La tomba
Sedibus ut saltem placidìs in morte quìescam.
Virgilio
Nel tracciare un resoconto degli eventi che hanno determinato la mia reclusione in
questo asilo per alienati, ho piena coscienza del fatto che il mio stato attuale
susciterà dubbi più che naturali sulla veridicità della mia narrazione.
E una vera sciagura che la gran massa
dellumanità possegga una visione mentale troppo ristretta per valutare con
obiettività e intelligenza quei rari e particolari fenomeni - visti e percepiti
esclusivamente da una minoranza di individui psicologicamente sensibili - che trascendono
lesperienza ordinaria.
Gli uomini di più vasto intelletto ben sanno che non
esiste una netta distinzione tra il reale e lirreale, e che tutte le cose devono la
loro apparenza soltanto ai fallaci mezzi mentali e psichici di cui lindividuo è
dotato, attraverso i quali prende coscienza del mondo. Il prosaico materialismo della
maggioranza condanna invece quei lampi di una visione superiore che penetrano il velo
comune dellovvio empirismo, classificandoli come manifestazioni di follia.
Mi chiamo Jervas Dudley e, fin dalla primissima
infanzia, sono stato un sognatore e un visionario. Ricco abbastanza da non dovermi
guadagnare da vivere, e avverso per temperamento agli studi formali e allo svago sociale
derivante dalla compagnia dei miei conoscenti, ho sempre dimorato in reami distinti dal
mondo visibile.
Ho trascorso ladolescenza e la giovinezza tra i
libri antichi, noti a pochi, e vagando tra i campi e i boschi della regione circostante la
mia dimora ancestrale. Dubito che quanto leggevo in quei libri e vedevo in quei boschi
corrispondesse esattamente a quanto gli altri fanciulli leggevano o vedevano: ma su ciò
non posso dilungarmi giacché, scendendo nei particolari, non farei altro che confermare
le crudeli calunnie a proposito del mio stato mentale che talvolta colgo tra i bisbigli
dei furtivi infermieri che mi sono dattorno.
Mi limiterò quindi a riferire i fatti, senza
analizzarne le cause.
Come ho detto, mi sono allontanato dal mondo
visibile: ma ciò non significa chio sia vissuto in piena solitudine.
Ciò non è dato a nessuna creatura umana poiché,
nellassenza della compagnia dei vivi, luomo inevitabilmente si volge alla
compagnia delle cose non vive, o che comunque non sono più tali.
Nei pressi dellantica magione della mia
famiglia si estende una singolare valletta boscosa nelle cui profondità crepuscolari
trascorrevo buona parte del mio tempo, a leggere, a meditare, a sognare. Lungo le sue
pendici muscose mossi i miei primi passi di bimbo, e attorno alle grottesche nodosità
delle sue querce intrecciai le mie, prime fantasie di ragazzo. Fu lì che ebbi a conoscere
le driadi che presiedono a quegli alberi, osservandole sovente nelle loro danze lascive
sotto i deboli raggi della luna calante.
Ma non è questo il momento adatto per parlare ditali
cose. Racconterò dunque soltanto della tomba solitaria situata nella fitta boscaglia
sulle pendici del colle, la tomba abbandonata degli Hyde, unantica e nobile famiglia
il cui ultimo diretto discendente fu riposto nella sua scura cripta molti decenni prima
chio nascessi.
Il sepolcro al quale alludo è unantica
costruzione di granito, corroso e dilavato dalle nebbie e dallumidità di
generazioni. Ne è visibile soltanto lingresso, giacché, la parte posteriore della
struttura è scavata nel terreno collinoso. La porta, una lugubre e massiccia lastra di
pietra, ruota su cardini arrugginiti e, secondo una macabra consuetudine di mezzo secolo
fa, è tenuta socchiusa in modo misteriosamente sinistro per mezzo di pesanti
catene e lucchetti di ferro.
La dimora della schiatta i cui rampolli lì riposano,
chiusi in urne, aveva una volta dominato la collina che ora ospitava la tomba: ma già da
lungo tempo era stata divorata dalle fiamme divampate a seguito di un fulmine abbattutosi
su di essa. Di quel temporale notturno che distrusse il tetro castello, i vecchi abitanti
della zona mi parlarono talvolta in tono sommesso e inquieto, alludendo alla «collera
divina» in maniera tale da accrescere vagamente, negli anni successivi, il fascino
tenebroso già profondo che il sepolcro immerso nelloscurità boschiva esercitava su
di me.
Un solo uomo era perito nellincendio. Quando
infine lultimo degli Hyde fu sepolto in quel regno di ombra e silenzio, la mesta
urna di ceneri giunse da un paese lontano, nel quale la famiglia si era rifugiata dopo che
il castello fu arso dalle fiamme. Oggi, nessuno è rimasto per depositare i fiori dinanzi
al portale di granito, e pochi sono coloro che osano sfidare le ombre tetre che sembrano
muoversi stranamente tra le pietre erose dallacqua.
Non dimenticherò mai il pomeriggio nel quale per la
prima volta mimbattei in quella seminascosta casa della morte. Lestate era nel
pieno del suo fulgore, quando lalchimia della natura trasmuta il paesaggio silvano
in una vivida e quasi omogenea massa verde, quando i sensi sono pressoché ubriacati dal
mare ondeggiante derba e rami, e dagli umori misteriosamente indefinibili che si
effondono dalla terra e dai vegetali.
In un simile ambiente, la mente perde la sua
prospettiva, il tempo e lo spazio divengono banalità inconsistenti, e gli echi di un
perduto passato ancestrale martellanO ostinati sulla coscienza prigioniera
dellincanto.
Tutto il giorno avevo errato tra i magici boschi
della valle, assorto in pensieri dei quali non occorre riferire, e conversando con cose
che non occorre nominare. Per essere un fanciullo di dieci anni, avevo già vi sto e udito
prodigi ignoti ai più, e per certi versi ero curiosamente maturo.
Quando, dopo essermi fatto faticosamente largo tra
due selvaggi roveti, mi imbattei dimprovviso nellingresso del sepolcro, non
avevo la minima nozione di quel che avevo scoperto. I cupi blocchi di granito, la porta
così sinistrarneflte socchiusa, le sculture funerarie che sormontavano larco, nulla
di tutto ciò rimandò la mia mente a pensieri lugubri o spaventosi.
Sulle tombe e i sepolcri sapevo e fantasticavo
parecchio, ma a motivo del mio singolare temperamento ero sempre stato tenuto lontano da
cimiteri e camposanti. La strana costruzione di pietra sul pendio boscoso fu quindi per me
una pura fonte di interesse e immaginazione, e il freddo e umido interno nel quale
inutilmente sbirciai attraverso la porta così allettantemente socchiusa, non suscitò in
me la benché minima impressione di morte o dissoluzione.
Ma fu proprio in quellattimo di curiosità che
nacque in me la brama folle e irragionevole che mi ha condotto a questa segregazione
infernale. Incitato da una voce che doveva giungere dalla stessa, spaventosa, anima della
foresta, mi risolsi ad entrare in quella invitante penombra malgrado le massicce catene
che mi sbarravano il passaggio. E, nella luce diurna che si affievoliva, presi a scuotere
con fragore i cardini rugginosi col proposito, frustrato, di spalancare la porta di
pietra. Tentai anche di far passare la mia minuta figura attraverso langusto spazio
disponibile, ma entrambi i tentativi fallirono.
Dapprima semplicemente curioso, ero ormai assalito da
una vera e propria frenesia e, mentre nel crepuscolo che si addensava facevo ritorno a
casa, avevo giurato alle cento divinità del bosco che un giorno avrei forzato ad ogni
costo quel nero e gelido recesso che pareva esercitare su di me un così intenso
richiamo. Il medico con la ferrigna barba grigia che quotidianamente viene nella mia
stanza, ha detto una volta ad un visitatore che proprio questa mia decisione segnò
linizio della mia pietosa monomania: ma lascerò che siano i lettori, dopo aver
appreso la mia storia per intero, ad esprimere il giudizio finale.
I mesi che seguirono alla scoperta, li trascorsi in
futili tentativi di forzare le complicate serrature della tomba socchiusa, e facendo caute
indagini sulla storia e lorigine di quella costruzione. Grazie alla naturale
ricettività dei ragazzi, appresi molto dalla mia indagine, quantunque labituale,
ritrosa riservatezza mi imponesse di non rivelare ad alcuno le notizie acquisite né i
miei futuri intendimenti.
Vai forse la pena di precisare che non fui per nulla
sorpreso o terrorizzato nellapprendere quale fosse la natura della costruzione. Le
mie concezioni alquanto originali a proposito della vita e della morte, mi avevano da
tempo indotto a tracciare confuse associazioni tra le fredde spoglie dei morti e quelli
che erano stati i loro corpi vivi e palpitanti, sicché immaginavo che la nobile e
sinistra famiglia del maniero distrutto dalla fiamma fosse in un certo qual modo
rappresentata allinterno dello spazio di pietra che intendevo esplorare.
I racconti a mezza voce circa misteriosi riti magici
e orge sacrileghe che si sarebbero svolti in anni remoti nei saloni della dimora distrutta
aggiunsero un nuovo e pressante interesse per la tomba presso la cui porta sedevo ore e
ore ogni dì. Una volta misi una candela nella stretta fessura, ma non vidi altro che una
rampa di essudanti gradini di pietra che scendevano verso il basso. Il lezzo che esalava
da quel luogo mi ripugnava, ma al tempo stesso mi ammaliava. Sentivo di averlo conosciuto
in un passato così remoto da superare ogni ricordo, risalente persino oltre il
corpo che ora posseggo.
Era trascorso un anno da quando avevo scoperto la
tomba, allorché, frugando tra i libri stipati nella soffitta di casa mia, mi Capitò tra
le mani un antica traduzione delle Vite di Plutarco, consunta e rosa dai vermi.
Leggendo la vita di Teseo, fui estremamente colpito dal brano nel quale si narrava del
grande masso sotto il quale leroe fanciullo avrebbe trovato i segni del suo destino,
quando fosse cresciuto abbastanza da sollevarne lenorme peso.
La leggenda di Teseo sortì leffetto di
dissipare la mia violentissima impazienza di penetrare nella cripta, suggerendomi che non
era giunto ancora il momento propizio. Col tempo, dissi a me stesso, avrei posseduto la
forza e lingegno che mi avrebbero consentito di disserrare senza sforzo alcuno la
porta legata dalle pesanti catene. Ma, fino a quel momento, sarebbe stato più saggio che
mi assoggettassi a ciò che il fato pareva aver deciso per me.
Di conseguenza, le mie contemplazioni dellumido
portale si fecero meno ostinate, e dedicai buona parte del tempo ad altre divagazioni,
seppur di natura egualmente bizzarra. Talvolta mi alzavo nel cuore della notte e,
furtivamente, mi allontanavo dalla casa vagando nei camposanti e negli altri luoghi di
sepoltura dai quali i miei genitori mi avevano sempre tenuto lontano.
Non so dire che cosa vi facessi, non essendo oggi
sicuro della realtà di taluni fenomeni; ad ogni modo, so che il giorno che seguiva a
quelle peregrinazioni notturne, ero solito sbigottire chi mi stava dattorno con la
mia conoscenza difatti quasi del tutto dimenticati da lunghe generazioni.
Fu dopo una di queste notti che sbalordii i miei
interlocutori con una stravagante intuizione a proposito della sepoltura di un ricco e
celebre personaggio della storia locale, lo Squire Brewster, sepolto nel 1711, la
cui lapide dardesia recante leffigie di un teschio con ossa incrociate si
stava lentamente sgretolando, riducendosi in polvere.
In un lampo di fanciullesca immaginazione, dichiarai
che Goodman Simpson - il becchino che si era occupato delle esequie - aveva rubato al
defunto le scarpe con le fibbie dargento, le calze di seta, e la biancheria di raso
prima di seppellirlo. E, come se non bastasse, aggiunsi che lo Squire in persona,
non ancora del tutto esanime, si era rivoltato due volte nella bara inter rata il giorno
dopo la sepoltura.
Frattanto, lidea di entrare nel sepolcro sulla
collina non abbandonava mai i miei pensieri, e il mio proposito fu vieppiù stimolato da
uninattesa scoperta genealogica. Appresi difatti che i miei avi per parte di madre
possedevano un legame, per quanto assai debole, con la famiglia Hyde, da tutti ritenuta
estinta. Ultimo della stirpe paterna, mi trovavo quindi a essere allo stesso modo
lultimo discendente di quella dinastia ancor più antica e misteriosa.
Cominciai così a sentire che quella tomba era mia,
e a pregustare con ansia il momento in cui ne avrei varcato la porta di pietra e sarei
disceso lungo i viscidi gradini fino a scivolare nelle tenebre. Fu allora che presi
labitudine di prestare ascolto con grande concentrazione vicino alla fessura
del portale chiuso, scegliendo per le mie strane veglie le dilette ore della quiete
notturna.
Raggiunta che ebbi la maggiore età, avevo
trasformato in una piccola radura la boscaglia prospiciente la facciata ammuffita sul
pendio collinare, facendo sì che la vegetazione circostante racchiudesse e
sovrastasse lo spazio, in modo da formare quasi le pareti e il tetto di un rifugio
silvano. Quel ritiro divenne il mio tempio, e la porta semichiusa il mio santuario, dove
passavo le ore disteso sul terreno muschioso a meditare strani pensieri e a sognare strane
cose.
La notte della prima rivelazione vi era unafa
soffocante. Stremato, dovevo essermi addormentato giacché, quando udii le voci, ebbi
la netta impressione di ridestarmi. Dei toni e degli accenti di quelle voci esito a
parlare, né accennerò alla loro qualità. Posso invece dire che presentavano tra loro alcune misteriose differenze nel
lessico, nella pronunzia e nel modo di articolare i suoni. Ogni sfumatura del dialetto del
New England, a partire dalle rozze sillabe dei primi coloni puritani fino alla meticolosa
retorica di cinquantanni or sono, sembrava fosse rappresentata in quelloscuro
colloquio, benché soltanto più tardi mi fossi reso conto ditale particolare.
In quellistante la mia attenzione fu distolta
da un altro fenomeno, un fenomeno così effimero che non potrei giurare sulla sua
veridicità. Si trattò semplicemente di questo: nel momento in cui mi risvegliai, mi
parve che una luce si fosse repentinamente spenta allinterno del sepolcro. La
cosa non mi lasciò sbigottito e neppure atterrito, ma so per certo che da quella notte mi
sentii profondamente e definitivamente cambiato.
Non appena rientrai a casa, mi diressi senza
esitare alla soffitta, dove in una decrepita cassapanca trovai la chiave che
allindomani infranse, con un semplice scatto, la barriera che invano e cosi a lungo
avevo attaccato.
Fu nel tenue bagliore del pomeriggio inoltrato che
entrai per la prima volta nella cripta sulla collina deserta.
Soggiogato da un incantesimo, il mio cuore pulsava al
ritmo di unesultanza che non mi è dato di descrivere nella sua vera intensità.
Richiusi la porta alle spalle e, giovandomi del
chiarore dellunica candela che avevo con me, presi a discendere i gradini stillanti
umidità. Mi pareva di conoscere la strada e, sebbene la fiamma tremolasse allalito
soffocante delle esalazioni di quel luogo, mi sentivo straordinariamente a mio agio
nellaria ammuffita di quellossario.
Mi guardai attorno e il mio sguardo cadde su molte
lastre di marmo che sorreggevano file di bare, o resti di esse. Alcuni dei feretri erano
intatti e sigillati, mentre altri si erano pressoché dissolti, e ne restavano solo le
maniglie e le piastre dargento, isolate tra certi curiosi mucchietti di polvere
biancastra.
Una delle targhe recava il nome di Sir Geoffrey Hyde,
giunto dal Sussex nel 1640 e morto qualche anno dopo. In una nicchia posta bene in vista
cera invece una bara vuota e ben conservata. Recava solo un nome di battesimo, la
cui lettura mi causò un sorriso, e nello stesso tempo un brivido. Un bizzarro impulso mi
indusse a montare sullampia lastra marmorea, a spegnere la candela e quindi a
sdraiarmi nella cassa vuota.
Nella grigia luce dellalba, uscii vacillando
dal sepolcro e richiusi nuovamente il lucchetto della massiccia catena. Non ero più
giovane, quantunque soltanto ventuno inverni avessero raggelato le mie membra. Gli
abitanti del villaggio più mattinieri nei quali mi imbattei sulla via di casa,
osservarono il mio curioso incedere, e si stupirono alla vista di quelli che
apparentemente erano segni di sfrenata baldoria che scorgevano su un individuo che
conduceva unesistenza notoriamente sobria e solitaria. Non mi mostrai ai miei
genitori se non dopo un lungo sonno ristoratore.
Da quella volta frequentai la tomba ogni notte: in
essa vidi, udii, e feci cose delle quali non dovrò mai ricordarmi. Il mio linguaggio,
sempre ricettivo delle influenze ambientali, fu il primo a risentire del mutamento, e ben
presto fu notata la dizione arcaica che avevo improvvisamente adottato. Non trascorse
molto tempo perché la mia condotta si facesse curiosamente audace e temeraria, fino a far
sì che inconsciamente assumessi latteggiamento delluomo di mondo malgrado la
lunga segregazione.
La lingua, prima silente, si fece loquace sfoggiando
la grazia leggiadra di un Chesterfield o il cinismo spregiudicato di un Rochester. Feci
mostra di una singolare erudizione, dissimile in tutto dalla cultura romantica e monastica
della quale mi ero nutrito in gioventù, e riempii le pagine vuote allinizio e alla
fine dei miei libri con epigrammi sgorgati di getto dalla mia penna: versi che rievocavano
lo stile di Gay, Prior e dei più brillanti pensatori e poeti delletà augustea.
Un mattino, a colazione, per poco non combinai un
disastro allorché mi misi a declamare, con accenti palesemente ebbri, una canzonaccia da
taverna settecentesca, esempio della licenziosità dellepoca georgiana, non
riportata mai in alcun libro. I versi recitavano più o meno così:
Venite, ragazzi, coi boccali di birra,
E bevete al presente prima che fugga;
Mettete sui piatti montagne darrosto,
Ché solo il bere e il mangiare rendon felici.
Colmate i calici,
La vita è breve.
E, allorché morti sarete, mai più brinderete al re o allamata!
Di Anacreonte è famoso il naso rosso;
Che cosa importa, se era felice!
Che Dio mi fulmini! Meglio rosso e star qui
Che bianco qual giglio e morto esser lì!
Suvvia Betty, fanciulla mia,
Vieni a baciarmi,
Che giammai allinferno vi sarà sì bella figlia dun oste!
Il giovin Errico appena si tien ritto,
E la parrucca tra un po non avrà più in capo,
E sotto il tavolo scivolerà.
Riempite i bicchieri e passateli in giro:
Meglio sotto il tavolo che sotto terra!
Sollazzatevi dunque in gozzoviglie,
Mentre assetati tracannate:
Che assai più arduo sarà ridere sotto due metri di terra!
Che il diavolo mi porti! Ormai più non cammino,
Chio sia dannato se posso star ritto!
Ehi, padrone, dì a Betty che faccia venire la portantina;
Me ne starò un poco alla magione, ché lì non v e mia moglie!
Orsù, dammi una mano;
Che ritto non so stare,
Ma almen gaio trascino i giorni miei sulla cima del mondo!
Fu più o meno in quel periodo che
nacque in me la paura che tuttora provo per il fuoco e per i temporali. Indifferente prima
dallora a quei fenomeni, ero ora sopraffatto da un orrore inesprimibile, tale da
indurmi, ogniqualvolta il cielo minacciasse le sue manifestazioni elettriche, a trovare
riparo nei recessi più impenetrabili della casa.
Uno dei luoghi che di preferenza frequentavo durante
il giorno, era la cantina del castello distrutto dallincendio e, fantasticando, mi
figuravo nella mente la costruzione così come doveva essere stata originariamente. Una
volta lasciai allibito un abitante del villaggio accompagnandolo con spedita sicurezza in
un basso sotterraneo, della cui esistenza pareva che io fossi bene a conoscenza malgrado
il fatto che era chiuso e dimenticato da molte generazioni.
Alla fine, poi, avvenne ciò che avevo temuto da
lungo tempo. Allarmati dalla metamorfosi che avevano subito i modi e il sembiante del loro
unico figliolo, i miei genitori presero ad attuare una sorveglianza discreta dei miei
movimenti: fatto che minacciò di concludersi in una catastrofe.
Nessuno era a conoscenza delle mie visite
allantica tomba, essendomi fin dallinfanzia dato cura di custodire il mio
segreto con zelo religioso. Adesso ero costretto ad usare grande cautela
nelladdentrarmi tra i boschi della valletta in modo da liberarmi,
alloccorrenza, di qualche curioso pedinatore. Io solo sapevo della chiave che apriva
il sepolcro, e la portavo appesa ad una cordicella che tenevo attorno al collo. E mai
avevo tratto fuori dalla tomba alcuno degli oggetti che avevo scoperto allinterno
delle sue mura.
Ma un mattino, dopo essere uscito dallumida
tomba, mentre mi accingevo a fissare con mano malferma la catena al portale, scorsi tra i
cespugli allintorno un volto che mi stava osservando.
Ebbi la certezza che la fine fosse prossima: il mio
rifugio era stato scoperto, e con esso svelata la meta delle mie peregrinazioni notturne.
Luomo non si avvicinò, sicché mi affrettai a casa con lintento di sentire
ciò che la spia avrebbe riferito al mio preoccupato genitore.
Era dunque giunto il momento in cui i miei soggiorni
oltre la porta incatenata sarebbero stati rivelati al mondo? Immaginate allora con quale
graditissimo sbigottimento udii quelluomo informare mio padre in un circospetto
sussurro che io avevo trascorso la notte nella conca davanti alla tomba, con gli
occhi velati dal sonno fissi sulla fessura della porta chiusa dal lucchetto!
Per quale miracolo il mio pedinatore si era ingannato
a quel modo? In quellistante mi convinsi che vi fosse un agente soprannaturale a
proteggermi. Forte di questa nuova certezza giuntami direttamente dal cielo, ripresi le
mie escursioni alla tomba abbandonando ogni precauzione fiducioso che nessuno mi avrebbe
visto nellatto di penetrarvi. Per una settimana gustai appieno le gioie che mi
offriva una funebre convivialità che non oso descrivere, quando, improvvisamente accadde
la cosa ed io fui portato via da li, e gettato in questa dimora maledetta di
monotonia e sofferenza.
Quella notte non avrei dovuto avventurarmi per i
boschi, poiché il temporale era nellaria e chiari segni ne recavano le nubi
minacciose: in più, una fosforescenza infernale si levava dalla fetida palude nel fondo
della piccola valle. Anche il richiamo dei morti era diverso. Non proveniva stavolta dalla
tomba sul pendio, ma dalla cantina incenerita sulla cresta del colle, e da lassù il
demone che vi signoreggiava mi faceva cenni di invito con dita invisibili.
Allorché sbucai da un boschetto che attraversava la
piana colIinare e mi trovai dinanzi alle rovine, osservai al chiarore della luna offuscata
dalla bruma uno spettacolo che mi ero sempre vagamente aspettato: il castello, scomparso
da un secolo, si innalzava nuovamente nella sua altera imponenza, mostrandosi Maestoso al
mio sguardo rapito. Lo sfavillio di mille candele rifulgeva da ogni finestra, e i cocchi
dei gentiluomini di Boston sfilavano lungo il vialone, mentre una folta schiera di patrizi
incipriati sopraggiungeva a piedi dalle ville dei paraggi.
A tal folla mi mescolai, pur consapevole che il mio
posto era tra i padroni di casa piuttosto che tra gli ospiti. Il salone echeggiava di
musica e risa, e calici di vino erano stretti in ogni mano. Riconobbi parecchie facce, per
quanto ne avrei certo ravvisato meglio la fisionomia se fossero state raggrinzite o
corrose dalla morte e dalla decomposizione.
In quella moltitudine selvaggia e sconsiderata, io
ero il più sfrenato e dissoluto. Torrenti di sfrontate bestemmie si riversavano dalle mie
labbra, e nel mio cupo abbandono non mi curavo di alcuna legge divina o naturale.
Lo scoppio improvviso di un tuono, il cui rombo
sovrastò persino il baccano di quellorgia bestiale, spaccò il tetto e zittì la
chiassosa compagnia paralizzata dal terrore. Rosse lingue di fiamma e brucianti scoppi di
calore inghiottirono la casa; i convitati, terrorizzati da una calamità che pareva
trascendere i confini della natura incontrollata, fuggirono urlando nella notte.
Rimasi solo, inchiodato alla sedia da una paura
prostrante che mai prima dallora avevo saggiato. Un secondo orrore si impossessò
poi della mia anima. Arso vivo e ridotto in cenere, il corpo disperso ai quattro venti, non
avrei mai potuto riposare nella tomba degli Hyde! Ma non era forse già stata
preparata per me la mia bara? Non avevo dunque il diritto di riposare in eterno tra i
discendenti di Sir Geoffrey Hyde? Certo! Avrei rivendicato il mio retaggio di morte, anche
a costo di far vagare per anni e anni la mia anima fino a che non avesse trovato un corpo
che la ospitasse e la rappresentasse su quella lastra vuota nella nicchia del sepolcro. Jervas
Hyde non avrebbe mai diviso la triste sorte di Palinuro.
Non appena la visione spettrale del castello in
fiamme si fu dissolta, mi ritrovai ad urlare e a dibattermi furiosamente tra le braccia di
due uomini, uno dei quali era la spia che mi aveva seguito fino alla tomba. La pioggia si
riversava dal cielo a torrenti, e il balenio dei fulmini che poco prima erano saettati
sopra le nostre teste, rischiarava lorizzonte meridionale.
Mio padre, il volto solcato dal dolore, era lì
presente e, mentre gridavo che mi deponessero nella tomba, ammoniva i miei custodi a
trattarmi con la maggiore delicatezza possibile. Un cerchio annerito sul pavimento della
cantina distrutta rivelava con quanta violenza avesse colpito la folgore scesa dal cielo.
In quel punto un gruppo di abitanti del luogo, muniti di lanterne, frugavano in una
piccola cassa di antica manifattura, portata alla luce dallo scoppio del fulmine.
Cessai di dibattermi essendo la mia lotta inutile e
ormai priva di scopo, e presi ad osservare gli indagatori intenti ad esaminare il tesoro
scoperto. Mi fu quindi permesso di prendere parte alla loro ispezione e, accostandomi al
gruppo, notai che la cassa, i cui ganci di chiusura si erano rotti a seguito del fulmine
che laveva dissotterrata, conteneva numerose carte e oggetti di valore. Ma, tra
questi, una cosa soltanto attirò il mio sguardo: la miniatura in porcellana di un giovane
con una elegante parrucca settecentesca recante le iniziali "J. H.".
Fissandone il volto, era come se mirassi il mio
stesso sembiante riflesso in uno specchio.
Fui condotto allindomani nella stanza munita di
sbarre dove tuttora mi trovo, ma di certe cose sono stato messo al corrente da un vecchio
e ingenuo servitore, per il quale provai affetto nellinfanzia e che, come me, ama i
cimiteri.
Quanto ho osato raccontare delle mie esperienze nel
sepolcro, mi è valso soltanto pietosi sorrisi. Mio padre, che viene di frequente a farmi
visita, sostiene che io non ho mai varcato la soglia del portale incatenato e giura che il
lucchetto arrugginito, allorché egli stesso lo esaminò, era intatto da almeno
cinquantanni. Afferma persino che tutto il villaggio sapeva dellè mie visite alla
tomba, e che spesso ero stato visto dormire nella capanna di fronde fuori dalla tetra
facciata, con gli occhi semichiusi e fissi sulla fessura che si apriva verso
linterno.
Non dispongo di alcuna prova tangibile che possa
confutare tali asserzioni, giacché la chiave che dissuggellava il lucchetto sè
persa durante la colluttazione in quella notte degli orrori. Le strane cose del passato
che ho appreso durante i convegni notturni con i morti, mio padre le respinge ritenendole
il frutto delle mie assidue e indiscrimiflate letture degli antichi volumi della
biblioteca di famiglia. Se non fosse stato per il mio vecchio servitore Hiram, mi sarei
ormai quasi del tutto convinto della mia pazzia.
Ma Hiram, fedele fino allultimo, ha voluto
credermi, e ha fatto una cosa che mi costringe a rendere pubblica almeno una parte della
mia storia.
Una settimana fa, ha spezzato il lucchetto che
assicurava la porta alle catene tenendo la tomba eternamente socchiusa, ed e disceso con
una lanterna nelle umide profondità. Sopra una lastra, posta in una nicchia, ha trovato
una vecchia bara vuota la cui targa annerita reca una sola parola Jervas.
In quella bara e in quel sepolcro mi hanno
promesso che un giorno troverò riposo.