La mano scorticata
(1873)
Quasi otto mesi fa uno dei miei amici, Louis R.,
aveva riunito una sera alcuni compagni di collegio: stavamo bevendo del punch, mentre si
fumava e si chiacchierava di letteratura e di pittura, raccontandoci ogni tanto qualche
storiella piccante, come è duso nelle riunioni di giovanotti. A un tratto si
spalanca la porta ed entra come un bolide uno dei miei migliori amici dinfanzia.
Esclamò subito: «Indovinate da dove vengo».
Uno gli risponde: «Scommetto che sei stato da
Mabille». «No, sei troppo allegro», fa un altro, «hai ottenuto un prestito oppure
tè morto uno zio o hai impegnato lorologio al Monte.» «Hai preso una bella
ciucca», propone un terzo, «e siccome hai sentito lodore del punch qui da Louis
sei salito per ricominciare.»
«No, non ci siete, vengo da P. in Normandia, ove
sono andato a passare otto giorni e da dove riporto un celebre criminale, mio amico, che
mi permetto di presentarvi.» Dette queste parole, trasse di tasca una mano scorticata:
era raccapricciante quella mano; nera, scheletrita, lunghissima e come raggrinzita; i
muscoli duna forza impressionante erano tenuti assieme allinterno e
allesterno da una correggia di pelle pergamenata, le unghie gialle e strette erano
rimaste in cima alle dita: era la mano dun delinquente, lo si capiva immediatamente,
a un miglio di distanza. Il mio amico continuò: «Figuratevi che laltro giorno
vendevano la roba dun vecchio stregone conosciuto in tutta la regione. Ogni sabato
andava al sabba su un manico di scopa, praticava la magia bianca e nera, faceva venire
alle vacche il latte azzurro e portar la coda come quella del compagno di
SantAntonio. Certo è che quel vecchio farabutto teneva moltissimo a questa mano;
diceva che era quella dun famoso criminale giustiziato nel 1736 per aver gettato a
capofitto in un pozzo la propria moglie legittima, cosa che mi pare giusta, e poi per aver
impiccato al campanile della chiesa il curato che laveva sposato. Dopo questa doppia
impresa sera messo a girare il mondo e nella sua carriera, breve ma intensa, aveva
rapinato una dozzina di viaggiatori, bruciato venti frati in un convento e trasformato un
monastero in una specie di harem».
«Ma che cosa vuoi fame di quellorrore?»,
esclamammo.
«Eh perbacco, la metterò come maniglia del
campanello per spaventare i creditori.»
Henry Smith, un grosso inglese flemmatico gli disse:
«Amico mio, credo che quella mano sia semplicemente un pezzo di carne indiana conservata
con un nuovo procedimento. Ti consiglio di farci un buon brodo».
Uno studente di medicina, che era quasi ubriaco,
intervenne allora con inattesa lucidità: «Amici, non scherzate; e tu, Pierre, se vuoi un
consiglio, fa sotterrare cristianamente questo resto umano, nel timore che il
legittimo proprietario non venga a richiedertelo; e poi questa mano forse ha preso delle
pessime abitudini. Conosci, no?, il proverbio: "Chi ha ucciso, ucciderà
ancora"».
«E chi ha bevuto berrà!», ribatté il nostro
anfitrione, versando allo studente un bicchierone di punch, che laltro buttò giù
dun fiato e cadde ubriaco fradicio sotto al tavolo. Questa battuta fu accolta da
risate fragorose, e Pierre alzando il bicchiere in direzione della mano disse: «Bevo alla
prossima visita del tuo padrone». Poi parlammo daltro e ciascuno fece ritorno alla
propria abitazione.
Il giorno dopo, poiché mi trovavo a passare davanti
alla casa di Pierre, entrai da lui. Erano quasi le due: lo trovai che stava bevendo e
fumando. «Be, come va?», gli dissi. Mi rispose:
«Benissimo». - «E la mano?» - «Devi averla vista attaccata al campanello dove
lho messa iersera rincasando; ma, a proposito, figurati che qualche imbecille
devesser venuto a suonare verso mezzanotte, senza dubbio per farmi uno scherzo; ho
domandato chi era, ma siccome non mha risposto nessuno, mi sono coricato di nuovo e
rai sono riaddormentato.»
Suonarono proprio in quellattimo. Era il
padrone di casa, un tipo grossolano e insolente. Entrò senza salutare. «Signore», disse
al mio amico, «la prego di levar di mezzo immediatamente la carogna che lei ha appeso al
cordone del suo campanello, altrimenti sarò costretto a darle lo sfratto.»
Con una faccia serissima Pierre ribatté: «Signore,
lei insulta una mano che non meriti desser trattata a questo modo perché
apparteneva a una persona assolutamente per bene». Il padrone di casa girò sui tacchi e
uscì così comera entrato.
Pierre gli andò dietro, staccò la mano e
lattaccò al campanello appeso nella sua alcova: «Questa mano sta meglio qui. Sarà
per me come quella frase che si ripetono i Trappisti: "Ricordati che sei destinato a
morire". Insomma mi ispirerà pensieri importanti ogni sera prima
daddormentarmi». Dopo unora lo lasciai e me ne tornai a casa.
Passai una cattiva notte, ero agitato, nervoso; mi
risvegliai di soprassalto parecchie volte; mi parve che un uomo fosse penetrato in casa e
mi alzai per andar a guardare nellarmadio e sotto il letto. Finalmente verso le sei
avevo appena cominciato ad assopirmi quando dei colpi violenti alla porta mi fecero saltar
giù dal letto. Era il domesfico di Pierre, vestito sommariamente, pallidissimo e
tremante.
Tra i singhiozzi gridò: «Ah, Signore, hanno
assassinato il mio povero padrone!».
Mi vestii in fretta e corsi da Pierre.
Lappartamento era pieno di persone che
discutevano e sagitavano in un movimento incessante; ciascuno di loro parlava,
raccontava, commentava laccaduto in tutte le maniere. Raggiunsi la camera a gran
fatica, la porta era sorvegliata.
Mi feci riconoscere e mi lasciarono entrare. Quattro
agenti di polizia stavano in piedi al centro della stanza con un taccuino in mano;
esaminavano tutto, scambiando ogni tanto qualche parola a bassa voce, e poi prendevano
appunti; due medici parlottavano accanto al letto ove era steso Pierre, privo di
conoscenza. Non era morto, ma aveva un aspetto terrificante. Gli occhi aperti
smisuratamente, con le pupille dilatate, sembravano paralizzati: fissavano, con una
indicibile paura, una cosa orribile e sconosciuta; le dita erano contratte, il corpo
coperto sin sotto al mento da un lenzuolo che sollevai. Aveva al collo i segni di cinque
dita che erano penetrate a fondo nella sua carne; qualche goccia di sangue macchiava la
camicia. Una cosa mi colpì in quel momento: guardai per caso il campanello
dellalcova. La mano dello scorticato non cera più. Lavevano tolta
certamente i medici per non impressionare coloro che entravano nella camera del ferito;
difatti quella mano era davvero orribile. Non domandai nemmeno quel che ne avevano fatto.
Ora ritaglio da un quotidiano del giorno seguente il resoconto del delitto con tutti i particolari che la polizia aveva potuto raccogliere. Ecco quel che cera scritto:
Un orrendo tentato omicidio è
stato commesso ieri contro il signor Pierre B. studente in legge e appartenente a una
delle più importanti famiglie della Normandia. Il povero giovane, rincasato alle dieci di
sera, aveva congedato il suo domestico, un certo Bouvin, dicendogli che era stanco e che
si sarebbe coricato. Verso mezzanotte il domestico venne risvegliato dal suono del
campanello che era nella camera del padrone, un suono così insistente e disperato che
impaurì il Bouvin. Il campanello tacque poi per circa un minuto, indi riprese con tale
forza che il domestico, terrorizzato, si precipitò a svegliare il portiere dello stabile.
Questi corse a chiamare la polizia. Dopo circa un quarto dora gli agenti sfondavano
la porta della camera chiusa dallinterno.
Un orribile spettacolo si presentò ai loro occhi:
mobili erano sottosopra e tutto poteva far pensare che una lotta mortale aveva opposto
vittima e aggressore. In mezzo alla stanza, faccia a terra e con le membra irrigidite, il
volto livido e gli occhi sbarrati spaventosamente, giaceva immoto il giovane Pierre B.; al
collo aveva le impronte profonde di cinque dita. Il rapporto del dottor Bourdeau, chiamato
durgenza, dice che laggressore doveva essere straordinariamente forte e che la
sua mano doveva essere molto magra e muscolosa, in quanto le dita hanno lasciato sul collo
della vittima come cinque buchi di pallottole riuniti tra loro attraverso la carne.
Nessuna traccia dellautore del delitto. La giustizia indaga.
Lindomani sullo stesso giornale si leggeva:
11 signor Pierre B., la vittima dellaggressione di cui abbiamo dato notizia ieri, ha ripreso conoscenza dopo due ore di assidue cure prodigategli dal dottor Bourdeau. E fuori pericolo, ma si nutrono serie preoccupazioni per il suo stato mentale. Nessuna traccia del colpevole.
Infatti il mio povero amico era impazzito; per
sette mesi andai a visitarlo quasi ogni giorno nella casa di cura in cui lavevano
ricoverato, ma non riacquistò un barlume di ragione. Nel delirio pronunciava parole senza
senso e, come tutti i dementi, era ossessionato da unidea fissa, credendosi
continuamente assalito da un fantasma.
Un giorno vennero a cercarmi durgenza dicendomi
che era peggiorato. Lo trovai in agonia. Per un paio dore rimase molto calmo, poi
improvvisamente salzò dal letto, nonostante i nostri sforzi per trattenerlo. In
preda al terrore gridava: «Prendila, prendila! Mi strozza, aiuto! aiuto!». Fece per due
volte il giro della camera urlando, poi cadde morto, la faccia a terra.
Poiché era orfano, fui incaricato io di accompagnare
la salma al piccolo cimitero di P. in Normandia, ove erano sepolti anche i suoi genitori.
Veniva proprio da questo paesino la sera in cui ci aveva trovato a bere il punch in casa
di Louis R. e ci aveva mostrato la mano scorticata.
Il suo corpo fu chiuso in una bara di piombo. Quattro
giorni dopo io ero andato a fare una triste passeggiata, insieme al vecchio curato del
posto che era stato il primo insegnante del mio amico, nel piccolo cimitero ove gli
stavano scavando la fossa.
Il tempo era magnifico, il cielo dun azzurro
intenso spandeva a profusione la luce; gli uccelli cantavano nei rovi delle scarpate là
dove tante volte, quando eravamo entrambi bambini, eravamo venuti a cercare le more.
Mi pareva di vederlo ancora intrufolarsi lungo la
siepe e passare attraverso un varco che conoscevo bene, laggiù proprio in fondo al
terreno in cui vengono sotterrati i poveri. Poi tornavamo alle nostre case, con le guance
e le labbra annerite dal succo dei frutti che avevamo mangiato.
Guardavo le macchie: erano piene di more; ne presi
una, macchinalmente, e me la misi in bocca. Il curato aveva aperto il breviario e
borbottava con un fu di voce i suoi: «Oremus». Udivo in fondo al viale il rumore della
vanga dei becchini che stavano scavando la fossa.
A un tratto ci chiamarono, il curato chiuse il suo
libro e andammo a vedere cosa volevano. Avevano trovato una bara proprio in quel tratto di
terreno. Con una picconata riuscirono a sollevare il coperchio e vedemmo uno scheletro
smisuratamente lungo, coricato sul dorso: pareva che ci guardasse ancora coi suoi occhi
infossati e ci sfidasse.
Senza un motivo apparente, provai una forte
sensazione di malessere, ebbi quasi paura.
«Guardate», esclamò uno dei becchini, «guardate
questo birbaccione ha una mano mozza, eccola qui la mano.» E raccolse, a fianco del
corpo, una grande mano scorticata che ci mostrò.
Commentò allora laltro: «Attento, si direbbe
che ti guardi. Adesso ti salterà alla gola perché rivuole indietro la mano che gli hai
preso!».
Intervenne il curato: «Andiamo, amici miei. Lasciate
in pace i morti e richiudete quella cassa; scaverete da unaltra parte la fossa per
il povero signor Pierre».
Il giorno dopo tutto era finito e io me ne tornai a
Parigi, dopo aver lasciato cinquanta franchi al vecchio curato perché dicesse qualche
messa per lanima di colui al quale avevamo turbato leterno riposo.