L'OMBRA VENUTA DAL TEMPO
Dopo ventidue anni di
incubo e terrore, salvo soltanto in virtù della disperata convinzione della fonte mitica
di talune impressioni, sono restio a garantire la veridicità di ciò che credetti di
scoprire nell'Australia Occidentale la notte fra il 17 e il 18 luglio del 1935. Ho motivo
di sperare che la mia esperienza fosse stata totalmente o in parte il frutto di
un'allucinazione sono, difatti, numerosi i motivi che lo lasciano supporre. Tuttavia il
suo realismo fu terribile al punto da precludermi ogni speranza.
Ma se la cosa accadde realmente, allora l'uomo deve
essere pronto ad accettare una nozione del cosmo e del posto che egli occupa nel turbinoso
vortice del tempo, tale che la sua semplice menzione è già di per se paralizzante.
E doveroso inoltre metterlo in guardia contro un particolare pericolo in agguato, in forza
del quale, pur non in grado di distruggere l'intera specie, potrebbe imporre il dominio di
orrori mostruosi e inimmaginabili su alcuni tra i membri più audaci di essa.
Per quest'ultima ragione chiedo con tutta la forza
del mio essere, che si rinunzi definitivamente a qualsiasi tentativo di dissotterrare quei
frammenti di costruzioni ignote e primordiali che la mia spedizione si proponeva di
investigare.
Presumendo che fossi nel pieno possesso delle mie
facoltà mentali l'esperienza di quella notte fu tale che nessun uomo ebbe mai a viverne
una simile. Essa fu inoltre una conferma terrificante di tutto quel che avevo tentato di
rifiutare in quanto frutto dei miti o dei miei sogni.
Misericordiosamente non vi sono prove giacchè,
sopraffatto dal terrore, ho perduto lo spaventoso oggetto che - semmai fosse stato reale,
lo avessi riportato alla luce da quell'abisso malsano - avrebbe costituito una
testimonianza inconfutabile.
Quando casualmente mi ritrovai dinanzi a
quell'orrore, ero solo e sino ad ora, non ne ho fatto parola a nessuno. Non ho potuto
impedire che altri scavassero nella sua direzione ma, fino a oggi, il caso e lo spostarsi
della sabbia li hanno salvati dall imbattersi in esso. Adesso è necessario che formuli
delle precise dichiarazioni, non solo per il bene del mio equilibrio mentale, ma per
avvertire coloro che si accingono a leggere seriamente quanto scriverò.
Queste pagine (molte delle quali nelle prime parti
risulteranno familiari ai lettori assidui della stampa in generale e di quella scientifica
in particolare) sono state scritte nella cabina della nave che mi riportò a casa. Le
consegnerò a mio figlio, il professor Wingate Peaslee dell Miskatonic University, l'unico
membro della mia famiglia che mi sia stato vicino dopo la strana amnesia che mi colse
tanto tempo fa, è l'individuo che, più di chiunque altro, conosce i più intimi risvolti
del mio caso. Tra tutte le persone viventi, egli È probabilmente il meno proclive a
ridicolizzare quanto mi appresto a narrare di quella notte fatale.
Non ho creduto opportuno illuminarlo sull'evento
occorsomi, verbalmente, prima di salpare, in quanto ritengo sia meglio fargli pervenire la
relazione in forma scritta. In tal modo, la possibilità di leggere e rileggere
comodamente il racconto, gli offrirà un quadro più convincente di quello che la mia
lingua confusa potrebbe sperare di trasmettergli.
Dopo di che, farà di questo resoconto ciò che
riterrà più appropriato; potrà rivelarlo, con un commento confacente, in qualunque
settore entro il quale esso possa arrecare dei benefici. Nel rispetto di quei lettori che
ignorano le fasi iniziali che hanno caratterizzato il mio caso, la rivelazione sarà
preceduta da un ampio riassunto che illustri loro l'antefatto.
Mi chiamo Nathaniel Wingate Peaslee, e coloro i quali
rammentano le storie apparse sui giornali di una generazione fa - o le lettere e gli
articoli pubblicati sulle riviste di psicologia sei o sette anni addietro - sapranno chi
sono e che cosa sono. Difatti, tutti i particolari riguardanti la mia strana amnesia negli
anni dal 1908 al 1913, riempirono la stampa, e se ne dissero tante sulle tradizioni di
orrore, follia e Stregoneria che si celavano dietro l'antica città del Massachusetts, che
oggi come allora costituisce la mia residenza. Eppure avrei dovuto essere ben consapevole
del fatto che non esiste ombra di follia o di mistero nel mio retaggio familiare, come
nella mia vita giovanile. E questo è un elemento di somma importanza in considerazione
dell'ombra che si abbattè subitaneamente su di me a opera di fonti esterne.
Si può forse immaginare che secoli di oscure
meditazioni abbiano conferito ad Arkham, cadente e perseguitata dalle dicerie, una
peculiare vulnerabilità riguardo a tali ombre, quantunque anche ciò appaia dubbio alla
luce degli altri casi che ebbi modo di studiare successivamente. Ma il punto fondamentale
consiste nel fatto che la mia progenie e il mio passato sono assolutamente normali. Quel
che accadde, giunse da qualche altra parte, da dove... ancor oggi esito a riferirlo
esplicitamente.
Sono il figlio di Jonathan e Hannah (Wingate)
Peaslee, ambedue di una sana, vecchia stirpe di Haverhill. Lì nacqui e crebbi, nella
vecchia fattoria di Boardman Street nei pressi di Golden Hill, e mi trasferii ad Arkham
soltanto nel 1895, quando entrai alla Miskatonic University, in qualità di lettore di
Economia politica.
Per altri tredici anni la mia vita scorse felice e
priva di avversità. Nel 1896 sposai Alice Keezar di Haverhill, dalla quale ebbi tre
figli, Robert, Wingate e Hannah, nati rispettivamente nel 1898, 1900 e 1903.
Nel 1898 divenni professore aggiunto e nel 1902,
professore di ruolo.
Mai dimostrai il pur minimo interesse per
l'occultismo o la parapsicologia.
Fu il giovedì, 14 maggio del 1908, che fui colto da
una misteriosa amnesia. La cosa sopraggiunse pressochè improvvisa, sebbene in seguito mi
rendessi conto che le visioni brevi e baluginanti di parecchie ore prima - visioni
caotiche che mi turbarono enormemente proprio perchè senza precedenti - evidentemente ne
erano state i sintomi premonitori. La testa mi doleva e avvertivo la strana sensazione -
per me assolutamente nuova - che qualcun altro stesse tentando di impossessarsi dei miei
pensieri.
Il collasso si verificò verso le dieci e venti del
mattino, mentre tenevo una lezione del VI corso di Economia Politica - storia e attuali
tendenze della scienza economica - a diverse matricole e a qualche studente del secondo
anno. Cominciai a vedere strane forme dinanzi agli occhi, e mi pareva di trovarmi in una
stanza bizzarra, diversa dall'aula.
I miei pensieri e le mie parole presero a divagare
dall'argomento, e gli studenti si accorsero che stava accadendo qualcosa di serio.
Dopodichè, privo di sensi, mi accasciai sulla sedia, sprofondato in uno stato di torpore
dal quale nessuno riuscì a scuotermi. Nè le mie naturali facoltà ripresero a mirare la
luce quotidiana del nostro vecchio mondo, per cinque lunghi anni, più quattro mesi e
tredici giorni.
Naturalmente appresi poi da altri quel che avvenne
dopo. Benchè fossi stato riportato a casa, al 27 di Crane Street, e mi fosse stata
prestata la migliore assistenza medica, non diedi segno di riprendere conoscenza per
sedici ore e mezza.
Alle tre del mattino del 15 maggio, i miei occhi si
riaprirono e cominciai a parlare ma, ben presto, i medici e i miei familiari furono
terrorizzati dalla maniera in cui mi esprimevo e dal linguaggio che usavo.
Risultò evidente che non ricordavo affatto la mia
identità e il mio passato sebbene, per qualche motivo, sembrassi ansioso di celare questo
mio stato. Fissavo stranamente le persone che mi attorniavano e contraevo in maniera del
tutto insolita i muscoli facciali.
Persino le parole parevano stentate ed estranee.
Usavo gli organi vocali in modo goffo e insicuro, e la mia dizione risultava curiosamente
ampollosa, quasi che il mio inglese libresco fosse il frutto di un laborioso studio. La
pronunzia suonava barbaramente estranea, mentre l'idioma mostrava nel contempo residui di
curiosi arcaismi ed espressioni dal contenuto totalmente incomprensibile.
Tra queste ultime, ve n'era una in particolare che,
dopo venti anni, il più giovane dei medici ricordava ancora in modo vivido e
terrificante.
In effetti, in quel periodo, dapprima in Inghilterra
e poi negli Stati Uniti, quella bizzarra espressione entrò nel linguaggio corrente e,
malgrado la sua considerevole complessità e l'inconfutabile novità, essa riproduceva in
ogni minimo particolare il linguaggio sconcertante di cui nel 1908 si serviva lo strano
paziente di Arkham.
Recuperai immediatamente la forza fisica, anche se,
curiosamente, mi fu necessaria una notevole opera di rieducazione nell'uso delle mani,
delle gambe e dell'apparato corporeo in generale. Per questo, e per i problemi connessi
alla perdita della memoria, fui sottoposto per un certo periodo a un'accurata sorveglianza
da parte dei medici.
Allorchè mi accorsi che i tentativi di
nascondere l'amnesia erano falliti, riconobbi apertamente di esserne affetto, e presi a
mostrarmi avido di appropriarmi di ogni sorta di informazioni. Di fatto parve ai medici
che io avessi perduto qualsiasi interesse per la mia vera personalità, nel momento in cui
avevo scoperto che l'amnesia veniva considerata un fatto del tutto naturale.
Essi notarono che i miei sforzi principali erano
orientati verso l'approfondimento di determinati punti della storia, della scienza,
dell'arte, del linguaggio e del folklore (alcuni dei quali erano terribilmente astrusi,
laddove altri apparivano di una semplicità puerile) che tuttavia in molti casi
rimanevano, assai curiosamente, al di fuori della mia conoscenza.
Ma, contemporaneamente, notarono la mia inspiegabile
padronanza di numerose cognizioni pressochè ignote: una padronanza che propendevo più a
celare che a esibire. Mi capitava inavvertitamente di far riferimento con sicurezza
casuale ad avvenimenti specifici, risalenti a epoche oscure, fuori dell'area della storia
riconosciuta. E, quando mi avvedevo dello stupore che i miei riferimenti provocavano,
cercavo di farli apparire come motti scherzosi. Quanto al futuro poi, ne parlavo in un
modo tale che, due o tre volte, fui causa di veri e propri spaventi.
Ben presto, quegli sprazzi inquietanti cessarono,
anche se alcuni osservatori ne attribuirono la scomparsa più a una furtiva prudenza da
parte mia, che non all'esaurimento di quella strana conoscenza che stava loro a monte.
Apparivo infatti pervaso da un'anomala avidità di assimilare la lingua, i costumi, e le
prospettive dell'epoca nella quale mi trovavo, quasi fossi uno studioso proveniente da una
lontana terra straniera.
Non appena mi fu consentito, presi a frequentare la
biblioteca a qualunque ora; e, di lì a poco, cominciai a progettare gli strani viaggi e i
corsi speciali presso le università americane ed europee, che negli anni seguenti
avrebbero suscitato tanti commenti.
Non ebbi mai a soffrire per la mancanza di contatti
con persone erudite, perchè il mio caso aveva destato un certo interesse tra gli
psicologi dell'epoca. Fui oggetto di conferenze in quanto tipico esempio di doppia
personalità, quantunque, di tanto in tanto, sconcertassi i conferenzieri con bizzarri
sintomi o con una traccia, argutamente velata, di strana ironia.
Tuttavia, di cordialità autentica ne ricevetti ben
poca. Qualcosa nel mio aspetto e nel mio modo di esprimermi suscitava vaghi timori e una
certa ostilità in tutti coloro che avevo modo di conoscere, quasi fossi stato un essere
infinitamente lontano da tutto ciò che era normale e sano. L'idea di un nero orrore
nascosto legato ad abissi incalcolabili, e il senso di una sorta di distanza, erano
curiosamente diffusi e saldi.
La mia stessa famiglia non fece eccezione. Dal
momento del mio strano risveglio, mia moglie aveva preso a guardarmi con estremo orrore e
ripugnanza, giurando che ero un perfetto estraneo, usurpatore del corpo di suo marito. Nel
1910 ottenne il divorzio, e non acconsentì mai più a rivedermi, neanche quando, nel
1913, fui tornato alla normalità. I suoi sentimenti furono condivisi dal mio figlio
maggiore e dalla mia figlia minore, nessuno dei quali ho mai più rivisto.
Soltanto il mio secondogenito, Wingate, parve capace
di vincere il terrore e la repulsione che il mio mutamento aveva destato. Di fatto anche
lui vedeva in me un estraneo ma, benchè avesse soltanto otto anni, si aggrappò
saldamente alla fede che in me sarebbe tornato il mio vero io. E, quando ciò avvenne, lui
mi rintracciò e il tribunale lo affidò a me. Negli anni seguenti mi aiutò negli studi
verso i quali mi ero indirizzato, e oggi, a trentacinque anni, è professore di Psicologia
presso la Miskatonic University.
Ad ogni modo, non mi stupisco per l'orrore che
suscitai, giacchè, indubbiamente, i pensieri, la voce e le espressioni facciali
dell'essere che si svegliò quel 15 maggio del 1908, non appartenevano a Nathaniel Wingate
Peaslee.
Non mi soffermerò a lungo nel narrarvi in che modo
si svolse la mia vita negli anni tra il 1908 e il 1913; i lettori potranno facilmente
coglierne gli aspetti essenziali consultando (come io stesso ebbi a fare abbondantemente)
gli archivi dei giornali arretrati e delle riviste scientifiche.
Mi fu consentito di disporre del mio
patrimonio, che presi a spendere lentamente e avvedutamente in viaggi e studi presso
svariati centri di apprendimento. I miei viaggi furono, tuttavia, estremamente singolari,
dato che contemplavano lunghe visite in luoghi remoti e desolati.
Nel 1909 trascorsi un mese sull'Himalaya, e nel 1911
grande interesse fu destato da un viaggio che compii negli sconosciuti deserti dell'Arabia
servendomi di cammelli. Cosa accadde durante quei viaggi, non sono mai riuscito a saperlo.
Nell'estate del 1912, noleggiai una nave e salpai
alla volta dell'Artico, diretto a Nord dello Spitzbergen; ma, dopo, mostrai segni di
delusione.
Successivamente, quello stesso anno, trascorsi alcune
settimane in solitudine oltre i limiti di esplorazioni da me già effettuate in precedenza
o successivamente, tra i vasti sistemi di caverne calcaree della Virginia occidentale:
labirinti tenebrosi, così complicati, che sarebbe stato impensabile tentare di
ripercorrere a ritroso i miei passi.
I miei soggiorni presso le università furono
caratterizzati da una rapidità di assimilazione del tutto anomala, come se la mia seconda
personalità fosse dotata di un'intelligenza immensamente superiore alla mia. Ho inoltre
scoperto che i miei ritmi di lettura e di studio solitario, furono fenomenali. Riuscivo ad
approfondire nei dettagli il contenuto di un testo, grazie a una semplice occhiata
lanciata sfogliando le pagine: e la mia abilità di interpretare fulmineamente figure
complesse era davvero sconcertante.
Talvolta apparvero degli articoli piuttosto
spiacevoli sul mio potere di influenzare i pensieri e le azioni altrui, malgrado i miei
sforzi di ridurre al minimo lo sfoggio di questa mia facoltà.
Altri articoli sgradevoli riguardarono la mia
frequentazione di capi di gruppi di occultisti, e di studiosi sospettati di connivenze con
innominabili bande di ripugnanti gerofanti dei tempi remoti. Queste voci, quantunque non
fossero risultate fondate all'epoca, furono indubbiamente fomentate dal carattere ben noto
delle mie lettere, visto che la consultazione di libri rari presso le biblioteche non può
certo avvenire in segreto.
Esiste la prova tangibile - sotto forma di note
marginali - che esaminai accuratamente testi come i Cultes des Goules del Conte d'Erlette,
il De Verrnis Mysteriis, il Unaussprechlichen Kulten di von Junzt, i frammenti residui
dell'enigmatico Libro di Eibon, e il terrificante Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul
Alhazred. Ma è anche vero che, ai tempi del mio misterioso mutamento, si affermò una
nuova, perversa ondata di culti nefandi.
Nell'estate del 1913 cominciai a manifestare segni di
noia e il mio interesse prese a scemare: accennai così a diversi colleghi che
probabilmente di lì a poco si sarebbe verificato un mutamento dentro di me.
I miei discorsi lasciavano intendere che stessero
riaffiorando i ricordi della mia vita passata, ma buona parte dei miei interlocutori mi
giudicarono insincero, giacchè tutti i ricordi a cui alludevo erano casuali, e tali che
avrei potuto trarli da vecchi documenti privati.
Verso la metà di agosto feci ritorno ad Arkham e
riaprii la mia casa di Crane Street, rimasta chiusa molto a lungo. Vi installai un
congegno di aspetto assai curioso, costruito pezzo per pezzo da differenti fabbricanti di
apparecchiature scientifiche d'Europa e d'America, e accuratamente escluso dalla vista di
chiunque fosse stato in grado di analizzarlo.
Coloro che lo videro (un operaio, una domestica, e la
nuova governante) affermano che si trattasse di uno strano miscuglio di barre, ruote e
specchi, alto non più di sessanta cm, largo trenta, e profondo altrettanto. Lo specchio
centrale era circolare e convesso. Tutto ciò è confermato dai fabbricanti delle diverse
parti, come può essere facilmente dimostrato.
La sera di venerdì, 26 settembre, lasciai libere la
governante e la cameriera fino al mezzogiorno dell'indomani. Nella casa le luci rimasero
accese fino a tardi, e un uomo magro, bruno, con insolite sembianze da straniero, giunse
in automobile.
Era circa l'una del mattino quando le luci furono
viste accese per l'ultima volta. Alle due e un quarto, un poliziotto osservò che il luogo
era buio, ma la vettura dello straniero sostava ancora lungo il marciapiede. Alle quattro,
l'auto se n'era certamente andata.
Erano le sei quando una voce esitante e straniera
chiese per telefono al dottor Wilson di recarsi a casa mia per destarmi da uno strano
svenimento. Si stabilì in seguito che la telefonata (interurbana) proveniva da una cabina
pubblica sita nella stazione nord di Boston, ma non fu mai rinvenuta alcuna traccia del
magro forestiero.
Quando il medico giunse a casa mia, mi trovò in
soggiorno, privo di sensi, su una poltrona alla quale era stato accostato un tavolo. Sul
piano levigato si notavano dei graffi, dai quali si intuiva che vi fosse stato poggiato un
oggetto piuttosto pesante. Il misterioso aggeggio però era sparito, e nessuno ne seppe
mai più nulla. Indubbiamente doveva essere stato portato via dallo smunto forestiero.
Il caminetto della biblioteca era colmo di cenere,
lasciata evidentemente dalla combustione di ogni frammento residuo di carta, su cui avevo
annotato i miei appunti dall'avvento dell'amnesia. Il dottor Wilson mi riscontrò una
respirazione anomala, ma dopo un'iniezione ipodermica, essa divenne più regolare.
Alle undici e un quarto del 27 settembre, fui scosso
da una violenta agitazione e il mio volto, che sino ad allora era stato una maschera,
cominciò a mostrare segni di vitalità. Il dottor Wilson notò che la mia espressione non
era quella che aveva caratterizzato la mia seconda personalità, ma era assai più simile
al mio aspetto normale. Verso le undici e mezza, mormorai delle curiosissime sillabe, che
apparivano aliene rispetto a qualsiasi linguaggio umano. Inoltre sembrava che lottassi
contro qualcosa. Poi, appena dopo mezzogiorno, quando la governante e la domestica erano
già tornate, cominciai a mormorare in inglese.
"...degli economisti ortodossi di quel periodo,
Jevons rappresenta la tendenza dominante verso la correlazione scientifica. Il suo
tentativo di congiungere il ciclo commerciale di prosperità e depressione con il ciclo
fisso delle macchie solari costituisce forse l'apice di..."
Nathaniel Wingate Peaslee era tornato; uno spirito
per il quale il tempo era ancora il giovedì mattina del 1908, con gli studenti di
economia che attenti alzavano lo sguardo verso la cattedra logora posta sulla pedana.
La reimmissione nella
vita normale fu un processo difficile e doloroso. La perdita di oltre cinque anni crea
più complicazioni di quanto si possa immaginare, e nel mio caso vi erano innumerevoli
cose da sistemare.
Quanto appresi in merito al mio comportamento dal
1908 in poi, mi stupì e mi turbò, ma mi sforzai di affrontare la faccenda il più
filosoficamente possibile. Alla fine, riottenuto l'affidamento del mio secondo genito,
Wingate, mi stabilii con lui nella mia casa di Crane Street, e cercai di riprendere
l'insegnamento, visto che mi era stata generosamente riofferta la cattedra presso il
College.
Ripresi così a lavorare dal mese di febbraio del
1914, e continuai per un anno. Allora mi resi conto dei danni che avevo subìto in seguito
alla mia esperienza. Nonostante fossi perfettamente sano - o almeno lo speravo - e la mia
personalità originaria, fosse del tutto integra, avevo perduto l'energia nervosa dei
vecchi tempi. Ero continuamente tormentato da sogni confusi e strane idee e, quando lo
scoppio della Guerra Mondiale rivolse la mia attenzione verso la storia, mi ritrovai a
rimuginare su epoche e avvenimenti del genere più strano.
La mia concezione del tempo - la capacità di
distinguere tra successione e simultaneità - era misteriosamente stravolta; cosicchè
concepivo nozioni chimeriche sulla possibilità di vivere in un'unica epoca e nel contempo
abbracciare con la mente l'eternità, e conoscere in tal modo le epoche passate e quelle
future.
La guerra suscitò in me delle strane impressioni; mi
pareva di ricordarne le remote conseguenze, come se già ne conoscessi lo svolgimento e
potessi guardare indietro a essa alla luce delle informazioni future.
Vivevo questi quasi-ricordi penosamente, e con la
sensazione che una barriera psicologica artificiale si ergesse contro di loro.
Quando, con circospetta cautela, accennai agli altri
di queste mie impressioni, ricevetti svariate reazioni. Qualcuno mi guardò con notevole
disagio, ma gli esperti matematici parlarono di nuovi sviluppi nelle teorie della
relatività (allora discusse esclusivamente nei circoli di studiosi) destinate più tardi
a diventare tanto famose. Il dottor Albert Einstein, mi dissero, stava riducendo
rapidamente il tempo allo stato di una dimensione come le altre.
Ma, soggiogato dai sogni e dal turbamento, abbandonai
il lavoro regolare nel 1915. Talune delle mie sensazioni andavano assumendo una forma
piuttosto fastidiosa, radicando in me l'idea che l'amnesia avesse provocato una sorta di
scambio sacrilego: che la seconda personalità fosse stata in realtà una forza impostami
da regioni sconosciute, e che la mia vera personalità fosse stata vittima di una
sostituzione.
Per questo fui spinto verso meditazioni confuse e
terribili, chiedendomi dove fosse finito il mio vero io durante gli anni in cui un altro
si era impossessato del mio corpo. Le misteriose cognizioni e la strana condotta di chi si
era servito del mio corpo, mi preoccuparono ancor più quando appresi ulteriori
particolari dalle persone, dai giornali e dalle riviste.
E quelle stranezze che avevano sconcertato gli altri,
sembravano armonizzarsi terribilmente con il retaggio di un'orrida conoscenza che mi
avvelenava fin dentro il più profondo del mio subconscio. Mi lanciai allora nella ricerca
febbrile di ogni più piccola notizia che riguardasse gli studi e i viaggi che l'altro
aveva compiuto in quegli anni di buio.
Ma la mia inquietudine non era soltanto di carattere
semiastratto: c'erano i sogni, sempre più vividi e concreti. Consapevole della reazione
che essi suscitavano negli altri, raramente ne feci menzione a estranei, limitandomi a
parlarne con mio figlio e con qualche psicologo di fiducia. Infine intrapresi uno studio
scientifico di altri casi, al fine di stabilire se quel genere di visioni fossero tipiche
o al contrario atipiche tra le vittime dell'amnesia.
Con l'ausilio di psicologi, storici, antropologi e
psichiatri di vasta esperienza, e grazie a studi che compresero tutti i casi documentati
di sdoppiamento della personalità, a partire dai tempi in cui conoscevano ampia
diffusione le leggende sulla possessione demoniaca, fino agli odierni, realistici
risultati medici, ottenni dei risultati che però, sulle prime, più che consolarmi mi
preoccuparono ulteriormente.
Ben presto, infatti, rilevai che i miei sogni non
trovavano alcun riscontro tra l'enorme massa di casi riconosciuti di amnesia. Esisteva
tuttavia, un'esigua minoranza di casi che per anni mi impressionarono e mi sconcertarono
per il parallelismo con la mia personale esperienza. Alcuni erano frammenti di antico
folklore, altri invece erano casi clinici che figuravano tra gli annali della medicina;
uno o due erano aneddoti misteriosamente celati nelle storie correnti.
Fu chiaro quindi che, se la mia particolare affezione
era prodigiosamente rara, se ne erano però registrati degli esempi a lunghi intervalli di
tempo, fin dall'inizio della storia dell'uomo. In alcuni secoli si erano verificati uno,
due o tre casi, in altri nessuno, o comunque non era rimasta alcuna documentazione.
Un elemento essenziale caratterizzava tutti i casi:
un individuo dotato di grande capacità di riflessione, veniva ghermito misteriosamente da
una seconda vita e, per un lasso di tempo più o meno lungo, conduceva un'esistenza
totalmente diversa, caratterizzata inizialmente da una goffaggine nella voce e nei
movimenti del corpo e, successivamente, dalla tendenza all'acquisizione globale di
cognizioni scientifiche, storiche, artistiche ed antropologiche. Un'acquisizione condotta
con zelo febbrile e una capacità di assimilazione del tutto fuori dalla norma. Si
verificava poi improvvisamente il ritorno alla coscienza normale, tormentata però a
intervalli da confusi sogni indefinibili, rievocanti frammenti di ricordi orribili, e
accuratamente cancellati.
E la stretta somiglianza di quegli incubi con i miei
(persino nei minimi dettagli) non mi lasciò alcun dubbio sulla loro natura
significativamente tipica. Uno o due casi possedevano in più una vaga familiarità
blasfema, quasi che ne fossi già venuto a conoscenza prima, attraverso un canale cosmico
troppo morboso e terribile da contemplare. In tre casi era inoltre esplicitamente
menzionato un congegno di natura sconosciuta, simile a quello che avevo avuto in casa
prima del secondo mutamento.
Un altro elemento che mi turbò durante la mia
indagine fu rappresentato dal fatto che, nella maggioranza dei casi caratterizzati dalle
tipiche visioni fugaci degli incubi, si trattava di individui colpiti da un'amnesia non
ben definita.
E tali persone erano perlopiù dotate di un potere
intellettivo mediocre, o al di sotto della media; alcune di esse erano così primitive da
rendere impensabile l'ipotesi di considerarle dei veicoli di apprendimento anormale e di
acquisizioni mentali soprannaturali. Per un istante divampava in essi una forza aliena,
poi un crollo improvviso li scaraventava all'indietro, lasciando loro un fioco, fuggevole
ricordo di orrori disumani.
Negli ultimi cinquant'anni si erano verificati almeno
tre di questi casi, uno soltanto quindici anni prima. Qualcosa forse vagava ciecamente
attraverso il tempo, dopo essersi sollevato da insospettati abissi della natura? O forse
quei casi oscuri erano esperimenti mostruosi e sinistri di un genere e di una paternità
completamente al di fuori di ogni sano modo di pensare?
Tali furono solo alcune delle vaghe meditazioni delle
mie ore più fiacche: fantasie alimentate dai miti scoperti attraverso i miei studi.
Non dubitavo difatti in alcun modo che certe
persistenti leggende di immemore antichità, palesemente ignorate dalle vittime e dai
medici che si erano occupati dei più recenti casi di amnesia, non fossero altro che
l'impressionante e terribile elaborazione di collassi mnemonici simili al mio.
Quanto alla natura dei sogni e delle sensazioni che
crescevano dentro di me in maniera così vistosa, ancor oggi ho paura a parlarne. Recavano
il sapore della follia, e talvolta credevo di stare veramente uscendo di senno. Esisteva
un tipo speciale di allucinazioni che affliggevano coloro che avevano sofferto di amnesia?
Si poteva supporre che gli sforzi del subconscio tesi a colmare un vuoto angustiante con
degli pseudoricordi, probabilmente avessero dato origine a misteriose divagazioni
fantastiche.
Tale era - sebbene alla fine mi apparisse più
plausibile una teoria che prevedeva l'influsso da parte di una vera e propria mitologia
alternativa - l'opinione di molti degli alienisti che mi aiutarono durante la mia ricerca
di casi analoghi, condividendo le mie perplessità di fronte alle rassomiglianze talvolta
riscontrate.
Essi non definirono quello stato come pazzia pura,
bensì lo classificavano tra i disturbi neuropatici. La mia tendenza a delineare e
analizzare la mia condizione, anzichè cercare di liberarmene o di dimenticarla, fu da
essi approvata con entusiasmo, in quanto rispondente ai migliori principi psicologici.
Apprezzai particolarmente i consigli dei medici che si erano occupati di me nel periodo in
cui ero stato posseduto dall'altra personalità.
I miei primi disturbi non furono affatto di carattere
visivo, ma riguardarono le questioni più astratte a cui ho già accennato, e furono
accompagnati da un senso di orrore profondo e inesplicabile verso me stesso. Crebbe in me
uno strano timore nel guardare le mie stesse sembianze, quasi che i miei occhi temessero
di scoprirvi qualcosa di totalmente alieno e inconcepibilmente orrido.
Ma quando poi, sbirciando, riconoscevo le mie
consuete sembianze umane in sobri abiti blu o grigi, provavo sempre uno strano sollievo,
anche se per giungervi dovevo superare un terrore infinito. Evitavo così gli specchi nei
limiti del possibile, e mi facevo sempre radere dal barbiere.
Occorse parecchio tempo perchè collegassi alcune di
queste dolorose sensazioni alle fugaci impressioni visive che cominciarono a prodursi.
E la prima correlazione del genere, scaturì dalla
misteriosa sensazione che la mia memoria fosse sottoposta a un controllo esterno e
artificiale.
Avvertii che gli sprazzi visivi che provavo
possedevano un significato profondo e terribile e una spaventosa connessione con la mia
persona, ma una tenace influenza mi impediva di cogliere quel significato e quella
connessione. Quindi sopravvenne lo strano atteggiamento nei confronti dell'elemento tempo,
e con esso gli sforzi disperati di collocare le frammentarie visioni oniriche in uno
schema spazio-temporale.
Inizialmente le visioni, più che orribili, erano
semplicemente bizzarre. Mi sembrava di trovarmi in una camera enorme, con il soffitto a
volta, i cui imponenti costoni di pietra si perdevano quasi nelle ombre sovrastanti. In
qualunque tempo o luogo si svolgesse quella scena, si notava che il principio dell'arco
era ben noto e largamente adottato, così come dagli antichi romani.
Vi erano finestre rotonde di dimensioni colossali,
alte porte ad arco e piedistalli o tavoli, alti ciascuno quanto una stanza di altezza
normale.
Le pareti erano tappezzate da grandi scaffali di
legno scuro, su cui erano allineati dei volumi di dimensioni immense, con strani
geroglifici sul dorso.
Sulle pareti libere si notavano curiose indicazioni,
tutte di forma curvilinea e matematica e vi erano iscrizioni cesellate nei medesimi
caratteri che figuravano sui giganteschi libri. La scura costruzione di granito era di un
mostruoso carattere megalitico, con file di blocchi dalla parte superiore convessa, che si
incastravano perfettamente in quelli sovrastanti con il fondo concavo.
Non vi erano sedie, ma le superfici dei vasti
piedistalli erano cosparse di libri, fogli di carta, e dell'occorrente per scrivere (o
così almeno pareva): erano recipienti di metallo purpureo con strane figure e bacchette
dalle punte macchiate. Per quanto fossero alti, riuscivo a tratti a vedere dall'alto i
piedistalli. Su alcuni di essi vi erano grossi globi di cristallo luminoso, che fungevano
da lampade, e inspiegabili congegni meccanici costituiti da tubi vitrei a barre
metalliche.
Le finestre erano fornite di vetri e di grate formate
da sbarre dall'aspetto massiccio. Pur non osando accostarmi a esse per sbirciare fuori,
riuscivo comunque a scorgere da dov'ero le cime ondeggianti di una singolare vegetazione
simile alla felce. Il pavimento era fatto di solidi lastroni di pietra di forma
ottagonale, e non si scorgevano tappeti o arazzi.
In seguito, ebbi delle visioni nelle quali percorrevo
ciclopici corridoi di pietra, e andavo su e giù per giganteschi piani inclinati dello
stesso enorme stile architettonico. Non esistevano scale, ne passaggi più stretti di
dieci metri. Alcune delle strutture attraverso le quali ondeggiavo, parevano innalzarsi
verso il cielo per chilometri.
Al di sotto si scorgevano molteplici livelli di volte
oscure e botole mai aperte, sigillate da fasce metalliche, che parevano suggerire pericoli
di un carattere straordinario.
Mi sembrava di essere prigioniero, e l'orrore
promanava da tutto quel che vedevo. Intuivo che i beffardi geroglifici curvilinei sui muri
mi avrebbero distrutto l'anima con il loro messaggio, se non fossi stato protetto da una
misteriosa ignoranza.
E ancora, i miei sogni contenevano visioni di
paesaggi, visti dalle grandi finestre rotonde e dai titanici tetti piatti, con i loro
curiosi giardini, le vaste aree desolate e un alto parapetto smerlato al quale si accedeva
dal più elevato dei piani inclinati.
Vi erano file pressochè infinite di palazzi
giganteschi, ciascuno con il suo giardino, allineati lungo strade lastricate di
un'ampiezza certamente non inferiore ai duecento piedi. Taluni parevano così vasti che
dovevano avere una facciata di parecchie migliaia di piedi, mentre altri si ergevano ad
altezze montagnose nei cieli grigi e fumosi.
Parevano costruiti principalmente in pietra o
calcestruzzo, e la maggioranza di essi denotava lo stile architettonico curiosamente
curvilineo che avevo notato dell'edificio entro il quale ero prigioniero. I tetti erano
piatti e ricoperti da giardini, e avevano parapetti merlati. Talvolta vi erano terrazze e
livelli sovrapposti, e ampi spazi liberi tra i giardini. Le grandi strade mostravano segni
di movimento ma, nelle prime visioni, non riuscii a verificare questa sensazione in
dettaglio.
In alcuni luoghi scorsi enormi e scure torri
cilindriche che si arrampicavano ben oltre le altre costruzioni. Apparivano di carattere
assolutamente unico e mostravano segni di prodigiosa vetustà e sfacelo. Erano costruite
con un tipo assai curioso di basalto, tagliato in blocchi quadrati, ed erano lievemente
affusolate verso la cima arrotondata. Ad eccezione delle porte enormi, non vi era traccia
visibile di finestre o qualsiasi altra apertura. Notai anche alcuni edifici più bassi -
tutti sgretolati da eoni di intemperie - simili, nella struttura architettonica, a quelle
scure torri cilindriche. Attorno a quelle file aberranti di costruzioni quadrate,
aleggiava un'inesplicabile aura di minaccia e di densa paura, pari a quella generata dalle
botole sigillate.
I giardini onnipresenti erano quasi terrificanti
nella loro singolarità, con forme bizzarre e insolite di vegetazione ricurva su ampi
sentieri costeggiati da monoliti scolpiti in modo assai curioso. Predominavano cespugli
simili a felci, di vastità abnorme: alcuni verdi, altri di un mortale pallore fangoso.
Tra essi sorgevano grandi cose spettrali, simili a
fossati vegetali, i cui tronchi, che sembravano di bambù, torreggiavano fino ad altezze
vertiginose. Vi erano poi forme frondose, simili a favolose cicadee, grotteschi arbusti di
colore verde cupo e alberi dall'aspetto di conifere.
I fiori piccoli, incolori e irriconoscibili,
crescevano tra le aiuole e tra le altre macchie verdi.
In qualcuno dei giardini posti sulle terrazze e in
cima ai tetti, germogliavano fiori più grossi, dai colori vividi e dai profili quasi
sgradevoli, il cui aspetto suggeriva che fossero coltivati artificialmente. Funghi di
dimensioni, forme e colori inconcepibili, punteggiavano il quadro, in esemplari che
rivelavano un'ignota ma ben consolidata tradizione di orticoltura. Il terreno dei giardini
più spaziosi suggeriva la tendenza a conservare le irregolarità della natura, ma sui
tetti era manifesta una maggiore selettività e numerose testimonianze dell'arte di taglio
ornamentale.
Il cielo era quasi sempre umido e nuvoloso, e
talvolta mi parve di assistere a piogge torrenziali. Tuttavia, ogni anno, balenavano
sprazzi di sole - che pareva di dimensioni enormi - e si intravedeva la luna, le cui
macchie recavano qualcosa di diverso dal normale, che però non riuscii mai a riconoscere.
Quando - cosa assai rara - il cielo notturno appariva completamente sereno, osservavo
costellazioni pressochè irriconoscibili. I contorni noti erano talvolta approssimativi,
ma raramente si ripetevano; dalla posizione dei pochi gruppi che riuscii a identificare,
dedussi di trovarmi nell'emisfero australe della Terra, presso il Tropico del Capricorno.
L'orizzonte lontano era sempre indistinto e denso di vapori, ma riuscii a scorgere, fuori
della città, vaste giungle di sconosciute pseudofelci, Calamitacee, Lepidodendri e
Sigillarie, il cui fogliame fantastico ondeggiava beffardo tra i vapori vaganti. Di tanto
in tanto, accenni di movimento percorrevano il cielo, ma le mie prime visioni non
riuscirono a identificarli.
Verso l'autunno del 1914 cominciai a fare sogni,
piuttosto rari, nei quali fluttuavo sopra la città e attraverso le regioni circostanti.
Vedevo strade interminabili snodarsi tra foreste dalla spaventosa vegetazione, con alberi
dai tronchi chiazzati, increspati e striati, e oltrepassai altre città, strane quanto
quella, che insistentemente mi tormentava.
Vidi costruzioni mostruose di pietra nera o
iridescente in radure e spiazzi dove regnava eterno il crepuscolo, e attraversai lunghe
strade rialzate al di sopra di acquitrini, tanto scuri da scorgere ben poco della loro
umida e torreggiante vegetazione.
Una volta vidi un'area estesa per innumerevoli
miglia, cosparsa da ruderi di basalto logorati dal tempo, la cui architettura richiamava
alla mente quella delle torri prive di finestre e dalle tonde sommità, della città che
mi perseguitava.
E una volta vidi il mare: una illimitata estensione,
densa di vapori, al di là di colossali banchine di pietra di una città enorme, piena di
cupole e archi.
Come
ho già detto, quelle visioni selvagge non assunsero immediatamente il loro carattere
terrificante. Certamente è capitato a molte persone di sognare cose intrinsecamente più
strane, miscugli di frammenti di vita quotidiana, di immagini, di letture, combinati nelle
forme di una narrazione fantastica dagli incontrollabili capricci del sonno.
Per un certo tempo accettai quelle visioni come un
fatto naturale, sebbene fossi consapevole di non essere mai stato un sognatore
stravagante. Mi convinsi che molte di quelle oscure anomalie fossero generate da fonti
banali, troppo numerose da distinguere; mentre altre sembravano riflettere una comune
conoscenza scolastica della vegetazione e delle altre condizioni di vita del mondo
primitivo di centocinquanta milioni di anni fa: il mondo durante il Permiano o il
Triassico.
Tuttavia, col trascorrere dei mesi, l'elemento
orrorifico si affermò con intensità sempre crescente. Ciò accadde quando la mia mente
prese a porli in relazione alle inquietudini sempre più pressanti: la sensazione di un
controllo mnemonico, le curiose impressioni in merito al tempo, il senso di un odioso
scambio di personalità dal 1908 al 1913, e quindi, molto più tardi, l'inesplicabile
disgusto verso la mia persona.
Quando alcuni specifici dettagli fecero ingresso nei
miei sogni, questi divennero mille volte più orribili finché, nell'ottobre del 1915,
sentii che era necessario fare qualcosa. Fu allora che mi dedicai allo studio intensivo
degli altri casi di amnesia e delle visioni, certo che in tal modo avrei forse potuto
oggettivizzare le mie inquietudini e liberarmi dalla loro morsa emozionale.
Tuttavia, come ho già accennato, all'inizio il
risultato fu quasi esattamente l'opposto. Fui profondamente turbato dalla constatazione
che i miei sogni si erano ripetuti in altri soggetti in modo così somigliante; tanto più
considerando che alcuni dei racconti erano troppo datati per presumere una conoscenza
geologica - da cui una certa cognizione dei paesaggi primitivi - da parte dei soggetti
interessati.
E ancor più rilevante era il fatto che molti di quei
resoconti fossero spiegazioni assai orribili e dettagliate connesse alle visioni di grandi
edifici, giungle e altre cose. Le visioni e le impressioni narrate erano già di per sé
sconvolgenti, ma quel che veniva accennato o asserito da alcuni dei sognatori, sapeva di
follia e di empietà. E, quel che fu peggio, la mia pseudomemoria venne indotta a
partorire sogni ancor più selvaggi e presaghi di future rivelazioni. Malgrado ciò, la
maggioranza dei medici giudicò la mia impresa, nel complesso, opportuna.
Studiai sistematicamente la psicologia e, stimolato
da ciò, mio figlio Wingate mi imitò, giungendo alla fine, grazie a tali studi,
all'attuale cattedra. Nel 1917 e nel 1918 seguii dei corsi speciali presso la Miskatonic
University. Nel frattempo, la mia analisi della documentazione medica, storica e
antropologica divenne infaticabile, comportando viaggi verso biblioteche lontane e, verso
la fine, persino la lettura dei terribili testi di conoscenze proibite ai quali la mia
seconda personalità si era interessata in maniera così frenetica.
Alcuni di questi erano proprio le stesse copie che
avevo consultato durante il mio status alterato, e fui enormemente turbato da certe
annotazioni marginali e apparenti correzioni dell'empio testo in una scrittura e un idioma
che in qualche modo apparivano stranamente disumane.
Queste annotazioni erano scritte perlopiù nelle
rispettive lingue dei vari libri, e pareva che il loro autore le conoscesse tutte con la
medesima, anche se ovviamente accademica, abilità. Tuttavia, una nota apposta agli
Unaussprechlichen Kulten di von Junzt, si differenziava in maniera allarmante.
Consisteva in certi geroglifici curvilinei tracciati
con lo stesso inchiostro adoperato per le correzioni in tedesco, ma non era riconducibile
ad alcun esemplare umano. E i geroglifici erano inequivocabilmente assai simili ai
caratteri che osservavo di continuo nei miei sogni, caratteri di cui mi sembrava talvolta
di conoscere il significato, o di essere sul punto di rammentarlo.
A completare la mia oscura confusione, molti
bibliotecari mi assicurarono che, in base alle precedenti consultazioni dei volumi in
questione e alle registrazioni a esse relative, tutte quelle annotazioni dovevano
assolutamente essere state apposte da me, nel periodo in cui ero stato posseduto dalla
seconda personalità. Ciò, malgrado il fatto che non conoscessi - e tuttora non conosca -
tre delle lingue comprese nei testi.
Combinando assieme le varie documentazioni antiche e
moderne, mediche e antropologiche, approdai a un miscuglio considerevole di mito e
allucinazione, la cui portata e ferocia mi lasciarono del tutto sbalordito. Una cosa
soltanto mi consolò: il fatto che i miti risalissero a un'esistenza tanto remota. Non
sapevo immaginare quale perduta conoscenza potesse aver immesso quelle immagini di
paesaggi dell'Era Paleozoica e Mesozoica in quelle favole primitive; eppure le immagini
esistevano. Quindi esisteva pure la base per la formazione di un medesimo tipo di
allucinazione.
Indubbiamente, i casi di amnesia avevano creato lo
schema mitico generale, ma poi, successivamente, gli sviluppi fantastici dei miti dovevano
aver influito sulle vittime dell'amnesia, e colorito i loro pseudoricordi. Io stesso avevo
letto e ascoltato tutti gli antichi racconti durante il mio collasso mnemonico: la mia
ricerca lo aveva ampiamente dimostrato. Non era dunque naturale che i sogni e le
sensazioni successive si fossero colorate e foggiate in virtù di quanto la memoria aveva
indefinibilmente conservato del mio secondo status?
Alcuni miti mostravano connessioni significative con
altre oscure leggende del mondo preumano, specialmente i racconti indù contemplanti
stupefacenti abissi di tempo e appartenenti al complesso delle conoscenze dei moderni
teosofisti.
Il mito primitivo e l'allucinazione moderna si
fondevano nella loro pretesa che la razza umana fosse soltanto una - forse la minore
delle razze altamente evolute e dominanti apparse durante la lunga e ancora
largamente sconosciuta vita del nostro pianeta. Quei racconti implicavano che esseri di
forma inconcepibile avessero innalzato torri verso il cielo e indagato nei segreti della
natura, prima ancora che il primo antenato anfibio dell'uomo fosse emerso strisciando dal
mare bollente, trecento milioni di anni fa.
Alcuni di tali esseri erano discesi dalle stelle.
Pochi erano antichi quanto il cosmo; altri erano sorti rapidamente da semi terreni prima
che i semi del nostro ciclo vitale precedessero la nostra stessa nascita.
Si parlava di lassi di migliaia di milioni di anni, e
di sistemi di altre galassie e universi, non esistendo la dimensione temporale nella
nostra umana accezione.
Ma buona parte dei racconti e delle impressioni
riguardavano una razza relativamente più tarda, di forma strana e complessa, dissimile da
qualsiasi forma di vita nota alla scienza, vissuta fino a cinquanta milioni di anni prima
dell'avvento dell'uomo. E questa razza si diceva fosse stata la più grande di tutte, in
quanto l'unica ad essersi impadronita del segreto del tempo.
Essa aveva appreso tutte le cose che erano state
conosciute e che mai si sarebbero conosciute in futuro sulla Terra, grazie alla forza
delle loro menti più acute, atte a proiettarsi nel passato e nel futuro, persino
attraverso abissi di milioni di anni, per studiare in tal modo le cognizioni di ogni
epoca. Dalle conquiste compiute da quella razza, erano poi nate tutte le leggende di
profeti, comprese quelle della mitologia umana.
Nelle loro immense biblioteche vi erano quantità di
testi e illustrazioni relative a tutti i periodi della Terra: storie e descrizioni di ogni
specie esistita nel passato e che sarebbe esistita nel futuro, con documentazioni complete
della loro arte, delle loro realizzazioni, della loro lingua e psicologia.
Con tale conoscenza dell'eternità, la Grande Razza
scelse da ogni era e forma di vita i pensieri, l'arte e i processi che più adeguatamente
rappresentavano la loro natura e situazione. La cognizione del passato, ottenuta per mezzo
di una sorta di proiezione mentale al di fuori dei sensi conosciuti, era stata acquisita
con maggiore difficoltà rispetto a quella del futuro.
Nel secondo caso, l'impresa era stata più facile e
materiale. Con un idoneo supporto meccanico, una mente si proiettava avanti nel tempo,
percorrendo l'oscura via extrasensoriale fino ad accostarsi al periodo desiderato. Quindi,
dopo una serie di procedimenti preliminari, venivano carpiti gli elementi più
rappresentativi delle forme di vita più elaborate di quell'epoca. Il cervello di un
organismo veniva così penetrato, e dentro di esso si stabilivano le vibrazioni della
nuova mente, mentre la mente sostituita era sbalzata all'indietro nell'epoca di quella che
ne aveva preso il posto, rimanendo nel corpo del possessore di quest'ultima, finché non
si sarebbe verificato il processo inverso.
La mente proiettata nell'organismo del futuro, si
comportava quindi come l'esponente della razza del quale aveva assunto la forma esteriore,
assimilando il più rapidamente possibile tutto ciò che poteva essere appreso dell'epoca
scelta e la massa di tutte le sue nozioni e tecniche. Intanto, la mente rimossa e
proiettata nel corpo e nell'era della mente usurpatrice, veniva sorvegliata attentamente,
in modo da impedirle di recar danno al corpo che occupava, ed era privata di tutte le sue
cognizioni da esperti inquisitori. Spesso poteva essere interrogata nella sua lingua,
quando ricerche precedenti nel futuro avessero prodotto documentazioni di questa.
Se invece la mente apparteneva a un corpo la cui
lingua la Grande Razza non era in grado di riprodurre fisicamente, allora si ricorreva a
macchine ingegnose che consentivano di produrre il linguaggio straniero allo stesso modo
di uno strumento musicale.
I membri della Grande Razza erano immensi coni
rugosi, alti tre metri, con la testa e gli altri organi attaccati a membra estensibili
della grandezza di trenta centimetri, che partivano dalla sommità del corpo.
Parlavano agitando o sfregando le enormi zampe o
artigli attaccati alle estremità di due dei loro quattro arti, e camminavano mediante
l'espansione e la contrazione di uno strato viscoso saldato all'ampia base di tre metri.
Quando il risentimento e lo sbalordimento della mente
prigioniera erano svaniti, e quando - presumendo che provenisse da un corpo notevolmente
diverso da quello degli esponenti della Grande Razza - l'orrore per il suo inconsueto ma
transitorio aspetto si era dissolto, le veniva consentito di studiare il nuovo ambiente e
di provare il senso di stupore e di saggezza pressoché pari a quello vissuto dalla mente
usurpatrice.
Con appropriate precauzioni, e in cambio di adeguati
servigi, le veniva permesso di vagare per tutto il mondo abitabile in titaniche aeronavi o
in enormi veicoli a propulsione atomica, simili a barche, che attraversavano le grandi
strade; poteva inoltre far ricerche a piacimento nelle biblioteche contenenti le
documentazioni del passato e del futuro del pianeta.
Ciò riconciliava molte menti prigioniere con la loro
sorte; giacché tutte erano avide e, per esse, la rivelazione dei misteri nascosti della
Terra - capitoli chiusi di passati inconcepibili e di vortici vertiginosi di tempo futuro
comprendente gli anni posteriori alle loro epoche naturali - costituiva sempre, malgrado
gli orrori abissali spesso svelati, l'esperienza suprema della vita.
Talvolta, a queste menti prigioniere era consentito
di incontrarsi con altre menti usurpate dal futuro, affinché si scambiassero i loro
pensieri con la consapevolezza di vivere cento, o mille, o un milione di anni prima o dopo
la loro propria epoca. E tutte venivano sollecitate a scrivere abbondantemente nella
lingua della loro gente e della rispettiva era, destinando in seguito tali documenti ai
grandi archivi centrali.
Si deve aggiungere che vi era un tipo speciale di
menti prigioniere, i cui privilegi erano di gran lunga maggiori di quelli di cui godevano
le altre. Si trattava delle esiliate permanenti, destinate a morire, i cui corpi erano
stati catturati nel futuro da membri della Grande Razza dalla mente acuta, i quali,
trovatisi in pericolo di morte nel proprio tempo, avevano cercato di evitare l'estinzione
mentale.
Questi malinconici esili non furono comuni come si
potrebbe supporre, poiché la longevità della Grande Razza ridusse l'amore per la vita,
specialmente tra quelle menti superiori capaci di proiettarsi. Dai casi di proiezione
permanente delle menti più vecchie, scaturirono molti dei mutamenti duraturi di
personalità riscontrati nella storia posteriore, ivi compresi quelli verificatisi tra
esponenti della razza umana.
Quanto ai casi normali di esplorazione, una volta
appreso ciò che si desiderava del futuro, la mente usurpatrice costruiva
un'apparecchiatura simile a quella che aveva dato inizio alla sua fuga per invertire il
processo di proiezione. Cosicché essa rientrava nel suo corpo e nella sua epoca, mentre
la mente prigioniera tornava al corpo del futuro al quale giustamente apparteneva.
Questa reintegrazione era impossibile soltanto quando
uno dei due corpi moriva durante la sostituzione. In tali casi, naturalmente, la mente
esploratrice - similmente a quelle di coloro che erano sfuggiti alla morte - doveva vivere
fino alla morte nel corpo alieno del futuro; o altrimenti la mente prigioniera - così
come quelle esiliate permanenti - era costretta a finire i suoi giorni nelle sembianze e
nell'era della Grande Razza.
Questa sorte era meno orribile qualora la mente
prigioniera appartenesse anch'essa alla Grande Razza, circostanza questa non rara,
considerando che, in tutto l'arco della sua storia, quella razza si preoccupò
intensamente di conoscere il proprio futuro. Il numero delle personalità morenti -
esiliate in perpetuo - della Grande Razza, fu assai esiguo, soprattutto a causa delle
tremende punizioni inflitte in caso di sostituzioni di menti future della Grande Razza
compiute dai moribondi.
Attraverso la proiezione vennero stabiliti i termini
per infliggere le punizioni alle menti colpevoli nei loro nuovi corpi futuri, e talvolta
venivano effettuati nuovi scambi obbligati.
Furono scoperti e accuratamente rettificati casi
complicati di sostituzione di menti esploranti o già prigioniere di altre menti, in varie
regioni del passato. In ogni epoca, fin dalla scoperta della proiezione mentale, un
minuscolo ma ben noto elemento della popolazione fu costituito da menti della Grande Razza
appartenenti al passato, che vi si fermarono per periodi più o meno lunghi.
Quando una mente prigioniera di origine aliena veniva
reintrodotta nel suo corpo del futuro, essa veniva privata attraverso una complessa ipnosi
meccanica di tutto quanto aveva appreso nell'era della Grande Razza. Ciò rispondeva
all'esigenza di evitare le preoccupanti conseguenze connesse al trasferimento nel futuro
di considerevoli quantità del patrimonio cognitivo della Grande Razza.
I pochi esempi esistenti di trasmissione manifesta,
avevano causato grandi disastri, e ne sarebbero stati fonte in epoche future. E -
rivelavano gli antichi miti - fu soprattutto in seguito a due casi di questo genere, che
il genere umano aveva acquisito tutte le sue nozioni in merito alla Grande Razza.
Di tutto quanto era sopravvissuto fisicamente e
direttamente di quel mondo distante eoni, non restavano che rovine di grandi pietre in
luoghi lontani o inabissate nelle profondità marine, e alcune parti del testo dei
terrificanti Manoscritti Pnakotici.
Così, la mente che veniva reintegrata nella sua era,
conservava soltanto una visione debolissima e frammentaria di quel che le era accaduto dal
momento della cattura. Essa veniva privata di tutti i ricordi che era possibile sradicare:
in tal modo, nella stragrande maggioranza dei casi, non rimaneva che un vuoto ombreggiato
dai sogni esteso all'indietro, fino al tempo del primo scambio. Alcune menti rammentavano
più di altre, e l'associazione casuale di ricordi aveva di rado portato tracce del
passato proibito nelle età future.
Probabilmente non vi fu mai un tempo nel quale non
esistessero gruppi o Culti che serbassero segretamente tracce di quel genere. Nel
Necronomicon si accennava alla presenza di un tale Culto tra gli esseri umani, un culto
che talvolta aveva consentito alle menti di discendere gli eoni dai giorni della Grande
Razza.
E, intanto, la Grande Razza divenne pressoché
onnisciente e si dedicò al compito di attuare scambi con le menti di abitanti di altri
pianeti, e di esplorare così il loro passato e il loro futuro. Essa cercò al contempo di
penetrare negli anni passati e di indagare sull'origine di quella sfera nera nello spazio
distante - morta da eoni - da cui aveva avuto origine il suo patrimonio mentale, perché
la mente della Grande Razza era più antica della sua forma corporea.
Gli esseri di un più antico mondo morente, padroni
ormai dei segreti ultimi, avevano spinto innanzi il loro sguardo alla ricerca di un mondo
nuovo e di una specie nella quale avrebbero potuto vivere a lungo.
Avevano così inviato le loro menti in massa verso
quella razza futura a essi più congeniale: gli esseri di forma conica che popolarono il
nostro pianeta un miliardo di anni fa.
E così fu posta in essere la Grande Razza, mentre le
miriadi di menti rimandate indietro furono lasciate a morire nell'orrore delle forme più
strane. In seguito, la razza dovette affrontare nuovamente la morte, ma avrebbe potuto
continuare a vivere attraverso una nuova migrazione delle sue menti più elevate nei corpi
di altri esseri che avessero dinanzi a loro un tempo fisico più lungo.
Tale era lo sfondo frammisto di allucinazione e
leggenda, quando, intorno al 1920, le mie ricerche si articolarono in una forma coerente:
provai allora un lieve alleggerimento della tensione che, nelle fasi precedenti di studio,
era notevolmente cresciuta. In fondo, e malgrado le mie fantasie generate da cieche
emozioni, la maggioranza dei miei fenomeni non erano forse facilmente spiegabili? Un caso
fortuito poteva aver indotto la mia mente a rivolgersi allo studio dell'occulto durante
l'amnesia, il che mi aveva condotto alla lettura di leggende proibite e alla conoscenza di
membri di antichi culti di pessima fama. Tutto ciò evidentemente aveva fornito il
materiale per i sogni e le sensazioni disordinate succedute al ritorno della memoria.
Quanto alle annotazioni marginali nei geroglifici
onirici e nelle lingue a me ignote - ma la cui paternità mi era stata attribuita dai
bibliotecari - avrei potuto facilmente aver assimilato qualche elemento di quelle lingue
durante il mio secondo status, mentre i geroglifici erano stati indubbiamente coniati
dalla mia fantasia sulla base delle vecchie leggende, dopodiché li avevo trasportati nei
miei sogni. Tentai di verificare certi punti mediante delle conversazioni con noti capi di
Culti, ma non mi riuscì mai di stabilire le giuste connessioni.
A tratti, l'analogia di così tanti casi verificatisi
in epoche talmente distanti, continuava a turbarmi come in precedenza, ma d'altro canto
riflettei che l'eccitante folklore era indubbiamente più universale nel passato che non
nel presente.
Probabilmente, tutte le altre vittime di casi simili
al mio, possedevano una conoscenza vasta e approfondita dei racconti che io avevo appreso
esclusivamente nella mia seconda personalità. Quando tali vittime avevano perduto la
memoria, si erano identificate con le creature dei loro miti familiari - i favolosi
invasori che si credeva sostituissero le menti degli uomini - e si erano così lanciate in
ricerche per acquisire quelle cognizioni che credevano capaci di riportarle a un
immaginario passato non umano.
Quando poi riacquistavano la memoria, invertivano il
processo associativo e si immedesimavano nelle menti prigioniere anziché in quelle
usurpatrici. Da ciò sortivano i sogni e gli pseudoricordi che seguivano lo schema mitico
convenzionale.
Malgrado l'incoerenza esteriore di queste
spiegazioni, esse alla fine soppiantarono tutte le altre nella mia mente: specialmente a
causa della maggiore inconsistenza di tutte le teorie diverse. E, gradualmente, la mia
opinione venne condivisa da un numero ragguardevole di eminenti psicologi ed antropologi.
Più riflettevo, più i miei ragionamenti apparivano
convincenti; così, alla fine, ebbi a mia disposizione un baluardo realmente efficace
contro le visioni e le sensazioni che ancora mi assalivano. Supponiamo che di notte
vedessi strane cose? Ebbene, erano soltanto la conseguenza di ciò che avevo sentito o
letto. Supponiamo che fossi sopraffatto da curiose sensazioni di disgusto, da strane
visioni e da pseudoricordi? Anch'essi non erano altro che echi dei miti assimilati durante
la mia seconda vita. Nulla di ciò che potessi sognare o percepire poteva fornire un reale
significato.
Rinvigorito da questa mia filosofia, migliorai
notevolmente il mio equilibrio nervoso, nonostante le visioni - più che le impressioni
astratte - divenissero sempre più frequenti e pregne di particolari sconvolgenti. Nel
1922 mi sentii in grado di riprendere a lavorare regolarmente, e sfruttai praticamente le
mie nuove cognizioni accettando un incarico di lettore di psicologia presso l'università.
Già da diverso tempo avevano assegnato ad altri la
mia vecchia cattedra di Economia politica e, a parte ciò, i metodi didattici erano
sensibilmente cambiati dai miei giorni migliori. A quell'epoca mio figlio si accingeva a
seguire gli studi di specializzazione che lo avrebbero condotto all'attuale cattedra,
così lavorammo assieme un bel po'.
Tuttavia continuai a registrare accuratamente i sogni outr che mi affollavano la
mente, così vividi e fitti. Una tale registrazione, giudicai, costituiva un documento
psicologico di autentico valore. degli sprazzi visivi apparivano ancora odiosamente come
ricordi, benché combattessi contro questa impressione con un certo successo.
Nello scrivere trattai le visioni fantasmagoriche
come cose realmente viste; ma tutte le altre volte le scacciai considerandole impalpabili
illusioni notturne. Durante le comuni conversazioni non avevo mai fatto riferimento a tali
questioni; eppure, certe allusioni, filtrate come capita sovente con cose del genere,
avevano suscitato le voci più disparate sullo stato della mia salute mentale. E
divertente rilevare come queste voci fossero circoscritte all'ambito dei profani, senza
coinvolgere neanche una sola persona nella cerchia dei medici e degli psicologi.
Mi limiterò qui a citare solo qualcosa delle visioni
successive al 1914, in quanto resoconti e documentazioni più complete sono a disposizione
di coloro che volessero studiarle seriamente. E evidente che, col tempo, le curiose
inibizioni in un certo senso svanissero, aumentando considerevolmente la portata delle mie
visioni. Tuttavia esse non sono mai state altro che frammenti sconnessi, apparentemente
senza chiare motivazioni.
Nell'ambito dei sogni mi pareva di acquisire una
sempre crescente libertà di esplorazione. Fluttuavo attraverso molti strani edifici in
pietra, passando dall'uno all'altro per mezzo di mastodontici passaggi sotterranei che
sembravano costituire le normali vie di transito. Talvolta m'imbattevo in quelle
gigantesche botole ermetiche verso gli strati sottostanti, attorno alle quali aleggiava
un'atmosfera di paura e di cose proibite.
Vidi straordinarie piscine a mosaico, e stanze zeppe
di curiosi e inspiegabili utensili di ogni sorta. Vi erano poi caverne colossali con
complicati macchinari dall'aspetto e dalle utilizzazioni a me totalmente ignoti, il cui
rumore mi si manifestò soltanto dopo anni di sogni. A tal proposito ritengo utile
riferire che la vista e l'udito furono gli unici sensi che esercitai nel mio mondo di
visioni.
Il vero orrore ebbe inizio nel maggio del 1915,
quando per la prima volta vidi cose viventi. Ciò accadde prima che i miei studi mi
avessero insegnato cosa aspettarmi sulla base di quanto suggerito dai miti e dai casi
storici documentati. Quando le barriere mentali crollarono, osservai grandi masse di
sottile vapore in diverse parti dell'edificio e nelle vie sottostanti.
Queste masse divennero via via più solide e
definite, e alla fine riuscii a distinguerne i mostruosi contorni con una facilità assai
spiacevole.
Mi apparvero come enormi coni iridescenti, alti circa
tre metri e altrettanto larghi alla base, fatti di una rugosa e squamosa materia
semielastica. Dai vertici si proiettavano quattro flessibili membra cilindriche, ciascuna
dello spessore di una trentina di centimetri, e costituite da una sostanza rugosa simile a
quella dei coni stessi.
Quelle membra talvolta erano contratte fino a
rendersi quasi invisibili, e altre volte si estendevano fino a una distanza di circa tre
metri.
Due di esse terminavano con enormi artigli o chele.
All'estremità di un terzo di questi arti vi erano quattro appendici rosse a forma di
tromba. Il quarto terminava con un irregolare globo giallastro di circa 60 centimetri di
diametro, sul quale si notavano tre grandi occhi scuri, posti lungo la circonferenza
centrale.
Quattro sottili peduncoli grigi forniti di appendici
floriformi, sormontavano quella testa, mentre dal lato inferiore pendevano otto antenne o
tentacoli verdastri. La grande base del cono centrale era contornata da una frangia di
grigia sostanza gommosa che, attraverso l'espansione e la contrazione, consentiva il
movimento.
Le loro azioni - benché innocue - mi inorridirono
ancor più che il loro aspetto, perché non è certo benefico osservare oggetti mostruosi
compiere ciò che è notoriamente prerogativa dei soli esseri umani.
Quegli oggetti si muovevano con intelligenza nelle
grandi stanze, prelevavano libri dagli scaffali portandoli alle grandi tavole o viceversa,
e talvolta scrivevano diligentemente con una speciale bacchetta sorretta dai tentacoli
verdastri della testa. Le chele enormi venivano utilizzate per trasportare i libri, e
anche durante le conversazioni; difatti, il loro linguaggio consisteva in una sorta di
schiocchi.
Quegli esseri non indossavano vestiti, ma portavano
cartelle o zaini che pendevano dalla sommità del tronco conico. Di solito tenevano la
testa e l'arto che la sosteneva al livello della sommità del cono, ma essa si sollevava e
si abbassava di frequente.
Quando non venivano utilizzati, gli altri tre grandi
arti erano generalmente appoggiati ai fianchi del cono, contratti fino a una lunghezza di
un metro e mezzo. Dal modo di leggere, di scrivere e di azionare le loro macchine - quelle
sui tavoli sembravano in qualche modo connesse al pensiero - conclusi che quegli esseri
fossero dotati di un'intelligenza di gran lunga superiore a quella umana.
Successivamente, presi a vederli dappertutto;
sciamavano in tutte le grandi camere e nei corridoi, accudivano macchine gigantesche in
cripte con soffitti a volta, e correvano lungo le ampie strade dentro enormi vetture a
forma di navi. Cessai di averne paura, in quanto apparivano come una parte assolutamente
naturale del loro ambiente.
Man mano cominciai a riconoscere delle differenze tra
loro, e un esiguo numero di essi mi parve sottoposto a una sorta di controllo.
Questi, pur non mostrando alcuna differenza di
carattere fisico, per i loro gesti e le loro abitudini si diversificavano non solo dalla
maggioranza ma, in maniera marcata, anche l'uno dall'altro.
Nelle mie offuscate visioni, ebbi l'impressione che
essi si dedicassero notevolmente alla scrittura con una vasta varietà di caratteri, ma
mai quei caratteristici geroglifici curvilinei adottati dalla maggioranza. E immaginai che
qualcuno usasse il nostro consueto alfabeto. Parecchi di loro lavoravano molto più
lentamente della massa complessiva.
Durante tutto il tempo dei sogni, il mio ruolo pareva
quello di una coscienza scorporata con una gamma di visioni più vasta del normale, libera
di fluttuare lì intorno, eppure costretta nei limiti delle normali vie e dell'ordinaria
velocità di spostamento. Fu soltanto dall'agosto del 1915 che ogni accenno di esistenza
corporea prese a opprimermi.
E dico opprimermi, perché la prima fase fu
un'associazione puramente astratta, quantunque infinitamente terribile, della mia già
rilevata ripugnanza verso il mio corpo con le scene delle mie visioni.
Per un certo periodo, la mia principale
preoccupazione durante i sogni, fu volta a evitare di guardarmi, e rammento la mia
gratitudine per la provvidenziale assenza totale di grossi specchi in quelle bizzarre
camere. Fui sempre profondamente turbato dalla mia capacità di osservare le grandi tavole
- la cui altezza non poteva essere inferiore ai tre metri - da un livello che superava
quello della loro superficie.
Poi, la tentazione morbosa di guardarmi crebbe sempre
più, fino a che, una notte, non fui più capace di resistere. Sulle prime, volgendo in
basso lo sguardo, non scorsi nulla. Ma, subito dopo, mi resi conto che ciò era dovuto al
fatto che la mia testa era posta all'estremità di un collo flessibile di lunghezza
spropositata. Ritraendo il collo e aguzzando lo sguardo verso il basso, scorsi
l'iridescente massa rugosa e squamosa di un enorme cono alto tre metri e altrettanto largo
alla base. Fu allora che svegliai mezza Arkham con le mie grida, quando riemersi come un
folle dall'abisso del sonno.
Soltanto dopo settimane di aberrante ripetizione, mi
convinsi in parte ad accettare quell'immagine di me stesso in sembianze tanto repellenti.
Allora cominciai, nei sogni, a spostare l'intera massa del mio corpo, muovendomi tra le
altre entità sconosciute, leggendo libri terribili presi dagli scaffali senza fine,
scrivendo ore e ore alle grandi tavole con uno stilo retto dai verdi tentacoli che mi
pendevano dalla testa.
Brani di quel che leggevo e scrivevo si attardavano
nella mia memoria. Vi erano cronache orribili di altri mondi e di altri universi, e di
focolai di vita amorfa al di fuori di tutti gli universi. Vi erano documentazioni relative
a strani ordini di esseri che avevano popolato il mondo in ere dimenticate, e terrificanti
resoconti di intelligenze dai corpi grotteschi che lo avrebbero popolato milioni di anni
dopo la morte dell'ultimo essere umano.
Venni a conoscenza di capitoli della storia umana
della cui esistenza nessuno studioso del presente avrebbe mai sospettato. Perlopiù, tali
documenti erano scritti nella lingua dei geroglifici, che studiai in modo assai curioso,
con l'ausilio di congegni ronzanti. Si trattava evidentemente di un linguaggio
agglutinante basato su sistemi di radici totalmente dissimili da tutte quelle riscontrate
negli idiomi umani.
Altre lingue sconosciute che appresi col medesimo,
bizzarro metodo, riempivano ulteriori volumi. Soltanto pochi libri erano scritti in una
lingua a me nota. Fui comunque molto aiutato da una serie di illustrazioni di ottima
fattura, inserite nelle cronache o raccolte in collezioni separate. E, per tutto il tempo,
ebbi l'impressione di essere impegnato a scrivere la storia della mia epoca in lingua
inglese. Al risveglio, riuscivo a rammentare soltanto dei minuscoli frammenti
insignificanti delle lingue sconosciute con le quali nel sogno avevo grande dimestichezza,
laddove mi rimanevano chiare in mente intere frasi della storia.
Prima ancora che il mio io ridestatosi studiasse i
casi paralleli o gli antichi miti da cui indubbiamente erano scaturiti i sogni, fui
consapevole che quelle entità che mi circondavano appartenevano alla più grande razza
del mondo, che aveva conquistato il tempo e aveva inviato menti esploratrici in ogni era.
Sapevo pure che ero stato carpito alla mia epoca, mentre un altro usava il mio corpo, e
che alcune di quelle strane forme ospitavano menti catturate come la mia. Mi pareva di
discorrere, in una insolita lingua prodotta col movimento degli artigli, con intelletti
esiliati da ogni angolo del sistema solare.
Vi era una mente proveniente dal pianeta che noi
indichiamo col nome di Venere, che avrebbe vissuto in incalcolabili epoche a venire, e
un'altra di una luna esterna di Giove, vissuta sei milioni di anni nel passato. Di menti
della Terra, ve ne erano alcune, esponenti della razza alata con la testa a forma di
stella e per metà vegetali, proveniente dall'Antartide arcaica; una proveniva dal popolo
di rettili della favolosa Valusia; tre appartenevano ai pelosi iperborei preumani
adoratori di Tsathouggua; una era degli abominevoli Tchocho; due provenivano dalla razza
di abitatori simili a ragni dell'ultima era della Terra; cinque dall'audace specie di
coleotteri immediatamente successiva al genere umano, alla quale la Grande Razza avrebbe
un giorno trasferito en masse le sue menti più acute, nell'imminenza di un orribile
pericolo; e numerose altre menti provenivano da rami differenti dell'umanità.
Parlai con la mente di Yang-Li, un filosofo del
crudele impero di Tsan-Chan che dominerà nell'anno 5000; con la mente di un generale del
popolo bruno dalle grandi teste che governò l'Africa meridionale nel 50.000 a.C.; con
quella di un monaco fiorentino del XII secolo, di nome Bartolomeo Corsi; e ancora con la
mente di un re di Lomar che aveva dominato quella terribile terra polare, centomila anni
prima che i gialli e tarchiati Inuto giungessero da Occidente per inghiottirla.
Parlai con la mente di Nug-Soth, un mago appartenente
agli scuri conquistatori dell'anno 16.000; con quella di un antico romano, di nome Tito
Sempronio Bleso, il quale era stato Questore ai tempi di Silla; con la mente di Khephnes,
un egizio della XIV Dinastia, che mi rivelò il terribile segreto di Nyarlathotep; con
quella di un sacerdote del Regno Medio di Atlantide; con quella di James Woodville, un
gentiluomo del Suffolk, che viveva all'epoca di Cromwell; con la mente di un astronomo di
corte del Perù pre-incaico; con quella di Nevil Kingston-Brown, un fisico australiano che
morirà nell'anno 2518; con quella di un arcimago della perduta Yhe svanita nel Pacifico;
con quella di Theodotides, un ufficiale greco-bactriano del 200 a.C.; con quella di un
anziano francese del tempo di Luigi XIII, di nome Pierre-Louis-Montagny; con la mente di
Crom-Ya, un condottiero cimmero del 15.000 a.C.; e con tantissime altre che mi rivelarono
impressionanti segreti e prodigi sbalorditivi che però il mio cervello non è riuscito a
ritenere.
Ogni mattina mi svegliavo in preda alla smania
frenetica di verificare o smentire quelle informazioni che rientravano nell'ambito della
moderna scienza umana. I fatti tradizionali assumevano aspetti inediti e dubbiosi, ed io
mi stupivo dinanzi alla potenza della fantasia onirica, capace di innovare la storia e la
scienza con tali sorprendenti appendici.
Rabbrividivo per i misteri che il passato poteva
celare, e tremavo al pensiero delle minacce che ci riservava il futuro. Le allusioni
relative alla sorte dell'umanità, insite nei discorsi delle entità post-umane,
producevano su di me un effetto tale che preferisco non riferire.
Alla civiltà umana sarebbe succeduta la potente
stirpe dei coleotteri, i cui corpi sarebbero stati poi catturati dalle menti più eccelse
della Grande Razza, quando la mostruosa condanna si sarebbe abbattuta sul loro antico
mondo. In seguito, quando il ciclo della Terra si fosse concluso, le menti trasferite
avrebbero dato inizio a una nuova migrazione attraverso il tempo e lo spazio, verso
un'altra sosta nei corpi delle bulbose entità vegetali di Mercurio. Ma a loro sarebbero
succedute altre razze, pateticamente avvinghiate al freddo pianeta e rintanate nelle sue
profondità ricolme di orrore, prima della fine totale.
Intanto, nei sogni, compilavo instancabilmente la
storia della mia epoca, che preparavo - in parte di mia volontà e in parte in virtù
della promessa di maggiori possibilità di consultazione libraria e di viaggi - per gli
archivi centrali della Grande Razza. Gli archivi erano ubicati in una colossale struttura
sotterranea, nei pressi del centro della città, e imparai a conoscerli bene per le
fatiche e le consultazioni alle quali sovente mi dedicai. Ideata per durare quanto la
razza stessa, e per resistere ai più violenti sommovimenti della Terra, quella
mastodontica miniera di informazioni superava tutti gli altri edifici per la massiccia,
granitica solidità della sua struttura.
Gli annali, scritti o stampati su grandi fogli di un
tessuto di cellulosa stranamente resistente, erano rilegati in volumi che si aprivano
dall'alto, ed erano conservati in singole custodie di uno strano e leggero metallo, privo
di ruggine e di una tinta grigiastra, decorate con disegni matematici e con il titolo
tracciato nei geroglifici curvilinei tipici della Grande Razza.
Queste custodie erano sistemate in una serie di volte
rettangolari, simili a ripiani sprangati, lavorati nello stesso metallo antiruggine e
serrati da pomi dal complicato sistema di chiusura. Alla mia storia fu assegnato un
determinato posto nelle volte del piano inferiore, nella sezione dedicata alle civiltà
del genere umano e alle razze pelose e simili a rettili che precedettero immediatamente
l'uomo nel dominio della Terra.
Ma nessuno dei miei sogni mi fornì un quadro
completo della vita quotidiana. Si trattava sempre di frammenti sconnessi e offuscati, che
certamente non si manifestarono mai nella loro giusta sequenza. Per esempio, ho un'idea
del tutto vaga sul come fosse organizzata la mia vita in quel mondo onirico; ma ho
l'impressione di aver potuto disporre di un'ampia stanza di pietra tutta per me.
A poco a poco le mie limitazioni in quanto
prigioniero scomparvero, cosicché alcune delle visioni compresero vividi viaggi
attraverso le grandiose strade della giungla, soggiorni in città misteriose, ed
esplorazioni di alcune di quelle oscure, enormi rovine prive di finestre che incutevano
uno strano terrore ai membri della Grande Razza. Vi furono anche lunghi viaggi per mare a
bordo di enormi imbarcazioni a più ponti, eseguiti a una velocità incredibile, ed
escursioni in terre selvagge con aeronavi chiuse simili a missili, che decollavano e
volavano per spinta elettrica.
Al di là del vasto e caldo oceano, vi erano altre
città della Grande Razza, e in un continente lontano scorsi i villaggi primitivi delle
creature alate dal grugno nero, che si sarebbero evolute fino a divenire la stirpe
dominante, dopo che la Grande Razza avrebbe inviato nel futuro le menti più eccelse per
sfuggire all'orrore strisciante. L'uniformità e l'esuberanza della vegetazione
costituivano sempre le note costanti del paesaggio. Le colline erano rare e basse, e
solitamente manifestavano segni di forze vulcaniche.
Sugli animali che vidi, potrei riempire interi
volumi. Erano tutti selvaggi: infatti, la civiltà meccanizzata della Grande Razza, aveva
eliminato da lungo tempo gli animali domestici, mentre il cibo era interamente vegetale o
sintetico. Rettili sgraziati di grossa mole sguazzavano in paludi fangose, fluttuavano
nell'aria greve, o si gettavano in mari e laghi; tra essi mi parve di riconoscere le vaghe
sembianze di arcaici prototipi minori di molte forme - dinosauri, pterodattili,
ittiosauri, labirintodonti, plesiosauri, e simili - resimi familiari dalla paleontologia.
Non riscontrai la presenza di uccelli o di mammiferi.
Il terreno e gli acquitrini erano costantemente
gremiti di serpenti, lucertole e coccodrilli, mentre gli insetti ronzavano incessantemente
tra la vegetazione lussureggiante. E nel mare, in lontananza, mostri nascosti e
sconosciuti lanciavano zampilli altissimi di schiuma nel cielo denso di vapori.
Una volta raggiunsi le profondità dell'oceano in un
gigantesco vascello sottomarino munito di riflettori, e intravidi orrori viventi di
grandezza spaventosa. Vidi anche le rovine di incredibili città sommerse, e il patrimonio
di vita crinoide, brachipode, corallina e ittica, che abbondava dappertutto.
Le mie visioni conservarono ben poco delle
informazioni relative alla fisiologia, alla psicologia, ai costumi popolari e alla storia
particolareggiata della Grande Razza. E molti degli elementi sparsi che qui ho
raggruppato, furono tratti dai miei studi delle vecchie leggende e degli altri casi simili
al mio, più che derivare dalla mia attività onirica.
Col passare del tempo, le letture e le ricerche
accompagnarono i miei sogni e, in molte fasi, li superarono, cosicché alcuni frammenti
onirici furono spiegati in anticipo e costituirono delle verifiche di quanto avevo
appreso. Ciò, per mio sollievo, consolidò la convinzione che tali letture e ricerche,
compiute dalla mia seconda personalità, fossero state la fonte dell'intero terribile
tessuto degli pseudoricordi.
Il periodo entro il quale si svolgevano i miei sogni
risaliva evidentemente a centocinquanta milioni di anni fa, quando l'Era Mesozoica era
prossima a prendere il posto di quella Paleozoica. I corpi nei quali risiedevano i membri
della Grande Razza non rappresentavano alcuna traccia sopravvissuta - o perlomeno
dimostrata scientificamente di evoluzione terrestre, ma erano dei peculiari tipi
organici omogenei e altamente specializzati, tendenti sia allo stato vegetale che a quello
animale.
L'attività cellulare era di un genere assolutamente
unico, in quanto consentiva di eliminare pressoché totalmente la fatica e l'esigenza di
dormire. Il nutrimento, assimilato per mezzo delle appendici rosse a forma di tromba,
poste su uno dei grandi arti flessibili, era sempre semifluido, e sotto molti aspetti
completamente dissimile dal cibo degli animali esistenti.
Quegli esseri disponevano soltanto di due dei sensi a
noi noti: la vista e l'udito, quest'ultimo esercitato mediante le infiorescenze
appendicolari sui peduncoli grigiastri posti al di sopra della testa. Possedevano però
altri sensi incomprensibili, tuttavia non utilizzabili dalle aliene menti prigioniere
ospitate nei loro corpi. I tre occhi erano collocati in maniera tale da consentir loro un
campo visivo ben più ampio di quello normale. Il loro sangue era una specie di licore di
colore verde intenso e di grande densità.
Non avevano sesso, ma si riproducevano per mezzo di
semi o spore che si raccoglievano sulla loro base e si sviluppavano esclusivamente sotto
l'acqua. I piccoli crescevano in grosse vasche poco profonde, ed erano allevati in numero
assai esiguo data la longevità degli individui, i quali vivevano normalmente dai quattro
ai cinquemila anni.
Coloro che presentavano difetti evidenti, venivano
rapidamente eliminati non appena le loro imperfezioni si manifestavano. Per l'assenza del
senso del tatto e del dolore fisico, la malattia o l'approssimarsi della morte venivano
riconosciute da sintomi puramente visivi. I morti venivano cremati con cerimonie solenni.
Come già ho accennato dianzi, ogni tanto una mente acuta sfuggiva alla morte
proiettandosi avanti nel tempo, ma non si trattava di casi numerosi. Quando se ne
verificava uno, la mente esiliata dal futuro veniva trattata con estrema gentilezza fino
alla dissoluzione del suo involucro estraneo.
La Grande Razza sembrava costituire un'unica nazione
o lega, unita da regole non troppo rigide; le principali istituzioni erano in comune,
benché esistessero quattro divisioni ben distinte. Il sistema politico ed economico di
ciascuna unità era una sorta di socialismo reazionario, e le risorse fondamentali erano
distribuite in modo razionale; il potere era affidato a un ristretto consiglio di governo
eletto da tutti coloro che avessero superato specifiche prove educative e psicologiche.
L'organizzazione familiare non era particolarmente raccomandata, anche se si riconoscevano
i legami tra persone di comune discendenza, e i giovani fossero solitamente allevati dai
genitori.
Vi erano naturalmente somiglianze assai spiccate con
atteggiamenti e istituzioni degli uomini, in quei campi che riguardavano elementi
puramente astratti oppure nei settori in cui si affermava il dominio dei bisogni basilari,
aspecifici, comuni a tutta la vita organica. Altre similitudini scaturivano da una scelta
cosciente, potendo la Grande Razza esplorare il futuro e imitarne quel che più le
piaceva.
L'industria,
altamente meccanizzata, richiedeva soltanto pochissimo tempo a ciascun cittadino; e
l'abbondante tempo libero veniva impiegato in attività intellettuali ed estetiche di
svariata natura.
Le scienze avevano raggiunto un incredibile livello
di sviluppo, e l'arte costituiva una parte vitale dell'esistenza, sebbene nel periodo dei
miei sogni essa avesse già superato l'apogeo e fosse in fase discendente. La tecnologia
era immensamente stimolata dalla lotta costante per la sopravvivenza e per la
conservazione del tessuto fisico di quelle grandiose città, imposte dai prodigiosi
sommovimenti geologici di quei giorni primordiali.
I crimini erano sorprendentemente rari e venivano
repressi grazie a un efficacissimo sistema di vigilanza. Le punizioni andavano dalla
privazione dei privilegi e la carcerazione, alla morte o a terribili torture emotive, e
non erano mai inflitte senza un accurato esame dei moventi criminosi.
La guerra - che negli ultimi millenni era stata
principalmente civile, benché talvolta fosse stata condotta contro invasori rettili o
ottopodi, o contro gli Antichi dalla testa a stella che si erano accentrati nell'Antartico
- era un evento raro, benché infinitamente devastante. Un esercito enorme, che si serviva
di armi simili ad apparecchi fotografici dai quali scaturivano tremendi effetti elettrici,
veniva addestrato per scopi di rado menzionati, ma evidentemente connessi all'eterno
terrore delle tenebrose antiche rovine prive di finestre e delle grandi botole ermetiche
poste ai piani sotterranei inferiori.
Questa paura delle botole e dei ruderi di basalto, si
manifestava perlopiù con taciti accenni o, al massimo, con mezzi sussurri furtivi.
Qualunque mistero essi racchiudessero, era significativamente taciuto dai libri che
riempivano i comuni scaffali. Era l'unico argomento interamente tabù della Grande Razza,
riconducibile forse alle orribili lotte passate, o al pericolo futuro che un giorno
avrebbe costretto la razza a inviare en masse le menti più acute avanti nel tempo.
Se i sogni e le leggende presentavano una visione
imperfetta e frammentaria delle altre cose, quell'argomento era celato in maniera ancor
più sconcertante. Gli oscuri miti antichi lo ignoravano, o forse qualsiasi allusione in
merito era stata eliminata per chissà quale motivo. E nei miei sogni, come in quelli
degli altri, gli accenni a esso erano estremamente rari. I membri della Grande Razza non
facevano mai intenzionalmente riferimento alla questione, e quel che se ne poteva carpire,
proveniva esclusivamente da alcune menti prigioniere dotate di una capacità di
osservazione particolarmente acuta.
In base a quei frammenti di informazioni, compresi
che quella paura era fondamentalmente generata da quell'antica razza orribile di entità
totalmente aliene, per metà polipi, giunte dallo spazio attraverso universi
incommensurabilmente lontani, che avevano dominato la Terra e altri tre pianeti del
sistema solare, circa seicento milioni di anni fa.
Erano solo parzialmente materiali - secondo la nostra
concezione di materia - e la loro coscienza e i mezzi di percezione si diversificavano
ampiamente da quelli degli organismi terrestri. I loro sensi difettavano, a esempio, della
vista, e il loro mondo mentale era costituito da uno strano complesso di impressioni non
visive.
La loro materialità era però tale da far sì che
usassero utensili del tutto normali nelle aree cosmiche che ne disponevano, e avevano
bisogno di alloggi, quantunque di un genere particolare. Sebbene grazie ai loro sensi
potessero penetrare tutte le barriere materiali, la loro sostanza non ne era in grado; e
determinate forme di energia elettrica potevano distruggerli totalmente. Possedevano la
facoltà di spostarsi per via aerea, malgrado l'assenza di ali o di qualunque altro mezzo
visibile di sollevamento. La struttura delle loro menti era tale da impedire uno scambio
di esse con quella della Grande Razza.
Quando queste entità erano giunte sulla Terra,
avevano edificato grandiose città di basalto con torri prive di finestre, e avevano
annientato in modo orribile gli esseri che vi avevano trovato. Tale era la situazione
quando le menti della Grande Razza sfrecciarono attraverso il vuoto dal tenebroso mondo
transgalattico noto col nome di Yith, in base ai discutibili e sconvolgenti Frammenh di
Eltdown.
I nuovi venuti, grazie agli strumenti da essi creati,
sottomisero senza sforzo le entità rapaci e le relegarono nelle caverne site nelle
profondità della Terra, quelle che avevano già congiunto alle loro abitazioni, e dove
già dimoravano.
Dopodiché, avevano sigillato ermeticamente i loro
ingressi e avevano abbandonato quelle entità al loro destino, per poi occupare la maggior
parte delle grandiose città e conservare alcuni importanti edifici per motivi legati più
alla superstizione che non all'indifferenza, all'audacia o allo zelo scientifico e
storico.
Ma, col trascorrere degli eoni, sopravvennero
indistinti segni funesti dai quali si intuiva che quelle antiche entità del mondo
sotterraneo diventavano sempre più forti e numerose. Vi furono irruzioni sporadiche
particolarmente spaventose in certe città piccole e remote della Grande Razza, e in
alcune vecchie città abbandonate che la Grande Razza non aveva popolato; luoghi nei quali
i sentieri che conducevano agli abissi sottostanti non erano stati opportunamente
sigillati o sorvegliati.
Dopo di ciò furono prese maggiori precauzioni, e
molti dei sentieri furono serrati per sempre. Alcuni furono però chiusi da botole
ermeticamente sigillate, da usare strategicamente in caso di lotta con le vecchie entità,
se mai avessero fatto irruzione in luoghi imprevisti.
Le irruzioni di quelle entità erano state
evidentemente sconvolgenti in maniera indescrivibile, perché avevano impresso un marchio
permanente nella psicologia della Grande Razza. Il continuo stato di orrore era tale che
non si accennava mai al vero aspetto di quelle creature.
Né fui mai capace di ottenere un chiaro riferimento
relativo alle loro sembianze.
Vi erano velate allusioni a organismi dalla
plasticità mostruosa e a temporanei intervalli di cecità indotta da quelle creature,
mentre altre voci frammentarie accennavano alla loro capacità di controllo per uso
bellico dei grandi venti. Strani sibili e orme colossali formate da cinque segni di dita
circolari, venivano parimenti associate a quegli esseri.
Era chiaro che la prossima condanna fatale così
disperatamente temuta dalla Grande Razza - quella condanna segnata dal destino che un
giorno avrebbe mandato milioni di menti attraverso l'abisso del tempo verso corpi strani
in un futuro più sicuro - era in qualche modo legata all'irruzione finale e vittoriosa di
quegli esseri primevi.
Le proiezioni mentali nelle ore future avevano
chiaramente preannunziato un tale orrore, e la Grande Razza aveva deciso che nessuno di
coloro ai quali veniva offerta la possibilità di sfuggirvi, doveva restare ad
affrontarlo. La successiva storia del pianeta aveva rivelato che quella scorreria, più
che un tentativo di rioccupare il mondo esterno, avrebbe avuto il sapore di una vendetta;
difatti, le proiezioni mostravano il susseguirsi delle razze successive, indisturbate
dalle entità mostruose.
Forse quelle entità avevano preferito i profondi
abissi della Terra alla superficie mutevole, devastata dalle tempeste, perché per essi la
luce non aveva alcun significato. Forse si erano anche indeboliti col passare degli eoni.
In effetti, era già noto che, nell'epoca in cui la razza postumana di coleotteri avrebbe
ospitato le menti fuggitive, esse sarebbero state già morte.
Intanto la Grande Razza, nonostante l'argomento fosse
drasticamente bandito dalle conversazioni ordinarie e dalle documentazioni visibili,
continuò la sua cauta vigilanza con armi potenti, costantemente innescate. Ma sempre
l'ombra della paura innominabile aleggiava intorno alle botole sigillate e alle oscure,
antichissime torri prive di finestre.
Questo è il
mondo del quale ogni notte i miei sogni mi recano echi sparsi e indistinti. Non oso'
sperare di trasmettervi un'idea fedele dell'orrore e dello spavento insiti in tali echi,
poiché essi dipesero principalmente da caratteristiche del tutto intangibili: l'acuto
senso della pseudomemoria.
Come ho già detto, i miei studi mi fornirono gradualmente una
difesa contro tali sensazioni, sotto forma di spiegazioni psicologiche razionali; e tale
influenza liberatrice fu accresciuta dal tocco impalpabile dell'assuefazione che
sopravviene col passare del tempo. Tuttavia, malgrado ciò, il vago terrore strisciante
tornava a tratti momentaneamente. Ma esso però non mi inghiottiva più come una volta e,
dopo il 1922, condussi una vita normale di lavoro e di svago.
Nel corso degli anni cominciai a pensare che la mia esperienza -
unitamente ai casi analoghi e al folklore a essi relativo - meritava di essere riassunta e
pubblicata a beneficio di studenti impegnati; perciò approntai una serie di articoli che
ripercorrevano in breve l'intera vicenda e li illustrai con degli schizzi abbozzati di
alcune delle forme delle scene, dei motivi decorativi e dei geroglifici, così come li
rammentavo dai sogni.
Gli articoli apparvero in vari periodi tra il 1928 e il 1929 nel
Journal of the American Psychological Society, ma non destarono molta attenzione. Nel
frattempo, continuai ad annotare i miei sogni con la cura più minuziosa, nonostante la
mole crescente delle mie relazioni raggiungesse proporzioni sempre più preoccupanti.
Il 10 giugno del 1934 ricevetti la lettera della Psychological
Society che diede inizio alla fase culminante e più orribile di tutta questa folle
esperienza. Sulla lettera si leggeva il timbro postale di Pilbarra, nell'Australia
Occidentale, e recava la firma di una persona che, a seguito di indagini, risultò essere
un tecnico minerario di buona fama. Vi erano incluse delle singolari istantanee. Riproduco
qui il testo integralmente, e a nessun lettore sfuggirà l'effetto tremendo che quella
lettera e le fotografie produssero su di me.
Per un po' rimasi stordito e incredulo in quanto, benché
riconoscessi un certo fondamento reale in taluni aspetti delle leggende che avevano
colorato i miei sogni, ero cionondimeno impreparato di fronte a cose come la sopravvivenza
tangibile di un perduto mondo remoto, al di là di ogni immaginazione. Ma assai più
sconvolgenti erano le fotografie, perché in esse, con un freddo realismo
incontrovertibile, si stagliavano in primo piano su uno sfondo sabbioso, certi blocchi di
pietra corrosi, smussati dall'acqua e deteriorati dalle intemperie, la cui sommità
convessa e la base concava, rivelavano da sole la loro storia.
Quando li esaminai con la lente d'ingrandimento, tra le parti
logorate e butterate, riconobbi le tracce di quei grandi disegni curvilinei e di quei rari
geroglifici il cui significato aveva assunto per me un carattere tanto mostruoso. Ma ecco
la lettera, che parla da sola:
49 Dampier St.,
Pilbarra, W. Australia
18 maggio, 1934
Professor N. W. Peaslee,
presso l'American Psychological Society
30 East 41st Street,
New York CityEgregio signore,
Una recente conversazione con il dottor E. M. Boyle di Perth, e alcuni vostri articoli che egli mi ha appena fatto pervenire, hanno reso doveroso che vi parli di certe cose che ho veduto nel grande deserto sabbioso a oriente del nostro terreno aurifero. In considerazione di particolari leggende relative ad antiche città con enormi costruzioni di pietra e degli strani disegni e geroglifici che voi descrivete, parrebbe che mi sia capitato qualcosa di veramente importante.
Tra gli aborigeni abbondano le voci in merito a delle (r)grosse pietre con dei segni sopra che sembrano incutere loro una paura terribile. Essi le pongono in relazione alle loro tradizionali leggende razziali su Buddai, il vecchio gigantesco che giace addormentato sotto terra con la testa adagiata sul braccio, che un giorno si desterà e divorerà il mondo.
Vi sono racconti antichissimi e semidimenticati di enormi cave sotterranee fatte di grosse pietre, nelle quali i corridoi conducono sempre più in fondo, e dove sono accadute cose orribili. Gli indigeni sostengono che, una volta, alcuni guerrieri fuggiti durante la battaglia, si fossero calati in uno di quei passaggi e non ne fossero più usciti, ma che da quel luogo avessero preso a soffiare venti spaventosi, dal momento della loro discesa. Comunque, di solito, non c'è molta verità in quanto raccontano gli indigeni.
Ma ho ben altro da raccontarvi. Due anni fa, mentre esploravo la regione a circa cinquecento miglia a est nel deserto, mi imbattei in un mucchio di strani pezzi di pietra decorata, dalla misura di forse novanta centimetri, in altezza, per sessanta di larghezza e altrettanti di spessore, logorati e scalfiti al massimo.
Dapprima non riscontrai i segni di cui parlavano gli aborigeni ma, quando osservai più accuratamente, notai delle profonde incisioni, sopravvissute al deteriora mento atmosferico. C'erano infatti delle curve particolari, proprio corrispondenti alle descrizioni tentate dagli aborigeni. Credo ci fossero trenta o quaranta blocchi, alcuni sepolti nella sabbia, e tutti entro un raggio di circa quattrocento metri.
Dopo averne visti alcuni, ne cercai altri nei paraggi, e calcolai accuratamente la loro ubicazione per mezzo dei miei strumenti. Scattai anche delle foto di dieci o dodici dei blocchi più caratteristici, e accludo qui le copie perché le esaminiate.
Informai le autorità governative di Perth inviando loro le fotografie, ma non hanno fatto nulla in proposito.
Dopodiché conobbi il dottor Boyle, il quale aveva letto i vostri articoli nel Journal of the American Psychological Society e, dopo un po', mi capitò di accennare alle pietre. Si mostrò immensamente interessato e si entusiasmò particolarmente quando gli mostrai le istantanee. Disse allora che le pietre e le incisioni erano proprio uguali a quelle delle costruzioni da voi viste e sognate, e descritte nelle leggende.
Manifestò l'intenzione di scrivervi, ma è stato distolto da impegni. Nel frattempo mi ha mandato molti dei periodici con i vostri articoli, dai quali scoprii subito, dai disegni e dalle descrizioni, che le mie pietre sono certamente dello stesso genere. Potrete rilevarlo voi stesso dalle foto accluse. In seguito, riceverete notizie diretta mente dal dottor Boyle.
Ora posso capire quanto sia importante per voi tutto ciò. Senza alcun dubbio ci troviamo di fronte ai resti di una civiltà sconosciuta, più antica di quelle sinora sognate, e tale da costituire un fondamento per le vostre leggende.
Quale ingegnere minerario, possiedo conoscenze geologiche tali da consentirmi di affermare che questi blocchi sono tanto antichi da spaventarmi. Sono perlopiù di arenaria e di granito, ma uno è quasi certamente costruito con uno strano tipo di cemento o calcestruzzo.
Essi recano i segni evidenti dell'azione dell'acqua, come se questa parte del mondo fosse stata sommersa e quindi riemersa dopo lunghe ore, in un'epoca successiva alla loro costruzione e utilizzazione. Si parla di centinaia di migliaia di anni, o Dio sa quanti di più. Preferisco non pensarci.
In considerazione del vostro precedente, accurato lavoro nel rinvenire le leggende e tutto quanto a esse connesso, non dubito affatto che vorrete guidare una spedizione nel deserto per effettuare degli scavi archeologici. Sia io che il dottor Boyle siamo pronti a collaborare in tale operazione se voi - o un'organizzazione a voi nota - forniste i fondi necessari.
Posso procurare una dozzina di minatori per gli scavi pesanti - gli indigeni non sarebbero di alcuna utilità, perché ho scoperto che sono pervasi da un terrore maniacale per quel luogo. Boyle e io non ne faremo parola ad alcuno, perché a voi spetterà senza ombra di dubbio la precedenza per ogni scoperta e il merito.
Il luogo può essere raggiunto da Pilbarra in quattro giorni con un trattore a motore, del quale avremo bisogno per le nostre apparecchiature.
Si trova quasi a Sud-Ovest del sentiero di Warburton del 1873, e a un centinaio di miglia a Sud Est di Joanna Spring. Anziché partire da Pilbarra, si potrebbe tagliare risalendo il fiume De Grey, ma di ciò potremo discutere in seguito.
Approssimativamente, le pietre si trovano in un punto a circa 22ø 3'14" Latitudine Sud, 125ø 0' 39" Longitudine Est. Il clima è tropicale e le condizioni del deserto sono proibitive.
Accoglierò con sommo piacere vostre notizie sull'argomento, e sono veramente ansioso di assistervi in qualsiasi progetto vogliate attuare.
Dopo aver studiato i vostri articoli, sono rimasto profondamente impressionato dall'intenso significato di tutta la vicenda. Il dottor Boyle vi scriverà successivamente. Se ci fosse la necessità di una comunicazione rapida, potrete trasmettere un cablogramma a Perth che mi sarà comunicato via radio
Con la profonda speranza di un sollecito messaggio, Vi porgo i miei più distinti saluti.Robert B. F. Mackenzie.
Sulle
immediate conseguenze della lettera si può apprendere molto dai giornali. Fui
particolarmente fortunato nell'assicurarmi l'appoggio della Miskatonic University e, sia
il signor Mackenzie che il dottor Boyle, si dimostrarono preziosi nell'organizzare le cose
per la spedizione australiana. Non fummo troppo loquaci con il pubblico circa i nostri
obiettivi, giacché l'intera faccenda poteva sgradevolmente prestarsi ai commenti faceti o
esagerati dei giornali più modesti. Di conseguenza, furono pubblicati pochissimi
articoli; ma, quel che apparve, bastò a rendere nota la notizia della nostra ricerca di
rovine australiane e a fornire particolari sulle varie fasi preparatorie.
Il professor William Dyer della sezione geologica -
capo della Spedizione Antartica della Miskatonic University nel 1930/31- Ferdinand C.
Ashley, docente di Antropologia, e mio figlio Wingate, mi accompagnarono.
Il mio corrispondente, Mackenzie, giunse ad Arkham ai
primi del 1935, e ci fu di aiuto nei nostri ultimi preparativi. Sui cinquant'anni, si
dimostrò un uomo affabile, straordinariamente competente, di cultura ammirevole, e
profondamente esperto di tutte le condizioni di viaggio in Australia.
I trattori erano pronti a Pilbarra, e noleggiammo un
battello a vapore, abbastanza piccolo da risalire il fiume fino a quel punto. Eravamo
attrezzati per scavare nella maniera più accurata e scientifica, setacciando ogni
particella di sabbia, senza causare danni a qualsiasi cosa che potesse apparire nel suo
stato originale, o quasi.
Salpammo da Boston a bordo dell'ansimante Lexington
il 28 marzo del 1935, attraversammo tranquillamente l'Atlantico e il Mediterraneo,
passammo per il Canale di Suez, discendemmo il Mar Rosso, e percorremmo l'Oceano Indiano
fino a raggiungere la nostra meta.
Non è il caso che vi dica quanto mi depresse la
vista della costa bassa e sabbiosa dell'Australia Occidentale, e quanto odiai la rozza
città mineraria e i desolati campi auriferi dove i trattori ricevettero l'ultimo carico.
Il dottor Boyle, che venne ad accoglierci, si mostrò
un uomo anziano, assai gradevole e intelligente e, grazie alla sua conoscenza della
psicologia, assieme a mio figlio, ci intrattenemmo in lunghe discussioni.
Dentro molti di noi si fondevano in uno strano
miscuglio il disagio e l'attesa, mentre il gruppo di diciotto persone avanzava
rumorosamente sull'arido alternarsi di sabbia e rocce. Il venerdì 31 maggio, guadammo un
ramo del fiume De Grey e penetrammo nel regno della desolazione più totale.
Man mano che avanzavamo verso il luogo dell'antico
mondo delle leggende, fui sopraffatto da un preciso terrore, favorito naturalmente dal
fatto che i miei sogni sconvolgenti e gli pseudo-ricordi continuavano ad assalirmi con
costante intensità.
Lunedì 3 giugno scorgemmo il primo dei blocchi
semisepolti.
Non so descrivere l'emozione che provai quando toccai
realmente - in una realtà oggettiva - un frammento di costruzioni ciclopiche,
assolutamente identico ai blocchi dei muri degli edifici dei miei sogni. Vi era la traccia
netta di un'incisione, e le mani mi tremarono quando riconobbi la parte di uno schema
decorativo curvilineo che anni di tormentoso incubo e ricerche sconcertanti avevano reso
infernale.
Dopo un mese di scavi, portammo alla luce circa 1250
blocchi a vari stadi di deterioramento e disintegrazione. Si trattava in buona parte di
megaliti scolpiti con la sommità e la base ricurve. Una minoranza di essi erano più
piccoli, piatti, con le superfici lisce e di taglio quadrato o ottagonale - simili a
quelli dei pavimenti e dei selciati dei sogni - mentre alcuni erano particolarmente
massicci e ricurvi, o inclinati in modo tale da indurre a credere che fossero stati
utilizzati in volte o costoloni, o come porzioni di archi, o in cornici di finestre tonde.
E quanto più profondamente scavammo in direzione
Nord-Est, tanti più blocchi rinvenimmo, ma non riuscivamo ancora a riscontrare alcuna
traccia di una disposizione di essi che seguisse uno schema ordinato. Il professor Dyer fu
atterrito dall'età antichissima di quei frammenti, e Freeborn rilevò tracce di simboli
che si richiamavano oscuramente a certe antichissime leggende della Papuasia e della
Polinesia.
Lo stato dei blocchi e il modo in cui erano
disseminati, rivelavano tacitamente cicli vertiginosi di tempo e sommovimenti geologici di
una ferocia cosmica.
Avevamo anche a disposizione un aeroplano, e mio
figlio Wingate soleva raggiungere diverse altitudini per scrutare la distesa di sabbia e
rocce, allo scopo di individuare schemi indistinti di grandi dimensioni, e nel contempo
differenze di livelli o tracce di blocchi sparsi. Ottenne dei risultati praticamente
negativi; infatti, ogniqualvolta credeva di aver intravisto un elemento significativo, la
volta dopo la sua impressione veniva sostituita da un'altra ugualmente inconsistente, per
effetto dello spostamento della sabbia dovuto al soffiare dei venti.
Una o due di quelle suggestioni effimere mi
impressionarono in modo strano e sgradevole. In un certo qual modo, parevano collegarsi
orribilmente a qualcosa che avevo letto o sognato, ma che non riuscivo più a rammentare.
Era insito in esse un che di familiare e terribile, e mi inducevano a guardare quel suolo
sterile e detestabile con sospetto e apprensione.
Nella prima settimana di luglio, si sviluppò in me
una serie inesauribile di emozioni confuse a proposito di tutta quella regione a Nord-Est.
Era un miscuglio di orrore e curiosità ma, in più, era presente una perenne e
sconcertante illusione di ricordo.
Tentai ogni genere di espediente psicologico per
allontanare quelle idee dalla mia mente, ma senza riuscirvi. Divenni anche preda
dell'insonnia, ma quasi ne fui lieto perché, in tal modo, venivano abbreviati i miei
periodi onirici. Presi così a fare lunghe passeggiate solitarie a notte fonda, di solito
verso Nord o Nord-Est, là dove ero misteriosamente attratto dai miei nuovi impulsi.
Durante quelle passeggiate, mi capitava talvolta di
incespicare contro dei frammenti antichi semisepolti. Benché in quella zona vi fossero
meno blocchi visibili rispetto al punto da cui avevamo iniziato gli scavi, ero
assolutamente certo che al di sotto della superficie dovessero essercene molti altri. Il
suolo era meno livellato rispetto a quello del nostro accampamento, e i forti venti
ammucchiavano qui e là la sabbia in fantastiche collinette, destinate a sgretolarsi,
rivelando tracce delle antiche pietre e celandone altre.
Ero quanto mai impaziente che gli scavi si
estendessero in quel territorio, ma al contempo inorridivo al pensiero di quel che
avrebbero potuto rivelare. Era ovvio che le mie condizioni mentali cominciavano a
deteriorarsi, ma quel che era peggio era il fatto che non me ne rendevo affatto conto.
Un'indicazione di quanto fosse compromessa la mia
povera salute mentale, si ricava da quella che fu la mia reazione alla strana scoperta che
feci durante una delle mie escursioni notturne. Ciò accadde la sera dell'undici luglio,
quando la luna inondò col suo strano pallore le misteriose collinette. Vagabondando un
po' oltre i miei confini abituali, mi imbattei per caso in una grossa pietra che appariva
marcatamente diversa da quelle fino allora riportate alla luce. Era quasi completamente
nascosta; mi chinai, scostai la sabbia con le mani, ed esaminai attentamente l'oggetto
aggiungendo al bagliore lunare quello della mia torcia elettrica.
Aveva una forma convessa. Inoltre, pareva fatta di
uno scuro materiale basaltico, totalmente dissimile dal granito, dall'arenaria o dal
cemento degli altri frammenti, ormai ben noti.
Improvvisamente mi alzai e presi a correre a tutta
velocità in direzione dell'accampamento. Si trattò di una fuga del tutto inconscia e
irrazionale e, soltanto quando giunsi nei pressi della mia tenda, capii veramente il
motivo che mi aveva indotto a fuggire. Allora ricordai. La misteriosa pietra scura era
qualcosa che potevo aver sognato o della quale dovevo aver letto, ed era sicuramente
connessa ai più spaventosi orrori di quel mondo leggendario, risalente a eoni prima.
Era uno dei blocchi di quelle antiche costruzioni di
basalto che la leggendaria Grande Razza temeva così tanto, quelle altre rovine prive di
finestre, abbandonate dalle terribili entità aliene, semi-materiali, che avevano
infestato gli abissi profondi della Terra e contro le cui forze invisibili, simili alla
potenza dei venti, erano state sprangate le botole e appostate vigili sentinelle.
Rimasi sveglio tutta la notte e, all'alba, capii di
essere stato uno sciocco a lasciare che l'ombra di un mito mi sconvolgesse in tal guisa.
Anziché spaventarmi, avrei dovuto provare
l'entusiasmo dello scopritore.
La mattina seguente, riferii agli altri la mia
scoperta, e assieme a Dyer, Freeborn, Boyle e mio figlio, mi incamminai alla ricerca di
quel masso anomalo. Ma ci attendeva una delusione. Non mi ero fatto un'idea precisa
dell'ubicazione della pietra, e il vento, successivamente, aveva mutato interamente
l'assetto delle mutevoli collinette di sabbia.
Eccomi ora giunto alla parte cruciale e più ardua della mia narrazione, tanto più
difficile, non essendo io stesso sicuro della sua realtà. A volte sono sopraffatto dalla
spiacevole certezza che il mio non fu un sogno o un'allucinazione, e tale sensazione - in
considerazione delle stupende implicazioni che potrebbero scaturire dalla verità
oggettiva della mia esperienza - mi obbliga a scriverne il resoconto.
Mio figlio - psicologo esperto, con la conoscenza
più completa del mio caso e la massima comprensione nei miei confronti - sarà il giudice
supremo di quanto sto per narrarvi.
Innanzitutto delineerò gli aspetti esteriori della
vicenda, così come li conobbero gli altri compagni dell'accampamento.
La notte tra il 17 e il 18 luglio, dopo una giornata
ventosa, mi coricai presto ma non riuscii a dormire. Alzatomi poco prima delle undici, e
perseguitato come al solito da quella strana sensazione che mia attraeva verso il terreno
di Nord-Est, mi incamminai in una delle mie consuete passeggiate notturne, dopo aver visto
e salutato una sola persona prima di allontanarmi dalla nostra zona, e cioè un minatore
australiano di nome Tupper.
La luna, appena in fase decrescente, risplendeva nel
cielo sereno, e inondava le antiche sabbie di una radiosità bianca e lebbrosa, che mi
apparve infinitamente malefica. Il vento si era calmato, né avrebbe ripreso a soffiare
nelle prossime cinque ore, come ampiamente attestato da Tupper e dagli altri che mi videro
camminare spedito verso Nord-Est, attraverso quelle pallide dune custodi di antichi
segreti.
Verso le tre e mezza del mattino si levò un vento
violento, che svegliò tutti nell'accampamento e buttò giù tre delle tende. Non c'erano
nuvole nel cielo, e il deserto riluceva ancora di quel lebbroso chiarore lunare. Quando il
gruppo rimise a posto le tende, la mia assenza venne notata, ma essa non allarmò nessuno,
date le mie note abitudini notturne. Ciononostante, almeno tre degli uomini - tutti
australiani - percepirono qualcosa di sinistro nell'aria.
Mackenzie spiegò al professor Freeborn che si
trattava di una paura assimilata dal folklore indigeno. Gli aborigeni avevano difatti
creato uno strano insieme di malefiche leggende circa i forti venti che a lunghi
intervalli devastavano la sabbia sotto il cielo sereno. Si mormorava che tali venti
provenissero dalle grandi grotte di pietra sotterranee, dove erano accadute cose
terribili, ed erano presenti esclusivamente nei luoghi dove erano disseminate le grandi
pietre scolpite. Verso le quattro, subitanea com'era iniziata, la burrasca si placò, e
foggiò le dune sabbiose in nuove e ignote forme.
Erano appena passate le cinque, quando giunsi
barcollando all'accampamento, mentre la gonfia luna fungoide affondava a Occidente: alla
sua luce apparivo privo del cappello, con gli abiti a brandelli, il volto graffiato e
insanguinato, e privo della torcia elettrica.
Quasi tutti gli uomini erano tornati a letto, ma il
professor Dyer fumava la pipa davanti alla sua tenda. Non appena si accorse del mio stato
ansimante e prossimo al delirio, chiamò il dottor Boyle, e insieme mi portarono alla mia
branda sulla quale mi adagiarono. Destatosi per il trambusto, mio figlio si unì subito a
loro, e tutti cercarono di tranquillizzarmi e indurmi a dormire.
Ma non mi era possibile dormire. Il mio stato
psicologico era assolutamente straordinario, diverso da tutto quanto avessi già sofferto
in passato. Dopo un po' insistei per parlare, e spiegai le mie condizioni in maniera
agitata e complicata.
Dissi loro che, stanco, mi ero disteso sulla sabbia
per un sonnellino.
Ero stato allora visitato da sogni ancor più
terrificanti del solito e, quando il levarsi improvviso del forte vento mi aveva destato,
i miei nervi logori avevano ceduto. Ero quindi fuggito in preda al panico, cadendo spesso
sulle pietre semisepolte: per questo motivo mi si erano strappati gli abiti e mi ero
ridotto in quello stato malconcio. Dovevo aver dormito a lungo, e ciò spiegava le
numerose ore di assenza.
Non feci assolutamente alcun cenno ad alcunché di
strano avessi visto o vissuto, facendo ricorso al massimo del mio autocontrollo. Ma dissi
che avevo cambiato idea a proposito dei compiti della spedizione, e insistei sulla
necessità di bloccare gli scavi in direzione Nord-Est.
Le motivazioni che addussi erano palesemente fiacche:
allusi infatti alla penuria dei blocchi, al desiderio di non offendere i minatori
superstiziosi, ad un possibile taglio dei fondi da parte dell'università, e a diverse
altre cose false o irrilevanti. Naturalmente, nessuno badò minimamente alla mia nuova
volontà, né tantomeno mio figlio, preoccupato per la mia salute.
Il giorno dopo mi alzai e girai per l'accampamento,
ma non presi parte agli scavi. Decisi di tornarmene a casa il più presto possibile, per
non danneggiare ulteriormente i miei nervi, e mio figlio mi promise di portarmi in aereo
fino a Perth, - mille miglia a Sud-Ovest - non appena avesse esplorato la regione che io
desideravo escludere.
Riflettei che se la cosa che avevo visto era ancora
visibile, avrei allora potuto tentare di avvertire gli altri a costo di apparire ridicolo.
Avrei probabilmente trovato dei sostenitori nei minatori che ben conoscevano il folklore
locale. Quello stesso pomeriggio, mio figlio, per compiacermi, ispezionò in volo tutto il
territorio che avevo probabilmente percorso a piedi. Tuttavia, nulla di quanto avevo
rinvenuto era rimasto in vista.
Si trattava di un caso analogo a quello dell'anomalo
blocco di basalto le cui tracce erano state spazzate via dallo spostamento della sabbia.
Per un istante fui quasi dispiaciuto che la mia folle
paura mi avesse fatto perdere quell'oggetto terribile, ma ora so che la sua perdita fu un
atto di misericordia. Posso ancora credere che quell'esperienza sia stata soltanto il
frutto di un'illusione, specialmente se, come spero ardentemente, quell'abisso infernale
non sarà mai trovato.
Il 20 luglio Wingate mi condusse a Perth, ma rifiutò
di abbandonare la spedizione e far ritorno a casa. Rimase con me fino al giorno 25, quando
salpò il vapore per Liverpool. Ora, nella cabina dell'Empress, dopo aver meditato a lungo
e in preda a una folle frenesia sull'intera vicenda, ho deciso che almeno mio figlio debba
sapere. Starà poi a lui decidere se diffondere o meno la cosa.
In ogni caso, ho ritenuto opportuno preparare questo
riassunto dell'antefatto - peraltro già noto ad alcuni in maniera sconnessa - e ora mi
accingo a narrarvi nel modo più breve ciò che mi parve fosse accaduto quella notte
terribile, durante la mia assenza dall'accampamento.
Con i nervi a fior di pelle, e spinto verso Nord-Est
da una bramosia perversa e da quell'inesplicabile bisogno mnemonico frammisto a terrore,
avanzai risoluto sotto la malefica luna ardente. Qui e là vedevo quei ciclopici blocchi
primevi, coperti per metà dalla sabbia, abbandonati da innominabili e immemori eoni.
L'età incalcolabile e l'orrore latente di quella
distesa mostruosa cominciarono a opprimermi più che mai, e non riuscii a impedirmi di
ripensare alle mie follie oniriche, alle spaventose leggende che le generavano, e alle
paure attuali che i nativi e i minatori nutrivano nei confronti del deserto e delle sue
pietre scolpite.
Tuttavia, continuavo ad avanzare come se fossi
diretto a un convegno soprannaturale, sempre più sopraffatto da fantasie sconvolgenti,
costrizioni e pseudoricordi. Ripensai ad alcuni dei possibili schemi tracciati dalle serie
di pietre viste dall'alto da mio figlio, e mi domandai per quale motivo mi risultassero a
un tratto così minacciose e familiari. Qualcosa annaspava fragorosamente alla serratura
dei miei ricordi, mentre un'altra forza sconosciuta si sforzava di tenere sbarrata quella
porta.
La notte era priva di vento e la sabbia pallida si
increspava come le onde di un mare gelato. Non avevo una meta ma, in un certo qual modo,
ero spinto innanzi da una certezza dettata dal fato. I sogni si fondevano col mondo della
veglia, e così ogni megalito incorporato nella sabbia sembrava far parte di stanze
infinite e corridoi di costruzioni preumane, scolpiti e decorati da geroglifici, i cui
simboli erano a me ben noti per i lunghi anni trascorsi come mente prigioniera della
Grande Razza.
A tratti immaginavo di vedere quegli orrori conici
onniscienti, girarmi intorno alle prese con i loro compiti abituali, e mi sforzavo di non
guardare il mio corpo, nel terrore di scoprirmi del loro stesso aspetto.
Tuttavia vedevo nello stesso istante i blocchi
coperti dalla sabbia, e le stanze, e i corridoi; vedevo nel contempo la luna che rifulgeva
maligna e le lampade di cristallo luminoso, il deserto infinito e le felci ondeggianti al
di là delle finestre. Ero sveglio, e sognavo nel medesimo tempo.
Non so fin dove mi sia inoltrato, per quanto tempo
abbia camminato - né in quale direzione, - quando mi apparve un cumulo di blocchi messi a
nudo dal vento del giorno. Si trattava del raggruppamento più vasto che avessi visto in
un unico luogo, e mi impressionò al punto da cancellare di colpo le immagini di eoni
favolosi.
Poi, di nuovo, vi furono soltanto il deserto, la luna
malefica e i brandelli di un passato inimmaginabile. Mi accostai al mucchio di rovine, mi
fermai, e lo inquadrai con la luce della torcia. Una duna era stata spazzata via dal
vento, lasciando una massa non molto alta e irregolarmente rotonda di megaliti e di
frammenti più piccoli di circa dodici metri di diametro e alta dai sessanta centimetri ai
due metri e mezzo.
Fin dall'inizio avevo intuito che in quelle pietre
risiedesse qualcosa di assolutamente inedito. Non solo la loro quantità non aveva
precedenti, ma qualcosa nei residui del disegno, deteriorato dalla sabbia, mi colpì,
mentre lo osservavo sotto i raggi congiunti della luna e della torcia.
I massi non si presentavano sostanzialmente diversi
dai reperti già rinvenuti precedentemente. C'era qualcosa di più misterioso. La strana
impressione non era generata dall'osservazione di ogni singolo blocco, ma si affacciava
alla mia mente quando l'occhio scorreva simultaneamente sul gruppo nel suo insieme.
Poi, alla fine, la verità mi apparve con chiarezza.
I disegni curvilinei su molti dei blocchi erano strettamente connessi: erano infatti parte
di una vasta concezione decorativa. Per la prima volta, in quel deserto provato dagli
eoni, mi trovavo dinanzi a una costruzione posta nella sua ubicazione originaria,
deteriorata e frammentaria, ma cionondimeno reale in un senso ben preciso.
Salii su un basso ripiano, e mi arrampicai
faticosamente sulla sommità del cumulo, scostando qui e là la sabbia con le dita, e
sforzandomi di continuo di interpretare le varietà di dimensioni, forma e stile, e le
relazioni esistenti tra i disegni.
Dopo un po, riuscii a intuire vagamente la
natura di quella struttura e dei disegni che una volta si estendevano al di sopra delle
gigantesche superfici di quella costruzione primordiale. La perfetta identità
dell'insieme con alcune delle mie apparizioni oniriche mi terrorizzò e mi snervò.
Mi trovavo su quello che una volta era stato un
corridoio ciclopico largo nove metri e alto altrettanti, lastricato con blocchi ottagonali
e sormontato da un massiccio soffitto a volta. Dovevano esserci state delle stanze che si
aprivano sulla destra e, all'estremità, uno di quegli strani piani inclinati che si
snodavano verso più basse profondità.
Trasalii con violenza a queste cognizioni, perché in
esse c'era molto più di quanto gli stessi blocchi implicassero. Come facevo a sapere che
quel livello doveva essere stato così profondamente sotterraneo.
Come sapevo che il piano che conduceva su, doveva
essersi trovato alle mie spalle? E come facevo a sapere che il lungo passaggio sotterraneo
che si estendeva in direzione della piazza dei pilastri doveva trovarsi a sinistra, un
piano al di sopra di me?
E in che modo ero a conoscenza del fatto che la sala
delle macchine e la galleria che conduceva agli archivi centrali, dovevano trovarsi due
piani più sotto? Come sapevo che doveva esserci una di quelle orribili botole con le
chiusure ermetiche di metallo, già in fondo, quattro piani più sotto? Sconvolto da
questa intrusione di elementi appartenenti al mio fondo onirico, mi ritrovai tremante e
madido di un sudore gelato.
Poi, con un ulteriore tocco intollerabile, sentii
quella debole e insidiosa corrente d'aria fredda che spirava verso l'alto da un lieve
avvallamento nei pressi del centro del cumulo enorme. Come già mi era accaduto prima,
fulminee le visioni si dissolsero, e mi ritrovai nuovamente solo col malefico bagliore
della luna, con il deserto minaccioso e il tumulo sparso della costruzione arcaica. Fui
allora al cospetto di qualcosa di reale e tangibile, eppure infinitamente pregno di
suggestioni di cupo mistero. Quella corrente, infatti, poteva significare una cosa sola:
un abisso enorme, celato sotto la massa disordinata dei blocchi in superficie.
Il mio primo pensiero andò alle nefaste leggende
degli aborigeni, nelle quali si alludeva a vasti rifugi sotterranei tra i megaliti, teatro
di orrori e fonte dei forti venti. Riaffiorarono poi i pensieri dei miei sogni, e avvertii
nella mente il tormento di confusi pseudoricordi. Che genere di luogo si apriva sotto di
me? Quale fonte primordiale e inconcepibile di cicli mitici ancestrali e incubi
perseguitanti, ero sul punto di scoprire?
Esitai un solo istante, perché qualcosa di superiore
alla curiosità e allo zelo scientifico mi trascinò avanti vincendo la mia paura
crescente.
Mi pareva di muovermi quasi automaticamente, come se
fossi stretto nella morsa di un destino ineluttabile. Riposi in tasca la torcia e,
lottando con una forza che ignoravo di possedere, spostai da un lato un primo titanico
frammento di pietra, poi un altro, finché eruppe una forte corrente la cui umidità
contrastava curiosamente con l'aria asciutta del deserto. Cominciò allora a spalancarsi
una nera crepa e, alla fine, dopo aver rimosso ogni frammento, piccolo abbastanza perché
fossi in grado di spostarlo, la luna lebbrosa illuminò un'apertura di un'ampiezza tale da
consentirmi di passare.
Tirai fuori la torcia e indirizzai il raggio
brillante nella spaccatura.
Sotto di me vi era un caos di rovine, che si
estendevano a salire verso Nord, con un'angolazione di circa quarantacinque gradi, per
effetto evidente di un antichissimo sprofondamento della superficie.
Tra quest'ultima e il livello del terreno si apriva
un abisso di buio impenetrabile, al cui limite superiore vi erano segni di volte
gigantesche, formatesi in seguito a sollecitazioni. A questo punto apparve chiaro che le
sabbie del deserto si estendevano direttamente al di sopra di un piano di strutture
titaniche risalenti agli albori della Terra e, né allora, né oggi, riesco a immaginare
in che modo si siano potute conservare attraverso eoni di sconvolgimenti geologici.
A posteriori, la sola idea di una discesa solitaria e
repentina in quell'abisso ignoto, e in un momento in cui nessuno era a conoscenza di dove
mi trovassi, mi appare come l'apice estremo della follia. E forse lo fu; malgrado ciò, mi
lanciai in tale discesa senza esitazione alcuna.
Ancora una volta fu palese che il fascino e il
richiamo della fatalità guidavano i miei passi. Con la luce intermittente, diedi inizio a
una folle discesa lungo la sinistra pendenza ciclopica che si spalancava sotto l'apertura.
Procedevo talvolta guardando avanti, quando trovavo buoni appigli per le mani e i piedi;
in altri momenti, invece, allorché i miei movimenti si facevano più precari, volgevo la
faccia al cumulo di megaliti.
Nelle due direzioni laterali, in distanza, si
stagliavano sotto i lampi della mia torcia, indistinti muri scolpiti e diroccati. Ma
davanti a me c'erano le tenebre.
Nella mia stentata discesa non calcolai il tempo. La
mia mente era così presa dalle tracce e dalle immagini sconcertanti, che qualsiasi
elemento obiettivo si trovava ormai a distanze incalcolabili. Ero totalmente privo di
sensibilità fisica, e persino la paura appariva come un grondone inerte e spettrale, dal
tono sguardo impotente.
Alla fine raggiunsi un pavimento piano, cosparso di
massi caduti, di frammenti amorfi, e di sabbia e detriti di ogni genere. Su entrambi i
lati - forse a una distanza di nove metri - si innalzavano muri massicci, culminanti in
enormi costoloni. Riuscivo appena a distinguere delle incisioni, ma non ero in grado di
percepirne la natura.
Ciò che mi impressionò maggiormente fu il soffitto
a volta. La luce della torcia non illuminava il tetto, ma le parti inferiori degli archi
mostruosi si mostravano distintamente. La loro identità con quanto avevo visto nei miei
sogni innumerevoli del mondo primordiale era perfetta e, per la prima volta, fui scosso da
violenti fremiti.
Alle mie spalle, lassù in alto, un barlume luminoso
mi rammentò il distante mondo esterno, sul quale splendeva il chiarore lunare. Un vago
residuo di prudenza mi raccomandò di non perderlo di vista, o altrimenti nulla mi avrebbe
guidato sulla via del ritorno.
Mi diressi verso il muro alla mia sinistra, dove le
tracce delle incisioni erano più marcate. Era arduo attraversare il pavimento, ingombro
quasi quanto l'ammasso di pietre in superficie, ma riuscii a farmi largo, seppure con
grande difficoltà.
In un punto sollevai dei blocchi e scostai con i
piedi i detriti, così da poter osservare il pavimento, e rabbrividii nel constatare la
completa e funesta familiarità delle grosse pietre ottagonali, la cui superficie
deteriorata era ancora abbastanza uniforme.
Quando fui a una distanza adeguata dal muro,
lentamente e con cura ispezionai alla luce della torcia i logori resti delle incisioni. La
superficie di arenaria si presentava deteriorata a seguito dell'antichissima erosione
dell'acqua, ma vi erano delle strane incrostazioni, la cui natura mi rimase oscura.
In alcuni tratti la costruzione era notevolmente
sgretolata e deforme, e mi domandai per quanti eoni ancora quel primordiale edificio
nascosto avrebbe conservato la sua residua configurazione in mezzo agli sconvolgimenti
terrestri.
Ma furono le incisioni a impressionarmi maggiormente.
Malgrado lo sgretolamento a cui erano sottoposte, era relativamente facile individuarne
gli schemi a breve distanza; e la totale intima familiarità di ogni particolare colpì
enormemente la mia immaginazione. Ma, in fondo, non era poi così incredibile che le
caratteristiche principali di quella costruzione primordiale mi risultassero familiari.
Avendo esse impressionato vivamente i creatori di
certi miti, si dovevano essere probabilmente incorporate in un filone di tradizioni
macabre che, in qualche modo, avevo appreso durante l'amnesia, evocando vivide immagini
nella mia mente subconscia.
Ma come potevo spiegarmi la maniera esatta e
minuziosa in cui ogni linea e spirale di quei disegni misteriosi combaciavano con quelle
che avevo sognato per più di vent'anni? Quale oscura e dimenticata iconografia poteva
aver riprodotto ogni sottile gradazione, ogni nuance che, in maniera così
costante, così esatta e invariabile, aveva assalito le mie visioni oniriche notte dopo
notte?
Non vi era qui la possibilità di una remota
rassomiglianza. Perché quel corridoio dalla vetustà millenaria, sepolto da eoni, nel
quale mi trovavo, era assolutamente e inequivocabilmente l'originale di un qualcosa che
conoscevo dai miei sogni, tanto intimamente quanto la mia casa di Crane Street, ad Arkham.
Se è vero che nei sogni quel luogo appariva integro, l'identità non era comunque meno
reale: mi orientavo in maniera assolutamente e orribilmente perfetta.
La struttura particolare nella quale mi trovavo mi
era ben nota.
Nota mi era anche la sua ubicazione in quella
terribile città primeva del sogno. Avvertii con certezza istintiva e spaventosa la mia
capacità di visitare, senza tema di perdermi, qualsiasi punto di quella struttura o della
città che era scampata a ere incalcolabili di mutamenti e devastazioni.
Ma, in nome del Cielo, cosa significava tutto quello?
E in che modo ero giunto a sapere quelle cose? E quale terribile realtà si celava dietro
quegli antichi racconti degli esseri che avevano dimorato in quel labirinto di pietra
primordiale?
Le parole non possono trasmettere che un'idea
approssimativa del caos di paura e sbalordimento che mi divorava lo spirito. Conoscevo
quel luogo. Sapevo cosa dimorava sotto di me e cosa era esistito sopra, prima che la
miriade di edifici torreggianti si fosse sgretolata, ridotta in polvere e detriti,
sbriciolata nella sabbia del deserto. Ormai non c'era più bisogno, pensai con un fremito,
di tenere d'occhio il fioco barlume della luce lunare.
Ero diviso tra il desiderio di fuggire e un miscuglio
febbrile di ardente curiosità e ineluttabile fatalità. Cos'era accaduto a quella
mostruosa megalopoli dell'antichità nei milioni di anni susseguenti all'epoca dei miei
sogni? Quanto era sopravvissuto dei dedali sotterranei giacenti al di sotto della città e
colleganti tutte le torri titaniche, dopo i sussulti della crosta terrestre?
Mi ero imbattuto in un mondo completamente sepolto di
sacrilega arcaicità? Sarei ancora riuscito a trovare la casa del maestro di scrittura, e
la torre in cui S'gg'ha la mente prigioniera proveniente dai carnivori dell'Antartico con
la testa a forma di stella, aveva inciso le sue immagini negli spazi vuoti dei muri?
E il corridoio al secondo piano in basso, dal quale
si accedeva alla sala delle menti straniere, era ancora sgombro e percorribile? In quella
sala, la mente prigioniera di un'entità incredibile - un abitatore, per metà fatto di
plastica, proveniente da una cavità interna di un ignoto pianeta al di là di Plutone, e
che sarebbe vissuto diciotto milioni di anni nel futuro - aveva conservato una certa cosa
che aveva modellato con l'argilla...
Serrai gli occhi e portai la mano alla testa, nel
vano e pietoso sforzo di estirpare quei folli frammenti onirici della mia coscienza. Poi,
per la prima volta, percepii intensamente la freddezza e l'umidità dell'aria che si
muoveva attorno a me. Scosso dai brividi, intuii che una vasta serie di abissi tenebrosi,
morti da eoni, si spalancavano da qualche parte sotto e davanti a me.
Ripensai alle terrificanti camere, ai corridoi e ai
piani inclinati, così come li rammentavo dai miei sogni. Sarebbe ancora stata aperta la
via che conduceva agli archivi centrali? Di nuovo, il senso dell'ineluttabile fatalità mi
tormentò il cervello quando mi affiorò alla mente il ricordo dei mastodontici annali,
che una volta erano riposti in quelle nicchie rettangolari di metallo inossidabile.
In essi, dicevano i sogni e le leggende, era
conservata l'intera storia, il passato e il futuro del continuum cosmico spazio-temporale,
scritta dalle menti prigioniere di ogni luogo e di ogni era del sistema solare.
Era una follia, certo; ma non ero forse finito in un
mondo tenebroso, folle quanto me?
Ripensai alle scaffalature metalliche chiuse da
lucchetti, e ai curiosi movimenti del pomo, necessari per disserrarle. Quella che era la
mia scaffalatura personale, mi affiorò vivida alla coscienza. Quante volte avevo compiuto
gli abituali movimenti circolari e pressori nella sezione terrestre del piano inferiore!
Ogni particolare mi era vivo e familiare.
Se mai era esistita una volta uguale a quella da me
sognata, ebbene, sarei stato capace di aprirla in un baleno. Fu allora che la pazzia si
impossessò totalmente di me. Un istante dopo, saltellavo e incespicavo contro i detriti
pietrosi, diretto al piano inclinato - vivo nella mia memoria - che conduceva alle
profondità sottostanti.
Da
quel momento in poi, le mie impressioni si rivelano di scarsa attendibilità e, in
verità, nutro ancora un'ultima, improbabile speranza che esse appartengano a un sogno
demoniaco o siano frutto di un'allucinazione delirante. In preda a uno stordimento
febbrile, il mio cervello, talvolta solo a tratti e confusamente, percepì il tutto.
I raggi della mia torcia penetravano fiochi quel buio
abissale, recandomi sprazzi fantasmagorici di muri e di incisioni orribilmente familiari,
deteriorati dallo sfacelo millenario. In un punto vi era un ammasso di volte crollate, e
fui costretto ad arrampicarmi sopra il cumulo massiccio di pietre che quasi sfioravano il
soffitto sgretolato, e grottescamente disegnato da stalattiti.
Era l'apice estremo dell'incubo, reso ancor più
orribile dalla blasfema persecuzione della mia pseudomemoria. Vi era un unico elemento del
tutto nuovo, e cioè le mie proporzioni rispetto a quelle mastodontiche costruzioni. Mi
sentivo oppresso da un senso di piccolezza mai provata, come se la vista di quei muri
torreggianti fosse - per un semplice corpo umano - qualcosa di totalmente nuovo e abnorme.
Continuavo a osservare nervosamente la mia figura,
vagamente turbato dalle sembianze umane che essa possedeva.
E, mentre avanzavo attraverso l'oscurità
dell'abisso, saltellavo, inciampavo, spesso cadevo provocandomi diverse contusioni e, una
volta, per poco non fracassai la torcia. Conoscevo ogni pietra e ogni angolo di quel
baratro demoniaco, e in molti punti mi fermai, irradiando con la torcia gli archivolti
ostruiti e sgretolati, eppure familiari.
Alcune stanze erano crollate del tutto, altre erano
vuote o ingombre di detriti. Qualcuna era colma di masse metalliche, più o meno intatte,
o frantumate, o logore, e in esse riconobbi i piedistalli colossali o le tavole dei miei
sogni. Non osai immaginare cosa fossero state in realtà.
Trovai lo scivolo che conduceva più sotto e ne
cominciai la discesa ma, dopo un po', fui arrestato da un baratro che si spalancava
davanti a me, e la cui apertura frastagliata presentava, nel suo punto più stretto, un
diametro non inferiore a un metro e mezzo. Qui i muri erano crollati, svelando oscure
profondità incalcolabili.
Sapevo che vi erano altri due piani sottostanti in
quell'edificio titanico, e rabbrividii di rinnovato panico nel rammentarmi della botola
sigillata, posta in quello inferiore. Non potevano esserci più sentinelle ormai perché,
quel che si nascondeva lì sotto, aveva compiuto la sua odiosa opera già da un pezzo ed
era sprofondato in un lungo disfacimento. E, nell'epoca post-umana, durante il dominio
della razza di coleotteri, quella (r)cosa¯ sarebbe stata definitivamente morta. Eppure
fui nuovamente scosso dai tremiti, nel ripensare alle leggende degli indigeni.
Occorse uno sforzo terribile per superare quel
baratro spalancato, in quanto il pavimento ingombro mi impediva di darmi uno slancio, ma
la follia mi trascinò avanti. Scelsi un punto prossimo al muro di sinistra, dove la
fenditura era meno ampia e il punto di approdo abbastanza sgombro dai pericolosi detriti
e, dopo un istante frenetico, raggiunsi l'altra sponda illeso.
Giunsi infine al piano inferiore, e oltrepassai
l'archivolto della sala delle macchine, all'interno della quale si trovavano fantastiche
rovine metalliche, semisepolte dalle volte crollate. Tutto era precisamente dove io sapevo
essere, e mi issai con sicurezza sui cumuli che sbarravano l'ingresso di un enorme
corridoio trasversale. Da esso, come ben sapevo, avrei raggiunto gli archivi centrali,
sottostanti la città.
Ere infinite si dipanavano mentre incespicavo,
saltavo e strisciavo lungo il corridoio cosparso di rovine. Qua e là distinguevo delle
incisioni sui muri macchiati dal tempo; alcune mi erano note, altre verosimilmente erano
state aggiunte in un periodo successivo a quello dei miei sogni. Essendo quel corridoio
una grande arteria sotterranea di collegamento tra le case, non vi erano archivolti,
tranne quando la strada attraversava i livelli inferiori dei vari edifici.
In alcune intersecazioni mi spostavo di lato così da
poter scorgere delle stanze che ricordavo vivamente. Due volte soltanto rilevai dei
cambiamenti radicali rispetto a quanto avevo veduto nei sogni, e in uno di quei casi
riuscii a individuare i contorni ricoperti di un archivolto che ricordavo.
Fui scosso da fremiti violenti, e provai una curiosa
sensazione di debolezza fiaccante mentre avanzavo spedito ma riluttante attraverso la
cripta di una di quelle grandiose torri in rovina, prive di finestre, la cui aliena
costruzione di basalto rivelava una mitica e orribile origine.
La volta primitiva era tonda e presentava un diametro
di sessanta metri buoni; L'oscura muratura era priva di incisioni. Il pavimento non era
ingombro di detriti: vi si notavano soltanto polvere e sabbia, cosicché riuscivo a
scorgere le aperture che conducevano in alto e in basso.
Non vi erano scale né scivoli e in effetti - nei
miei sogni - quelle torri primordiali mi erano apparse come mai violate dalla leggendaria
Grande Razza. Coloro che le avevano edificate, non avevano bisogno di scale o di piani
inclinati.
Nei sogni, l'apertura inferiore era ben serrata e
soggetta a una stretta sorveglianza: adesso invece era aperta, nera e spalancata, e ne
fuoriusciva una corrente di aria fredda e umida. Non mi concessi di pensare quali caverne
infinite di notte eterna potessero celarsi lì sotto.
Poi, facendomi strada a tentoni in una porzione del
corridoio quasi del tutto ostruita, mi trovai in un posto nel quale il soffitto era
completamente sprofondato. I detriti si innalzavano simili a una montagna, e mi ci
arrampicai sopra, superando un enorme spazio vuoto entro il quale la luce della mia torcia
non svelò né muri né volte. Riflettei che probabilmente si trattava della cantina della
casa del fornitore di metallo, che affacciava sulla terza piazza non lontano dagli
archivi.
Non riuscii a immaginare cosa potesse esservi
accaduto.
Ritrovai il corridoio oltre la montagna di rovine e
di pietre ma, dopo un breve tratto, mi imbattei in un luogo interamente ostruito, dove la
volta crollata lambiva il soffitto pericolosamente lesionato. Non so come fui in grado di
sollevare i massi e gettarli di lato, in modo da aprirmi un varco, n come osai
scomporre quel cumulo di rovine, laddove il minimo spostamento di equilibrio avrebbe
potuto far crollare tonnellate di muri sovrastanti riducendomi in poltiglia.
Se la mia intera avventura sotterranea non fu in
realtà - come invece spero - un'allucinazione infernale o uno stadio onirico, allora fu
la pura follia a spingermi e a guidarmi. Mi aprii così un passaggio o sognai di
farlo - nel quale riuscii a infilarmi faticosamente. Mentre mi contorcevo nel cumulo di
macerie - con la torcia sempre accesa infilata in bocca - mi sentii lacerare dalle
fantastiche stalattiti del soffitto frastagliato che mi sovrastava.
Ero ormai vicino al grandioso archivio sotterraneo
che sembrava costituire la mia meta. Un po' scivolando e un po' discendendo lungo l'ultima
parte della barriera, e facendomi strada lungo il tratto restante del corridoio - stavolta
con la torcia accesa in mano - giunsi alla fine in una bassa cripta circolare ad archi,
ancora in uno splendido stato di conservazione, che presentava delle aperture su ogni
lato.
Le pareti, o le parti di esse che riuscivo a
inquadrare con la luce della torcia, erano cosparse di geroglifici e cesellate con i
caratteristici simboli curvilinei, alcuni dei quali, notai, dovevano essere stati aggiunti
in epoca successiva al periodo dei miei sogni.
Compresi che era quella la mia destinazione finale, e
imboccai immediatamente un archivolto familiare, sito alla mia sinistra. Non avevo in
pratica alcun dubbio che avrei trovato integri sia il passaggio superiore che quello
inferiore dello scivolo che portava ai livelli superiori. Quella struttura enorme,
protetta dalla terra, nella quale era custodita la storia di tutto il Sistema Solare, era
stata edificata con abilità e potenza divine, al fine di durare quanto il sistema stesso.
Blocchi di dimensioni straordinarie erano, incastrati
con genialità matematica e, per mezzo di un ignoto cemento di durezza incredibile, si
saldavano fino a formare una massa di una solidità pari a quella del nucleo roccioso del
pianeta. Qui, dopo ere più prodigiose di quanto mi fosse dato di intuire, la massa
sepolta si ergeva conservando le linee essenziali e i vasti pavimenti ammantati di polvere
che non mostravano i cumuli di macerie, altrove così imponenti.
Da quel tratto in poi, il percorso, relativamente
più agevole, mi eccitò la mente in modo strano. Tutta la brama sino allora frustrata,
esplose in una sorta di frenesia febbrile, e presi letteralmente a sfrecciare oltre
l'archivolto lungo quei bassi corridoi così mostruosamente vivi nella mia memoria.
Fui più che sbalordito dalla familiarità di quel
che vidi. Da ogni lato, terrificanti, facevano mostra di sé i grandi battenti metallici
decorati con i geroglifici - degli scaffali; alcuni erano in ordine, altri
spalancati, altri ancora contorti e ammaccati da ancestrali forze geologiche, comunque non
abbastanza potenti da annientare quella costruzione titanica.
Qua e là dei cumuli impolverati, sotto scaffali
aperti e vuoti, indicavano i punti in cui le custodie dei volumi erano state rovesciate
dai terremoti. Su alcuni pilastri, lettere e grossi simboli indicavano classi e
sottoclassi di volumi.
Ad un certo punto mi arrestai dinanzi a una nicchia
aperta, dove scorsi qualcuna delle note custodie metalliche ancora a posto, in mezzo a
quella onnipresente polvere sabbiosa. Mi protesi a estrarre uno degli esemplari più
piccoli, non senza difficoltà, quindi lo poggiai a terra per esaminarlo. Il titolo era
scritto nei consueti geroglifici curvilinei ma, nella disposizione dei caratteri, c'era
qualcosa di misteriosamente insolito.
Conoscevo alla perfezione lo strano meccanismo di
chiusura a gancio: feci scattare il coperchio ancora funzionante e inattaccato dalla
ruggine, ed estrassi il libro. Questo, come mi attendevo, misurava cinquanta centimetri
per quaranta, ed aveva uno spessore di dodici; la sottile copertina di metallo si apriva
dall'alto.
Le resistenti pagine di cellulosa erano sopravvissute
intatte alla miriade di cicli temporali, ed esaminai con un tormentato e confuso risveglio
della memoria, le lettere del testo dipinte a pennello, stranamente pigmentate, diverse
dai consueti geroglifici ricurvi e da ogni altro alfabeto noto agli uomini di cultura.
Mi venne allora in mente che si trattava della lingua
adottata da una mente prigioniera che avevo conosciuto appena, una mente proveniente da un
grosso asteroide, sul quale era sopravvissuta buona parte della vita e delle conoscenze
arcaiche del pianeta primario, di cui esso costituiva un frammento. Nello stesso istante
rammentai che quel piano dell'archivio era dedicato ai volumi relativi ai pianeti
extraterrestri.
Quando cessai di osservare quell'incredibile
documento, mi avvidi che la luce della torcia cominciava ad affievolirsi, e subito inserii
l'altra pila che portavo sempre con me. Quindi, armato di una luce più intensa, ripresi
la mia corsa febbrile attraverso quegli infiniti meandri di navate e corridoi,
riconoscendo qui e là scaffali noti, ma sempre piuttosto inquieto per le condizioni
acustiche che facevano riecheggiare in maniera smisurata i miei passi in quelle catacombe.
Le orme delle mie scarpe, stampate nella polvere
intatta da millenni, mi fecero rabbrividire. Mai, prima d'allora, se i miei sogni folli
possedevano una briciola di verità, un piede umano aveva calpestato quei pavimenti di
età immemorabile.
La mia mente cosciente era del tutto ignara della
meta particolare che si prefiggeva la mia folle corsa. Vi erano tuttavia una forza e una
potenza malefiche che dominavano la mia volontà stordita e i miei ricordi sepolti,
cosicché percepivo confusamente che non potevo correre a caso.
Raggiunsi un piano inclinato verso il basso e lo
seguii verso abissi più profondi. I pavimenti baluginavano a sprazzi sotto i lampi della
torcia mentre correvo, ma non mi fermai a esaminarli. Nel vortice turbinante del mio
cervello aveva cominciato a risuonare un certo ritmo, accompagnato all'unisono da
contrazioni della mia mano destra. Volevo aprire qualcosa, ed ero certo di conoscere tutti
i giri e le pressioni necessarie. Sarebbe stato come aprire una moderna cassaforte con la
chiusura a combinazione.
Sogno o no, una volta l'avevo conosciuta... e la
conoscevo ancora.
Non provai neanche a spiegarmi in che modo un sogno -
o comunque un brano di una leggenda assimilata inconsciamente - potesse avermi insegnato
un particolare così preciso, complicato e oscuro. Avevo ormai superato la soglia di ogni
pensiero coerente. Infatti, tutta quell'esperienza, la familiarità impressionante con
quella massa di rovine sconosciute, e la mostruosa, esatta identità di tutto quel che mi
stava davanti, uniti a quanto i sogni e i frammenti mitici avevano potuto evocare, non
erano forse un orrore che oltrepassava qualsiasi ragione?
Probabilmente possedevo la convinzione fondamentale -
come adesso, nei momenti di maggiore razionalità - di non essere completamente sveglio, e
che tutta la città sepolta non fosse altro che il frammento di una allucinazione
febbrile.
Alla fine raggiunsi il livello più basso e presi a
destra del piano inclinato. Per qualche oscura ragione cercai di attutire i passi, anche
se in tal modo dovetti rallentare la velocità. In quell'ultimo tratto di pavimento,
sepolto in profondità, vi era uno spazio che avevo paura di attraversare.
Nel momento in cui mi avvicinai a esso, rammentai che
cosa temevo.
Si trattava di una delle botole sprangate e
sorvegliate. Ormai non vi erano più sentinelle e, tremando, avanzai in punta di piedi
come avevo fatto nell'attraversare la nera volta di basalto dove si spalancava una botola
simile.
Come la prima volta, avvertii una corrente d'aria
fredda e umida, e desiderai che il mio percorso portasse in un'altra direzione. Non sapevo
perché seguissi quella via in particolare.
Quando raggiunsi lo spazio, scorsi la botola
completamente spalancata. Oltre, ricominciava la serie di scaffali, e notai sul pavimento,
davanti a uno di essi, un ammasso coperto da un sottile strato di polvere, laddove di
recente era caduta una quantità di custodie. Nello stesso istante fui assalito da una
nuova ondata di panico, di cui però, per un po' di tempo, non seppi individuare il
motivo.
Non era certo strano trovarsi dinanzi a cumuli di
custodie cadute perché, durante il corso degli eoni, quel labirinto tenebroso doveva
essere stato devastato dai sommovimenti terrestri, e aver riecheggiato a intervalli per il
clamore assordante degli oggetti che precipitavano.
Soltanto quando ebbi quasi superato il luogo temuto,
mi resi conto del motivo che mi aveva procurato un tale fremito.
Non il mucchio in sé, ma qualcosa che riguardava la
polvere del pavimento mi aveva turbato. Alla luce della torcia pareva che la polvere non
fosse uniforme come avrebbe dovuto essere: vi erano tratti in cui appariva più sottile,
come se fosse stata smossa non molti mesi prima.
Ma non potevo esserne certo, visto che anche i punti
coperti da strati più sottili, erano molto polverosi; tuttavia, il sospetto di una
regolarità in quella immaginaria diseguaglianza era estremamente inquietante.
Quando avvicinai la torcia a uno dei punti più
strani, non mi piacque quel che vidi, perché l'illusione della regolarità si fece
fortissima. Sembrava che vi fossero linee regolari di impronte composite, orme che
avanzavano di tre in tre, ciascuna di dimensioni leggermente superiori a trenta centimetri
quadrati, e composta da cinque impronte circolari di sette centimetri, una delle quali in
posizione avanzata rispetto alle altre.
I possibili tracciati delle impronte di trenta
centimetri, sembravano condurre in due direzioni, come se qualcosa fosse andata da qualche
parte e ne fosse poi tornata. Naturalmente le orme erano molto lievi, e avrebbero potuto
essere frutto di un'illusione o del tutto casuali; ma era insito in esse un elemento di
vago terrore considerato il modo in cui mi pareva che procedessero. Perché, a
un'estremità, terminavano davanti al mucchio di cassette cadute non molto tempo prima,
mentre all'altra vi era la sinistra botola che alitava il freddo vento umido, spalancata e
incustodita su abissi che andavano oltre ogni immaginazione.
L'intensità e la potenza di quella forza che mi costringeva ad avanzare, sono rese
chiaramente manifeste dal dominio che riuscirono a imporre sulla mia paura. Nessun motivo
razionale avrebbe potuto farmi proseguire dopo che quell'orribile sospetto delle impronte
e i ricordi onirici si insinuarono dentro di me. Tuttavia la mia mano destra, quantunque
tremante per la paura, continuava a contrarsi ritmicamente nella sua brama di disserrare
una serratura che sperava di trovare.
Prima ancora di accorgermene, avevo superato il
mucchio delle custodie cadute di recente, e correvo in punta di piedi attraverso navate di
polvere completamente intatta, in direzione di un punto che mi pareva di conoscere
morbosamente, orribilmente bene.
La mia mente si poneva quesiti la cui origine e
rilevanza cominciavo appena a intuire. Lo scaffale sarebbe stato raggiungibile da un corpo
umano? E la mia mano umana avrebbe saputo compiere tutti i movimenti di ancestrale
memoria, atti ad aprire la serratura? E la chiusura sarebbe stata intatta e funzionante?
Cosa avrei fatto - cosa avrei osato fare - con ciò che, cominciavo ormai ad accorgermene,
allo stesso tempo speravo e temevo di trovare? Sarebbe stata una prova terribile, tale da
disintegrarmi il cervello, di qualcosa al di là della normale concezione del passato, o
invece mi avrebbe dimostrato che stavo solo sognando?
Ricordo solo che avevo cessato di correre in punta di
piedi, e, immobile, fissavo una fila di scaffali decorati da geroglifici a me assurdamente
noti. Erano in uno stato di conservazione quasi perfetto, e solo tre porte lì vicino
erano spalancate.
Non so descrivere quel che provai di fronte a quegli
scaffali, essendo così completa e insistente la sensazione di conoscerli da vecchia data.
Il mio sguardo era diretto a una fila prossima alla
sommità e totalmente fuori dalla mia portata: mi domandai allora come avrei potuto fare
ad arrampicarmi nel modo migliore. Un battente aperto, a quattro file dal fondo, poteva
aiutarmi, e forse avrei trovato dei possibili appigli per le mani e i piedi nelle
serrature delle porte chiuse. Avrei stretto la torcia tra i denti, come avevo già fatto
in altri punti nei quali mi erano occorse entrambe le mani. Ma, soprattutto, non dovevo
far rumore.
Sarebbe stato difficile prelevare ciò che mi
interessava, ma avrei potuto agganciare la chiusura mobile al colletto della giacca e
portar giù il tutto come fosse uno zaino. Mi chiesi ancora se avrei trovato la serratura
intatta. Non avevo dubbi circa la mia capacità di ripetere dei movimenti a me familiari,
ma speravo che l'operazione non provocasse cigolii o sfregamenti e che la mia mano agisse
correttamente.
Nonostante tali preoccupazioni, avevo però infilato
in bocca la torcia, e dato inizio all'arrampicata. Le serrature sporgenti si rivelarono
degli appigli insufficienti ma, come avevo previsto, lo scaffale aperto mi aiutò
parecchio. Nell'issarmi, mi servii sia del battente che del bordo dell'apertura, e riuscii
a evitare scricchiolii troppo rumorosi.
In equilibrio sul bordo superiore della porta, e
chinandomi verso destra, raggiunsi la serratura che stavo cercando. Le dita, lievemente
intorpidite per l'ascesa, si mossero inizialmente con una certa goffaggine, ma in breve si
adattarono anatomicamente all'operazione: in loro il ritmo mnemonico era molto forte.
Emersi da abissi sconosciuti di tempo, quei movimenti
segreti e complicati avevano raggiunto il mio cervello esatti in ogni dettaglio; difatti,
dopo meno di cinque minuti di tentativi, risuonò uno scatto la cui familiarità mi fece
trasalire più che mai, non essendo preparato coscientemente a esso. Un attimo dopo, lo
sportello metallico oscillava lentamente, producendo soltanto un lievissimo sfregamento.
Inebetito, posai lo sguardo sulla fila di cassette
grigiastre ora scoperte, e avvertii un tremendo impeto emotivo del tutto inesplicabile.
Proprio a portata della mia mano destra, stava una custodia i cui geroglifici intricati mi
scossero con una fitta molto più acuta del mero spavento. In preda ai tremiti, riuscii a
estrarla tra una pioggia di scaglie sabbiose, e trarla a me senza rumori violenti.
Come la cassetta che avevo maneggiato in precedenza,
essa misurava un po' più di cinquanta centimetri per trentacinque ed era decorata da
alcuni disegni matematici in bassorilievo. Di spessore, superava appena i sette
centimetri.
Incastrandola saldamente tra la superficie su cui mi
ero issato e il mio corpo, armeggiai con la chiusura e, finalmente, riuscii a liberare il
gancio. Sollevando la copertura, posi il pesante oggetto sulle spalle e me lo agganciai al
colletto. Con le mani ora libere, discesi quindi goffamente fino al pavimento polveroso
dove mi apprestai a esaminare il mio trofeo.
Inginocchiatomi nella polvere ghiaiosa, tolsi la
cassetta dalle spalle e la poggiai davanti a me. Le mani mi tremavano, e il pensiero che
di lì a poco avrei estratto il libro mi terrorizzava ma, al tempo stesso, desideravo
farlo e, soprattutto, ne ero costretto. Mi si era gradualmente rivelato con chiarezza
l'obiettivo della mia ricerca, e questa scoperta quasi paralizzava le mie facoltà
mentali.
Se la cosa era lì - e se non stavo sognando - allora
le implicazioni che ne derivavano erano assolutamente insopportabili per la mente umana.
Ma quello che mi tormentava maggiormente era la mia incapacità in quel momento di
avvertire che tutto quanto mi circondava non era altro che un sogno. Il senso della
realtà era tanto reale quanto orribile, e ne vengo ancora adesso sopraffatto nel
rammentare la scena.
Alla fine, tremante, estrassi il libro dalla custodia
e fissai affascinato ben noti geroglifici sulla copertina. Era in ottime condizioni, e le
lettere curvilinee del titolo mi immersero quasi in uno stato ipnotico, come se avessi
saputo leggerle. In verità, non potrei giurare di non averle realmente lette in un
momento terribile e transitorio di memoria abnorme.
Non so quanto tempo trascorresse prima che mi
decidessi a sollevare la sottile copertina metallica. Temporeggiai, e trovai delle scuse
con me stesso. Tolsi la torcia dalla bocca e la spensi per risparmiare la pila.
Poi, nel buio, feci appello a tutto il mio coraggio
e, alla fine, sollevai la copertura senza accendere la torcia. Quindi il lampo della
torcia illuminò la pagina scoperta, e mi irrigidii in anticipo per reprimere qualunque
suono, indipendentemente da quel che avrei trovato.
Guardai per un istante, quindi crollai. E, serrando i
denti, riuscii a non gridare. Sprofondai sul pavimento e portai una mano alla fronte nel
mezzo dell'oscurità che mi stava inghiottendo. Quel che temevo e mi aspettavo era lì. O
io sognavo, oppure il tempo e lo spazio erano diventati una burla.
Dovevo sognare... ma vorrei far capire quell'orrore
riportando alla luce quella cosa per mostrarla a mio figlio, se era veramente una realtà.
La testa mi girava paurosamente anche se nella impenetrabile oscurità non vi erano
oggetti visibili che turbinassero intorno a me immagini e idee del terrore più autentico
- eccitate dalle visioni che la fugace occhiata aveva spalancato - cominciarono a
insinuarsi in me e a offuscarmi i sensi.
Ripensai alle orme nella polvere e rabbrividii nel
sentire il rumore del mio stesso respiro, agitato da quel pensiero. Illuminai nuovamente
la pagina e la guardai come la vittima di un serpente fissa gli occhi e i denti avvelenati
del suo uccisore.
Allora, con le dita impacciate, nel buio, richiusi il
libro, lo riposi nella custodia e feci scattare il coperchio e la chiusura a gancio.
Dovevo portarlo con me nel mondo esterno se quel libro esisteva davvero; se l'intero
abisso esisteva davvero... se io e il mondo stesso esistevamo davvero.
Non ricordo con certezza quando, barcollante,
intrapresi la via del ritorno. Mi sovviene che, stranamente, durante quelle ore
terrificanti trascorse nel sottosuolo, non guardai neppure una volta l'orologio, il che
sottolinea vieppiù il mio senso di separazione dal mondo normale.
Mi trovai comunque a camminare in punta di piedi con
la sinistra cassetta sotto il braccio e la torcia in mano, mentre attraversavo l'abisso
ventoso e le minacciose impronte. Ridussi le precauzioni mentre risalivo gli infiniti
piani inclinati, ma non riuscii a liberarmi di un'ombra di apprensione che non avevo
provato durante la discesa.
Mi terrorizzava il pensiero di dover ripercorrere
quella buia cripta di basalto, più antica della stessa città, dalle cui profondità
incustodite provenivano fredde correnti. Pensavo a ciò che la Grande Razza aveva un tempo
temuto, a ciò che avrebbe potuto nascondersi in agguato laggiù, fosse anche debole e
morente. Pensavo a quelle orme a cinque cerchi, a quanto di esse mi avevano rivelato i
miei sogni, e agli strani venti e ai sibili ad esse associati. E poi pensavo ai racconti
degli aborigeni, costruiti proprio intorno all'orrore per i grandi venti e per le rovine
senza nome.
Il simbolo inciso su un muro mi indicò la via giusta
da percorrere, cosicché - dopo aver superato il luogo che ospitava l'altro libro da me
consultato - giunsi all'ampio spazio circolare sormontato da folte diramazioni di
archivolti.
Alla mia destra riconobbi immediatamente l'arco sotto
il quale ero passato. Lo riattraversai, consapevole che il resto del percorso sarebbe
stato più difficoltoso, a causa delle macerie che ingombravano il passaggio fuori
dell'archivio. Gravato adesso dal fardello metallico, mi riusciva sempre più difficile
restare calmo quando inciampavo contro detriti e macerie di ogni genere.
Mi trovai poi davanti al cumulo di rovine alto fino
al soffitto, attraverso il quale mi ero aperto un angusto passaggio. L'idea di strisciare
nuovamente in quella strettoia mi riempì di infinito terrore perché, nel passarvi, sarei
stato costretto a far rumore, e ora - dopo aver scorto quelle impronte - temevo il rumore
più di ogni altra cosa. La cassetta, inoltre, complicava ulteriormente il problema di
superare la stretta fessura.
Mi arrampicai allora sulla barriera come meglio
potei, e spinsi la cassetta nella fenditura davanti a me. Quindi, con la torcia in bocca,
strisciai nell'apertura e, come la prima volta, sentii le stalattiti graffiarmi la
schiena.
Quando cercai di riafferrare la cassetta, essa cadde
davanti a me, lungo il declivio di detriti, producendo un fragore molesto e destando echi
che mi fecero sudar freddo. Mi protesi veloce e la recuperai senza altri rumori ma, un
attimo dopo, i massi scivolarono sotto i miei piedi con un improvviso fracasso senza
precedenti.
Quel fracasso fu la mia rovina. Perché, non so
quanto vi fosse di vero nella mia impressione, eppure mi parve di udire una risposta a
quel fragore, una risposta terribile proveniente dagli spazi lontani alle mie spalle. Mi
sembrò di sentire un urlo stridulo, un sibilo, che non aveva simili sulla Terra, ed
impossibile descriverlo verbalmente in maniera adeguata. Se esso fu vero, quel che
seguì fu una crudele ironia, perché solo il panico provocato da quella cosa fu
all'origine del verificarsi del secondo fatto.
Comunque sia, il delirio che ne scaturì fu assoluto
e privo di conforto. Strinsi in mano la torcia e, agguantando malamente la cassetta,
saltai e mi lanciai avanti col cervello pervaso soltanto dal folle desiderio di fuggire
precipitosamente da quelle rovine da incubo, verso il mondo vivo del deserto rischiarato
dalla luna, ancora così distante, lassù in alto.
Mi accorsi appena di aver raggiunto la montagna di
detriti che torreggiava nella vasta oscurità oltre il tetto sprofondato, e mi ferii e mi
escoriai ripetutamente nell'arrampicarmi su quella ripida pendenza di massi dentellati e
di frammenti.
Poi accadde il grande disastro. Mentre superavo,
senza vedere nulla, la sommità, impreparato all'improvvisa pendenza sottostante, i piedi
mi scivolarono, e mi trovai nel mezzo di una fragorosa valanga di macerie, rimbombanti
come il colpo di un cannone, il cui fracasso lacerò l'aria buia della caverna in una
serie assordante di onde sonore tali da far sussultare la terra.
Non ricordo come emersi da quel caos, ma un fugace
barlume di coscienza mi dice che mi precipitai, inciampai, mi inerpicai lungo il corridoio
in mezzo al frastuono, ma sempre con la cassetta e la torcia in mio possesso.
Poi, non appena mi avvicinai all'antica cripta di
basalto, una follia totale Si impossessò di me. Perché, con lo scemare degli echi della
valanga, cominciai a sentire una ripetizione del terrificante sibilo sconosciuto che mi
era parso di aver già udito. Stavolta non avevo dubbi e, quel che era peggio, esso
proveniva da un punto non dietro, ma davanti a me.
Probabilmente, in quel momento gridai forte. Di quei
momenti mi rimane soltanto l'immagine offuscata che mi ritrae mentre attraverso di corsa
la volta infernale di basalto di quelle rovine primordiali, stordito da quel dannato suono
misterioso che fuoriusciva dalla porta aperta e incustodita che si spalancava sulla nera
profondità senza limiti. Avvertivo anche un vento, non semplicemente una corrente fredda
e umida, ma una raffica violenta e significativa che eruttava selvaggia e gelida da
quell'abisso abominevole dal quale proveniva l'osceno sibilo.
Ricordo confusamente di aver saltato e barcollato
sopra ostacoli di ogni genere, mentre quel torrente di vento e di strida cresceva attimo
dopo attimo e sembrava avvilupparsi e aggrovigliarsi volutamente intorno a me mentre si
allungava malvagiamente dagli spazi dietro e sotto di me.
Benché quel vento si trovasse alle mie spalle,
sortiva il curioso effetto di rallentare, anziché agevolare, la mia avanzata, quasi fosse
un cappio o un laccio avvolto attorno al mio corpo. Senza badare ai rumori che producevo,
superai con fragore una grossa barriera di massi, e mi ritrovai di nuovo nella struttura
che conduceva in superficie.
Ricordo che lanciai una rapida occhiata
all'archivolto che dava accesso alla sala delle macchine, e quasi urlai quando scorsi il
piano inclinato che scendeva verso una di quelle botole spalancate due piani più sotto.
Ma, riuscendo a trattenermi dal gridare, mormorai più volte a me stesso che quello era
tutto un sogno, e che presto mi sarei svegliato. Forse mi trovavo nell'accampamento, o
forse nella casa di Arkham.
Tali speranze costituirono l'unico ausilio alla
integrità della mia mente mentre risalivo il piano inclinato verso il piano superiore.
Sapevo, naturalmente, che mi toccava riattraversare
la spaccatura di un metro e mezzo: ero talmente dilaniato dalle altre paure, che ebbi
piena coscienza di quell'orrore soltanto quando vi fui quasi a ridosso.
Nella discesa, il balzo era stato facile, ma sarei
riuscito a saltare su quel vuoto altrettanto agevolmente essendo ora in salita, e per di
più ostacolato nei movimenti dalla spossatezza, dal peso della cassetta di metallo e
dalla misteriosa persecuzione di quel vento demoniaco?
Pensai a tutte queste cose all'ultimo momento, e
pensai anche alle entità ignote, forse in agguato nei neri abissi, al di sotto di quel
vuoto.
La luce ondeggiante della torcia cominciava ad
affievolirsi, ma certi oscuri ricordi mi suggerirono quanto fossi vicino alla spaccatura.
Le gelide raffiche di vento e le nauseanti strida sibilanti alle mie spalle, agirono in
quell'istante come un oppio provvidenziale, stordendo la mia immaginazione di fronte
all'orrore di quel baratro spalancato. Mi accorsi allora di altre correnti e di ulteriori
sibili davanti a me, vortici disgustosi che sorgevano dalla spaccatura stessa, risalendo
da profondità inimmaginate e inimmaginabili.
A quel punto fui realmente sopraffatto dalla
pura essenza dell'incubo. Avevo ormai perso la ragione e, ignorando tutto all'infuori
dell'impulso animale della fuga, mi dibattei e mi lanciai avanti oltre i cumuli di rovine,
come non vi fosse al di sotto alcun abisso. Vidi allora il bordo del baratro, balzai
freneticamente impiegando fino all'ultima particella di forza in mio possesso, e venni
istantaneamente inghiottito da un vortice demoniaco di suoni nauseanti e da una totale
oscurità materialmente tangibile.
Per quel che ricordo, a questo punto che
finisce la mia esperienza.
Ogni ulteriore impressione appartiene interamente al
regno del delirio fantasmagorico. Il sogno, la follia e la memoria, si fusero
violentemente in una serie di fantastiche allucinazioni frammentate, che non possiedono
alcunché di reale.
Fu una caduta terribile attraverso leghe di tenebre
viscose e sensibili e una babele di suoni totalmente alieni a tutto quel che conosciamo
della Terra e della sua vita organica. I sensi primari, assopiti, ripresero vitalità
dentro di me, rivelandomi voragini e cavità popolate da orrori fluttuanti, rupi
tenebrose, e oceani e città brulicanti di cieche torri di basalto sulle quali mai luce
brillò.
I segreti di quel pianeta primordiale e dei suoi
immemori eoni, balenarono nel mio cervello senza l'aiuto della vista o dell'udito, e mi
furono rivelate cose che neanche il più terribile dei sogni precedenti mi aveva mai
suggerito. Frattanto, dita gelide di umido vapore mi agguantavano e mi ghermivano, e quel
sibilo dannato e soprannaturale strideva sovrastando l'alternarsi di fragore e silenzio
nei gorghi dell'oscurità circostante.
Dopo, vi furono visioni della città ciclopica dei
miei sogni, non già in rovina, ma così come l'avevo più volte sognata. Avevo assunto di
nuovo le sembianze coniche, non umane, e mi confondevo tra la folla di membri della Grande
Razza e di menti prigioniere che trasportavano su e giù i libri lungo gli enormi corridoi
e i vasti scivoli.
Poi, terrificanti sprazzi fugaci di una coscienza non
visiva si sovrapposero a quelle immagini: percepii lotte disperate, contorcimenti per
svincolarmi dai tentacoli rapaci del vento sibilante, una fuga folle, simile al volo di un
pipistrello, attraverso l'aria semi-solida, lo scavare febbrile nelle tenebre flagellate
dal ciclone, e un feroce incespicare e arrancare sulle macerie.
A un tratto, vi fu una strana invasione
semi-luminosa, un lampo, un debole, diffuso barlume di un'irradiazione bluastra, distante
in alto.
Seguì poi un sogno nel quale mi inerpicavo e
strisciavo inseguito dal vento, e mi dibattevo nel sardonico baluginare della luna, in
mezzo a una sarabanda di detriti che scivolavano e precipitavano dietro di me in un
morboso uragano. Fu quel monotono, malefico e persistente bagliore lunare che rendeva
folle, a rivelarmi alla fine il ritorno a quello che una volta avevo conosciuto come il
vivo mondo oggettivo.
Mi aggrappavo bocconi alla sabbia del deserto
australiano, mentre intorno a me strideva una bufera di vento quale non avevo mai
conosciuto sulla superficie del pianeta. Avevo i vestiti a brandelli, e tutto il mio corpo
era una massa di graffi e contusioni.
Ripresi coscienza molto lentamente e non saprei dire
quando precisamente il sogno delirante svanì per lasciar posto alla memoria reale.
Pareva ci fosse stato un mucchio di massi titanici,
un abisso e alla fine un incubo orripilante: ma quanto di tutto ciò era reale?
Non avevo più la pila, e nemmeno la cassetta
metallica che forse avevo scoperto. Era mai esistita una simile cassetta... un abisso...
un cumulo di blocchi in rovina? Sollevai la testa, guardai alle mie spalle, e vidi
soltanto le sterili sabbie ondulate del deserto.
Il vento demoniaco si era placato, e la gonfia luna
fungoide affondava rossiccia a occidente. Barcollando, mi rimisi in piedi e mi avviai
faticosamente verso l'accampamento, a Sud-Ovest. Cosa mi era successo in realtà? Ero
soltanto caduto nel deserto e avevo trascinato un corpo dilaniato dai sogni per miglia di
sabbia e blocchi sepolti? E, in caso contrario, come avrei potuto sopportare di vivere
ancora?
Perché, sopraffatto da questo nuovo dubbio, tutta la
mia fede nell'irrealtà delle visioni generate dai miti si dissolse ancora una volta nei
vecchi sospetti infernali. Se quell'abisso era reale, dunque anche la Grande Razza era
reale, così come le sue blasfeme esplorazioni; e le catture perpetrate nel vortice
cosmico del tempo erano allora, al di là delle leggende e degli incubi, una terribile
realtà, annientatrice dell'anima.
Ero stato dunque realmente e orribilmente trasportato
in un mondo preumano di centocinquanta milioni di anni prima, durante quei giorni oscuri e
sconcertanti dell'amnesia? Il mio corpo era stato il veicolo di una terribile coscienza
aliena proveniente dagli abissi paleogenici del tempo?
E, come le altre menti prigioniere di quegli orribili
esseri, avevo conosciuto davvero quella maledetta città di pietra nella sua gloria
primordiale, e avevo percorso quei corridoi familiari nella forma disgustosa del mio
catturatore? I sogni tormentosi di oltre venti anni erano davvero il frutto di ricordi
mostruosi?
Avevo veramente parlato una volta con le menti
provenienti da angoli irraggiungibili del tempo e dello spazio, avevo appreso i segreti
dell'universo, passati e futuri, e avevo compilato gli annali del mio mondo d'origine per
le cassette metalliche di quegli archivi titanici? E quelle altre cose, quelle antichità
impressionanti di venti folli e di sibili demoniaci, erano davvero un'incombente minaccia
in agguato? Quegli esseri si nascondevano realmente negli abissi tenebrosi dove lentamente
degeneravano, mentre forme variate di vita trascinavano avanti i loro corsi multimillenari
sulla superficie planetaria devastata dal tempo?
Non lo so. Se quell'abisso e ciò che esso
racchiudeva fossero reali, allora non esiste alcuna speranza. E, sul serio, una beffarda e
incredibile ombra fuori dal tempo incombe sul mondo dell'uomo. Ma, misericordiosamente,
non esiste la prova che tali cose non siano altro che nuovi stadi dei miei sogni, generati
dai miti. Non sono riuscito a portare alla luce la cassetta metallica che avrebbe
costituito la prova e, sino a ora, quei corridoi sotterranei non sono stati scoperti.
Se vi è misericordia nelle leggi dell'universo, essi
non saranno mai trovati. Ma io devo riferire a mio figlio quanto vidi o credetti di
vedere, e sarà lui a giudicare in qualità di psicologo la veridicità della mia
esperienza e l'opportunità di comunicare agli altri questo resoconto.
Ho già detto che la spaventosa verità che si cela
dietro gli anni di sogni tormentosi, si basa totalmente sulla realtà di ciò che mi parve
di vedere in quelle ciclopiche rovine sepolte. E stato per me infinitamente arduo mettere
per iscritto questa cruciale rivelazione, e qualsiasi lettore può facilmente intuirlo.
Naturalmente, la verità risiede nel libro contenuto nella cassetta: quella stessa che
estrassi dal suo segreto nascondiglio, tra la polvere di milioni di secoli.
Nessun occhio aveva mai veduto, e nessuna mano aveva
mai toccato quel libro sin dall'avvento dell'uomo su questo pianeta. Eppure, quando in
quell'abisso terrificante illuminai il libro con la torcia, vidi che le lettere dalla
strana pigmentazione, tracciate sulle friabili pagine di cellulosa imbrunite dal
trascorrere delle ere, non erano affatto i geroglifici ignoti degli albori della terra.
Erano, invece, le lettere del nostro consueto alfabeto, che componevano parole in lingua
inglese, la cui grafia era indubbiamente quella della mia mano.