Solo Uno
6° parte
 
 
Alain sedeva, di fronte al mare. A un osservatore disattento sarebbe forse potuto sembrare che stesse contemplando il tramonto, ma non era così. Alain non vedeva il mare, ma le strade di Parigi, la città che aveva lasciato da… chissà quanto ormai!
Vedeva in particolare una certa strada e una certa piazza, che avevano a loro volta visto il mondo crollargli addosso.
Erano passate ormai tre settimane da quel giorno, quando avevano scoperto le malattie del loro comandante. Già, era malata, nel corpo e nella mente. O forse, era più giusto dire nell’anima. Malata. Malata quanto nessuno avrebbe mai potuto immaginare. All’inizio erano rimasti confusi, senza sapere cosa fare. Avevano parlato con Rosalie, con Bernard, col dottore. Era stato proprio lui a dare l’idea. Loro avevano accettato, si sarebbero aggrappati a qualsiasi cosa.
C’era stato qualche problema organizzativo, del resto, loro erano abituati a eseguire gli ordini, non a darli. Incredibilmente, era stata la stessa Oscar ad organizzare tutto. Si rendeva volentieri utile, se si trovava il modo in cui prenderla. In più, a volte il pensiero della sua malattia l’annoiava, e preferiva aver qualcosa di diverso cui pensare.
Così, senza sapere che quel viaggio era per lei, senza sapere che quel viaggio si sarebbe fatto, l’aveva organizzato quasi nei minimi dettagli..
E ora, ora erano lì. In quella piccola casetta vicino al mare, lui, Oscar e Rosalie continuavano la loro vita, una di loro aspettando di morire, due di loro decisi a non permetterglielo.
Non c’erano stati altri scoppi della sua pazzia, erano stati molto attenti a evitare di turbarla, anche se non sempre potevano riuscirvi. Spesso, il suo disappunto si manifestava con un improvviso aggrottarsi della fronte, un indurirsi dello sguardo, spesso per fatti banalissimi. Non sopportava che alcuno toccasse lei o i suoi abiti. La sua uniforme non era stata più nemmeno sfiorata, per nessuna ragione, da nessuno di loro. Lei continuava a indossarla, sempre, in ogni occasione. Metà dei bottoni era andata persa, ma a lei non importava che fosse un poco disordinata, per quanto lei detestasse il disordine. Ma, a quanto pareva, per quella giacca non valeva ormai più nessuna logica. Ora che le avevano tolto anche le strade della città che aveva visto morire il suo amore, voleva almeno tenere quella giacca immutata, forse anche temendo che ulteriori rimaneggiamenti potessero far sbiadire ancora di più quella macchia di sangue, l’unico ricordo che conservasse di lui.
Guardandola, non si sarebbe mai detto che fosse malata. Era più bella che mai. Il suo corpo flessuoso, la sua pelle quasi trasparente, gli occhi sempre persi dietro a un sogno, ma luminosi, ossessionavano Alain. I suoi movimenti, da sempre permeati di una grazia innata, dalla notte che aveva passato con Andrè erano anche impregnati di una sensualità inconsapevole e istintiva. Quante volte, la notte, si era ritrovato davanti alla sua porta, la mano sulla maniglia, lottando tra il desiderio di entrare e lasciare libero sfogo ai suoi desideri, e la consapevolezza della reazione che lei avrebbe avuto, se si fosse svegliata e l’avesse trovato nella sua stanza, intento a sfilarle la camicia da notte, intento a sfiorarla in una carezza che sapeva bene impossibile. Ma sapeva bene che lei aveva il sonno leggero, e la speranza che non si svegliasse era vana. Quasi tutte le notti, in attesa davanti a quella porta, combattendo la sua personale battaglia, la sentiva rigirarsi nel letto, o camminare per la stanza, o vedeva una sottile luce che filtrava dalla porta.
Alain sentiva di amarla ogni giorno di più, e ogni giorno di più si accorgeva che lei stava inesorabilmente scivolando via da loro, da tutto e da tutti. Anche se, negli ultimi tempi, aveva subito come un rallentamento. Probabilmente, era da imputarsi al cambiamento d’aria, alla nuova compagnia che si era trovata, o, per meglio dire, che l’aveva trovata.
Non aveva minimamente interrotto le sue passeggiate. Ogni giorno stava ore e ore fuori casa, spesso non rientrava neanche per i pasti. A questo proposito c’era stata una discussione tra lei e loro, ricordò Alain con un sospiro. Discussione che aveva portato ad un accordo: non avrebbero cercato di imporle limiti d’orario (non ci sarebbero riusciti), ma lei si sarebbe portata appresso un cestino, un sacchetto, con qualche cosa da mangiare. Così, da qualche giorno, ogni volta che usciva, Oscar prendeva con sé il suo pranzo.
Ma quel cestino non pesava a lungo sulle sue braccia. Appena lei compariva sulla porta, infatti, ecco che appariva Fabrice.
Sembrava sbucare dalla sabbia, quel ragazzino. Gli occhi verdi e i capelli biondi, aveva immediatamente conquistato il comandante. E ne era stato a sua volta conquistato.
Aveva quattordici anni, l’età dei colpi di fulmine, anche se ne dimostrava alcuni di meno. Oscar l’aveva incontrato qualche giorno dopo essere arrivata. Era uscita per la sua quotidiana passeggiata sulla spiaggia, ancora senza pranzo. Aveva fatto pochi passi, quando l’aveva visto lì, seduto sulla sabbia. Lui guardava il mare, eppure lei si sentiva osservata. Si era fermata, a pochi passi da lui, osservandolo. Lui aveva girato la testa e le aveva sorriso. Non aveva potuto resistere a quel sorriso. Gli si era seduta accanto, ma non abbastanza vicino da toccarlo. Si era seduta sulla sabbia, sorridendo, anche se nel suo sorriso perdurava un’ombra oscura.
- Ciao. - gli aveva detto - come ti chiami?
- Ciao. - le aveva risposto - io sono Fabrice. E tu?
- Io sono Oscar. Oscar François. Piacere di conoscerti. - non gli aveva teso la mano, anche se era solo un bambino, ma i suoi occhi blu si erano come rasserenati, guardando quelli verdi di lui.
- Piacere mio, madame Grandier. - lui, serissimo.
Oscar era trasalita al sentirsi chiamare così, ma poi si era sentita stranamente sollevata. Madame Grandier… sì, si meritava quell’appellativo. Meritava di portare il suo cognome. Del resto, era come se lei fosse sua moglie. Che importava una cerimonia? Loro avevano già fatto il loro giuramento, senza bisogno di parole, mentre l’ultima, fragile barriera che divideva le loro anime cadeva, in quella notte che era stata la sua ultima notte di vita. In un certo senso, loro erano stati sposati per più di vent’anni. Non c’era rito che potesse creare un legame più profondo del loro. La loro unione non aveva bisogno di sacerdoti. Sì, lei era sua moglie, la sua donna, la sua…
- Vedova- questa parola la riportò bruscamente alla realtà, strappandola dai suoi sogni ad occhi aperti. Crudelmente.
Fabrice ancora la guardava. Non aveva aperto bocca, forse capiva che lei sognava, forse capiva che lei teneva a quei sogni, che erano l’unica cosa che ancora la facevano vivere.
- Quanti anni hai?- gli aveva chiesto lei, cercando di non lasciarsi sopraffare dalla nostalgia.
- Quattordici madame. Quattordici dal 13 luglio. - la risposta, sorridente.
Quella strana coincidenza la colpì. O forse, fu solo il sentire ricordata quella data. Il compleanno di quel bambino cadeva proprio il giorno in cui lei…in cui lui…in cui loro…
Lo guardò più attentamente. I capelli erano tagliati corti, ma non abbastanza da impedire di notare quanto fossero biondi, e ricci. Gli occhi verdi erano vivaci ed espressivi, come… proprio come quelli di lui da bambino. E poi, quel ragazzo ispirava tranquillità. Da quando l’aveva incontrato, da quando stavano parlando, era riuscita finalmente a sentirsi tranquilla, senza gli scoppi di dolore che l’avevano tormentata ogni giorno, anche se lei aveva fatto di tutto per tenerli nascosti. Nell’ora che passò quel giorno con lui, il suo dolore rimase latente, sepolto nella profondità del suo cuore, zitto mentre lei parlava, ascoltava, camminava con quel ragazzo che sembrava ancora un bambino. E quando lui se ne andò, lasciandola sola, lei rimase a lungo in piedi, guardando il mare, prima di tornare indietro, ripercorrendo a ritroso lo spazio che aveva percorso con quel bambino e da sola, prima di incontrarlo, lentamente, tornando a quell’abitazione che non poteva chiamare casa, perché niente la legava ad essa, a quel gruppo che non era la sua famiglia, perché non c’era lui, Andrè, che doveva essere, da quella notte, tutta la sua famiglia.
Da quel giorno, ogni giorno, quando Oscar usciva, puntualmente arrivava anche Fabrice e, da quando lei e loro avevano fatto quel patto, la sollevava dal peso del cestino, portandolo lui, come per un tacito accordo.
Oscar gli si era affezionata tantissimo, amandolo come avrebbe amato un suo bambino. Era l’unica persona che riuscisse a strapparle un sorriso, anche se ancora carico di tutta la sua tristezza. Eppure, anche lei aveva fatto l’errore di considerarlo un bambino. Quando lo guardava, non riusciva a credere che avesse quattordici anni. E l’affetto che gli riservava, pur se il più profondo che potesse permettersi, era l’affetto che si prova per un bimbo.
Ma lui, lui… quando lui la guardava, c’era nei suoi occhi l’adorazione, l’adorazione più totale. Quando lei parlava (accadeva molto raramente, ma con lui più frequentemente che con gli altri), lui la guardava, ascoltandola in silenzio, senza mai interrompere il suono di quella voce che gli sembrava così dolce, e bella, più di quanto avrebbe mai potuto immaginare, più di quanto chiunque avesse potuto descrivere. E così, anche lui era caduto nella trappola che si celava, per tutti, in fondo agli splendidi occhi di Oscar, nella sua voce, nel suo modo di muoversi. E la guardava camminare, ascoltava i suoi silenzi e le sue parole, desiderando che fossero di più, come per i suoi sorrisi.
Ma era lui a parlare più spesso. Le raccontava quello che avveniva in paese, di sé, della sua famiglia (o meglio di quando ancora aveva una famiglia che si potesse chiamare tale), la portava in giro per la spiaggia, facendole vedere i posti più belli e più pittoreschi, curando che non si stancasse troppo; baie, scogliere, la costa di quell’angolo di mondo si rivelava ai suoi occhi, poco per volta, pezzo per pezzo. Durante quelle passeggiate, Oscar ritrovava a poco a poco la forza che prima aveva avuto, gradualmente, poco a poco, senza che lei se ne potesse accorgere.
Le piaceva camminare. Certo, prima preferiva cavalcare. Era uno sport più signorile. Ma lei non aveva più cavallo, né voleva averne, e l’esercizio del camminare poteva essere considerato equivalente. Così, seguiva Fabrice in numerose escursioni, lasciando che lui la guidasse, scoprendo a poco a poco il paese in cui si era ritrovata a vivere. O meglio, a morire, pensava, con un fugace sorriso.

Era stato così che era arrivata anche lì, vicino a quella casa, che sembrava avvolta dal mistero, così come la strana donna che sembrava esserne la proprietaria, e tutti coloro che vi vivevano, Fabrice compreso.
 

Fine 6° parte

                                                                                                                                Illy
 
 

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