C R E D O Riflessione
storico-teologica
Parte Storica
Premessa Quante volte nella nostra vita abbiamo recitato il credo, questa lunga litania di verità teologiche e dogmatiche, dal linguaggio arido e pressoché incomprensibile, che snoccioliamo tutte le domenica a messa un po' annoiati, talvolta assenti, talvolta guardando impazienti l'orologio, pensando alle cose che ci aspettano da lì a poco. Insomma una noiosa tiritera di cui faremmo volentieri a meno e che tutto sommato non sentiamo più di tanto nostra. Questi due incontri si propongono di risvegliare la nostra attenzione su questo elenco di dodici verità, che sono poste a fondamento della nostra fede e la caratterizzano come fede cattolica, cioè universale, in cui tutti noi ci riconosciamo e ci ritroviamo. Introduzione Al di là dell'arido linguaggio tecnico proprio di una enunciazione dogmatica, questa formulazione di fede, il credo, nasconde dentro di sé un dramma umano, che ha appassionato e coinvolto in prima persona non soltanto i teologi, che l'hanno formulata, ma l'intera popolazione di un impero, quello romano d'oriente, con capitale Costantinopoli (ex Bisanzio), sede dell'impero a partire dal 11 maggio 330 d.C., creando al suo interno divisioni, lotte, persecuzioni, sforzi di inutili conciliazioni, concili ecumenici1, che avrebbero dovuto sancire la pace religiosa, sociale e politica, ma che, al contrario, svilupparono ulteriori polemiche, accentuando sempre più le lotte e le divisioni in campo teologico, politico e sociale. Il tutto fu frutto di una grande passione religiosa, che investì in pieno anche le classi sociali più umili, come quella dei pescivendoli, dei macellai, delle massaie e simili. Discussioni che animavano le piazze e le strade dell'impero. Un appassionato dibattito che portò intorno al V-VI sec. alla frantumazione della stessa Chiesa d'Oriente, che tuttora persiste, nonché alla definitiva spaccatura tra la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente a partire dal 1057 d.C., preceduta da altre due spaccature, poi rientrate, tra il 404 e il 415, una prima volta; poi, una seconda volta, e fu un vero e proprio scisma tra Oriente e Occidente, tra il 484 e il 534. Da dove ha avuto origine il credo? Come e quando si è formato? Perché il credo? Chi lo ha composto? Che cosa ci sta dietro a tutte quelle formulazioni dottrinali e teologiche? E che cosa significano esattamente? Per rispondere a queste domande, divideremo il nostro breve cammino in due tappe: la prima storica, la seconda teologica. Non si può infatti capire la parte teologica se prima non si fa almeno una breve carrellata sul contesto storico in cui il credo si è formulato e definitivamente consolidato e giunto fino a noi. Sarà per noi un breve e intenso pellegrinaggio che ci porterà alle origini della nostra fede e ci farà incontrare personaggi sconosciuti, che attorno a queste verità di fede hanno ingaggiato una lotta gigantesca, durata secoli e ancor oggi non del tutto sopita. Essi ci racconteranno le loro idee, ciò che hanno creduto fermamente, anche se non sempre in modo corretto; ci parleranno delle loro sofferenze e delle loro vite spese alla ricerca della verità; del sangue che attorno a queste verità si è versato per renderle invincibili contro ogni errore. Sono tutti personaggi dalla statura morale e culturale gigantesche, che hanno "inventato" e strutturato la fede nascente, dandole forme e formulazioni espressive dottrinalmente precise e solide. Prima di loro e fino a loro, si credeva in Dio, nel Padre, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo in modo molto intenso e profondo, ma ancora troppo semplicistico, spontaneistico e scontato, legato prevalentemente al sentimento e al cuore. Tutto era molto vago, impreciso, così che ognuno sviluppava dei propri convincimenti, spesso contrastanti, che creavano confusione e ponevano la chiesa nascente sul terreno viscido e insidioso delle divisioni e delle contrapposizioni interne, con effetti sociali devastanti. Su questo terreno essa rischiava di frantumarsi e di soccombere, perdendo ogni credibilità e vanificando ogni testimonianza del Cristo risorto di fronte ad un mondo pagano, che vedeva sorgere al proprio interno questo nuovo fenomeno religioso, sociale e politico irrefrenabile, quale era il cristianesimo, e che guardava con grande preoccupazione e che di fatto ne decreterà la morte, allorché l'imperatore Teodosio, nel 380, con l'editto Cunctos populos stabilisce la religione cristiana quale religione imperiale. Qui per la prima volta la Chiesa cristiana è chiamata con l'appellativo di "cattolica", cioè universale. Tutto ebbe origine dall'impatto del cristianesimo con la cultura e la filosofia greca, che mettevano in discussione ciò che prima era pacificamente creduto. Fu un incontro-scontro molto duro e il cristianesimo rischiò di soccombere. Fu grazie a questi personaggi, a noi sconosciuti, se il cristianesimo riuscì a superare la bufera ideologica e culturale sollevata contro di lui dal mondo ellenistico e a passarla indenne, anzi rafforzandosi. Si passò così da una fede fondata su illuminazioni e convincimenti personali ad una più matura e adulta, sostenuta dalla luce della ragione, dandole una sua propria qualificazione scientifica nel suo modo di esprimersi e di porsi ufficialmente al mondo. Questi personaggi costituirono la base solida e razionale della nostra fede, consentendole di superare l'insidioso cammino della storia, compattando il loro grande sforzo in una apparentemente arida formulazione dottrinale: il Credo. Esso è il simbolo, la bandiera della nostra fede, in cui ogni credente, di qualsiasi epoca e latitudine, ritrova se stesso, la propria identità, riconoscendo gli altri come propri fratelli e figli dell'unico Padre. Quando, allora, sentiamo scandire queste parole, "Credo in Dio Padre ...", esse acquistano per ogni credente il dolce suono familiare delle mura domestiche della propria fede, in cui è stato cresciuto e che ancor oggi, in un'epoca di pluralismo culturale e religioso, è chiamato in prima persona a testimoniare con la propria vita, da cui deve sgorgare e trasparire la verità della fede, perché questa fede non sia soltanto un'arida esposizione dottrinale di verità. L'origine della nostra fede Giovanni inizia la sua prima lettera2 con un prologo di quattro versetti molto significativi da un punto di vista storico, perché legano l'origine della nostra fede ad un evento storico, di cui l'autore, assieme ad altri, dà testimonianza oculare diretta:
Ciò che era fin da principio,
(poiché la vita si è fatta visibile,
quello che abbiamo veduto e udito, Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta. (1Gv 1,1-4)
"Ciò
che era fin da principio". Il principio di cui si parla qui non
è un principio assoluto che si pone al di là dello spazio e del
tempo, ma storico. L'espressione greca usata, infatti, non è "en
arché", che indica un inizio metafisico, da cui tutto
discende, come fu per l'inizio della creazione (Gen 1,1) o con cui
Giovanni inizia il suo vangelo, ma "ap'archés", che
indica uno svolgimento temporale a partire da un determinato momento
storico. Questo evento storico, di cui essi sono stati testimoni
diretti, è la persona stessa di Gesù, la sua predicazione e la sua
opera. Questa, dunque, si pone all'inizio dell'avventura cristiana.
All'inizio dunque della nostra fede non ci sta un'idea o una
filosofia o una qualche mistificazione della realtà, bensì un
evento storico ben circoscritto. La
concretezza di questo evento storico viene espressa da quattro verbi:
vedere, udire, toccare, contemplare. I
primi tre si agganciano direttamente ai sensi della vista, dell'udito
e del tatto e ne definiscono i contorni fisici, materiali, colti in
tutta loro concretezza storica; il quarto, contemplare, ci
rimanda alle nostre capacità intellettive e razionali e pertanto
alla nostra capacità di saper astrarre e andare al di là di ciò
che fisicamente appare e viene percepito con i sensi. In altri
termini, questi testimoni diretti non solo hanno visto questo evento
storico di nome Gesù, ma hanno saputo anche cogliere in esso la
realtà trascendente che vi era nascosta: la sua divinità, il Verbo
della vita divina stessa. Questo
Verbo della Vita, affermano questi testimoni storici, si è
manifestato a noi e noi lo abbiamo contemplato, ascoltato e
annunciato a tutti voi “perché anche voi siate in comunione con
noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù
Cristo”. In altri termini, il credere tutti nell'unico Verbo
della Vita ci mette tutti in comunione tra di noi e in comunione con
l'unico Padre e con l'unico Cristo, inserendoci in tal modo in un
unico ciclo vitale divino, in cui viviamo noi insieme al Padre, al
Figlio e allo Spirito Santo. Questo è l'effetto della nostra fede.
Questa è la nostra fede, che ha profonde radici storiche, ma che ci
apre e ci colloca anche in realtà transtoriche, fisicamente non
percepibili, ma per questo non meno vere. Le
prime riflessioni teologiche: le formule di fede Di
fronte all'evento storico Gesù, alla sua predicazione e alla sua
opera; di fronte all'annuncio3
di questo evento storico da parte dei primi missionari itineranti, i
primi credenti risposero positivamente aprendosi ad esso,
accogliendolo nella propria vita e conformandola ad esso (At 2,37-41;
Ef 1,13-14). L'annuncio,
accolto e divenuto fondamento nuovo del proprio vivere, si
tradusse ben presto in una vera e propria professione di fede
nel Cristo morto e risorto, quale principio e fonte di salvezza per
tutti coloro che aderiscono a lui nella fede. Questa doveva essere
innanzitutto radicata nel proprio cuore, ma testimoniata
necessariamente anche con la parola. Una
testimonianza in tal senso ci viene riportata da Paolo nella sua
lettera ai Romani, scritta intorno all'anno 57: "Vicino a te
è la parola, sulla tua bocca
e nel tuo cuore. Poiché se
confesserai con la tua bocca che Gesù è il
Signore, e crederai con il tuo cuore
che Dio lo ha risuscitato dai morti,
sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per
ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione
di fede per avere la salvezza" (Rm 10, 8-10). La
prima comunità credente, dunque, riteneva indispensabile che la
nuova fede dovesse essere non solo creduta interiormente, ma
professata comunitariamente e pubblicamente con la bocca. La
chiesa primitiva infatti doveva sentire il bisogno di esprimere la
forte esperienza del Cristo risorto, del cui mandato era depositaria
(Mt 28, 19-20). La formula era quindi una sintesi di tale esperienza,
quasi una sorta di slogan che aiutava a comprendere e a
comunicare il mistero del Risorto.La nascita di queste formule era
strettamente legata alla situazione esistenziale (sitz im leben4),
che queste primitive comunità
credenti erano chiamate a vivere di volta in volta: la liturgia e il
culto, la catechesi, l'annuncio kerigmatico, le controversie con il
mondo giudaico e con i detrattori del cristianesimo, le esperienze
ecclesiali in genere. La
formulazione della fede attraverso la parola, inoltre, raggiungeva un
triplice obiettivo: a) si definiva il contenuto di ciò che si
credeva, togliendolo dalla nebulosità di ogni vago sentimentalismo e
personalismo; b) dando in tal modo oggettività e concretezza
all'oggetto della propria fede, facendone un preciso e comune punto
di riferimento, un comune luogo di ritrovo, in cui tutti i veri
credenti si identificavano; c) ne veniva facilitata la
trasmissione. La formula era quindi un mezzo efficace di
comunicazione e di riconoscimento. Questa
primaria e fondamentale necessità della fede nascente ci viene
testimoniata dalle numerosissime formule di fede
variamente sparse negli scritti neotestamentari, che i primi autori
hanno trovato presso le comunità stesse e riportate, a
testimonianza, nei loro scritti. Esse costituivano un po’ il
linguaggio comune della propria fede e il suo modo comune di
esprimersi, di essere testimoniata e trasmessa. Esse rispondevano
sempre alla domanda: in che cosa tu credi? Queste
formule racchiudono in se stesse, solidificandola e oggettivandola,
l'incipiente fede comune, testimoniandoci non solo il livello di
comprensione che queste primitive comunità hanno avuto dell'evento
Gesù, ma anche lo sviluppo del loro pensiero teologico. Queste
formule, che potremmo considerare come dei reperti archeologici della
nostra fede, sono per noi importantissime e fondamentali, perché non
solo ci testimoniano che cosa questi primissimi credenti hanno
sperimentato e compreso della persona di Gesù, ma fungono anche da
valido ed oggettivo parametro di confronto con ciò in cui noi
crediamo e, quindi, fondamento stesso della nostra fede. Nessuna fede
può dirsi cristiana se prescinde da queste formule. Esse vanno lette
e meditate con raccoglimento e devozione, direi quasi in ginocchio,
perché l'accostarsi ad esse è un ritornare alle origini stesse
della nostra fede, quasi un toccare con le nostre mani quel mistero,
che è racchiuso in esse e che ci è stato tramandato nel corso dei
secoli. Gli studiosi delle antichità cristiane hanno raccolto queste formule di fede ragruppandole in tre categorie:
A titolo meramente esemplificativo ne riportiamo di seguito solo alcune. Tuttavia prima di introdurci alla loro lettura va precisato, per una corretta comprensione delle stesse, il significato che le prime comunità intendevano attribuire a quanto esprimevano:
Similmente:
"Il Signore è lo Spirito" (2Cor 3,17a) Una
formula che si ritrova molto spesso è la seguente: "... secondo
il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore"
(Ef 3,11) Un'altra
formula più elaborata, sempre ad un elemento, si trova in Rm 14,9:
"Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla
vita, per essere il Signore dei morti e dei vivi". Una formula testimoniata in un saluto: "La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito" (Fil 4,23; e similmente in 1Ts 5,28 e 2Ts 3,18). Altre ancora:
"Costituito
Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione
mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore"
(Rm 1,4);
"...
perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo" (Rm 15,6); "grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo" (1Cor 1,3; 2Cor 1,2); "per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui" (1Cor 8,6); "Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti" (Gal 1,1); "e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre" (Fil 2,11).
"Vi
esorto perciò, fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e
l'amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere, che
rivolgete per me a Dio" (Rm 15,30);
"La
grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello
Spirito Santo siano con tutti voi" (2Cor 13,13); "...
secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello
Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi dal suo
sangue: grazia e pace a voi in abbondanza" (1Pt 1,2)
"Andate
dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ..." (Mt 28,19).
Altre formule più complesse ed elaborate ci vengono trasmesse da Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinti. Queste ci aiutano a capire come anch’egli attingesse la sua fede all’interno delle comunità primitive, che già avevano elaborato in queste formule, dal sapore fortemente liturgico, la loro esperienza del Cristo: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto che cioè Gesù Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai dodici ...” (1Cor 15,3-5); “Io infatti ho ricevuto dal Signore5 quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse:<<Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>>. Allo steso odo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: <<Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo ogni volta che ne bevete>>” (1Cor 11, 23-25). Paolo
dunque, ben lungi dall'essere l'inventore del cristianesimo, si muove
all’interno della fede comunitaria e ne diventa testimone e
trasmettitore. Origine del Simbolo Apostolico
Quando
i nuovi credenti, provenienti sia dal giudaismo che dal paganesimo,
accolsero la novità del messaggio cristiano tendevano a leggerlo
e a comprenderlo secondo lo schema mentale e culturale proprio,
alterando sovente la genuinità e l'originalità della Verità, che
caratterizzava il cristianesimo. Già,
quindi, intorno alla seconda metà del secondo secolo si discuteva,
soprattutto in ambiente della chiesa orientale, sulla natura di
Cristo e del suo rapporto con Dio Padre. Il dibattito non ancora
pienamente esploso con la virulenza che avverrà nel IV sec., ma
strisciante, produceva diversi modi di intendere Cristo, Dio Padre e
lo Spirito Santo, che lentamente si diffusero in tutto l'impero e
soprattutto si radicarono nell'animo della gente, formando un
sostrato religioso e culturale, che creava un comune modo sentire.
Questo spiega le grandi lotte teologiche e dottrinali, che si
svilupparono in modo irruente, per molti decenni, nel IV e V sec. e
che divisero oltre che la chiesa anche l'impero, di cui la chiesa era
parte integrante. Nascevano in tal modo le prime eterodossie7,
cioè modi diversi, ma non corretti, di pensare a Cristo in se stesso
e nel suo rapporto con il Padre, e che si erano sviluppate
nell'ambito del plurisecolare dibattito teologico, tra il II e il III
sec. per poi esplodere nei secoli successivi. Al
fine di evitare una frantumazione della chiesa nascente e una dannosa
confusione sulle verità poste a fondamento del vivere cristiano, i
responsabili delle comunità sentirono la necessità di raggruppare,
scegliendole dalle varie formule di fede, che già si erano
tranquillamente radicate e pacificamente affermate nelle prime
comunità, alcune di queste formule dando in tal modo origine al
primo credo, inizialmente chiamato Simbolo Apostolico,
sorto intorno al 150 d.C. Esso,
molto semplice, essenziale, concreto e immediato nel suo modo di
esprimersi, era una sorta di sommario di alcune verità ritenute non
solo fondamentali, ma essenziali e indispensabili per l'identità
cristiana stessa. Era definito Simbolo perché esprimeva
l'essenza stessa di ciò che il cristianesimo crede, una sorta di
carta d'identità del cristianesimo ortodosso8;
ed Apostolico, perché le verità ivi contenute erano fatte
risalire direttamente alla fede trasmessa dagli Apostoli e quindi
certa e sicura9.
Il
Simbolo Apostolico pertanto divenne il luogo del comune
riconoscimento dei veri credenti in Cristo, la loro carta d'identità,
il luogo di ritrovo sicuro della loro fede, che li salvaguardava
dalle false imitazioni o dalle interpretazioni distorte su Cristo e
su Dio Padre. Esso fu anche il punto di partenza di ogni
catechesi, che accompagnava il catecumeno fino al battesimo, dove
egli proclamava la sua fede con la recita del Simbolo Apostolico
davanti alla comunità. Esso divenne pertanto anche il Simbolo
battesimale. Ed è proprio dalla liturgia battesimale della chiesa
primitiva che ci viene tramandata la formulazione più antica del
Simbolo Apostolico10,
che qui riportiamo con alcune integrazioni aggiuntesi nel tempo11:
Credo in Dio Padre Onnipotente
I grandi conflitti dottrinali del IV secolo: la definizione della Trinità I grandi conflitti dottrinali, che caratterizzarono la vita della chiesa nel IV sec. per circa un sessantennio (320-380) e che trovarono la loro ricomposizione nei concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381), avevano alla base una comune preoccupazione: salvaguardare il monoteismo, che la chiesa aveva ereditato e pienamente accolto dal giudaismo. Come già si è sopra accennato, le questioni dottrinali circa la natura di Gesù e il suo rapporto con Dio Padre, già serpeggiavano intorno al 150 d.C. Esse quindi non sorsero con Ario, ma egli fu quello che dette fuoco alle polveri di un problema che da tempo era all'interno della chiesa e che tacitamente aveva creato degli opposti schieramenti, non solo tra i teologi, ma anche all'interno della popolazione. E questo spiega il grande successo di Ario e la lunga lotta ariana, mai sopita definitivamente. La questione Da dove ebbero origine i problemi riguardanti la Trinità, cioè i rapporti che intercorrono tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la definizione della loro natura? Nei testi neotestamentari (Vangeli, Atti degli Apostoli, Lettere e Apocalisse) vengono spesso richiamati i nomi di Dio, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La questione che si poneva era come mettere in relazione tra loro questi termini? C'è un Dio solo o sono tre dèi? Tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo quale rapporto intercorre? Sono vere e proprie persone, dotate di una loro individualità e personale volontà oppure più semplicemente tre modi diversi attraverso cui si esprime Dio? E quale è la loro vera natura? C’è tra loro un’unica natura che li accomuna o ognuno ha una sua natura propria? Le risposte La questione non era semplice, anche perché, da un lato, era la prima volta che la chiesa era chiamata a rispondere a questi interrogativi e, dall’altro, non vi era ancora una dottrina certa e ben codificata o filosoficamente definita. Tutto quindi era da costruire. Pertanto vi furono varie soluzioni, quasi tutte eretiche, cioè dottrinalmente deviate, (ma forse è meglio dire eterodosse - v. nota 4) tutte comunque preoccupate di salvaguardare il monoteismo, cioè l'unicità di Dio. L'intenzione dunque era buona, un po' meno i risultati di questi primi studi e dibattiti. Le eresie o meglio eterodossie vanno dunque comprese sempre in questo contesto di prima ricerca e l'eretico qui non va mai condannato. Questi eretici erano del resto dei personaggi di enorme levatura culturale e di grande fede, che si sono battuti fino all'ultimo, subendo persecuzioni, umiliazioni, esili e grandi sofferenze per l'affermazione di quella che loro ritenevano essere la verità. Vanno sempre, quindi, amati e rispettati perché è grazie anche a loro se oggi abbiamo una dottrina certa e salda, su cui poggia tranquilla la nostra fede. Facciamo qui di seguito un brevissimo accenno ad alcune eresie o tentativi di spiegare la presenza e la relazione del Padre, Figlio e Spirito Santo. Tutto ciò ci servirà, in seguito, per capire meglio il nostro Credo e da dove esso è nato. Le eresie Il Monarchianesimo, dal greco monos arché = un solo principio, fu un movimento eretico che affermava l'unicità di Dio e pertanto era rigorosamente monoteista. La questione che si poneva era semplice: come giustificare la posizione di Gesù che veniva adorato come Dio accanto al Padre? La risposta fu duplice e dette origine a due correnti: l'Adozionismo e il Modalismo. Gli Adozionisti affermavano che Gesù era un semplice uomo, ma che nel battesimo, ricevuto sulle rive del Giordano, venne adottato da Dio. Quindi soltanto il Padre è Dio, mentre Gesù è una sorta di Dio adottato e, pertanto, non propriamente vero Dio, ma solo un secondo dio, una sorta di dio minore. I Modalisti invece affermavano che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano soltanto dei modi di manifestarsi dell'unico Dio. Quindi non c'era un vero e proprio Padre, Figlio o Spirito Santo, ma soltanto un unico Dio che si presentava agli uomini talvolta come Padre, altre volte come Figlio, altre volte ancora come Spirito Santo. In tal modo i tre nomi venivano svuotati della loro natura di persona e ridotti a semplici modi espressivi di Dio, una sorta di tre maschere dietro le quali si celava sempre l’unico Dio. Il Subordinazionismo affermava la natura divina di Gesù, ma la subordinava, cioè la faceva dipendere dal Padre, mentre lo Spirito Santo era subordinato al Figlio, cioè dipendeva per la sua natura divina da quella del Figlio, che a sua volta dipendeva da quella del Padre. In tal modo veniva salvaguardata a tutti e tre la natura divina, ma per il Figlio e lo Spirito Santo la loro natura divina non era posseduta in proprio, cioè non era una parte essenziale e costitutiva del loro essere, ma era partecipata e dipendente da quella del Padre. Quindi l'unico e vero Dio era soltanto il Padre, gli altri due partecipavano in qualche modo alla sua divinità. Di fatto non erano Dio. Di rigoroso indirizzo subordinazionista fu anche la scuola antiochena, fondata dal presbitero Luciano verso la fine del III sec., che morirà martire sotto Diocleziano (284-305). A questa scuola si formò Ario e la maggior parte dei capi ariani. La questione ariana Ario (256-336) era presbitero, dal 313, presso la parrocchia di Baukalis, nella periferia di Alessandria, in cui era vescovo Alessandro con il suo diacono Atanasio12. Ario venne in conflitto nel 318 con il suo vescovo, per aver propagato con prediche e scritti una cristologia rigorosamente subordinazionista. Ario aveva a cuore l’unità di Dio, per cui un Gesù Cristo, Figlio di Dio e, quindi, lui stesso Dio, attentava al monoteismo. Ario, pertanto, affermava che :
Ario fondò e sostenne queste sue affermazioni con alcuni passi della Bibbia e precisamente13:
Così Ario, in buona fede, interpretò il Logos, Gesù Cristo. Ma che cosa ha portato Ario a queste conclusioni? Ario ha in testa lo schema tripartito del mondo: Dio – Logos – Cosmo14. Quindi il Figlio-Logos per Ario è una sorta di dio minore ed è il mediatore tra l’uomo e il vero Dio. In quanto mediatore, Dio e uomo si incontrano nel Logos, ma rimangono tra loro estranei. Ario si accorge di questa incongruenza e ricorre ad un ragionamento di tipo platonico: il Figlio è in assoluto il migliore di tutti noi, per cui se noi lo imitiamo saliamo a Dio come lui. Alessandro, suo vescovo, gli controbatte: se tu affermi che il Figlio non è Dio, come possiamo diventare figli di Dio nel battesimo, se il Figlio in cui siamo immersi nel battesimo non è Dio? Allora il tutto diventa inutile. Ovviamente Ario, negando la divinità di Cristo e la sua consustanzialità con il Padre, si poneva automaticamente fuori dalla retta dottrina della Chiesa. Alessandro cercò in ogni modo, con dolcezza e per mezzo dell’ammonizione paterna, di recuperare Ario dimostrandogli che le sue idee lo ponevano in rotta di collisione con la Tradizione. Ma tutto fu inutile. Ario rimase fermo nella sua posizione. Ad Alessandro non rimase che convocare un sinodo, che si tenne intorno al 319, a cui parteciparono un centinaio di vescovi e dove Ario fu dichiarato eretico e posto fuori dalla Chiesa. Ario si rifugiò presso il vescovo Eusebio di Nicomedia. Ario, quindi,
non solo non si sottomise, ma continuò a propagare le sue idee,
specialmente attraverso il poemetto Thalia
(il banchetto). Ne
nacquero dei disordini e le divisioni all’interno della Chiesa si
accentuarono, così che intervenne l’imperatore Costantino,
richiamando all’ordine le parti, ma senza ottenere alcun risultato. Il
Concilio di N i c e a Voluto da Costantino, con il consenso di papa Silvestro I°16, per dirimere la questione trinitaria, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325 e terminò il 25 luglio dello stesso anno, durò, quindi, circa due mesi. Vi parteciparono, sembra, 220 vescovi o forse furono 318, con riferimento ai 318 servi di Abramo, mentre Eusebio di Cesarea nella sua “Storia ecclesiastica” parla di 250 vescovi. Questi per lo più provenivano dalla parte orientale dell’impero, mentre l’occidente era rappresentato soltanto da cinque vescovi e da due legati di papa Silvestro I°, sette persone in tutto. Dopo lunghi e agitati dibattiti vinse la corrente che rappresentava l’ortodossia, cioè la corrente di Alessandro-Atanasio. Il Concilio si concluse con la professione di fede sottoscritta da 220 vescovi in cui si affermava: “Crediamo
in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili
e invisibili. E in
un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito,
dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce,
Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del
Padre (consustanziale)
mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono
in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la
nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto
uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà
per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo. Ma quelli che dicono: vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza del Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna” Il Concilio regolamentò anche con 20 canoni (noi diremmo oggi con 20 articoli) alcuni aspetti della vita interna della Chiesa e della sua struttura. Anche se questi non hanno valore teologico e, quindi, possono essere considerati del tutto marginali rispetto al grande tema del Concilio di Nicea, tuttavia sono, da un punto di vista storico, di grande interesse per la vita della Chiesa del IV° secolo. La confessione di fede, sottoscritta da 220 padri conciliari, venne recepita da Costantino e promulgata come legge imperiale. Si chiudeva così in due mesi circa, dal 20 maggio 325 al 25 luglio dello stesso anno, il Concilio di Nicea. Ma nonostante la concorde condanna conciliare di Ario, le diatribe ripartirono più vive che mai, anche perché Costantino forzò la mano a quei vescovi riluttanti o poco convinti circa la dichiarazione sottoscritta. Pomo della discordia era il termine omo-ousios, cioè della stessa sostanza del Padre o consustanziale al Padre, per niente digerito dai vescovi orientali che, invece, preferivano il termine omoios, cioè simile al Padre, negando in tal modo che Gesù avesse una natura divina come quella del Padre e, pertanto, Gesù non era Dio. A favorire gli strascici polemici ci si mise anche Costantino, che cambiò quasi subito opinione. Nel 328 richiamò dall’esilio il vescovo Eusebio di Nicomedia e con lui ritornò anche Ario che, dopo aver aderito pro forma al simbolo niceno, venne restituito, su ordine imperiale, al suo ministero. A ciò si oppose il vescovo Atanasio, che venne esiliato una prima volta nel 335 a Treviri; seguirono, poi, altri quattro esili sotto vari imperatori; l’ultimo, il quinto, sotto l’imperatore Valente nel 365. Ciò provocò una sommossa popolare e, in tal modo, Atanasio poté rientrare definitivamente nella sua città. Il dibattito, quindi, accompagnato da vere e proprie persecuzioni, testimoniateci anche dalla lettera dei vescovi radunati nel concilio di Costantinopoli (381) e inviata a papa Damaso e ai vescovi occidentali, riprese molto vivace, sostenuto e difeso da imperatori filoariani, e proseguì fino al 380, quando Teodosio il Grande (379-395), con l'editto “Cunctos populos”, emanato nel febbraio del 380, dichiarò il Cristianesimo religione di stato e bollò di eresia tutti coloro che si ponevano contro la dottrina cristiana cattolica. In questo sessantennio ariano di lotte teologiche, che si pone tra il concilio di Nicea e quello di Costantinopoli, si profilò una nuova definizione di Trinità, elaborata da tre grandi personaggi originari della Cappadocia, un fulgido esempio di amicizia e di collaborazione all’interno della Chiesa: Basilio di Cesarea (330-379), Gregorio nazianzeno (330-390) e Gregorio di Nissa (334-392). Essi affermarono che all’interno della Trinità vi è una sola natura in tre Persone, quindi, un Dio in tre Persone. Essi misero in chiara luce anche la divinità dello Spirito Santo, che, invece, era considerato dagli ariani solo uno spirito incaricato di un ministero, diverso dagli angeli solo per grado. Concilio
di Costantinopoli Chiarita la relazione tra il Padre e il Figlio, riconosciuta la stessa natura sia al Padre che al Figlio e affermato che il Figlio è Dio alla pari del Padre, rimaneva ora da definire la posizione dello Spirito Santo rispetto al Padre e al Figlio. Questo aspetto, infatti, era rimasto nell’ombra perché tutta l’attenzione era stata concentrata sul Logos, cioè Gesù Cristo nel suo rapporto con il Padre. Gli ariani affermavano che lo Spirito era una creatura del Figlio, come questi lo era del Padre. Anzi, per la verità, sostenevano, lo Spirito Santo era uno degli spiriti incaricati di un ministero, diverso dagli angeli solo per grado. A fronte di tale posizione, Atanasio, nel frattempo succeduto al suo vescovo Alessandro, scrisse ben quattro lettere ad un vescovo ariano in difesa della divinità e consustanzialità dello Spirito Santo rispetto alle prime due persone. In tal senso vi furono dei sinodi: nel 362 ad Alessandria, in cui Atanasio proclamò lo Spirito Santo “della stessa sostanza e divinità del Padre e del Figlio”; successivamente se ne tennero altri tra Alessandria e Roma. A sostegno della tesi di Atanasio concorsero anche i tre Cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio nisseno e Gregorio nazianzeno, che confutarono acutamente l’eresia e fornirono la chiave solutiva della questione ariana, chiarendo bene i concetti di sostanza e di persona. La questione, ormai annosa e insolubile, sfociò in un secondo concilio ecumenico, quello di Costantinopoli nell’anno 381, che durò circa tre mesi, dal 1 maggio al luglio del 381. Esso fu convocato dall’imperatore Teodosio I° e vi parteciparono 150 vescovi delle sole chiese di oriente. L’anno successivo, nel 382, i Padri conciliari scrissero una lettera a papa Damaso I° e ai vescovi della chiesa di occidente in cui esposero sinteticamente la formulazione raggiunta sullo Spirito Santo : “Questa fede … ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, …” Il Concilio di Costantinopoli si concluse con una unitaria professione di fede, sottoscritta dai 150 Padri conciliari e recependo in se stesso, integralmente e confermandola pienamente, quella di Nicea, che qui di seguito riportiamo: “Crediamo in Dio Padre onnipotente, che ha fatto i cieli e le terre, e tutto ciò che è visibile ed invisibile ; e in un solo signore Gesù Cristo Figlio di Dio unigenito, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, nato non creato, dalla sostanza del Padre, dal quale tutte le cose sono state generate, per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è incarnato per mezzo dello Spirito Santo in Maria Vergine e si è fatto uomo; fu per noi crocifisso sotto Ponzio Pilato e fu sepolto e al terzo giorno resuscitò e ascese al cielo e siede alla destra del Padre e verrà per giudicare i vivi e i morti, il suo Regno non avrà fine ; e nello Spirito Santo, signore e vivificatore, che procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio adoriamo e glorifichiamo, e ha parlato per mezzo dei profeti ; in una chiesa cattolica e apostolica ; confessiamo un solo battesimo in remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti e la vita dei secoli futuri. Amen.” Come si può rilevare, le chiese d'Oriente concepivano lo Spirito Santo come procedente “dal Padre attraverso il Figlio”, mentre per l’Occidente lo Spirito Santo procedeva “dal Padre e dal Figlio”. Quando in Occidente si diffuse la formula con il “Filioque” (e dal Figlio) lo si ritenne semplicemente una interpretazione; ma l’Oriente considerò, invece, questa introduzione come una innovazione che adulterava del Simbolo apostolico e incolpò l’Occidente di eresia. Il Filioque diverrà così la causa prima, ma non unica, dello scisma del 1054 tra le Chiese d’Oriente e quella di Occidente, conclusosi con reciproche scomuniche. La questione è ancora aperta. Questa è la storia del Simbolo della nostra fede, che abbiamo visitato a partire dalle sue origini e in cui tutti noi ci riconosciamo credenti nell’unico Dio, che è Padre, che è Figlio e che è Spirito Santo. In esso è stata codificata e resa certa la nostra fede, che ci viene ora affidata e di cui siamo responsabili verso le generazioni future, perché la verità di fede, dogmaticamente definita e conservata integra nello scrigno del Simbolo Apostolico e niceno-costantinopolitano, venga ora resa viva ed efficace attraverso la sua incarnazione nella vita di ciascuno di noi, dando luce, certezza e speranza a quanti incontriamo lungo il cammino della nostra storia. Questo è il cammino della nostra fede!
Parte
biblico-teologica
Premessa Dopo un breve escursus storico, necessariamente sintetico, che ci ha consentito in qualche modo di tornare alle origini della nostra fede e di toccarne con mano la formulazione storica, ci inoltriamo ora in una riflessione biblico-teologica per meglio comprendere quelle formule così aridamente espresse, ma dal contenuto pregnante che va a toccare il cuore della nostra vita e lo interpella. Senza la sua incarnazione nella nostra vita, la fede rimane un bel monumento inespressivo, quasi un cippo funerario. Infatti la fede, che non trova la sua risonanza nelle opere e non viene celebrata nella nostra vita, è morta (Gc 2,17). In questa parte prenderemo in esame il credo niceno-costantinopolitano17, che normalmente viene proclamato nelle nostre assemblee domenicali. Partendo da una sua analisi strutturale e poi, via via di seguito, rifletteremo su ogni singola formula, cercando di coglierne il significato più profondo per una migliore comprensione della nostra fede, su cui dovremo riparametrare la nostra vita. Credo Niceno-Costantinopolitano
La struttura SEZIONE DOGMATICA, divisa in tre parti: Teologica, Cristologica, Pneumatica Il Padre, origine di tutto (Parte teologica)
Credo in un solo Dio, Creatore del cielo e della
terra, La natura del Figlio contemplato nel suo rapporto con il Padre. (Parte cristologica) Credo in un solo Signore, Gesù
Egli è Dio come il Padre (Nicea 325) della stessa sostanza del
Padre;
Il passaggio dal cielo alla terra: motivazione e senso dell’incarnazione Per noi uomini e per la
nostra Gli eventi storici della salvezza: dalla nascita al suo ritorno per
opera dello Spirito Santo si
è
Lo Spirito Santo, Dio insieme al Padre e al Figlio (Costantinopoli 381) (Parte pneumatologica)
Credo nello Spirito Santo, Credo la Chiesa, una santa SEZIONE CONFESSIONALE O TESTIMONIALE Professo un solo Battesimo per il SEZIONE ESCATOLOGICA Aspetto la risurrezione dei
morti
Simbolo18
Io credo Art. 1) in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Art. 2) E in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore, Art. 3) il quale fu concepito di Spirito Santo nacque da Maria Vergine, Art. 4) patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, mori e fu sepolto; Art. 5) discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; Art. 6) salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: Art. 7) di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Art. 8) Credo nello Spirito Santo, Art.
9) la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, Art. 10) la remissione dei peccati, Art. 11) la risurrezione della carne, Art. 12) la vita eterna. Amen
Riflessione biblico-teologica
Credo Il simbolo della nostra fede, quale luogo del nostro comune ritrovo e in cui tutti ci riconosciamo, non poteva che aprirsi con un'affermazione perentoria: Credo. Un verbo che viene ripetuto insistentemente quattro volte e che si sviluppa, quale sua propria conseguenza, in altri due verbi fondamentali per la nostra fede: Professo e Aspetto. Si noti come tutti i verbi sono posti al presente indicativo e alla prima persona singolare. Ciò significa che il nostro credere, pur radicandosi nella comune ed unica fede della comunità credente, in cui noi tutti siamo inseriti e di cui tutti partecipiamo, ci interpella direttamente e individualmente. E' quindi il nostro Io, la nostra persona, colta in ogni sua dimensione espressiva, spirituale, corporale, morale, psicologica e sociale, che crede. Come dire che la fede ci investe nella nostra totalità, qui, nel nostro oggi, nella nostra quotidianità. E' una fede quindi esigente, che non si accontenta di qualche gesto ripetitivo, di qualche preghiera, di una rigorosa osservanza di comandamenti o precetti vari, ma interpella soprattutto il nostro cuore e la nostra mente e si colloca alla radice ultima del nostro essere persone. Pretende di diventare e di essere la forma mentis abituale del nostro vivere. Che cosa significa credere? Innanzitutto vuol dire fidarsi, porre il nostro Io credente, colto nella totalità del suo esprimersi, nelle verità che professiamo e quindi scommettere e conformare la nostra vita su queste. Non si tratta, dunque, soltanto di credere in qualcosa, ma soprattutto di aderire esistenzialmente a ciò che si professa nella fede. Il nostro credere, pertanto, si snoda su due binari: l'oggetto della fede, in cui si crede, che richiede un atto intellettivo e razionale, aprendoci in tal modo alla comprensione di ciò che crediamo; e la risposta esistenziale alla verità che ci si svela. Non può esserci vera fede se manca uno soltanto di questi due elementi. Da qui la necessità per ogni credente di approfondire le realtà della propria fede, perché ciò che si crede con la mente si trasformi in fede vissuta. Si noti come nel Simbolo niceno-costantinopolitano non si parla mai di fede in qualcosa, ma di credere in determinate realtà. Il verbo (credo) infatti contiene in se stesso un dinamismo, che in quanto verbo gli è proprio, poiché il verbo indica sempre un'azione, che il nome (fede), in quanto semplice sostantivo, non possiede. Ciò significa che il credere coinvolge dinamicamente tutta la nostra vita in ogni suo aspetto. Non si crede con l'intelletto soltanto, sarebbe una fede incompiuta, ma soprattutto con la vita. E' significativo infatti che in tutto il vangelo di Giovanni il verbo credere compaia ben 89 volte, mentre il termine fede non compare mai. Infatti per Giovanni il credere non è un atto intellettivo, ma è essenzialmente un moto proprio della vita e ad essa si aggancia. Credere per l'evangelista è un accogliere esistenzialmente il Cristo nella sua parola; ed è proprio in questa accoglienza incondizionata che si innesta nel credente la vita stessa di Dio, mentre lo stesso credente viene collocato fin d'ora in essa (Gv 1,12; 5,24). Il credere, dunque, per Giovanni è fonte stessa della vita divina, che viene generata nel credente da Dio. Il credere infatti dice l'azione propria di Dio che opera sull'uomo (Gv 6,29). Non a caso il termine vita compare in Giovanni 41 volte ed è molto spesso accompagnato da verbi che indicano il credere, sancendo in tal modo una stretta connessione e un profondo connubio tra il credere e la vita19. E che così sia lo testimonia la chiusura stessa del vangelo giovanneo: "Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Gv 20,31). Ma se per Giovanni fede e vita costituiscono un inscindibile connubio, che colloca l'uomo fin da subito nella vita stessa di Dio, sancendone la salvezza già in questa vita terrena, per Marco il credere è una risposta esistenziale ad una proposta salvifica di Dio che si è manifestata in Cristo: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo." (Mc 1,15). Il regno di Dio si presenta nei vangeli come il luogo proprio dell'azione salvifica operata da Dio in mezzo agli uomini e che assume il volto storico di Gesù20, l'evento salvifico stesso di Dio per eccellenza. A fronte di questo annuncio salvifico l'uomo è chiamato a prendere posizione con la propria vita: "convertitevi e credete al vangelo". I verbi posti all'imperativo esortativo dicono la strada obbligata per l'uomo: cambiare il proprio modo di vivere, riorientarsi esistenzialmente a Dio, aprendosi a lui con la propria vita, accogliendolo in se stessi e conformando il proprio vivere alle esigenze imperative e ultimative di Dio. Quando pertanto facciamo risuonare nelle assemblee domenicali il nostro "Credo" diciamo pubblicamente la nostra disponibilità non solo a credere nelle verità che proclamiamo e che sono poste a fondamento e a identità del nostro essere cristiani cattolici, ma ci diciamo anche disponibili ad accoglierle nella nostra vita, così che la nostra vita diventi il luogo accogliente di quella Via,Verità e Vita (Gv 14,6), che illumina tutti gli uomini ancor oggi per mezzo nostro. Solo in tal modo il nostro credere ci trasforma in sale della terra e luce del mondo (Mt 5, 13-16).
Precisato il significato del credere, ora prendiamo in esame le Verità in cui siamo chiamati a credere e a cui dobbiamo conformare la nostra vita. "In" Innanzitutto soffermiamoci su questa semplice particella "in". In latino (in), come in greco (eis) essa esprime non uno stato in luogo, quindi uno stato di quiete, bensì un moto a luogo. Questa particella contiene in sé un dinamismo proprio che qualifica il nostro credere. "Credere in" non è un semplice e passivo riporre la nostra fiducia in Dio, ma esprime sopratutto il nostro andare verso Dio con tutto il nostro essere. Il credere quindi esprime il cammino della nostra vita, orientata a Dio e pronta a soddisfare le sue esigenze, rivelateci in Cristo. Questa particella dunque dice il nostro modo relazionarci alle Verità che proclamiamo: è un muoversi esistenzialmente verso di esse, accogliendole principalmente nella nostra vita, così che la nostra vita diventi il luogo privilegiato dove queste Verità dimorano e dove gli altri le possono incontrare. In tal modo la nostra vita diventa il luogo privilegiato e salvifico dove Dio ancora una volta si manifesta e si rivela all'uomo (Gv 14,23). "Un solo Dio" Il primo atto di fede viene riposto nel principio assoluto "Dio". Come la Bibbia si apre con l'affermazione di fede: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1), ponendo al principio di tutto Dio, da cui tutto discende, così per il credente Dio viene posto al principio del proprio atto di fede, riconoscendo in Lui il principio assoluto al di fuori del quale nulla esiste. Per questo accanto al nome Dio viene affiancato l'attributo "solo", per esprimerne l'unicità. L'affermazione di fede che Dio è "uno solo" assolve ad un duplice obiettivo: il primo dogmatico, il secondo teologico. Quanto all'aspetto dogmatico è necessario precisare che la nostra fede riconosce soltanto un solo Dio. Infatti subito dopo diciamo di credere nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, che proclamiamo tutti tre Dio. Proprio per evitare il malinteso di una triplice divinità, va subito detto come la nostra fede sia rigorosamente monoteistica. Come ciò sia possibile verrà enunciato nel secondo atto di fede che riponiamo in Gesù Cristo e in cui viene definito il tipo di rapporto che intercorre tra lui e il Padre e la loro comune natura. Quanto all'aspetto teologico, questo ci riporta ad Es 20,1-5 in cui Dio, dopo aver affermato la sua unicità esclusiva nei confronti di Israele ("Io sono il Signore tuo Dio"), avanza la pretesa di un'esclusività assoluta ("non avrai altri dei di fronte a me"), perché "Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli, fino alla terza e quarta generazione ...". Il Dio di Israele, il nostro Dio è un Dio che non ama la concorrenza e vuole che il suo popolo, che il suo credente sia totalmente riservato a lui, a lui consacrato. Questa pretesa divina di unicità esclusiva ed assoluta incide fortemente nella nostra vita e nelle nostre scelte esistenziali e quotidiane, perché ci chiede che esse vengano compiute all'interno delle esigenze di Dio e non contro di Lui o in sua alternativa. Che cosa Dio vuole da noi ce lo ha rivelato nel suo Figlio, Gesù Cristo, e a lui ci chiede di aderire esistenzialmente. Questa pretesa divina di unicità e di esclusività nei nostri confronti non viola la nostra identità né umilia la nostra libertà, ma al contrario le esalta. Dio infatti vuole che l'uomo sia pienamente se stesso, poiché solo in tal modo egli sarà pienamente sua immagine e sua somiglianza (Gen 1,26-27). E ciò potrà avvenire soltanto se egli conformerà la propria vita a Cristo, in cui Dio ci ha indicato la perfezione dell'uomo. Proprio in tal senso la Gaudium et Spes al §22 afferma: "In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo ... svela pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. ... Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio (Col 1,15) è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato"; per questo "Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo" (GS, §41). Quando pertanto affermiamo l'unicità di Dio non proclamiamo soltanto un dogma, ma ne affermiamo anche la sua signoria nella nostra vita, perché soltanto in tal modo l'uomo trova la piena affermazione di sé, diventando sempre più uomo, così come lo era nei primordi dell'umanità. "Padre
Onnipotente, creatore del cielo e della terra Siamo soliti nelle nostre preghiere a rivolgerci a Dio, invocando su di noi la sua benedizione e il suo provvidenziale soccorso. Trattiamo Dio e parliamo di Lui o con Lui come se fosse una persona. Ma il Dio dei cristiani non è un Dio anonimo e sconosciuto; non è una eterea divinità inafferrabile e ineffabile, un'energia che si muove in modo imprecisato nel cosmo. Questo Dio ha assunto per noi credenti il triplice volto personale di Padre, di Figlio e di Spirito Santo. Tre persone che possiedono un'identica natura divina, che operano concordemente e che noi conosciamo dal loro singolo e personale agire, rivelatosi in Cristo. Dio, quindi, è uscito dal suo eterno anonimato, facendosi conoscere a noi nel volto storico del suo Cristo, in cui si è rivelato come Padre, come Figlio e come Spirito Santo (Mt 3,13-17; Gv 14,8-11; 15,26; 16,13-15). In questo dunque noi crediamo: in un unico Dio che è Padre, che è Figlio e che è Spirito Santo; o se meglio si desidera, crediamo nelle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo che sono un unico Dio. Il nostro primo atto di fede viene riposto nella persona del Padre. Così noi l'abbiamo definito, perché così ci è stato presentato da Gesù, ma ancor prima perché in tal modo Lui si è presentato a noi. Il suo agire è l'agire proprio di un padre. Infatti la funzione primaria del padre e che tale lo definisce, è quella del generare, quella del trasmettere la vita e di saperla poi mantenere fino alla sua piena autosufficienza, inserendo in essa un codice suo proprio che la conduce al suo pieno compimento. Gli Antichi affermavano che la pienezza della sapienza e della saggezza era vivere secondo natura, poiché le leggi che la governano sono il segno della presenza divina stessa, l'impronta stessa di Dio. Vivere secondo natura quindi significava in ultima analisi vivere secondo il progetto divino inscritto nelle cose stesse. Ed è proprio in questa sua veste primaria di Padre che la Bibbia ci fa conoscere Dio: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1). Dio, dunque, è prima di tutto Padre, cioè la sorgente stessa della vita da cui tutto discende e tutto dipende: "In principio Dio". E' lui che firma ogni sua opera con il riconoscerla come buona (Gen 1,31), poiché ogni cosa è incandescente del suo amore e avvolta nel manto della sua luce divina entro cui viene collocata (Gen 1,3). L'intero cosmo ci parla della sua paterna presenza, che si lascia raggiungere e cogliere nella sua stessa creatura, quasi un suo alter ego, l'uomo: "Infatti dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità" (Rm 1,20). Ma questo Dio si è rivelato anche come Padre nel generare per se stesso un popolo, che si è scelto in terra d'Egitto, dapprima individuandolo e costituendolo attraverso il sangue di un agnello (Es 12,7.13); poi, conducendolo ai piedi del monte Sinai dove gli ha assegnato una nuova identità, sancendo con lui un'alleanza (Es 19,4-6). Ma questa paternità di Dio, annunciataci in qualche modo nell'A.T., trova la sua piena manifestazione e la sua piena attuazione in Cristo, ancor prima della creazione del mondo, infatti: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per farci santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo ... nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue" (Ef 1,4-5.7a). Questa paternità di Dio nei nostri confronti, quindi, si attua "per opera di Gesù Cristo" e trova il suo punto culminante nel sacrificio della croce non disgiunta dalla risurrezione. In tal modo l'uomo viene ricreato, rigenerato nella morte-rsiurrezione di Cristo, a lui accorpato e cristificato per mezzo del battesimo, acquisendo in tal modo la sua figliolanza divina per adozione in Cristo. Infatti, "Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare quelli che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che noi siamo figli ne è prova che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio sei anche erede per volontà di Dio21" (Gal 4,4-7). In tal modo noi siamo diventati figli nel Figlio, condividendo con lui l'identico Padre. Gesù risorto lo ricorderà alla Maddalena: "... va dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20,17b). Nel Cristo risorto, dunque, si è manifestata e pienamente attuata la paternità stessa di Dio nei nostri confronti, "dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome" (Ef 3,15); come dire che tutto ciò che genera, dona la vita e la preserva trova la sua radice più vera e profonda nella stessa Paternità di Dio. Un Padre, quindi, da cui tutto ha tratto la sua origine e in Lui tutto mantiene la sua sussistenza e che noi professiamo "Onnipotente". Questo attributo è la traduzione del termine greco "pantocrator", composto da due termini "panto", che significa tutto, e "krateo", che significa dominare, regnare, signoreggiare. Quindi l'onnipotenza del Padre proclama non tanto un potere assoluto ed arbitrario, che sfocia in tirannia, quanto la sua Signoria universale, che si è manifestata pienamente nel Cristo risorto, che le prime comunità credenti, a ragione, definirono Signore, poiché in lui è stata riversata tutta l'Onnipotenza, la Signoria del Padre (Mt 11,27; Lc 10,22; Gv 10,18;1Cor 15, 25-28), che ha cura di tutte le sue creature (Mt 6,25-34; 1Pt 5,7). E' una Onnipotenza che punta a ristabilire la Signoria di Dio sull'intero cosmo, quando Dio era tutto in tutti, quando tutto e tutti erano incandescenti della sua stessa divinità, in cui si rispecchiava l'uomo e l'intero creato (Gen 1,31) e tutto era avvolto nella luce divina (Gen 1,3). Questa Onnipotenza del Padre, ben lungi dagli schemi umani e dal nostro intendere, trova la sua piena manifestazione e attuazione proprio là dove l'uomo ritiene che Dio abbia fallito: la croce di Cristo. Paolo, infatti, ricorda come "La parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio ... E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati ... predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Poiché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini , e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Cor 1,18.22-25). "Credo
in un solo Signore, Gesù Cristo, Con questa seconda proclamazione la nostra fede si apre, in prima istanza, alla contemplazione Gesù Cristo, colto come unico Signore nel suo esclusivo rapporto con il Padre; mentre in seconda istanza, essa fa memoria dei principali eventi storici, che hanno scandito lo svolgersi storico della vita di Gesù e della nostra salvezza: dalla sua nascita fino all'ascensione al cielo, da dove, con uno sguardo lanciato verso il futuro ultimo e compiuto, aspettiamo il suo ritorno, che decreterà la fine della storia, la quale sfocerà nell'eternità di Dio, dove Egli sarà nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28). Paolo nella sua prima lettera ai Corinti, scritta ad Efeso tra il 53-54, ci trasmette una primissima attestazione di fede, che fa parte di quelle numerosissime formule di fede, disseminate in tutti gli scritti neotestamentari, in cui si professa un parallelismo convergente e complementare tra Dio-Padre e suo Figlio Gesù Cristo: "per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui." (1Cor 8,6). Vi è dunque, "un solo Dio, il Padre" e "un solo Signore, Gesù Cristo". Viene quindi rimarcata l'unicità esclusiva della divinità propria del Padre, riconosciuta e attribuita in pari modo anche a Gesù Cristo, definito come il Padre "un solo Signore". Viene quindi a crearsi una sorta di parallelismo coincidente tra Gesù e il Padre, qualificati nella loro unica ed esclusiva divinità da quel "in un solo", che crea un'identità tra i nomi di "Dio" e "Signore". Il Padre è definito "onnipotente", cioè Signore assoluto di tutto, poiché tutto proviene da lui e noi siamo per lui; così come Gesù è chiamato Signore, in cui tutte le cose esistono e noi esistiamo per lui. Quindi se il Padre è la sorgente di tutto e da lui tutto proviene, Cristo si qualifica come il luogo dove tutto ciò che proviene dal Padre è in lui contenuto. Il Padre nel suo amore tutto genera e crea, mentre il suo Cristo tutto accoglie in sé e conserva, tutto in lui sussiste (Ef 1,10). In tal modo la Signoria di Dio-Padre si è riversata totalmente e in modo unico nel Figlio (Mt 28,18; Gv 13,3), a cui ha sottomesso ogni cosa, facendone il cuore stesso di tutto l'esistente, costituendolo Signore della storia e del creato proprio nell'atto della risurrezione. Infatti il Padre "ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,9-10). Il Risorto è rivestito pertanto dell'onnipotenza del Padre e come tale riconosciuto Signore, cioè Dio, alla pari del Padre, e come il Padre egli ha potere su tutte le cose (Fil 3,21) La Signoria propria di Cristo, rivelatasi nell'atto della risurrezione (Ef 1,20-22), in cui ha ottenuto il primato su tutte le cose (Col 1,18), è finalizzata, quindi, a sottomettere a Cristo stesso tutto l'esistente, così che "quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio,sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti" (1Cor 15, 28). Si noti come qui Paolo usa dei tempi al futuro. Ciò significa che se da un lato la Signoria di Cristo è un atto pienamente compiuto nella transtoria, così che a ragione si può parlare fin da subito di un Cristo cosmico, dall'altro, nella nostra dimensione spazio-temporale, essa è nella condizione di una Signoria in progressiva espansione e che troverà il suo punto di pieno compimento quando egli "di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine". La Signoria di Cristo nella storia dunque non è un fatto compiuto, ma in divenire: "Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, poiché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi" (1Cor 15, 25-26). Questo "solo Signore", in cui noi professiamo la nostra fede, non è un dio etereo e vago, ma ha una sua identità e una sua connotazione storica ben precisa: Gesù Cristo. Il nome di Gesù infatti ci aggancia alla sua stessa umanità, alla sua persona e al suo agire storico, che ci è testimoniato dai Vangeli e riconosciuto indistintamente da tutta la letteratura neotestamentaria, ma nel contempo esso ci introduce in una triplice dimensione, contenuta nell'origine e nel significato stesso di tale nome: a) tale nome non è stato imposto da un uomo, ma da Dio (Mt 1,21; Lc 1,31) e l'imposizione del nome dice come colui che lo riceve sia sotto la piena tutela e il pieno potere di chi glielo ha imposto (Mt 3,16; Mc 1,10-11; Lc 3,21-22; 4,18-19); b) in tale nome è racchiuso il significato più vero e più profondo della missione di Gesù: Dio salva. Questo nome quindi costituisce la chiave di lettura dell'operare di Gesù; c) l'agire di Gesù, infine, è qualificato come l'agire stesso di Dio in lui (Dio salva). Gesù dunque si presenta qui nella storia come l'azione stessa di Dio spesa a favore degli uomini. Tale nome, quindi, va ben al di là di una semplice identificazione storica di una persona, ma contiene in sé la stessa potenza di Dio, che si manifesta e si imprime in esso pienamente nella risurrezione: "Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Accanto al nome Gesù è sovente posto il nome di Cristo22. Esso è un titolo messianico che negli scritti neotestamentari compare 497 volte, di cui 48 solo nei vangeli. Con tale titolo Gesù viene riconosciuto come il Messia, cioè l'unto, il consacrato di Dio che proviene da Lui per compiere la missione che Dio gli ha affidato a favore dl suo popolo. Giovanni, infatti, manda da Gesù dei suoi discepoli per sapere se è lui "colui che deve venire" o se invece ne devono aspettare un altro (Mt 11,3); mentre la gente, quando Gesù entra a Gerusalemme, lo acclama "Benedetto colui che viene nel nome del Signore" (Mt 21, 9b); Marta, sorella di Lazzaro, si rivolge a Gesù professando in lui la sua fede: "Si, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che deve venir nel mondo" (Gv 11,27), lasciando trasparire in quel “che deve venire nel mondo” le attese messianiche del popolo. Era quindi nel credere comune sia presso gli ebrei che i cristiani che il Messia, il Cristo fosse l'incaricato di Dio per compiere una missione. Su di lui quindi riposa la potenza stessa di Dio. A questo titolo, Cristo, spesso viene affiancato anche quello di Figlio di Dio. Tale figliolanza non va intesa in senso metaforico o simbolico, ma reale. In tutto il Vangelo quando Gesù si rivolge al Padre dimostra di avere con Lui un rapporto unico ed esclusivo di vero Figlio (Mt 11 25-27; Lc 10,21-22; Gv 14, 9-11; Gv 16,28), mentre il Padre lo riconosce come proprio Figlio nel battesimo (Mt 3,16; Mc 1, 10-11 Lc 3,22 ) e nella trasfigurazione (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35). Una figliolanza che appare in tutta la sua verità ed esclusività nel momento della risurrezione: "... riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore" (Rm 1, 3-4). Una figliolanza che era preesistente alla creazione stessa (Col 1,15) se, come ci ricorda l'autore della lettera agli Efesini "in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per farci santi e immacolati al suo cospetto nella carità" (Ef 1,4) e come Paolo evidenzia: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli ..." (Rm 8,29). Questa figliolanza divina, unica ed esclusiva, viene da noi professata definendo Cristo come "Figlio unigenito di Dio". In altri termini Dio, il Padre, ha generato un solo ed unico Figlio, in cui tutti noi attingiamo la nostra figliolanza divina. Così che il nostro essere figli di Dio è un partecipare alla natura di Dio nel Figlio suo, divenendo in tal modo a nostra volta figli di Dio nell'unico Figlio di Dio, partecipando della sua figliolanza. In altri termini, noi siamo figli adottivi eletti in Cristo fin dall'eternità. Infatti "... in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo" (Ef 1,4-5). Il Padre di Gesù pertanto è diventato a pieno titolo anche nostro Padre, così che anche noi nel suo Figlio unigenito possiamo chiamarci figli e se siamo figli, ci ricorda Paolo, siamo anche eredi dei beni propri del Figlio per volontà stessa del Padre (Gal 4,7b). Infatti, è Gesù stesso che ci spinge a rivolgerci a suo Padre, chiamandolo "Padre nostro" (Mt 6,9), un Padre quindi che Gesù condivide con noi: "... Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20, 17b). Siamo dunque figli legittimi di Dio, perché ne siamo anche eredi, ma lo siamo solo per partecipazione alla figliolanza unica ed esclusiva di suo Figlio unigenito, lo siamo solo per grazia ricevuta, per dono di amore. "Nato
dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Che cosa significhi essere "Figlio unigenito di Dio" ci viene detto ora. Gesù è nato dal Padre, è uscito da Lui. L'origine prima e assoluta del Figlio, che a noi si è manifestato con il nome di Gesù, non è umana, ma divina. Pertanto, possiamo dire che Gesù ha avuto una doppia nascita: la prima divina, dal Padre; la seconda umana, da Maria per opera dello Spirito Santo, potenza stessa di Dio (Lc 1,35). In tal modo, ha una doppia natura divina e umana e pertanto lo possiamo proclamare con certezza che egli è vero Dio e vero Uomo. Nascere direttamente da Dio significa non solo che Gesù ha la sua origine e le sue radici in Dio-Padre, ma ne possiede anche il DNA, mentre, metaforicamente parlando, nelle sue vene scorre lo stesso sangue di Dio e pertanto ne possiede realmente l'identica natura. Questa origine divina di Gesù ci viene ribadita, quasi in modo ossessivo in quel "Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero". Noi potremmo dire che Gesù è Dio perché nato da Dio; egli è Luce divina perché emanazione diretta di questa Luce; per questo egli è Dio vero in quanto le sue radici e la sua natura sono quelle proprie di un Dio vero e reale. Di questo Figlio l'autore della lettera agli Ebrei attesta che “[...] che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola [...]” (Eb 1,3) Gesù, in quanto Figlio di Dio, è nato da Dio "prima di tutti i secoli"; se da un lato ciò ne proclama la preesistenza divina (Gv 8,58; 17,5), dall'altro dice che Gesù è coeterno al Padre, cioè condivide con il Padre la stessa eternità di Dio, che è la stessa vita di Dio, di conseguenza ne possiede la stessa natura divina. Non ci fu un tempo in cui il Figlio non esisteva e poi venne successivamente creato, come affermava Ario23. Gesù, in quanto Figlio di Dio, non è una creatura del Padre, ma in quanto coeterno al Padre coesiste con Lui e in Lui da sempre. Soltanto quando il Figlio di Dio viene concepito da Maria per mezzo dello Spirito Santo ed entra a far parte della storia come uomo, in quanto uomo, egli ha avuto un inizio storico ed è diventato ciò che prima non era: uomo. Pertanto contro la tesi ariana che affermava che il Logos, cioè il Figlio di Dio, non aveva la stessa natura di Dio, ma che anzi ci fu un tempo in cui egli non esisteva e fu successivamente creato da Dio, il Concilio di Nicea (325) afferma che il Figlio di Dio è "Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre". C'è quindi tra Gesù, in quanto Figlio di Dio, e il Padre parità di natura, ma non di funzione, poiché l'agire del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo è un agire proprio ed esclusivo di ciascuno che li qualifica per il loro essere Padre, Figlio e Spirito Santo e li identifica come tali. Non c'è quindi confusione di ruoli, in quanto che il loro ruolo è strettamente connaturato alla Persona di ciascuno così che noi li conosciamo come Padre, Figlio e Spirito Santo proprio dal loro agire, dal ruolo che essi svolgono, che è un ruolo loro proprio non interscambiabile e che li identifica come Persone specifiche. "Per mezzo di lui tutte le cose sono state create" Se è vero che soltanto il Padre, da cui tutto defluisce e discende, si può dire in termini stretti il vero creatore di tutto l'esistente, l'unico Padre dell'intero Creato, è vero anche che l'attuatore della creazione, l'atto creativo del Padre è il Figlio stesso, il Logos eterno del Padre, di cui Giovanni attesta che “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). Le prime parole della Genesi, rivisitate in prospettiva cristiana, ci illuminano in proposito. "In principio Dio Creò il cielo e la terra" (Gen 1,1). Dunque in principio Dio. All'inizio di tutto ci sta Dio generatore, il Padre, da cui tutto discende e tutto trova in lui la sua origine. E' sua l'iniziativa dell'intera creazione; per ben nove volte infatti la Genesi, quasi con un ritornello ossessivo, afferma "E Dio disse". Questo continuo ripetersi dice come l'intera creazione sia riconducibile a Dio e come questa trovi in Lui la sua giustificazione e il senso del proprio esserci. Ma se tutta la creazione trova la sua paternità in Dio-Padre, vero è anche che essa è stata chiamata all'esistenza dal Verbo eterno del Padre: "E Dio disse". Quel "disse" è il "dire di Dio", cioè è la "Parola di Dio". Questa "Parola di Dio" non è un semplice flatus vocis, cioè un semplice suono inconsistente che svanisce nel nulla non appena il suono cessa, ma è un Dabar, cioè è un'azione propria di Dio. Essa ha la consistenza e il dinamismo proprio di Dio; attua ciò che dice; è una realtà palpitante che possiede in se stessa l'identico dinamismo divino; "Infatti la Parola di Dio è viva, efficace ..." (Eb 4,12). Essa dunque "è viva", cioè è un essere vivente; ed è "efficace", cioè produce quello che dice. In altri termini l'intera creazione trae la sua esistenza dal "dire di Dio", cioè dalla sua Parola che è Azione. L'incedere letterario stesso testimonia l'efficacia di questa Parola divina: "Dio disse:<<Sia la luce!>>. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona" (Gen 1,3-4a). Vediamo qui la dinamica del rapporto che intercorre tra Dio e "il suo dire", la Parola. Dio esprime la sua volontà, manifestata dalla Parola: "Sia la luce!" e immediatamente, senza alcun lasso di tempo e senza alcun intercalare letterario, la volontà manifestata si fa, si attua, diviene vita, esiste. E subito l'autore commenta che "Dio vide che la luce era cosa buona". La bontà della luce, come dell'intera creazione (Gen 1,31), è tale perché in essa si rispecchia pienamente e perfettamente il volere di Dio, così che Dio si riconosce in essa. E ciò dice la perfetta esecuzione della Parola di Dio, la sua fedeltà al volere di Dio-Padre, attuando ciò che Dio-Padre ha comandato. La Parola quindi mostra qui le sue caratteristiche principali: a) la sua natura è quella di essere azione del Padre, che attua in piena fedeltà; b) svolge un'azione rivelatrice, facendo uscire dal segreto di Dio-Padre, irraggiungibile per l'uomo, il mistero del suo disegno; c) nel suo dire rivelatore attua ciò che dice e rivela. Già nella sua prima riflessione teologica la Chiesa aveva quindi colto la natura e la funzione di Gesù Cristo, vedendo in lui non solo il Verbo eterno del Padre, che Giovanni nel suo Vangelo pone al principio assoluto di tutto (en arché) e che vede dimorante presso il Padre e rivolto verso (pros) di Lui e in cui il Padre si riflette e si fa azione (Gv 14,10), ma anche l'azione creatrice stessa del Padre. Infatti, "tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste" (Gv 1,3). Ma Gesù, Verbo eterno del Padre, non solo è il creatore di tutte le cose, ma anche il punto di arrivo dell'intera creazione sulla quale ha acquisito un primato assoluto non solo perché egli era preesistente rispetto al creato (Col 1,15-16), non solo perché questo è stato chiamato all'esistenza per suo mezzo, ma anche in virtù della risurrezione, principio assoluto di ogni altra risurrezione e fonte di rigenerazione dell'intero creato. Infatti "Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, ... Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, pr ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce , cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle dei cieli" (Col 1,15-16a.16c-20). Questa centralità cosmica e assoluta di Cristo rientra in un preciso progetto del Padre, che si è rivelato in Cristo, come ci viene testimoniato dall'autore della Lettera agli Efesini: "... secondo quanto, nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10). “Per
noi uomini e per la nostra salvezza Questa affermazione fondamentale della nostra fede costituisce un passaggio intermedio tra la contemplazione metafisica del Logos (Gv 1,1-2), azione creatrice del Padre, Figlio di Dio, consustanziale al Padre e, quindi, Dio come il Padre, al Gesù incarnato nella storia (Gv 1,14). Viene quindi ripetuto in qualche modo lo schema del prologo giovanneo, in cui Giovanni, dopo aver contemplato lo splendore divino del Verbo, vita di luce per gli uomini, che in principio era presso Dio e per mezzo del quale tutto è stato fatto di ciò che esiste (Gv 1,1-4), passa a contemplarne la gloria nella sua incarnazione: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come da unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Gv 1,14). In questa breve affermazione dogmatica, che ci fornisce la chiave di lettura e di senso di quanto ci verrà detto subito dopo, si dicono due cose importanti: a) Gesù è disceso dal cielo, come dire che l'uomo Gesù non è un qualcosa di diverso da quanto si contemplato di lui come Verbo della vita, Figlio di Dio e azione creatrice del Padre, ma ne è soltanto la manifestazione storica (1Gv 1,2), che nella sua forma umana si è reso raggiungibile da tutti gli uomini e in questa forma si è avvicinato ad essi, interpellandoli nel loro habitat quotidiano, la storia. Quindi la storia di Gesù va letta come la storia di Dio in mezzo agli uomini. b) Questa sua discesa è motivata da una duplice finalità per noi uomini e per la nostra salvezza. L'espressione per noi uomini dice come tutta la vita di Gesù è stata consacrata all'uomo così da farne una pro-esistenza, cioè una vita spesa a loro totale favore. Essa troverà la sua massima espressione sulla croce, quale dono totale di Dio per noi: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16a). Gesù dunque è il volto storico di questo amore del Padre per l'uomo, è lo spazio storico in cui il Padre si è avvicinato all'uomo, gli ha teso la mano, dandogli una possibilità di riscatto e riaccendendo in lui la speranza. Se il per noi uomini dice il dono totale del Padre, per la nostra salvezza specifica il motivo di tale dono ed indica il senso più vero e profondo della missione stessa di Gesù, azione salvifica del Padre nella storia. Una salvezza la cui finalità è quella di recuperare l'uomo alla dimensione stessa di Dio da cui proviene, restaurando in lui la sua primordiale dignità: quella di essere nuovamente immagine e somiglianza di Dio, ricollocandolo nuovamente in sé e condividendo con lui nuovamente la propria vita divina in Cristo e per Cristo (Col 1, 12-14). Vediamo dunque come questo breve assioma della nostra fede racchiude in sé un'intensità teologica unica, che ci aiuta a leggere e a comprendere il senso più vero e profondo dell'esistere storico di Gesù, la sua persona, la sua predicazione e il suo operare. "e
per opera dello Spirito Santo si è incarnato Nei passi che ora seguono ci vengono sinteticamente elencati i momenti fondamentali della storia di Gesù, che costituiscono i passaggi essenziali in cui è contenuta la storia della nostra salvezza e attraverso i quali essa è defluita per noi e su di noi:
Il primo atto storico è l'incarnazione. Che cosa abbia significato questa incarnazione per Dio, questo suo discendere dalla sua gloria nell'umiltà della natura umana, ci viene testimoniato nell'inno cristologico della Lettera ai Filippesi: "... Gesù Cristo, il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2, 6-8). Lo stato di gloria divina suo proprio non ha impedito a Dio di attuare il suo piano di recupero dell'uomo alla sua dimensione divina. Per fare ciò, Egli ha rinunciato a questa sua condizione naturale in modo traumatico: "spogliò se stesso", il testo greco dice "svuotò se stesso", così che in quell'uomo Gesù non rimase più alcuna traccia della gloriosa onnipotenza divina. E' dunque un Dio che rinuncia alle sue prerogative divine e assume una natura di servo, facendosi uomo, dando così una chiara lettura al suo disegno di salvezza: esso è un servizio di salvezza in cui Dio si spende a favore degli uomini, il cui vertice trova la sua attuazione nella morte di croce, tra le più infamanti, che l'uomo abbia conosciuto. Significativo in tal senso è il racconto della lavanda dei piedi (Gv 13,3-11) riportatoci da Giovanni: il Gesù che si inchina per lavare i piedi ai suoi discepoli, dopo essersi spogliato delle sue vesti, è il Dio che si inchina davanti alla sua creatura, dopo essersi spogliato delle vesti della sua gloria, per purificarlo, per rigenerarlo alla nuova vita. Soltanto dopo questo servizio di redenzione, che si compirà nella morte, egli riprenderà le sue vesti di quella gloria che aveva fin dall'eternità insieme al Padre (Gv 13,12). Questo gesto compiuto da Gesù a poche ore dalla sua passione e morte dà una chiara lettura alla croce: in essa e per suo mezzo Dio attua il suo servizio di redenzione per l'uomo. L'incarnazione di Gesù, ossia del Dio fattosi uomo, trova tutta la sua concretezza in Maria. Paolo ricorda questo grande mistero con crudezza nella sua lettera ai Galati: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge" (Gal 4,4). Non vi sono interpretazioni teologiche, né visioni mistiche, ma un puro dato storico: Dio per entrare nella storia ha preso la comune via di tutti gli uomini: un utero di donna, sottoponendosi alla durezza della legge. Ma Gesù, pur essendo vero uomo in ogni suo aspetto, fuorché nel peccato (2Cor 5,21; Eb 4,15), possiede in sé, per natura propria, una dimensione divina. La sua nascita, quindi, non dipende da volontà umana. L'intervento dello Spirito ci sta ad indicare proprio la sua origine divina, mentre la donna Maria ci indica il luogo umano in cui Dio ha trovato la sua concretezza storica, ma dice anche come Dio per attuare il suo piano di salvezza abbia bisogno della concreta disponibilità dell'uomo (Lc 1,38). La verginità di Maria, che noi qui accogliamo pienamente come dato di fede, testimoniatoci anche dalla più antica tradizione cristiana24, ci rimanda una volta di più all'azione di Dio nella storia. Gesù dunque non è frutto di un progetto umano o di un caso avventuroso, ma viene da Dio ed è opera propria di Dio nel suo incontro con l'uomo. In Gesù dunque si coniuga l'incontro di Dio con l'uomo, in cui si prelude ad una nuova umanità, che avrà il suo compimento e il suo inizio nella risurrezione di Cristo. Del resto la presenza dello Spirito, se da un lato dice l'irrompere di Dio nella storia, dall'altro parla anche di un nuovo inizio, di una nuova umanità, di una nuova storia frutto del connubio tra Dio e l'uomo. La presenza dello Spirito ci viene presentata per la prima volta agli inizi della creazione, quando "La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque" (Gen 1,2). La presenza dello Spirito sul caos primordiale e informe delle acque prelude all'intervento creatore e riordinatore di Dio. Immediatamente dopo, infatti, inizia la creazione. Così pure nella creazione dell'uomo Dio fa intervenire il suo Spirito: "... allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue nari un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (Gen 2,7). Questa presenza dello Spirito di Dio la ritroviamo qui ora nel momento del concepimento di Gesù. Tale presenza indica che qui ha inizio una nuova creazione, la nascita di un nuovo uomo, un nuovo Adamo (Rm 5,14; 1Cor 15,45), che troverà la sua piena manifestazione e il suo compimento nella risurrezione. Gesù, quindi, grazie alla sua incarnazione, diventa per eccellenza il Sacramento d'incontro tra Dio e gli uomini, frutto della ritrovata collaborazione di Dio con l'uomo, da cui è stata tolta ogni condanna, così che Paolo esclamerà “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). "Fu
crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Siamo
giunti nel cuore del mistero cristiano. Il linguaggio scarno si fa
essenziale e gli eventi vengono puntigliosamente incardinati nella
storia con il riferimento a Ponzio Pilato25. La croce e la morte hanno costituito sempre un motivo di difficoltà e di scandalo per gli uomini, soprattutto per i non credenti, e del quale Paolo ci dà testimonianza nella sua Prima Lettera ai Corinti: "La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. ... E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio" (1Cor 1, 18.22-24). La croce è definita in due modi "scandalo, stoltezza" e "potenza di Dio". Sono due letture contrapposte e inconciliabili tra loro; due letture che ci testimoniano come l'umanità, proprio dalla croce, è stata spaccata in due: i credenti, che al di là della crudezza e insensatezza della croce, sanno cogliere l'azione potente di Dio; e i non credenti, che non sanno andar al di là di ciò che la croce denuncia: il fallimento di Gesù e delle speranze che Dio e gli uomini avevano riposto in lui (Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22b). Ma che cosa è avvenuto sulla croce che porta Paolo ad esclamare ai Corinti: "Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso" (1Cor 2,2), come altrove si vanta: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo" (Gal 6,14). Paolo sa che con la nascita di Gesù l'intera umanità, profondamente segnata dal peccato in quanto discendente dal vecchio Adamo, l'uomo vecchio, decaduto a motivo della colpa, è stata assunta nella carne di Cristo e con lui portata sulla croce (Rm 6,6; 2Cor 5,21). Anche Giovanni si allinea a Paolo e fa dire al suo Gesù: "<<Io quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me>>. Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire" (Gv 12,32-33). E proprio qui sulla croce, morendo Gesù nella sua carne, muore con lui e in lui la vecchia umanità adamitica. Paolo ricorda questo momento fondamentale ed essenziale della nostra salvezza: "Sappiamo bene come il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato" (Rm 6,6). La conseguenza di questo con-morire con Cristo, alla cui morte di croce noi siamo associati e resi partecipi nel battesimo, ci viene indicata da Paolo: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo stati dunque sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. ... Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù. Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite più le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi" (Rm 6,3-4.11-13a); gli fa eco Pietro: "Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia" (1Pt 2,24). La sepoltura La sepoltura di Gesù dice due cose: a) la morte di Gesù non fu una morte apparente; b) Gesù assaporò fino in fondo il dramma del peccato che ha travolto l'uomo, togliendogli ogni dignità, e che ha avuto come prima conseguenza proprio la morte: "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto; polvere tu sei e in polvere ritornerai" (Gen 3,19). Il sepolcro è il luogo incontrastato della morte, dove l'uomo esperimenta, tocca con mano la perdita di ogni speranza. "Anche la speme ultima dea fugge i sepolcri" declama con sconsolata amarezza il Foscolo nei "Sepolcri". Il grido di Gesù sulla croce "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato" (Mt 27,26b; Mc 15,34b) trova nel sepolcro tutta la sua verità. Il sepolcro è il luogo del silenzio di Dio, dove tutte le pretese di Gesù, quella di essere l'inviato di Dio, di essere suo figlio, i suoi miracoli, promesse di vita nuova, i suoi annunci di un nuovo regno, dell'amore del Padre, della sua provvidenza, di una nuova storia si sono dimostrati soltanto delle illusioni. Tutto è finito. La morte ha smascherato impietosamente Gesù e ha avuto ragione del sedicente Dio. Anche le donne di fronte a quel sepolcro vuoto, che non ha saputo custodire il corpo amato del loro maestro, fuggono sgomente e atterrite: "Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura" (Mc 16,8). Ma questo sepolcro dice anche che Gesù ha voluto condividere fino in fondo la triste sorte dell'uomo, mostrandosi in tal modo pienamente solidale con lui. E proprio in questo luogo di disperazione Gesù ha manifestato la sua vera natura di Emmanuele, il Dio con noi. Un Dio che ha rincorso l'uomo fino nel sepolcro. Era necessario, infatti, che Gesù assumesse su di sé l'intera esperienza umana, dalla gioia del concepimento alla disperazione drammatica del sepolcro, perché l'uomo venisse riscattato e redento nella totalità del suo essere di uomo decaduto, offeso e violato dalla morte, che con la colpa adamitica ha raggiunto e travolto ogni uomo (Rm 5,12). La risurrezione "Uomini di Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come ben sapete, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere ... Questo Gesù Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni" (At 2, 22-24.32). Questo breve, ma intenso discorso di Pietro, è un esempio di kerigma, del primo annuncio di un evento che ha sconvolto la storia non solo dell'uomo, ma dell'intero cosmo. La sua struttura semplice, immediata, priva dello splendore delle grandi riflessioni teologiche che troviamo in Paolo, ci riporta immediatamente indietro nel tempo e ci fa quasi toccare con mano la straordinarietà di questo evento, mentre quel primitivo "noi ne siamo testimoni" racchiude già in sé l'intera missione della chiesa e nostra. Ma che cos'ha di così straordinario la risurrezione? Non era sufficiente la grande dimensione spirituale e morale di Gesù per giustificare il cristianesimo? Ai primi cristiani di Corinto, che dubitavano della risurrezione dei morti, Paolo risponde con tono duro e sferzante: "Se non esiste risurrezione dei morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora vana è la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1Cor 15, 13-14.17b). La risurrezione, dunque, non è un optional, che racconta il lieto fine di una brutta storia, ma si impone necessaria, fondamentale e vitale per la nostra salvezza; la “conditio sine qua non”. La grandezza di Gesù, della sua predicazione e della sua opera è stata riscattata e recuperata dalla risurrezione. Senza risurrezione Gesù sarebbe stato un semplice uomo comune, uno dei tanti Gandhi della storia. Ma la risurrezione ha rivelato e pienamente confermato la sua figliolanza divina e, quindi, la sua divinità. Soltanto nella risurrezione la sua parola si è svelata a noi come parola di Dio e noi abbiamo compreso che il Gesù che passò in un determinato tempo della storia in mezzo alla sua gente, fu in realtà Dio stesso che venne e camminò in mezzo agli uomini e li ha interpellati e ancora li interpella con la sua Parola, indicando in essa la via certa da seguire per raggiungere il Padre (Gv 14,6-7). Solo nella risurrezione la sua parola ha acquisito la dimensione stessa di Dio. Solo nella risurrezione Gesù, superando i ristretti confini spazio-temporali, ha assunto un'assolutezza ed una oggettività valida per tutti e per ogni tempo, superando in tal modo ogni relativismo storico. Ma cosa è avvenuto nella risurrezione? Una cosa grandiosa, che ci riporta al primo atto della creazione dell'uomo: quella carne adamitica, segnata profondamente dal peccato, della quale Gesù si è rivestito, assumendola su di sè, venne portata da Gesù sulla croce, infliggendo ad essa la morte. In tal modo venne decretata la fine dello strapotere del peccato (Rm 6,6), che si era annidato in quella carne, privandola dello Spirito di Dio e quindi della vita stessa di Dio, di cui faceva parte (Gen 1,26-27). I nostri progenitori, infatti, si accorsero di essere nudi (Gen 3,7), cioè privati della vita divina che avvolgeva e permeava anche i loro corpi. Ebbene, questa carne qui è stata trasformata per la potenza dello Spirito in carne nuovamente spiritualizzata, così come è avvenuto per il primo Adamo (Gen 2,7), in cui Paolo vede un primo annuncio del nuovo Adamo, che doveva venire, Cristo (Rm 5,14). Con la risurrezione il Padre per mezzo dello Spirito ha decretato una nuova creazione e ha ricreato l'uomo a sua immagine e somiglianza, ricollocandolo nella stessa dimensione divina (Col 1,13). Nel Cristo risorto vi fu dunque una vera e propria creazione, così che egli è diventato prototipo, primizia e fonte di ogni altra risurrezione (1Cor 15,20-23). Nella risurrezione di Gesù hanno avuto inizio quei cieli nuovi e quella terra nuova vaticinati da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplati da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1). Infatti in questa nuova realtà, in questo nuovo evento che è il Cristo risorto sono state ricapitolate tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra (Ef 1,10b) e su di esse venne emesso il decreto divino: "E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>" (Ap 21,5). Si comprende quindi ancor meglio l'affermazione dell'autore della Lettera ai Colossesi: "Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui" (Col 1,16c). La prima creazione (Gen 1,1-2,4) dunque, operata dal Padre per mezzo del Figlio, trova il suo pieno compimento nella risurrezione di Cristo. Quel settimo giorno dunque era figura di Cristo, in cui Do ha fatto nuove tutte le cose, portando in tal modo a termine la prima creazione: "Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò ..." (Gen 2, 2-3) "E' salito al cielo, siede alla destra del Padre" A poche ore dalla sua morte, chiuso nell'intimità del cenacolo assieme ai suoi discepoli, Gesù confessa loro: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre" (Gv 16,28). In questa pendolarità, che caratterizza i movimenti del Gesù giovanneo, è racchiusa l'intera missione di Gesù, la cui finalità è glorificare il Padre, cioè compiere la sua volontà, rivelandola in tal modo al mondo: "Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse" (Gv 17, 4-5). La risposta alla glorificazione, che Gesù ha dato al Padre, è la sua stessa glorificazione, con la quale il Padre restituisce al Figlio quella sua gloria, che aveva fin dall'eternità e da cui si era spogliato per assumere su di sé una natura umana corrotta dal peccato (Fil 2,6-8). Questa restituzione della gloria del Figlio da parte del Padre avviene in due tempi: con la risurrezione e con la sua ascensione e il suo collocarsi accanto al Padre, riacquistando in tal modo tutti i privilegi divini che gli erano propri fin dall'eternità26. Già con la sua risurrezione Gesù è entrato nella gloria del Padre, ma l'ascensione dice essenzialmente due cose: a) nei confronti del Padre e dello Spirito Gesù riacquista definitivamente e in modo pieno il suo stato iniziale; b) nei nostri confronti egli si sottrae alla nostra esperienza fisica, dando così inizio ad un nuovo tempo, quello della fede. In tal senso è significativo il racconto dell'apparizione di Gesù a Tommaso, il discepolo che non è riuscito a dare un nuovo impulso alla propria fede, legata ancora al vedere e al toccare (Gv 20,25b). Egli, quindi, giustamente si guadagna il rimprovero di Gesù: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati coloro che pur non avendo visto crederanno" (Gv 20,29). Il verbo posto al futuro, "crederanno", è un chiaro riferimento ai futuri credenti e ci riguarda direttamente: essi sono definiti per la loro fede "beati", cioè beneamati da Dio e partecipi fin d'ora, grazie proprio alla loro fede, alla vita stessa di Dio (Gv 3,16). "E
di nuovo verrà, nella gloria, La rivelazione neotestamentaria si chiude con un'invocazione, che si eleva dalla comunità credente verso il suo Signore: "Vieni, Signore Gesù" (Ap 22,20b). Questa invocazione è emblematica della chiesa primitiva del primo secolo, tutta tesa verso il ritorno del Signore. Questa attesa permea il pensiero e la vita delle prime comunità credenti, convinte com'erano che la morte e la risurrezione di Gesù avessero chiuso la partita con la storia e in lui si fosse inaugurato il tempo escatologico, in cui Dio avrebbe stabilito definitivamente il suo regno di giustizia e di pace in mezzo agli uomini. In tal senso è significativo quanto Paolo scrive ai Corinti, quasi descrivendo cosa sarebbe avvenuto di lì a poco e creando una sorta di ordine di accadimenti: "... tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha sottoposto ai suoi piedi. ... E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti" (1Cor 15, 22b-27a.28). Soltanto verso la fine del primo secolo e inizi del secondo la chiesa incomincia a pensare che il ritorno di Gesù, non sarebbe stato poi così imminente e che doveva quindi predisporsi per una lunga attesa. Ne troviamo traccia nella Seconda Lettera di Pietro27: "Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta. ... E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò carissimi, nell'attesa di questi eventi cercate di essere senza macchia" (2Pt 3, 8-10.13). Ma se l'attesa del ritorno imminente è stata in qualche modo frustrata, la certezza del ritorno di Gesù e l'affermazione definitiva del suo regno in mezzo agli uomini non è mai venuta meno nella chiesa. Quel "Marana tha", "Signore nostro, vieni!" (Ap 22,20) polarizza da un lato la speranza della chiesa e, dall'altro, ne definisce e ne condiziona l'atteggiamento nel suo cammino nella storia. C'è quindi in tutta la Chiesa una forte tensione verso il Cristo che viene, i cui segni di presenza, che l'accompagnano nel suo oggi e fino alla fine dei tempi (Mt 28,20b), sono dati dalla Parola, quale chiave di lettura della propria storia e dei segni dei tempi che vi si manifestano; i Sacramenti, in cui il Risorto si dona ancora una volta; i propri rapporti con l'altro, dove Cristo è sacramentato (Mt 25,40.45). Sono questi tutti elementi che se da un lato rendono presente il Cristo nella sua Chiesa e in mezzo agli uomini, dall'altro la spingono fortemente verso quel compimento finale in cui tutti questi elementi assumeranno il definitivo e chiaro volto di Cristo, il punto Omega verso cui la storia è incamminata e dove sfocerà nell'eternità compiuta. Il giudizio finale: la verità svelataStrettamente
legata alla venuta finale di Cristo viene visto il giudizio finale,
che coinvolgerà sia i vivi che i morti28. Dalle immagini bibliche, rafforzate da terrificanti visioni medievali, abbiamo acquisito nel nostro immaginario religioso il giudizio finale e quello personale in termini squisitamente forensi. Ma in che cosa consisterà, in realtà, questo giudizio? E chi sarà il nostro giudice? Va subito detto che il giudizio non va compreso secondo i nostri schemi umani: un tribunale con un imputato, un giudice, avvocato difensore, pubblica accusa, sentenza di assoluzione o condanna. Esso si pone, innanzitutto, come un momento di svelamento del nostro essere, costituito dal nostro modo di pensare, di operare, da tutto ciò che, in ultima analisi, forma il nostro orientamento esistenziale. Questo si manifesterà di fronte alla luce divina. Sarà, quindi, un momento di verità29, in cui noi appariremo per quello che realmente siamo nei confronti di Dio e della sua proposta salvifica, offertaci nel suo Cristo. Apparirà chiaro tutto il peso del nostro essere vissuti per Cristo o contro di Lui. In tal senso Paolo, nella sua prima lettera, rimproverando i Corinti afferma: "Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio." (1Cor. 4,5) Sarà, dunque, questo il momento in cui Dio farà conoscere il suo pensiero (questo è il giudizio) su tutto il corso della creazione, svelerà compiutamente il suo progetto sulla storia e sul cosmo. Su questo l'intera umanità dovrà raffrontarsi e misurarsi. Non si tratterà, comunque, di un qualcosa di completamente nuovo, per cui noi possiamo dire "ma noi non sapevamo". Ci sarà data soltanto una piena e definitiva comprensione di ciò che il Padre ci ha già detto definitivamente nel suo Cristo, a fronte del quale noi abbiamo compiuto la nostra scelta. Nella parusia, pertanto, ci sarà un giudizio sulla storia, ma visto soltanto come una illuminazione del suo intero tragitto, talvolta rimasto oscuro e incomprensibile. Allora Dio uscirà dal suo "nascondimento" e tutto apparirà chiaro. Come si può ben vedere, il giudizio non è un fatto forense, ma è lo svelamento della dinamica interna di questa storia che si regge su due elementi fondamentali: l'offerta di salvezza da parte di Dio e l'accoglienza o il rifiuto della stessa da parte nostra (Gv 3,19). Dall'insieme di quanto si è fin qui detto, già si intuisce come l'uomo si costituisce giudice di se stesso. Non dobbiamo pensare a un Dio giudice che condanna. Dio non si costituisce giudice di nessuno e tanto meno condanna qualcuno (Gv 3,17; 5,22; Rm 8,1). Egli è totale apertura, totale accoglienza e non può essere diversamente, poiché questa è la sua natura. Dio è Amore (1Gv 4,8.16). Ma è il modo di porsi dell'uomo nei confronti di Dio, giusto o sbagliato, che determinerà la sua figura di salvato o meno. In tal senso si esprime chiaramente Giovanni nel suo vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato." (Gv 3,16-18). Il giudizio, quindi, è una questione di fede, cioè di accoglienza o rifiuto di Dio nella propria vita. Non dipende da Dio, ma da noi, dalla nostra risposta alla sua proposta di salvezza offertaci nel suo Cristo. In definitiva, l'uomo diventa giudice di se stesso, ma Cristo non condanna. Ciò che condanna l'uomo è il rifiuto di Cristo nei suoi fratelli e nella sua Parola. E' significativo, a mio avviso, quanto Matteo ci racconta sul giudizio: "... saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri" (Mt 25,32). Si noti bene che l'azione di giudizio si limita a separare le pecore dai capri, ma non stabilisce chi è pecora o capro; non c'è una sentenza che stabilisce che questi sono pecore e quelli, invece, capri. Ma sono le stesse genti che si presentano già come "pecore" o "capri"; a Dio non resta che prenderne atto, suo malgrado. E ciò che ci fa pecore o capri è il nostro orientamento esistenziale che si pone verso o contro Dio; un orientamento che si va a costituire lungo il corso di tutta la nostra vita e che diviene definitivo soltanto nell'aldilà. In altri termini, la salvezza ce la giochiamo tutta qui nella storia e, purtroppo, non ci sono tempi supplementari. Ma se la sorte dei singoli già si è decisa al momento della morte, che senso può avere un giudizio universale? Nel giudizio universale ogni uomo sarà visto nel suo vincolo profondo che lo ha legato a tutti gli altri uomini. Nessun uomo infatti è un'isola, ma è in stretta comunione, nel bene o nel male, con gli altri uomini e apparirà in ciò il peso della sua responsabilità nella storia, per quella parte di storia che gli era stata affidata. Pertanto, dobbiamo vedere il nostro giudizio personale in una stretta relazione dinamica con il giudizio finale. "Credo
nello Spirito Santo, che è il Signore e dà la vita, Dopo aver riposto la nostra fiducia e con essa la nostra vita nel Padre e nel Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, ecco giunti al terzo momento, che si struttura tutto attorno allo Spirito Santo. La
formulazione che qui ci viene proposta è frutto del Concilio di
Costantinopoli (381) in cui si definì la natura dello Spirito Santo,
riconoscendolo Dio alla pari del Padre e del Figlio e definendone
l'origine per processione dal Padre e non per generazione. Lo troviamo la prima volta in assoluto all'inizio della creazione, quando "lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque" (Gen 1,2b), come il dominatore del caos primordiale e premessa indispensabile della stessa creazione. Parimenti esso si colloca all'inizio di un'altra creazione: il concepimento di Gesù (Mt 2,20b; Lc 1,35) e si pone agli inizi della sua missione nel momento del battesimo (Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22; Gv 1,32), la conduce e la sostiene (Lc 4,17-19); così come fa sentire la sua forte presenza nel momento della nascita della Chiesa (At 2,1-4). Lo Spirito, dunque, si trova sempre all'inizio di ogni impresa divina, ne consente la sua attuazione e la sua piena manifestazione, poiché "Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13a). E' colui, quindi, che riprenderà l'insegnamento di Gesù e ne darà una piena comprensione e testimonianza (Gv 14,26; 15,26; 16,13b). A ragione possiamo dire che egli è colui che permea gli eventi della storia, li sostiene e li conduce al loro compimento, secondo il progetto salvifico di Dio, costituendosi come l'azione impercettibile di Dio che penetra nell'uomo e nella sua storia, aiutandolo e sostenendolo nel suo cammino verso Dio, anche a sua insaputa. Esso è l'inequivocabile segno della presenza di Dio (1Re 19,11-13; Lc 11,20), anzi il suo stesso nome "Santo" dice che egli proviene dal mondo di Dio, ne fa parte e ne è costitutivo, poiché solo Dio è Santo e avanza la pretesa che chi gli appartiene gli deve assomigliare: "... e ordina agli Israeliti: <<Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo>>" (Lv 19,2), spingendo in tal modo l'uomo verso una conversione continua, verso la sua santificazione, che lo accorpa al mondo di Dio, ne fa sua proprietà e lo fa sedere al banchetto della vita stessa di Dio. Autore di questo dinamismo che spinge l'uomo verso Dio, sostenendone il cammino fino a collocarlo in Lui, è lo Spirito Santo. All'origine del bene e della bontà e del loro desiderio con cui l'uomo si esprime nella quotidianità della vita c'è lo Spirito, infatti: "Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22); e Paolo ci sollecita a camminare secondo queste logiche proprie dello Spirito (Gal 5,16) e a lasciarci guidare da lui, anzi il vero credente è colui che si pone sotto il dominio dello Spirito (Rm 8,9) e segno distintivo della sua figliolanza divina è proprio il lasciarsi guidare da lui (Rm 8,14). Lo Spirito è il fondamento costitutivo della vita stessa di Dio e qualifica i rapporti che intercorrono tra il Padre e Gesù. Esso trova la sua origine nel Padre da cui non è generato, come lo è invece il Figlio, unigenito, ma procede da Lui, ne è una sorta di emanazione propria, una irradiazione della vita stessa del Padre che si espande attraverso il Figlio, quale suo dono proprio, verso i credenti e verso tutti gli uomini di buona volontà (Gv 14,26; 15,26; 20,22), cioè impegnati nel bene, che vivono con rettitudine la propria vita, si prodigano per una società giusta, soffrono per il male e lo combattono sotto qualsiasi forma esso si presenti. Questi sono figli dello Spirito e lo Spirito del Padre, profuso per mezzo di Cristo, li rende graditi a Dio, indipendentemente dalla religione che professano. In tal senso Pietro ce ne dà testimonianza: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35). Esso, dono del Padre per mezzo del Figlio, investe con la sua pienezza gli uomini e li anima con i suoi doni, perché essi si facciano dono per tutti e su questi doni si fonda la comunità cristiana e l'intera nostra società umana: "Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che restiate nell'ignoranza. ... Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; ad un altro il dono di distinguere gli spiriti; ad un altro la varietà delle lingue; ad un altro infine l'interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole" (1Cor 12, 1.4-11). "Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica" Fino a questo momento abbiamo sempre detto credo in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Ora la formulazione della nostra fede cambia. Non si dice più "credo in", bensì "credo la". Anche se apparentemente la diversità sembra irrilevante, in realtà è sostanziale. "Credere in" significa riporre la propria fiducia e in ultima analisi riporre la propria vita nelle mani di colui in cui si crede, aprendosi esistenzialmente a lui e accogliendolo nella propria vita. "Credere la Chiesa" significa avere la certezza della sua natura, che si manifesta nella sua unicità esclusiva, nella sua santità, nella sua cattolicità e apostolicità. La Chiesa dunque è luogo di professione di fede. Infatti, diciamo "Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica"; attributi questi che qualificano la Chiesa nel suo essere e nel suo esprimersi. "Unità, santità, cattolicità e apostolicità" sono dimensioni che strutturano la natura stessa della Chiesa e sono fondamentali, poiché se ne togliamo una viene a mancare un elemento costitutivo del suo "essere Chiesa". Tali dimensioni, pertanto, sono i quattro pilastri fondamentali su cui si regge l'intera piattaforma ecclesiale. Chiesa "Una"L'unico fondamento della Chiesa è Cristo il quale esprime la sua intenzione che nella Chiesa si realizzi l'unità: "che tutti siano uno come tu, Padre, in me ed io in te" (Gv 17,20). L'unità, pertanto, dice riferimento al mistero di Dio: egli pur nella diversità delle tre persone è Uno. Unità dice, innanzitutto, relazione tra diversità che non si contrappongono, ma che si arricchiscono intrecciandosi. L'unità, tuttavia, non va intesa come somma di individui, ma come intreccio di relazioni partecipate. In essa ritroviamo l'unica fede, l'unico battesimo, l'unico Dio, l'unico Cristo (Ef 4,5). In tale ambito la diversità non è mai contraria all'unità, ma essa trova la sua piena maturità proprio nell'unità che la trasforma in ricchezza. L'unità, pertanto, è valorizzazione delle singole diversità. L'unità della Chiesa è data dall'unicità di Dio che, pur diversificato in tre persone, è uno. La Chiesa, pertanto, a dispetto delle sue divisioni interne prodottesi nel corso della storia, è ontologicamente "unita". Tale unità non è frutto della volontà umana, ma fa parte della natura stessa della Chiesa. I credenti, invece, sono chiamati a realizzare sacramentalmente, cioè visibilmente, quella unità già presente ontologicamente. In altri termini, la Chiesa è comunque unita anche nelle divisioni dei suoi membri che, proprio perché divisi, tradiscono la loro vocazione all'unità, che è già presente in loro in virtù del battesimo, che li colloca nell’unico Cristo, così che Paolo, scrivendo alle sue comunità della Galazia, afferma: "Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,27-28). Se da un lato l'espressione di Paolo porta a pensare come le divisioni deturpino il volto della Chiesa, dall'altro evidenzia come principio e sorgente di unità, attorno a cui ruotano tutte le chiese, è Cristo. La Chiesa, pertanto, rimane "una" anche in mezzo alle divisioni poiché essa è per sua natura "una" e l'unità è un suo elemento costitutivo, che è presente in essa come dono che aspetta di essere colto e testimoniato nella sacramentalità della storia. L'unità, quindi, non manca nella Chiesa e tra le chiese, ma, piuttosto, la capacità di convertirsi al dono, sempre disponibile, dell'unità di Dio; un dono che ci sta davanti e che aspetta di essere accolto. Ciò che a Dio va pertanto chiesto è di darci la forza e la luce necessarie per testimoniare e realizzare anche concretamente quell'unità che è già presente in virtù del nostro essere in Cristo e con Cristo inseriti nel ciclo vitale della Trinità: tre persone nell'unico Dio, pluralità e diversità nell'unità. Chiesa "Santa"Quando parliamo di santità della Chiesa questa non va intesa in termini di distinzione e/o contrapposizione al mondo, quasi che la Chiesa sia santa e il mondo, invece, peccatore, anche se il concetto di santità contiene in sè un'idea di separazione, di alterità. Il termine, infatti, deriva dal latino "sancire" che significa anche "dedicare, consacrare" e, quindi, riservare, separare dal resto. Quando si parla di santità nella Chiesa non va intesa in termini di privilegio. Anche per questa qualità propria della Chiesa va fatto riferimento a Dio: la Chiesa è santa perché santa è la sorgente da cui essa sgorga. La santità della Chiesa, pertanto, si recepisce nell'ambito della sua relazione con Dio: "Siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo" (Lv 19,2) Poiché la santità della Chiesa va considerata in rapporto a Dio cerchiamo di comprendere bene il significato biblico di tale termine. Dio è santo perché egli è totalmente altro rispetto al mondo e all'uomo e non è riconducibile nell'ambito dell'esperienza umana. Egli è santo anche perché il suo agire avviene in modi completamente diversi da quelli dell'uomo, anzi esattamente contrapposti: "Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri " (Is. 55,8-9 ). In Israele la santità di Dio è sperimentata come fedeltà di Dio alla sua promessa e come liberazione, che si riassumono nell'unico termine di "elezione". Ai piedi del Sinai Israele viene qualificato con una sua nuova identità a cui è legata una missione: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli ... Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,5-6). Israele viene qui definito proprietà di Dio tra tutti i popoli e, in quanto tale, egli è consacrato a Dio, cioè a Lui riservato, separato dal resto. Egli, in quanto "di Dio", ha legato a Lui i propri destini; per questo Israele è una nazione santa da cui sgorga, ora, la sua naturale missione di sacerdote, cioè di colui che fa da ponte, da tramite tra Dio e gli uomini, datore del sacro perché lui, per primo, è santo, una santità in funzione di un ministero. Così è anche per la Chiesa; anche per essa la santità non è un privilegio, ma la dimensione entro cui si muove e vive, la dimensione stessa di Dio. Essa è chiamata ad essere santa, cioè a riflettere nella propria vita quella santità divina che la permea nella sua più profonda intimità; una santità che non è fine a se stessa, ma è chiamata ad estrinsecarsi. La Chiesa è santa ed è chiamata a santificare, cioè a recuperare l'uomo e il suo habitat nell'ambito di Dio. In tal senso essa espleta anche la sua funzione sacerdotale. Santità, tuttavia, non significa esenzione dal peccato. Il peccato, infatti, appartiene alla dimensione storia ed è sinonimo di fragilità e, in quanto tale, appartiene anche alla Chiesa. Essa è una Chiesa santa formata da peccatori; quella che i Padri della Chiesa chiamavano con un'espressione dura, contraddittoria in terminis, ma molto appropriata: "casta meretrix"31, indicando con ciò questa convivenza di colpa e santità. Essa è santa perché tende, sia pur nella sua fragilità, a lasciar trasparire storicamente la realtà santificatrice che porta dentro e di cui è permeata. Essa è santa benché sia peccatrice e la sua fragilità nulla toglie allo splendore della sua santità. Quando il celebrante nella prece eucaristica prega "Padre veramente santo e fonte di ogni santità, santifica ..." non dobbiamo mai dimenticare che la sorgente di ogni santità e santificazione è sempre e unicamente Dio. Chiesa “Cattolica”Il termine "cattolica" deriva dal greco catoliké e significa "universale". L'espressione, benché contenga in sè anche un'accezione quantitativa ed estensiva, tuttavia non va intesa in senso di estensione confessionale, poiché ciò sarebbe riduttivo della vera universalità di cui la Chiesa è portatrice. La cattolicità della Chiesa si aggancia sempre alla sua fonte primaria che l'ha generata: il Cristo morto-risorto, che proprio in questa esperienza salvifica abbraccia, misteriosamente e realmente, l'intera umanità: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32). L'universalità, pertanto, si esprime nell'abbraccio del Cristo morente che diventa comunione di salvezza tra Dio e gli uomini. Unica condizione per parteciparvi è il credere, un credere che è aperto a tutti, indipendentemente dalla propria collocazione storica e culturale: "Io sono la risurrezione e la vita ; chi crede in me anche se muore vivrà" (Gv 11,25); e ancora Paolo nella sua lettera ai Romani: "Io non mi vergogno, infatti, del Vangelo poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16) e infine Luca nei suoi Atti sottolinea in modo più accentuato questa universalità: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10, 34-35). Queste espressioni così indefinite "chi crede", "chiunque crede", "a qualunque popolo appartenga" esprimono l'universalità. La Chiesa si colloca in tale ambito e ciò fa parte della sua identità. Essa, pertanto, è universale perché strumento universale di salvezza, così come pensato da Dio, e, in quanto tale, universalmente aperta a tutti, a "qualunque popolo si appartenga". La cattolicità della Chiesa, pertanto, rimanda all'evento di salvezza, Cristo morto-risorto, che si è offerto gratuitamente in favore di tutti, indipendentemente dal proprio collocarsi storico; in tal senso dice il prolungarsi della missione di Cristo. Contemporaneamente, da un punto di vista storico, questa universalità si esprime nella missionarietà della Chiesa, intesa non come azione di conquista e affermazione di potere, ma come annuncio dell'offerta di salvezza operata da Dio nel suo Cristo per chiunque crede. Cattolicità, dunque, non come confessionalità, che è l'opposto di universalità, ma come espressione e specchio della volontà salvifica di Dio che si è fatto carne non per il papa, i vescovi, i preti o i cristiani in genere, ma "per noi uomini e per la nostra salvezza". Una Cattolicità, quindi, che supera le stesse dimensioni della Chiesa e che si esprime soltanto in Dio sacramentato nel suo Cristo. Chiesa “Apostolica”Il termine "apostolica" deriva dal greco apostoliké che significa "inviata". Sta proprio qui il germe dell'apostolicità della Chiesa: l'essere inviata. Bene si può applicare alla Chiesa quanto Paolo in Galati afferma con forza e perentorietà di se stesso: "Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre" (Gal 1,1). Come per Paolo, anche la Chiesa è chiamata e inviata da Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo. Una apostolicità, pertanto, che non si è data, ma un mandato che le è stato lasciato in eredità da Cristo: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv 20,21). Un mandato che si concretizza in un annuncio, un annuncio che si fa sacramento. E' l'evento Cristo che nell'annuncio e nel sacramento si genera continuamente nella storia a tutti gli uomini per mezzo della Chiesa e che nella Chiesa, proprio attraverso l'annuncio e il sacramento, convoca tutti gli uomini in un grande e universalistico movimento escatologico, che tende a ricondurre l'intera umanità e l'intero cosmo in Dio, da cui l'umanità proviene e da cui si è allontanata a causa della colpa originale. L'apostolicità, pertanto, non è soltanto una realtà statica, cioè un semplice e continuo riferirsi alla tradizione e alla fede dei Padri, ma pur radicata in esse, si attua nel presente attraverso l'annuncio e il sacramento, generandosi continuamente e continuamente generando un'umanità nuova e protesa verso Dio. L'apostolicità, pertanto, esprime il farsi della Chiesa nel tempo che convoca e orienta, con la Parola e il sacramento, l'intera umanità verso quei cieli nuovi e terra nuova vaticinati da Isaia, contemplati da Giovanni nell'Apocalisse e anticipati nella risurrezione di Cristo. L'apostolicità per sua natura è profetica, cioè attua, genera continuamente la Parola di Dio in mezzo all'umanità e la dona nella sacramentalità del suo sacerdozio, creando e conservando per Dio una nuova umanità in cui si rispecchi nuovamente, come nei primordi, l'immagine e la somiglianza con Dio. Essa, propria di ogni battezzato, trova la sua espressione e unità nella figura del Vescovo che la rende visibile e storicamente riferibile. Infatti, non ci può essere chiesa senza vescovo. "Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati" L'autore della Lettera agli Efesini, rivolgendosi alla sua comunità, la esorta a conservare l'unità dello Spirito, cioè della sua fede nell'unico Signore: "Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza, alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef 4,4-6). In questo lungo elenco compare anche "un solo battesimo". Esso è qui citato quale espressione e simbolo della nostra unica fede. Ma perché proprio il battesimo? Dopo un lungo periodo di catecumenato, circa tre anni, il candidato veniva battezzato, immerso nell'acqua, per esprimere simbolicamente la sua immersione in Cristo, così da esserne interamente permeato e compenetrato. Avveniva in tal modo la sua cristificazione, la sua totale assimilazione a Cristo, al mistero della sua morte e risurrezione (Rm 6, 4-5): morte al peccato, a stili di vita condotti secondo le logiche della carne (Gal 5,19-21), per camminare in novità di vita nella luce dello Spirito (Rm 6,4c; Gal 5,22). Il battesimo, quindi, unendo profondamente e intimamente il credente al mistero pasquale di Cristo, segnava anche per lui un radicale passaggio da morte a vita, da una condizione di peccato, vissuta secondo le logiche della carne ad una vissuta secondo le logiche dello Spirito. Nella sua lettera ai Romani Paolo sottolinea questo passaggio da morte a vita, che cambia radicalmente il proprio modo di vivere. Egli dopo aver parlato degli effetti prodotti dal battesimo, esorta la comunità di Roma: "Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rm 6,11). Un battesimo per la remissione dei peccati non significa soltanto che con il battesimo ci vengono rimessi in toto tutti i peccati commessi nella nostra vita fino a quel momento, ma anche e sopratutto che con il battesimo siamo chiamati a camminare in novità di vita, secondo le logiche dello Spirito, considerandoci morti al peccato e viventi per il Signore (Rm 6,11; 14,8). Infatti non a caso la formulazione della nostra fede parla di "professare" un solo battesimo, cioè di testimoniare con lo stile della propria vita le realtà in cui siamo immersi e da cui siamo compenetrati. Questo battesimo è definito "un solo" perché uno solo è il Dio in cui crediamo; uno solo è il Cristo e uno lo Spirito; una la Chiesa in cui viviamo; una è la fede. Uno solo è dunque il battesimo perché una e unica è la realtà in cui questo battesimo ci ha immersi: Gesù Cristo nostro Signore. Tutto ciò che si pone al di fuori di questa unicità esclusiva è contraffazione."Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!" (Eb 13,8). "Aspetto
la risurrezione dei morti Questo assioma della nostra fede ci introduce nell'escatologia, cioè nelle realtà ultime. Esso inizia con un'affermazione: "Aspetto". Questa semplice espressione pone il credente in uno stato di forte di tensione esistenziale verso due realtà che sono tra loro strettamente connesse: la risurrezione dei morti e l'avvento di una vita nuova che ha le stesse fattezze di Dio. Il credere a queste due realtà non è ininfluente sulla nostra vita presente; anzi, proprio perché sappiamo che esiste una risurrezione ed esiste un nuovo mondo verso il quale siamo fatalmente e ineluttabilmente incamminati e dove la nostra attuale vita, trasformata dalla potenza dello Spirito, verrà collocata e lì continuerà per sempre, il nostro oggi ne esce fortemente condizionato. La risurrezione dei morti Ai Corinti, che dubitavano della risurrezione dei morti, Paolo risponde: "Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi, che non esiste la risurrezione dei morti? Se non esiste la risurrezione dei morti, neanche Cristo è risuscitato!" (1Cor 15, 12-13). Con questo breve, ma intenso ragionamento Paolo lega strettamente e inscindibilmente la risurrezione dei morti a quella di Cristo, al punto tale che negare la risurrezione dei morti significa automaticamente negare quella di Cristo. Paolo infatti vede nella risurrezione di Cristo non soltanto un suo evento esclusivo e personale, ma un punto di partenza che abbraccia l'uomo nella sua interezza e con lui, per un principio di solidarietà, l'intero suo cosmo. Tant'è che Cristo risorto viene da lui definito come "primizia di coloro che sono morti", cioè il primo tra coloro che risorgeranno e ne diventa il garante; mentre il Gesù giovanneo con solennità proclama a Marta, sorella di Lazzaro : "Io sono la risurrezione e la vita;" (Gv 11,25a). Gesù stesso, quindi, si qualifica come principio assoluto di risurrezione e sorgente della Vita. Ma perché Paolo è convinto che la risurrezione di Cristo è causa certa anche della nostra risurrezione, a cui non possiamo sottrarci, indipendentemente dalla nostra fede? Al di sotto di questa convinzione ci sta un semplice ragionamento: "Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11). La causa prima dunque di questa risurrezione, che ci associa a quella di Cristo, è l'unico e identico Spirito, che opera in Cristo come in noi e che fa di tutti noi una cosa sola in lui. In tal modo la risurrezione di Cristo diventa fonte e sorgente di ogni altra risurrezione. La risurrezione di Cristo, la cui dinamica essenziale e fondamentale si radica nella potenza dello Spirito, viene posta, dunque, a principio e a fondamento della nostra risurrezione, che coinvolgerà non solo i morti, ma anche tutti i viventi, come Paolo rivela alla sua comunità di Corinto: "Ecco, io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio" (1Cor 15, 51-52a). Paolo introduce qui un concetto nuovo di risurrezione: essa non è soltanto un tornare in vita, ma implica in sé una trasformazione, cioè un passaggio radicale da uno stato di vita corruttibile ad uno incorruttibile, da un corpo materiale ad uno spirituale (1Cor 15,42.53). Si tratta di una vera e propria spiritualizzazione della carne, che da corruttibile viene trasformata in incorruttibile. Non si tratta di una risurrezione simile a quella di Lazzaro, che dopo essere tornato in vita è morto nuovamente, perché Gesù non ha trasformato il suo corpo mortale e corruttibile in un corpo spiritualizzato, ma lo ha soltanto rianimato, lasciandolo nella sua corruttibilità. Non dobbiamo tuttavia pensare che questa risurrezione sia un premio riservato esclusivamente a coloro che vivono in Cristo. Essa è un nuovo stato di vita che coinvolge anche i dannati: "Non vi meravigliate di questo, poiché verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita e quanti fecero il male, per una risurrezione di condanna32" (Gv 5,28-29) Ma questa risurrezione non abbraccia soltanto l'uomo, vivo o morto che sia, ma l'intero cosmo, tutto l'esistente. Vige infatti un principio di profonda solidarietà tra la creazione e l'uomo, che li accomuna e li associa in un unico destino. Il dramma del peccato fu un evento che dilagò e coinvolse non soltanto gli uomini, ma l'intero loro cosmo: "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noé: <<E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, li distruggerò insieme con la terra" (Gen 6,12-13). Ma se la creazione è stata travolta dal peccato dell'uomo, essa partecipa anche alla redenzione stessa dell'uomo operata in Cristo: "La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo." (Rm 8, 19-23). La vita del mondo che verrà Aspettare "la vita del mondo che verrà" significa che il nostro esistere non si limita soltanto all'attuale dimensione spazio-temporale, ma la travalica per sfociare nell'eternità di Dio. L'uomo, quindi, ha un destino superiore che lo attende. Egli ha iniziato la sua storia qui nel tempo e la continuerà nella transtoria. La liturgia dei defunti ricorda proprio questo fatto "vita mutatur, non tollitur", la vita con la morte non è tolta, ma solo trasformata. In altri termini con la morte si cambia modo di vivere, ma la vita iniziata nel seno della propria madre in un determinato momento della storia, continua anche al di là dello spazio e del tempo. In altri termini, siamo eterni. Ma "la vita del mondo che verrà" non è soltanto un evento futuro, ma essa è già una realtà presente, in cui noi già siamo collocati (Col 1,12-13) anche se non ancora in modo pieno e definitivo. Infatti, il nuovo mondo e la vita nuova che in esso palpita sono stati già inaugurati con la risurrezione di Cristo, in cui è avvenuta una vera e propria creazione. In Cristo, infatti, per volontà del Padre sono state ricapitolate tutte le cose, sia quelle del cielo che quelle della terra (Ef 1,10b) e in lui sono state rigenerate alla vita divina: "E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. Ecco sono compiute!>>" (Ap 20,5). Questa è la seconda creazione, dopo quella raccontataci nella Genesi (Gen 1,1-2,4). In questa luminosa cornice di eternità già presente, ma non ancora pienamente compiuta, Giovanni contempla lo stupendo e indicibile splendore della nuova creazione, attuata nel Risorto: "Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio con loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. [...] E la città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello. [...] Non entrerà in essa nulla d'impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell'Agnello" (Ap 21,1-4.23.27). Nella prospettiva di questo stupendo scenario apocalittico, in cui Giovanni con immagini e simboli cerca di descriverci in qualche modo lo splendore di ciò che ci attende, Pietro sollecita la comunità cristiana a guardare avanti con impegno nel presente e con fiducia, perché "secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace." (2Pt 3,14). Queste realtà stupende e uniche non sono cose estranee alla nostra vita, ma noi, in virtù del battesimo che ci ha cristificati, viviamo già in esse, anche se non ancora in modo compiuto e perfetto. Proprio in tal senso l'autore della Lettera ai Colossesi invita la sua comunità a ringraziare "... con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce ... e ci ha trasferiti nel regno del suo figlio diletto" (Col 1,12.13b). Per questo, continua l'autore, "Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita ormai è nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi siete manifestati con lui nella gloria" (Col 3,1-4). L'autore della Lettera a Diogneto, un'opera del II sec. d.C., parlando dei cristiani afferma che essi "Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo" (Diogneto, II, 8-9). Ed è proprio per questa condizione di forte tensione che si crea tra il già e il non ancora, in cui i cristiani vivono; per questa condizione che richiama lo stato della partoriente che sta dando alla luce una nuova vita, che il credente soffre e con lui tutta la creazione soffre e geme le doglie del parto, per una vita che già palpita e scalcia in lui, ma che non ancora vede la luce piena (Rm 8, 19-25). Questo è lo stato, la condizione propria del credente che aspetta la vita del mondo che verrà! "Amen" Una parola semplice, ma significativa. Essa ha un valore confermativo e in ebraico è strettamente imparentata con la radice del verbo credere. L' "Io credo", con cui si apre lo scrigno delle nostre verità, si chiude dunque con la conferma della nostra fede in esse. In quel Amen c'è tutta la verità cristiana, che attende di essere incarnata nella nostra vita, perché la nostra vita diventi l'Amen della nostra fede. Giovanni, rivolgendosi alla chiesa di Laodicea, scrive: "All'Angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Cosi parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione" (Ap 3,14). Cristo dunque è l'Amen del Padre, colui che dà agli uomini la sua testimonianza fedele e vera del Padre. E come l'Amen è la conclusione finale di ogni preghiera, di ogni liturgia e di ogni atto di culto, così anche Cristo, l'Amen del Padre, dice che in lui tutto si è pienamente e fedelmente compiuto e tutto trova in lui il suo compimento. Lui, Cristo, Amen del Padre e settimo giorno della creazione, in cui Dio ha portato a compimento la sua opera di salvezza (Gen 2,2-3). Infatti "... tutte le promesse di Dio in lui sono divenute << si >>. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria" (2Cor 1,20):
Per Cristo, con Cristo e in
Cristo, AMEN!
Giovanni Lonardi 1I primi quattro concili ecumenici della storia della Chiesa furono Nicea (325), Costantinopoli (381); Efeso (431) e Calcedonia (451). I primi due sono chiamati concili trinitari per l’argomento trattato: il rapporto di Gesù Cristo con Dio Padre e la loro natura (Nicea) e la definizione della natura divina dello Spirito Santo e il rapporto intercorrente tra le tre persone (Costantinopoli). I secondi, definiti cristologici, hanno trattato della doppia natura di Cristo: umana e divina. In tutto i Concili della Chiesa furono 21 e il primo in assoluto, anche se in modo improprio viene chiamato concilio ecumenico, fu l’assemblea tenuta a Gerusalemme nel 49 d.C. tra la Chiesa di Antiochia, rappresentata da Paolo e Barnaba e la Chiesa madre di Gerusalemme, con la presenza di Pietro, Giacomo ed altri apostoli. La questione dibattuta fu se i convertiti dal paganesimo fossero tenuti a circoncidersi e a sottoporsi alla Torah o se invece potessero aderire direttamente a Cristo, abbandonando in tal modo definitivamente il Giudaismo e tutte le sue prescrizioni. La soluzione fu per quest’ultima tesi. Fu questo anche il momento in cui la chiesa nascente si divise il territorio da evangelizzare: a Pietro fu assegnata la conversione dei giudei; a Paolo quella dei gentili o pagani (At 15,1-35). 2A Giovanni vengono attribuite tre lettere. La prima è l'unica che ha una certa consistenza, 5 capitoli e 105 versetti, ma in realtà non è una lettera o per lo meno non ne ha la forma, mancando il prescritto, composto dal mittente, dai destinatari e dai saluti iniziali e non ha neppure una conclusione, formata dai saluti finali. E' più che altro una specie di trattatello teologico, finalizzato a combattere delle eresie che si stavano introducendo all'interno della comunità. Infatti in questa prima lettera si nota una venatura polemica contro quei personaggi che, appartenuti un tempo alla comunità, ne sono usciti perché da un lato negavano l'umanità di Cristo; dall'altro perché su di un piano etico-pragmatico negavano il peccato. Le altre due lettere hanno la forma di lettera, poiché c'è il prescritto e ci sono i saluti finali, ma hanno scarsa consistenza letteraria, riducendosi in tutto a 13 vv. la seconda lettera e a 15 la terza. 3 Il primo annuncio dell'evento di Gesù in età apostolica, I° sec., è definito kerigma, dal verbo greco kerisso, un termine tecnico che si riferisce all'annuncio proprio del banditore. Tale annuncio era essenziale e si riferiva strettamente alla morte e risurrezione di Gesù e alla sua opera. Non vi era ancora in esso uno sviluppo del pensiero teologico, ma si limitava ai fatti, a cui si dava una prima interpretazione, teologicamente ancora molto primitiva, ma essenziale e capace comunque di vedere al di là dell'evento Gesù il muoversi di Dio stesso a favore degli uomini. Alcuni annunci kerigmatici si possono riscontrare negli Atti degli Apostoli. Si confronti a titolo esemplificativo At 2,22-24; 3,13-15.17-26; 4,8-12; 5,29-32; 4 L’espressione tedesca sitz im leben, letteralmente il posto nella vita, è tecnica e serve per indicare la situazione concreta entro cui è sorta la formula o, per quanto riguarda i Vangeli, il luogo all’interno del quale la comunità esprimeva la propria fede e dove si sono formati i singoli racconti e detti di Gesù, che poi gli autori dei vangeli hanno raccolto e riordinato secondo uno schema e un pensiero teologico loro proprio e in funzione della comunità, dando in tal modo origine ad un nuovo genere letterario, chiamato vangelo. Questo, a ragione, può essere ben definito come una sorta di raccolta antologica di questi racconti e detti, strutturati attorno ad uno schema letterario, che esprimeva la comprensione teologica che gli evangelisti hanno avuto di Gesù, della sua opera e della sua predicazione. 5 Qui l’espressione “Signore” sta per “comunità che crede nel Signore”. Non si tratta dunque di esperienze mistiche di Paolo o di rivelazioni particolari. 6Intorno all'anno 200 d.C. l'impero romano contava circa 70 milioni di abitanti, mentre i cristiani erano circa approssimativamente 700.000/1.000.000. Tra il 200 e il 300 d.C. la popolazione dell'impero, a causa delle pestilenze e delle frequenti guerre, si ridusse a circa 50 milioni di abitanti, mentre il cristianesimo, intorno all'anno 300 d.C., già contava circa 10 milioni di credenti. 7Più che eresie è più corretto chiamare queste prime formulazioni sulla natura di Cristo e di Dio suo Padre eterodossie. L'eresia, infatti, presuppone una dottrina già ben definita e certa da cui ci si discosta nettamente. L'eterodossia, invece, dice soltanto un'opinione diversa che si sviluppa nell'ambito del dibattito teologico e dottrinale. Infatti, durante questi primi secoli della chiesa non vi erano ancora dottrine ben definite e certe, ma soltanto una fede universalmente accettata, al di là di ogni dibattito e di ogni precisa definizione scientifica e filosofica delle verità in cui si credeva. Fino a tutto il IV e V sec. si andò sviluppando il dibattito teologico e dottrinale, le cui conclusioni poi vennero assunte in modo definitivo e universale dai primi quattro grandi concili ecumenici. Soltanto qui si definì in modo certo la dottrina, estesa ed imposta poi su tutto il territorio dell'impero per mezzo di decreti imperiali. Soltanto da questo momento in poi si può parlare di vera e propria eresia. Il termine eresia, infatti, deriva dal greco aìresis, che significa scelta, propensione, partito, fazione, indicando con ciò la scelta di campo opposto a quello dottrinalmente e universalmente definito, che alcuni fecero. Questi erano chiamati eretici. 8Il termine ortodosso va inteso nel suo senso etimologico di retta dottrina, che si contrapponeva a quel pseudo-cristianesimo che tendeva a deformare la genuina Verità cristiana. Non va quindi confuso con la chiesa ortodossa. 9Il Simbolo Apostolico, secondo un'antica tradizione leggendaria riportata da S.Ambrogio, vescovo di Milano (374-397), nella sua opera La spiegazione del Credo, sarebbe stato composto a Gerusalemme dagli Apostoli stessi, prima di partire per le strade del mondo ad annunciare Cristo. Comunque, al di là degli aspetti leggendari, rimane il fatto che le verità contenute in questo Simbolo Apostolico sono fatte risalire alla Tradizione più antica e più originaria degli Apostoli stessi. Esso si sviluppa in dodici enunciazioni di verità, che Rufino (345-410), padre della Chiesa Occidentale, contemporaneo di S.Agostino (354-430), nel suo commento sul “Simbolo degli Apostoli, mette in relazione ai dodici apostoli, legando in tal modo inscindibilmente le verità professate alla testimonianza stessa degli Apostoli. Nel corso della storia della Chiesa furono formulati altri Simboli della fede, che tuttavia non erano alternativi a quello Apostolico, quanto piuttosto delle sue dilatazioni o modulazioni a seconda delle esigenze delle singole comunità cristiane. In Occidente si è affermato quello sopra riportato. 10Cfr Ippolito di Roma, La Tradizione Apostolica, § 21, Edizioni Paoline, Milano 1995 - L'operetta di Ippolito, presbitero della chiesa di Roma, composta di 43 paragrafi, è databile intorno al 220 d.C. Di elevato valore storico, ci viene riportato in modo semplice e immediato l'organizzazione della chiesa primitiva e il suo modo di esprimersi e di vivere. 11Il testo in grassetto è stato tratto dalla Tradizione Apostolica di Ippolito; il testo sottolineato e in corsivo sono aggiunte segnalateci da Rufino (345-411), scrittore e apologista cristiano; il testo con carattere normale senza sottolineature furono aggiunte posteriori al 220 e fino al VII-VIII sec. 12Alessandro e Atanasio furono due grandi protagonisti del Concilio di Nicea (325). Alla morte del suo vescovo Alessandro, Atanasio ne prese il posto nel 328. Fu una delle più imponenti figure dell’ortodossia. Subì da parte ariana ben cinque esili, pur di non tradire la professione di fede di Nicea. Gregorio Nazianzeno, grande padre e dottore della Chiesa, lo definì “Pilastro della Chiesa”, mentre più tardi la Chiesa greca lo chiamò “Padre dell’ortodossia” e la Chiesa cattolica lo annovera tra i più grandi dottori d’Oriente. 13 L’uso che qui Ario ha fatto della Bibbia è stato strumentale. In altri termini Ario cercò nella Bibbia dei passi che potessero giustificare le proprie tesi, estrapolandoli dal contesto biblico. Questo modo di procedere per una corretta esegesi è inaccettabile ed espone lo studioso a gravi conseguenze interpretative e dottrinali. La Bibbia è un’unica Parola divina e ogni sua parola ed espressione vanno colte nel loro insieme e mai separate a da questo. 14 Secondo il pensiero neoplatonico il cosmo era suddiviso in tre parti: 1) Dio, al vertice di tutto l’esistente, essere supremo, irraggiungibile, avvolto nel silenzio e inconoscibile per l’uomo. Tertulliano (155-230 circa) ironicamente lo definirà “Deus otiosus”, cioè Dio inutile. 2) Al di sotto di tutto ci sta il Cosmo, regolato da leggi naturali proprie, eterne e immutabili, che rappresentano il divino incarnato nel cosmo. 3) In mezzo tra i due, si pone il Logos che funge da intermediario e da collegamento tra Dio e il Cosmo. Compito del filosofo era quello di conoscere il Logos, raggiungibile con la sola ragione umana e pertanto a portata dell’uomo. Conoscere il Logos significava avere la chiave di lettura e di comprensione della vita e del suo mistero. I primi apologeti, approfittarono di questa concezione del mondo per presentare Gesù Cristo come il Logos incarnato di Dio, grazie al quale veniva svelato il mistero di Dio e Dio tendeva la mano all’uomo per attirarlo nella propria divinità. Quando Ario parla di Gesù e dei suoi rapporti con Dio ha in mente questo schema tripartito del cosmo. 15 Poiché con la svolta costantiniana (313) la chiesa era sottoposta all’imperatore e sotto la sua tutela, era compito dell’imperatore convocare i concili e dirimere, se ne ricorreva la necessità, le controversie interne alla chiesa. Infatti già con Costantino, ma ancor più con Carlo Magno (768-814), la chiesa era divenuta parte integrante dell’Impero e con Ottone I (936) vi si identificava. Sarà soltanto con il papa Gregorio VII (1073-1085) che inizierà una lotta dura per il riscatto e l’indipendenza della Chiesa dalle pretese dell’Impero. 16 Papa Silvestro I° fu il trentatreesimo vescovo di Roma e pontificò tra il 314 e il 335. 17Il testo del credo niceno-costantinopolitano è tratto dal Catechismo della Chiesa Cattolica, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano - 1992. 18Il testo del
Simbolo Apostolico è tratto dal Catechismo
della Chiesa Cattolica, edito dalla Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano - 1992. 20Il nome Gesù, in ebraico Jeshuah, significa letteralmente "Dio salva". In tale nome quindi è significativamente annunciata sia l'azione propria di Dio che opera in Gesù, sia la missione stessa di Gesù. 21Si veda in proposito la nostra riflessione del 24 novembre 2003. 22Il nome Cristo (gr. cristos= unto) è un termine greco che traduce letteralmente la parola ebraica mashiah, che significa unto, con riferimento all'unzione sacra di consacrazione del re o del sacerdote. 23 V. La questione ariana nella "parte storica" 24In proposito si legga il §21 della Tradizione Apostolica di Ippolito, operetta datata intorno al 220 d.C., in cui si legge: "Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio, che è nato per mezzo dello Spirito Santo dalla vergine Maria ..." 25Ponzio Pilato venne nominato prefetto della Giudea nel 26 d.C., in sostituzione di Valerio Grato, governatore dal 15 al 26 d.C., e vi rimase fino al 36. Il suo governatorato si estendeva limitatamente alla Giudea, Samaria e Idumea, che abbracciavano un territorio di circa 160 per 75 Km. La sua fama è legata esclusivamente all'occasionale incontro che egli ebbe con un certo Gesù di Nazaret, presentatogli come un pericoloso sovversivo (Lc 23,5.13-15), ma su cui non riscontrò, di fatto, nessuna colpa (Gv 19,6b), ma "pro bono pacis" non esitò a darlo in pasto ai suoi avversari (Mc 15,15), per evitare l'ennesima rivolta, che l'avrebbe costretto ad intervenire duramente, come era sua consuetudine. La sua amministrazione fu segnata da diversi episodi, che lo videro protagonista di imprudenze, provocazioni, crudeli e spesso cruenti repressioni, che Giuseppe Flavio ci ha testimoniato nelle sue opere "Antichità Giudaiche" e "Guerra Giudaica". Un ultimo episodio, avvenuto nel 35, riportatoci sempre da Giuseppe Flavio e che costò, questa volta, il posto a Pilato, fu il massacro dei Samaritani sul monte Garizim. I Samaritani denunciarono i fatti al legato di Siria Vitellio, da cui Pilato dipendeva. Vitellio, per non inimicarsi i Samaritani, ritenuti fedeli amici dei romani, destituì Pilato e lo inviò a Roma per rendere conto direttamente a Tiberio del suo operato. Al suo posto venne messo Marcello, amico fidato di Vitellio (Antichità Giudaiche, Libro XVIII, § 85-89). 26L'espressione "sedere alla destra del Padre" sta ad indicare che Gesù, dopo la sua risurrezione e ascensione al cielo, si trova nei confronti del Padre in una posizione privilegiata, quella propria di Figlio di Dio, rivestito e permeato interamente della stessa gloria del Padre, che gli è sempre stata propria e a lui connaturata. 27La Seconda Lettera di Pietro è considerata pseudoepigrafica, scritta da autore sconosciuto nella prima metà del II sec. 28Quanto al giudizio dei vivi e dei morti Paolo, "sulla parola del Signore" (1Ts 4,15a), afferma: "noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi poi i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole" (1Ts 4, 15b18). 29 Cfr. Mt 10,26; Mc 4,22; Lc 8,17; 12,2. 30Il termine ebraico che indica lo Spirito è ruah, che nel suo significato originario e primo è aria, vento, alla pari dell'espressione greca pneuma. Non a caso negli Atti degli Apostoli si descrive la venuta dello Spirito Santo come un rombo dal cielo, un vento che si abbatte gagliardo e riempie tutta la casa in cui si trovano i discepoli (At 2,2). Gesù stesso associa lo Spirito al vento: "Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va.; così è chiunque è nato dallo Spirito" (Gv 3,8) 31 La casta prostituta 32Cfr anche Dn 12,1-2 |