I miei genitori
mi chiamavano Francine, ma io odiavo quel nome!
Fosse
stato il mio vero nome almeno… invece no!
Quando
nacqui, a New York city, nel 1978, in un ospedale militare, il nome che
mi imposero fu France, in memoria della nonna materna da poco scomparsa;
ma ai miei quel nome non diceva niente….
La nonna
aveva ricevuto il suo nome in ricordo del Paese che i suoi si erano lasciati
alle spalle per raggiungere il nuovo mondo in cerca di una vita migliore
e, se per lei poteva ancora avere un significato, per i miei genitori non
era affatto così.
Si erano
limitati ad affibbiarmelo, credendo di fare la cosa giusta, ma non si erano
mai degnati di pronunciarlo; dalle loro bocche trapelava sempre e solo
quell’orribile sostitutivo: Francine!
Avrebbero
potuto darmi un altro nome, se questo proprio non era di loro gradimento,
no?!
I miei
amici, invece, mi chiamavano Frank: un nome che suonava alquanto maschile,
ma che a me, piuttosto che Francine, andava benissimo!
A dispetto
di tutto e tutti, a me il mio nome piaceva infinitamente: France… un nome,
il mio nome che mi ricordava continuamente a cosa io appartenessi; delle
lettere su un foglio bianco che indicavano a caratteri indelebili la mia
meta; forse, l’unica cosa che mi rimaneva di quel posto tanto lontano quanto
vagheggiato e sognato dalla mia mente.
Ero cresciuta
come tutti i giovani americani nel rispetto delle tradizioni e della patria:
il quattro Luglio, il giorno del ringraziamento, la notte di Halloween….
Mio padre
era colonnello nell’esercito americano e mia madre prestava i suoi servigi
di scienziata sempre per l’esercito.
Tuttavia,
non mi ero mai sentita profondamente coinvolta in queste cose, qualcos’altro
mi interessava maggiormente: io amavo la Francia, da sempre.
Non riesco
a ricordare come, quando o perché questa mia passione per quel lontano
Paese si fece sentire in me, ma so solo che un giorno me la sentii nel
cuore fremere più che mai.
Si, forse
anche perché nelle mie vene scorreva sangue francese, ma io sapevo
che non era solo per quello: infatti, se per metà potevo risultare
francese, per l’altra metà ero senza dubbio irlandese. I miei
nonni paterni possedevano una fattoria nel Kentuchy, lo stato dall’erba
blu (1),
e, al contrario di quelli materni poiché entrambi morti, con loro
avevo modo di passare parecchio tempo.
Da bravi
irlandesi, la terra era per loro la cosa più preziosa che potessero
avere, e la amavano, e avevano cercato di inculcare questo sacro rispetto
anche ai loro figli e nipoti.
Invano,
devo dire.
Mio padre,
infatti, era nell’esercito, uno di quelli che la terra la vede solo come
campo di battaglia, e dei suoi due fratelli nessuno intendeva occuparsi
della tenuta in futuro. Varie volte dissi che me ne sarei presa cura io:
infondo, mi piaceva molto quel posto! Ma non per spirito irlandese.
Nonostante
i loro sforzi, i nonni non erano riusciti a farmi sentire irlandese, neanche
un po’, e tutti si stupivano di come io potessi, invece, sentirmi francese
nonostante non ci fosse mai stato nessuno che mi avesse indirizzato in
tale direzione.
A me
la fattoria piaceva per gli animali, la pace e la tranquillità che
si poteva respirare nei prati e nei boschetti che la circondavano.
Mi sentivo
come a casa e, appena avevamo qualche giorno libero, pregavo i miei genitori
di portarmi alla fattoria dei nonni.
Forse
anche perché rappresentava l’unico punto fisso della mia vita.
A causa
del lavoro di mio padre, infatti, eravamo costretti a cambiare città
frequentemente.
O forse
a causa di quel sogno che facevo molto spesso… due figure, una bionda e
una dai capelli castani, cavalcavano insieme presso un fiume, immerse nel
verde di una pacifica natura… non ero mai riuscita a vedere i loro volti,
ma, come dopo uno di quei sogni di cui non ci si ricorda più il
contenuto, ma soltanto le sensazioni provate, io sapevo di essere stata
lì, di aver partecipato a quelle lunghe cavalcate….
E infatti,
i cavalli erano i mie animali preferiti.
Ne avevo
uno tutto mio alla fattoria dei nonni, uno splendido cavallo bianco che
avevo chiamato Zefiro e che rivedevo sempre con enorme felicità.
Quando
ebbi quattordici anni, mio padre fu stanziato al Pentagono e, di conseguenza,
ci trasferimmo a Washington D.C.
Sede
definitiva, dissero; fino a nuovo ordine, pensai io.
Nella
nuova città iniziai la “senior high school” e feci amicizia con
una ragazzina di nome Mary, mia vicina di casa.
Come
i miei, anche i suoi genitori lavoravano molto, trascurandola abbastanza,
quindi fu quasi impossibile per noi non diventare buone amiche.
Certo,
non fu facile.
Io, infatti,
non ero proprio quella che si definisce una ragazza espansiva ed esuberante;
al contrario, ero molto riservata e quasi sempre fredda con tutti, ma non
lo facevo apposta.
Credo
sia stata la naturale conseguenza dell’essere cresciuta in una famiglia
i cui genitori erano entrambi arruolati nell’esercito e per i quali la
disciplina era una regola di vita e l’assennatezza una virtù irrinunciabile.
Al contrario
di me, Mary era una ragazza molto vivace ed estroversa, passava molte ore
a curare il suo aspetto esteriore perché voleva apparire raggiante
a tutti e adorava fare shopping, ma bastava passare qualche ora con lei
per accorgersi che era pressoché impossibile non volerle bene.
Mary
ed io trascorrevamo la maggior parte della giornata insieme: andavamo a
scuola insieme, frequentavamo praticamente gli stessi corsi e ci ritrovavamo
anche dopo scuola.
Stavamo
molto bene insieme e, come disse Mary un giorno, sembrava che ci conoscessimo
da sempre.
Non so
perché, ma mi sentivo in dovere di starle sempre vicina, come la
necessità di proteggerla e, a volte, un rimorso insanabile mi attanagliava
l’anima, punizione per un ignoto patto a cui non avevo prestato fede.
Gli altri
ragazzi a scuola non erano molto propensi a cercare la mia compagnia.
Mary
mi avvertì che il mio atteggiamento scoraggiava tutti, ma mi confidò
anche che ero stata soprannominata “Miss so fare tutto” il che, nonostante
potesse sembrare alquanto dispregiativo, era un modo per esprimere l’ammirazione
che, a detta di qualcuno, provavano nei mie confronti.
Forti
della mia aria imperturbabile, infatti, molti dei miei compagni di scuola
mi sfidavano in vari modi, cercando di trovare la maniera che avrebbe dimostrato
loro che anch’io ero un essere umano!
A volte,
da come mi descrivevano, mi sembrava di essere Phileas Fogg ne “Il giro
del mondo in 80 giorni”!
Ma non
riuscivo a tirarmi indietro, quando si trattava di una sfida, e così
mi ritrovavo coinvolta in svariati confronti… chissà perché,
poi, quasi tutti disputati con dei ragazzi e solo raramente con delle ragazze!
Partite
di basket, gare di atletica, tornei di biliardo, competizioni di nuoto,
ma anche concorsi poetici e musicali a cui, puntualmente, riuscivo sempre
vincitrice.
Ebbene
sì, sapevo fare tutto!
In effetti,
erano poche le cose che non ero in grado di fare, ma quello che più
stupiva tutti, miei genitori compresi, era il modo in cui facevo tutto
ciò.
Non avevo
mai avuto bisogno di grandi insegnamenti, avevo sempre imparato tutto con
gran velocità e prontezza, anzi, qualche volta non ce n’era neanche
stato bisogno: era come se le conoscenze defluissero da me spontaneamente.
Così
era stato per le mie doti musicali.
Un giorno,
avrò avuto tre anni, mi sedetti al vecchio piano dei nonni e iniziai
a suonare con grande sicurezza un pezzo di Mozart.
Inutile
descrivere lo stupore di tutti.
Così
era stato anche per la mia confidenza col francese.
A casa
mia nessuno lo parlava, neanche mia madre, eppure sembrava che io lo conoscessi
da sempre. i miei genitori dicevano che erano doti naturali o doni del
cielo e non ci badavano più di tanto, ma io sentivo che provenivano
da lontano e che erano stati da me utilizzati in chissà quali altre
occasioni.
Tutto
sommato, ogni volta che mi fermavo a riflettere, giungevo alla conclusione
che la mia vita era un grande enigma.
Qualità
inspiegabili, sensazioni già provate, incontri rivissuti, sogni
ricorrenti….
La vita
trascorse normalmente in quegli anni: mio padre non venne trasferito e
noi rimanemmo a vivere a Washington D.C., mentre Mary si innamorava quasi
giornalmente di un nuovo ragazzo e io continuavo a frequentare biblioteche
e librerie, leggendo un libro dietro l’altro e divorando con voracità
qualsiasi scritto trattasse della Francia, della storia, dei costumi o
delle tradizioni di quel Paese, conservando, poi, qualche buchino per gli
allenamenti di scherma.
Al secondo
anno, infatti, ero entrata a far parte della squadra di scherma della mia
scuola.
Un pomeriggio,
ero capitata nella palestra deserta e, vedendo un fioretto appoggiato al
muro, fui presa dall’irrefrenabile istinto di impugnarlo.
Sentii
come una scossa scuotermi l’intero corpo e, cosa ancora più strana,
mi posizionai sulla pedana, provando qualche colpo.
In quel
momento entrò l’allenatore della squadra, applaudì e mi chiese
se avessi mai preso lezioni di scherma.
Io gli
risposi negativamente ed egli ne rimase molto stupito.
Allora
disse che avevo un talento naturale per quello sport e per settimane mi
perseguitò, pregandomi di entrare nella sua squadra.