci. Gli occhi verdi erano vivaci
ed espressivi, come… proprio come quelli di lui da bambino. E poi, quel
ragazzo ispirava tranquillità. Da quando l’aveva incontrato, da
quando stavano parlando, era riuscita finalmente a sentirsi tranquilla,
senza gli scoppi di dolore che l’avevano tormentata ogni giorno, anche
se lei aveva fatto di tutto per tenerli nascosti. Nell’ora che passò
quel giorno con lui, il suo dolore rimase latente, sepolto nella profondità
del suo cuore, zitto mentre lei parlava, ascoltava, camminava con quel
ragazzo che sembrava ancora un bambino. E quando lui se ne andò,
lasciandola sola, lei rimase a lungo in piedi, guardando il mare, prima
di tornare indietro, ripercorrendo a ritroso lo spazio che aveva percorso
con quel bambino e da sola, prima di incontrarlo, lentamente, tornando
a quell’abitazione che non poteva chiamare casa, perché niente la
legava ad essa, a quel gruppo che non era la sua famiglia, perché
non c’era lui, Andrè, che doveva essere, da quella notte, tutta
la sua famiglia.
Da quel giorno, ogni giorno,
quando Oscar usciva, puntualmente arrivava anche Fabrice e, da quando lei
e loro avevano fatto quel patto, la sollevava dal peso del cestino, portandolo
lui, come per un tacito accordo.
Oscar gli si era affezionata
tantissimo, amandolo come avrebbe amato un suo bambino. Era l’unica persona
che riuscisse a strapparle un sorriso, anche se ancora carico di tutta
la sua tristezza. Eppure, anche lei aveva fatto l’errore di considerarlo
un bambino. Quando lo guardava, non riusciva a credere che avesse quattordici
anni. E l’affetto che gli riservava, pur se il più profondo che
potesse permettersi, era l’affetto che si prova per un bimbo.
Ma lui, lui… quando lui la
guardava, c’era nei suoi occhi l’adorazione, l’adorazione più totale.
Quando lei parlava (accadeva molto raramente, ma con lui più frequentemente
che con gli altri), lui la guardava, ascoltandola in silenzio, senza mai
interrompere il suono di quella voce che gli sembrava così dolce,
e bella, più di quanto avrebbe mai potuto immaginare, più
di quanto chiunque avesse potuto descrivere. E così, anche lui era
caduto nella trappola che si celava, per tutti, in fondo agli splendidi
occhi di Oscar, nella sua voce, nel suo modo di muoversi. E la guardava
camminare, ascoltava i suoi silenzi e le sue parole, desiderando che fossero
di più, come per i suoi sorrisi.
Ma era lui a parlare più
spesso. Le raccontava quello che avveniva in paese, di sé, della
sua famiglia (o meglio di quando ancora aveva una famiglia che si potesse
chiamare tale), la portava in giro per la spiaggia, facendole vedere i
posti più belli e più pittoreschi, curando che non si stancasse
troppo; baie, scogliere, la costa di quell’angolo di mondo si rivelava
ai suoi occhi, poco per volta, pezzo per pezzo. Durante quelle passeggiate,
Oscar ritrovava a poco a poco la forza che prima aveva avuto, gradualmente,
poco a poco, senza che lei se ne potesse accorgere.
Le piaceva camminare. Certo,
prima preferiva cavalcare. Era uno sport più signorile. Ma lei non
aveva più cavallo, né voleva averne, e l’esercizio del camminare
poteva essere considerato equivalente. Così, seguiva Fabrice in
numerose escursioni, lasciando che lui la guidasse, scoprendo a poco a
poco il paese in cui si era ritrovata a vivere. O meglio, a morire, pensava,
con un fugace sorriso.
Era stato così che era
arrivata anche lì, vicino a quella casa, che sembrava avvolta dal
mistero, così come la strana donna che sembrava esserne la proprietaria,
e tutti coloro che vi vivevano, Fabrice compreso.