La morta
(1887)
Lavevo amata alla follia. Perché amiamo?
Non è strano che per qualcuno esista al mondo un solo altro essere, un solo pensiero, un
solo desiderio? E che sulla sua bocca ci sia un nome solo: un nome che viene di continuo
alle labbra, un nome che ne prorompe come lacqua da una sorgente, che sale dalle
profondità dellanima e vien detto, ripetuto, mormorato ininterrottamente, dovunque,
come una preghiera?
Non racconterò qui la nostra storia. Lamore ne
ha una solamente, sempre la stessa. Lavevo conosciuta e me nero innamorato,
tutto qui. E avevo vissuto un anno nella sua tenerezza, tra le sue braccia, nelle sue
carezze, nel suo sguardo, nelle sue vesti, nelle sue parole, avviluppato, legato,
incatenato in tutto quanto veniva da lei, così completamente che non sapevo più se fosse
giorno o notte, se ero vivo o morto, se ero sulla terra o altrove.
E un giorno ella morì. Come? Non so, non so più. In
una sera di pioggia fece ritorno a casa tutta bagnata, e il giorno dopo tossiva. Tossì
unintera settimana, poi si mise a letto.
Che cosa accadde? Non lo so.
I medici venivano, scrivevano ricette, andavano via.
Qualcuno portava medicine e una donna gliele faceva prendere. Le sue mani scottavano, la
fronte era madida e ardente, lo sguardo lucido e triste. Le parlavo, mi rispondeva. Che
cosa ci dicevamo? Non so più. Ho dimenticato tutto, tutto! Quando morì ricordo il suo
sospiro lieve, quel lieve sospiro tanto debole: lultimo. Linfermiera disse:
<<Ah!>>. E io compresi. Compresi.
Non seppi più nulla. Nulla. Vidi un prete che
pronunciò una parola:
<<La vostra amante>>.
Mi sembrò che la insultasse. Dal momento che era morta non
avevano più diritto di ricordare quella formalità. Lo scacciai. Ne venne un altro che fu
molto buono, molto gentile. Piansi quando mi parlò di lei.
Mi chiesero mille cose a proposito del funerale. Non
so più. Ma ricordo benissimo la bara, il rumore delle martellate quando inchiodarono il
coperchio. Ah, Dio, mio Dio!
Fu sotterrata. Sotterrata! Lei! In quella fossa!
Erano presenti alcune persone, amici. Fuggii. Correvo. Camminai a lungo per le strade. Poi
tornai a casa e il giorno dopo mi misi in viaggio.
Ieri sono tornato a Parigi.
Quando ho rivisto la mia camera, la nostra camera, i
nostri mobili, il nostro letto, quella casa dovera rimasto tutto quel che rimane
della vita duna persona dopo la sua morte, mi riprese un dolore tanto violento che
poco mancò aprissi la finestra e mi buttassi giù nella strada. Non potendo più rimanere
in mezzo a quelle cose, tra quelle pareti che lavevano riscaldata e protetta e che
nei loro spazi, anche i più piccoli, dovevano conservare mille atomi di lei, della sua
carne e del suo respiro, presi il cappello per fuggire via. Di colpo, mentre stavo andando
verso la porta, passai davanti alla grande specchiera che ella aveva fatto mettere nel
ingresso per vedersi dalla testa ai piedi, ogni giorno, ogni volta che usciva, per
osservare se tutto era in ordine nel suo abbigliamento, dagli stivaletti alla pettinatura.
Mi fermai lì, basito, di fronte a quello specchio
che laveva riflessa tante volte, ah!, tante e tante volte che doveva averne
conservata limmagine.
Me ne stavo lì, in piedi, lo sguardo fisso sulla
fragile lastra, su quel cristallo piano e profondo, ormai vacuo, ma che laveva
contenuta tuttintera, laveva posseduta come me, posseduta quanto il mio
sguardo appassionato, e fremetti. Mi sembrò damare quello specchio - lo toccai -
era gelido! Oh, il ricordo! il ricordo, immagine dolorosa, immagine bruciante, immagine
vivente, orribile immagine che fa soffrire mille torture!
Felici gli uomini che hanno un cuore simile a uno
specchio, dove i riflessi scivolano via e si cancellano, un cuore che dimentica tutto ciò
che ha contenuto, tutto ciò che gli è passato davanti, tutto ciò che hanno contemplato
affettuosamente o con amore! Mi sento male!
Sono uscito e mio malgrado senza rendermene conto,
senza volerlo minimamente fare, sono andato verso il cimitero. Ho ritrovato la semplice
tomba di lei, una croce di marmo che reca incise queste brevi parole:
AMÒ,
FU AMATA
E MORI.
E lei è la sotto, imputridita. Che orrore!
Singhiozzavo, la fronte sulla lapide.
Mi sono trattenuto a lungo, molto a lungo. Poi mi
sono accorto che giungeva il tramonto. Allora un desiderio particolare, un desiderio
folle, un desiderio degno dun amante disperato sè impadronito di me. Ho
voluto passare la notte vicino a lei, unultima notte, a piangere sulla tomba. Ma
mavrebbero visto e mavrebbero fatto uscire. Come fare? Ebbi unidea; mi
alzai e cominciai a girovagare in quella città popolata da persone che non sono più su
questa terra. Ho camminato, camminato... Comè piccola questa città in paragone
allaltra, quella in cui viviamo! Eppure questi morti sono più numerosi dei vivi! A
noi occorrono grandi case, strade, piazze per le quattro generazioni che guardano il sole
contemporaneamente, bevono lacqua delle sorgenti, il vino dei vigneti e mangiano il
pane dei campi di grano! E per tutte le generazioni dei morti, per tutta lumanità
discesa fin quaggiù, quasi niente... un pezzetto di terra.., quasi niente! La terra li
riprende, loblio li cancella. Addio!
Allestremità di quella parte di camposanto
più frequentato, scorsi allimprovviso il cimitero abbandonato, quello dove coloro
che sono defunti da tanto tempo terminano di mescolarsi alla polvere, dove persino le
croci di legno stanno marcendo: il cimitero dove domani metteranno i morti futuri. E pieno
di rose selvatiche, di cipressi scuri e robusti, una specie di giardino abbandonato,
triste e magnifico, un giardino che si nutre di carne umana. Lì ero solo, assolutamente
solo. Mi nascosi dietro una pianta verdeggiante, appiattendomi tra quei rami grassi e
scuri.
E attesi, avvinghiato al tronco come un naufrago al
rottame.
Quando fu notte piena, notte fonda, lasciai il mio
rifugio e mi misi a camminare tranquillamente, ma senza far rumore,
su quel suolo popolato da morti. Errai a lungo, a lungo, a lungo. Non mi riusciva di
rintracciarla. Le braccia tese, gli occhi sbarrati, urtando nelle tombe con le mani, coi
piedi, con le ginocchia, col petto e perfino con la testa, andavo avanti senza trovarla.
Toccavo, brancicando come un cieco che cerca la sua strada, percepivo lapidi, croci,
ringhiere di ferro, ghirlande di fiori avvizziti! Leggevo i nomi con le dita facendole
passare sulle lettere. Che notte! E non riuscivo a ritrovarla.
Niente luna. Una notte spaventosa! Avevo paura, una
paura atroce, per quei sentieri così stretti, tra due file di sepolcri. Tombe, tombe,
tombe! Sempre tombe! A destra, a sinistra, davanti a me, intorno a me, dovunque tombe! Mi
sedetti su una di esse, poiché non potevo più camminare, dato che le ginocchia mi si
piegavano per la stanchezza. Sentivo che il mio cuore batteva più forte. E sentivo anche
altre cose. Quali? un rumore confuso, indescrivibile! Era nel mio cervello sconvolto,
nella notte impenetrabile o sotto la terra misteriosa, sotto la terra seminata dì
cadaveri, quel rumore? Mi guardavo attorno.
Quanto tempo sono rimasto là? Non lo so. Ero
paralizzato dal terrore, ebbro di spavento, sul punto di urlare, sul punto di morire.
E dimprovviso mi parve che la lastra di marmo
su cui ero seduto cominciasse a muoversi. Si muoveva come se qualcuno la stesse
sollevando! Dun balzo mi spostai sulla tomba vicina e vidi - sì! - vidi alzarsi
verticalmente la lastra che avevo appena lasciato e il morto apparire, uno scheletro
ignudo che la sollevava con le spalle curve. Lo vedevo, lo vedevo con chiarezza, benché
quella fosse una notte tenebrosa. Potei leggere sulla croce:
QUI RIPOSA JACQUES OLI VANT,
DECEDUTO IN ETA DI ANNI 51.
AMAVA LA FAMIGLIA,
ERA BUONO E ONESTO.
MORI NELLA PACE DEL SIGNORE.
Anche il morto leggeva le frasi scritte sulla sua tomba. Poi raccolse un sasso sul sentiero, un sasso aguzzo, e cominciò a cancellare, grattandole via, tutte quelle parole. Le cancellò completamente, con lentezza, fissando con le occhiaie vuote il punto dove prima erano incise. Poi con la punta dellosso che era stato il suo indice scrisse in lettere fosforescenti come quelle che si tracciano sui muri con i fiammiferi:
QUI RIPOSA JACQUES OLIVANT,
DECEDUTO IN ETÀ DANNI 51.
CON CATTIVERIA AFFRETTÒ LA MORTE DEL PADRE
DAL QUALE DESIDERAVA EREDITARE,
TORMENTÒ LA MOGLIE EI FIGLI,
IMBROGLIÒ I VICINI DI CASA
E RUBÒ QUANTO GLI FU POSSIBILE.
MORÌ MISERABILE.
Quandebbe finito di scrivere, il morto
rimase immobile a contemplare lopera sua. Mi volsi indietro e maccorsi che
tutte le tombe serano scoperchiate, che tutti i cadaveri ne erano usciti e tutti
avevano cancellato le menzogne scritte dai parenti sulle lapidi. Tutti avevano ristabilito
la verità.
Vedevo in tal modo che tutti erano stati i carnefici
dei propri congiunti, astiosi, disonesti, ipocriti, bugiardi, canaglie, calunniatori,
invidiosi. Tutti avevano imbrogliato, rubato, compiuto tutti gli atti più abominevoli,
quei buoni padri, quegli sposi fedeli, quei figli devoti, quelle fanciulle caste, quei
commercianti probi, quegli uomini e quelle donne irreprensibili.
Sulla soglia della loro dimora eterna, adesso avevano
scritto tutti la crudele, la terribile, la santa verità che tutti ignorano o fingono
dignorare su questa terra. Mi venne in mente che anche la donna amata aveva dovuto
tracciarla sulla sua tomba. E senza paura, oramai correndo tra i loculi semiaperti, tra
cadaveri e scheletri, andavo verso di lei, sicuro che questa volta lavrei
rintracciata. La riconobbi da lontano, anche senza vederne il volto che era ancora avvolto
nel sudano.
E sulla croce di marmo dove poco prima avevo letto:
<<Amò, fu amata, e morì>>, scorsi:
USCÌ DI CASA PER TRADIRE IL SUO AMANTE,
PRESE FREDDO SOTTO LA PIOGGIA E MORÌ.
A quanto pare fui raccolto allalba, inanimato, accanto a una tomba.