VIAGGIATORI NEL TEMPO

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Non di rado nella letteratura la vita e il vivere sono descritti come una strada, un cammino, un percorso che si compie. Non di rado il viaggio come il viaggiare divengono metafora della vita e del vivere. Il viaggio è il luogo dove il divenire si fa più intenso e diviene logica di vita; un luogo dove tutto e il contrario di tutto può accadere e per quanto esso sia razionalizzato e meticolosamente organizzato, proprio perché dominato da un rapido e sovente incontrollabile susseguirsi di eventi, lascia un ampio spazio all'imprevisto, proprio perché imprevedibile. Questo è il viaggio. Questa è la vita.

Nel suo film “Il tè nel deserto”, tratto da “The Sheltering Sky” (Il cielo protettivo), romanzo del 1949 dell’americano Paul Bowles, Bernardo Bertolucci presenta il dramma di una giovane coppia solo apparentemente in crisi matrimoniale, poiché il loro amore come i loro rapporti sono solidi e mai messi in discussione, nonostante i loro reciproci tradimenti. Il loro male profondo, quello che Bertolucci racconta in questo viaggio, è la crisi esistenziale di questa coppia, alla ricerca del senso della vita e, di conseguenza, del senso del loro amore. Lo fa attraverso il racconto filmico di un viaggio che spinge i protagonisti sempre più all'interno del deserto del Sahara, metafora della loro vita, arida e priva di ogni idealità e spiritualità e percorsa dalla costante paura della morte, che incombe su di loro. Per ben quattro volte essa viene allusa o chiaramente richiamata nel corso di questo viaggio in mezzo al deserto delle loro vite, prive di ogni speranza, poiché oltre il cielo, dirà il protagonista, c'è soltanto il buio della notte eterna. Significativa è la scena d'amore, consumato senza emozioni e senza partecipazione, in mezzo all'aridità del deserto, metafora dell'aridità del loro amore privo di ogni idealità e su cui incombe la fugacità del tempo e la morte. Riporto qui di seguito dei passaggi che formano la chiave di lettura dell'intero racconto di questo viaggio drammatico alla ricerca del senso della vita e su cui vale la pena soffermarsi, poiché tratteggia bene il dramma della nostra epoca.

Scena dell'arrivo al porto di Tangeri: Tunner: “Forse siamo i primi turisti che hanno dopo la guerra”; Kit: “Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori”; Tunner: “E che differenza c'è?”; Kit: “Il turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento del suo arrivo”; Port: “Là dove un viaggiatore può anche non tornare” (prima allusione alla morte del protagonista, che non tornerà da questo viaggio). Il turista, dunque, considera il viaggio come una breve parentesi della sua routine quotidiana; mentre il viaggiatore fa del viaggio la ragione della sua stessa vita; un viaggio che è ricerca di senso, come lo è per i due protagonisti Kit e Port.

Scena al caffè: Tunner, amico di Port e Kit, si rivolge a Port: “Ci atterremo ai tuoi programmi”; Port: “Il mio solo programma è che non ho programmi”. Una vita, dunque, senza regole, senza progetti, senza orientamenti, che si lascia vivere e trascinare dagli eventi fino ad una morte tragica.

Segue qui una riflessione con voce fuori campo che commenta il dramma della coppia e che verrà ripresa alla fine del film: “Poiché Kit e Port non avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano commesso entrambi un fatale errore di considerare in modo confuso il tempo come inesistente; un anno come un altro e alla fine tutto sarebbe potuto accadere”.

Scena di amore in mezzo al deserto: Port: “Qui il cielo è così strano, è quasi solido come ci proteggesse da quello che c'è oltre”; Kit: “Da quello che c'è oltre?” - Port: “Non c'è niente. Solo notte”; Kit: “Vorrei essere come te, ma non ci riesco”; Port: “Forse tutti due abbiamo paura della stessa cosa”; Kit: “No, no, non hai bisogno di niente; di niente né di nessuno. Vivresti anche senza di me”; Port: “Kit, sai che amare significa amare te. Qualunque cosa non vada tra noi non potrà esserci un'altra. Forse tutti due abbiamo la paura di amare troppo”; Kit: “andiamocene via”. Il loro amore è solido e tale da non potersi pensare con una diversa persona. Un amore, che tuttavia non crea tra loro emozioni, ma che si riduce ad uno stanco e faticoso rapporto fisico, perché manca di quella scintilla, che solo ciò che è al di là del cielo può dare loro, ma che essi non vedono e non percepiscono perché sono avvolti dalla notte e da un senso nichilistico della vita, così che quel luogo diventa per loro insopportabile e opprimente e spinge Kit ad andarsene via. Oltre il cielo non c'è niente, solo la notte. Tutto ciò che essi hanno sono loro stessi; loro sono il senso delle loro vite e questo li riempie di angoscia per quel senso di morte incombente che li sovrasta: “Forse tutti due abbiamo paura della stessa cosa”.

Scena conclusiva: una voce fuori campo commenta la grande illusione che ha intossicato le vite dei due protagonisti: “Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte; un numero minimo di volte … eppure tutto sembra senza limite”. Certo non si conosce il quando si muore, ma l'accadere delle cose, il loro divenire scandisce il tempo della nostra vita, come il tic tac dell'orologio. Una considerazione questa che riprende e porta a conclusione quella della scena iniziale del caffè. Si tratta dunque di un viaggio alla ricerca del senso della vita, ma un viaggio ed una ricerca che si compiono soltanto ora, qui, finché c'è tempo, che non va sprecato, poiché è l'unico spazio che ci è concesso per trovare e dare senso al nostro vivere, che diverrà definitivo nell'eternità, dove lo spazio e il tempo hanno cessato di esserci.

Un altro celebre viaggio è quello narrato da Omero nella sua Odissea, dove si racconta l'avventuroso ritorno di Ulisse alla sua amata Itaca, durato dieci anni, disseminato di ostacoli e pericoli di ogni genere, che sembravano escogitati dagli dei per punire l'eroe, che con l'inganno del cavallo ha espugnato Troia. Omero ce lo presenta intelligente, astuto, intrepido e inarrestabile di fronte ad ogni pericolo, convincente trascinatore dei suoi fedeli compagni d'avventura. L'eroe, insomma, che s'impone su tutto e contro tutto e resiste agli dei e li sfida, pur subendone l'ira. Dante lo pone nell'ottava bolgia infernale, quella dei consiglieri fraudolenti per aver ideato l'inganno del cavallo di Troia. Ma ciò su cui si sofferma Dante, seguendo una tradizione medievale, è la motivazione che spinse Ulisse a questa nuova e drammatica avventura, che lo porterà alla rovina: “né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore” (Inf. XXVI, 94-99 ). Dante pone qui a confronto due dimensioni proprie dell'uomo: il mondo degli affetti e dell'amore con quello del desiderio, qui definito come un ardore invincibile e indomabile per la conoscenza e, in ultima analisi, l'affermazione del soddisfacimento del proprio ego. Dante, affronta qui con la sua genialità, quello che due grandi scienziati del comportamento umano affermeranno circa cinque secoli più tardi: Freud, lo studioso dell'eros, dell'io che va verso il tu e in questo trova la sua affermazione e realizzazione; Adler, che gli oppone la teoria della volontà di potenza, il desiderio irrefrenabile dell'uomo di affermare il proprio ego, che avrà come conseguenza il sacrificio dell'eros. Due realtà tra loro inconciliabili e irriducibili l'una all'altra, ma che segnano profondamente il cammino di vita di ogni essere umano. Dante qui non condanna l'amore per la conoscenza, sapendo che essa appartiene alla natura dell'uomo e, anzi, la vede come un principio di evoluzione dell'uomo e lo fa dire allo stesso Ulisse: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Inf XXVI, 118-120). Ciò che qui il Poeta condanna è una conoscenza spinta oltre ogni limite, imposto dalla natura stessa delle cose e, in definitiva, dalla divinità. Un limite qui simboleggiato dalle colonne d'Ercole, oltrepassando le quali Ulisse, sfidando ogni divieto divino, entra in una dimensione che gli è sconosciuta e proibita e che gli si torcerà contro distruggendolo.

Abbiamo fin qui analizzato due viaggi: il primo riguardante la drammatica ricerca di senso della vita, senza il quale l'uomo vive nell'angoscia, che lo porta alla dissipazione esistenziale e alla morte, privandolo di ogni speranza; il secondo, riguarda, da un lato, una scelta di vita, che ha per oggetto o l'amore che si fa dono per l'altro o l'affermazione del proprio ego a spese dell'amore; dall'altro, la coscienza che tutto ha un limite oltre il quale, come afferma Orazio, non può esservi il giusto. Limiti e confini, insiti nella stessa natura umana, che vanno rispettati per non subirne le conseguenze disastrose. Vedremo ora alcuni viaggi di personaggi biblici, che si muovono sull'ascolto e la ricerca di Dio, con l'essenzialità dei nomadi, come Abramo e l'esodo nel deserto; i Magi, i due discepoli di Emmaus e i viaggi di Gesù.

Il nomadismo

I nomadi sono i primi grandi viaggiatori della storia, per i quali il viaggiare è parte determinante del loro modo di essere e di vivere. Vivono in territori poverissimi, prevalentemente nel deserto o ai suoi margini. La loro unica ricchezza sono capre e pecore; il loro modo di vivere è essenziale, rispondente ai soli bisogni primari: discendenza numerosa, che garantisca la sopravvivenza del clan, buoni pascoli e greggi abbondanti. I ritmi della loro vita sono scanditi dai ritmi della natura. Quando i greggi o il clan aumentavano troppo e i pascoli erano insufficienti per tutto il bestiame, allora il clan di origine si divideva per formare altri clan con a capo altri patriarchi. La loro fede era essenziale e si cristallizzava attorno al dio del comune antenato, che doveva garantire benessere al clan, prosperità e difesa dai nemici, altri nomadi come loro o popolazioni stanziali in cui si imbattevano nel loro perenne girovagare. Si rende necessaria una regolamentazione della vita comunitaria come il non uccidere, non rubare, il rispetto del padre e della madre, il diritto di asilo e di ospitalità. Sono elementi che si fondano sul rispetto della persona. La partenza, dopo la lunga sosta invernale, si regolava sulla prima luna di primavera ed era caratterizzata da una ritualità ancestrale di tipo apotropaico: si immolava un agnello, lo si mangiava con pane senza lievito e con il suo sangue si tingevano i pali delle tende, per allontanare gli spiriti malvagi. Essenzialità di vita, conformata ai ritmi della natura, che la scandiva e la regolava; interessi che non trascendevano mai ciò che era necessario per vivere, nel rispetto degli altri, contraddistinguevano questo modo di vivere, governato dalla natura, da cui le loro vite dipendevano.

Abramo


A questo mondo apparteneva anche Abramo, anche lui chiamato a compiere un lungo viaggio fondato su una promessa. Ma prima di iniziarlo egli deve procedere ad una sorta di rituale di spogliazione di tutte le sue sicurezze e dei suoi legami con il mondo in cui era radicato. Si trattava di una liberazione e di una purificazione da un sistema di vita che lo avrebbe condizionato e certamente non lo avrebbe reso disponibile ad un viaggio così avventuroso e apparentemente senza meta. Ecco perché la sua chiamata comincia con un ordine perentorio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”. Per compiere questo viaggio è necessario, dunque, liberarsi da tutte le logiche che fino ad oggi avevano garantito le sue sicurezze, perché soltanto così Abramo potrà abbandonarsi alle controverse e spesso incomprensibili esigenze di questo Dio. La meta di questo viaggio è “la terra che ti indicherò”. Nulla di preciso, nulla di sicuro, nulla di garantito: Abramo è chiamato a compiere questo viaggio lasciandosi condurre, giorno dopo giorno, dalla mano di Dio in piena fiducia. Riceve la promessa di una numerosa discendenza e subito, considerata la vecchiaia di sua moglie, egli decide di avere un figlio dalla sua giovane schiava Agar. Abramo continua ancora a muoversi secondo logiche umane; deve ancora imparare a guardare le cose dalla prospettiva di Dio e lasciarsi condurre da lui: non Agar, ma Sara sarà la madre di suo figlio. Ed ecco Isacco, il figlio di un riso sgorgato dall'incredulità di Sara. È difficile fidarsi di questo Dio così indecifrabile, così ambiguo, così imprevedibile e illogico nelle sue pretese: ti promette una discendenza numerosa e poi ti senti dire, con una sorta di tono irriverente e canzonatorio: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen 22,2). Anche qui la meta è incerta e la devi attendere da Dio, devi lasciarti condurre da lui. Queste sono le regole del suo gioco. Ma Abramo questa volta ha capito chi ha davanti, ne sta comprendendo un po' alla volta e a gran fatica le logiche e accetta quest'altra sfida e compie un altro viaggio con la morte nel cuore. Ma si fida e su questa sua fede estrema, che accetta anche l'inaccettabile, Dio genererà un grande popolo. E Abramo giunge, infine, al termine della sua vita, carico di anni e di benedizioni: “Poi Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati” (Gen 25,8). Un lungo viaggio in cui egli ha imparato, giorno dopo giorno, a fidarsi di Dio, mano nella mano, per giungere a quella meta che ora anche lui conosce: l'eternità di Dio stesso, dove egli stesso, ancor oggi, accoglie nel suo seno i figli della Promessa.

L'esodo

Lo aveva promesso ad Abramo di dargli una numerosa discendenza e una terra, ma questa discendenza è ormai divenuta forzosamente stanziale in Egitto. Serve un leader, una guida che sblocchi la situazione: Mosè, entrato a far parte della famiglia del faraone. Ma prima di servirsene, Dio costringe Mosè ad un viaggio-fuga attraverso il deserto, il luogo della prova e della purificazione, spogliandolo di ogni titolo e di ogni possibile potere, perché dalla debolezza di quel uomo meglio traspaia la potenza di Dio. Si tratta ora di convincere non soltanto il faraone a rinunciare a quella manodopera a buon mercato, ma lo stesso popolo, che preferisce la sicurezza e la tranquillità di un po' di cibo pagato con una dura schiavitù, all'incognita della libertà. Ma Dio ha una promessa da mantenere e il popolo, suo malgrado, s'incamminerà per un lungo viaggio verso una terra che Dio gli indicherà e il cui cammino solo lui conosce. Un popolo dalla dura cervice, che il salmista definirà come “[...] generazione ribelle e ostinata, generazione dal cuore incostante e dallo spirito infedele a Dio” (Sal 77,8). Serviranno quarant'anni e nuove generazioni prima di giungere nella Terra Promessa. Un duro viaggio nel deserto dove il popolo viene ripetutamente messo alla prova e purificato dal suo orgoglio, che resiste a Dio e gli si oppone tenacemente fino a giungere al tentativo di sostituirlo con una qualche altra divinità più accomodante e più a misura d'uomo, ma che lo avrebbe ricondotto nella precedente schiavitù. E il popolo continua questo viaggio dove, toccando i limiti della propria esistenza, impara a fidarsi di Dio. Un cammino condotto attraverso un duro confronto tra l'uomo e Dio, ma che aiuta a capire come ogni cammino di liberazione per giungere alla vera libertà, non può mai prevedere l'esclusione di Dio, poiché solo lui sa dove si trova la Terra Promessa. Diversamente il popolo continuerà a girovagare in un deserto senza uscite fino alla sua distruzione.

Sono viaggi che hanno dei tratti che li accomuna: la necessità di lasciare le proprie sicurezze; fare dell'essenzialità di vita la logica del proprio vivere; accettare le dure sfide che provengono lungo il cammino, considerandole dei test che interpellano continuamente l'uomo ed esigono da lui continue risposte esistenziali, continui riposizionamenti del proprio modo di vivere, che lentamente creano il suo orientamento di vita; l'imparare a fidarsi di Dio anche là dove ogni logica umana vorrebbe rifuggirlo, poiché le vie e i pensieri di Dio sono ben lontani da quelli dell'uomo. Si rende quindi necessario imparare a vedere e a comprendere le cose e la vita mettendosi dalla sua prospettiva. Solo così si potrà raggiungere la Terra Promessa, che è sempre là dove Dio la indicherà.

I Magi

Altri famosi viaggiatori della storia sono questi studiosi che provengono dall'Oriente. Essi hanno fatto della loro vita una continua ed attenta ricerca di segni e individuatone uno, decidono di mettersi in viaggio. È per loro una scommessa, poiché nessuno ha detto loro che quel segno è quello giusto, che essi cercavano. Poiché neppure loro sapevano esattamente cosa stavano cercando. Tuttavia, anche loro, lasciate le loro sicurezze e il loro paese, si mettono in gioco seguendo, giorno dopo giorno, quel segno celeste, che indicava loro la strada. Non sanno dove li porterà, ma sanno che è un segno regale e che loro sono chiamati a seguirlo. Ed essi si lasciano guidare anche se ancora la comprensione di quel segno è soltanto parziale e confusa. È un viaggio fondato soltanto sulla fiducia e su di una comprensione ancora incompleta. Devono per questo fermarsi e cercare ancora, poiché quella stella da sola non è sufficiente. Si imbattono negli intrallazzi del potere, rischiando di rimanerne invischiati. Solo le Scritture getteranno luce sulla loro ricerca e finalmente riusciranno a comprendere il vero significato di quella stella e di quella regalità che essi stavano cercando. Riprendono il loro cammino pieni di gioia, ora rafforzati dalla Parola, finché giungono davanti a quel insignificante bambino, che nulla ha di regale, nulla che possa dir loro che quello lì è Dio e che da lui proviene. Ma la loro connaturata sensibilità umana, attenta ai segni del divino, illuminata dalla Parola, li spinge ad inginocchiarsi davanti a quel bambino, riconoscendolo loro Re e Signore. Si tratta di un viaggio della fede, che partendo dalla semplice natura umana, capace di intuire il divino, viene perfezionata e compiuta dall'incontro con la Parola.

I due discepoli di Emmaus

Quanta delusione, quanta amarezza e rabbia agitavano i loro animi. Pensavano che fosse lui il messia che avrebbe rimesso le cose a posto. Qualcuno aveva anche pensato di trarne un qualche profitto, sperando di sedere alla sua destra o alla sua sinistra alla ricostituzione di Israele. Lo hanno seguito fino all'ultimo momento. Ma ora è tutto finito. Gli hanno dedicato alcuni anni della loro vita, ma ha fatto la fine di tutti gli altri messia. In fondo, la fine che si meritava quell'impostore. E con il cuore in tumulto e affranto se ne tornarono indietro, rimuginando tristi pensieri, chiusi nel buio delle loro anime, in un vortice di solitudine e rabbia. Ed ecco, lungo il cammino, un tale in vena di chiacchiere, chissà da dove veniva, visto che non era al corrente degli eventi eclatanti che avevano scosso l'intera Gerusalemme in quei giorni. E comincia a parlare con un'insistenza fastidiosa. Loro volevano soltanto rimanere soli con il loro profondo dolore. Ma questo non molla, si è ormai affiancato a loro, ne è divenuto compagno di viaggio … e continua a parlare. E man mano che parla il gelo delle loro anime si scioglie, il loro cuore comincia a battere nuovamente, il ritmo del cammino si fa più vivace, quasi saltellante. Il sorriso è ritornato sui loro volti. Li ha pure redarguiti, definendoli dei tardi di cuore e chiusi nella pochezza delle loro menti. E continua a parlare. Un cammino lungo, durato tutto il giorno con questo che continua a parlare e non si ferma mai. Ma la sua parola ha riacceso la speranza in loro e vorrebbero continuare con lui, ma ormai si è fatta sera. Lo invitano a restare con loro ancora un po', a mangiare un boccone. Entrano e l'oste porta loro un po' di pane e un boccale di vino, le vivande semplici, ma che rinfrancano i viaggiatori. E lui ha smesso di parlare. Ma ora li guarda con quello sguardo profondo e penetrante, sorride loro con un sorriso enigmatico con una leggera vena di ironia. Prende il pane, lo spezza e lo dona loro. Un lampo! È lui! Stanno per gettarsi ai suoi piedi ed abbracciarlo, ma lui già non c'è più. Ancora una volta li ha lasciati soli? Li ha traditi ancora? Li sta prendendo ancora in giro? Ma poi ci riflettono un istante, si guardano tra loro e capiscono che il loro viaggio ora può continuare e non saranno più soli perché hanno con loro la sua Parola e il suo Pane. Egli li accompagnerà sempre, finché non verrà nuovamente la sera delle loro vite. Il cammino riprende, ma il loro cuore ora è pieno di gioia.

Il grande Viaggiatore

Proveniva da un luogo molto remoto e sconosciuto e si era messo a camminare tra noi, parlando di sé e del Padre, che lo aveva mandato. Ha cercato di convincerci di andare con lui. Gli abbiamo chiesto dove stesse andando e ci ha risposto che stava ritornando là da dov'era venuto e che là c'era posto anche per noi. Molti gli hanno detto che non interessava loro e se ne andarono via. Molti di quelli che l'avevano seguito lo abbandonarono. Ma lui continuava a camminare in mezzo a noi e con noi, perché doveva compiere un lungo viaggio, cercando di creare tra di noi un grande movimento che raccogliesse tutti attorno a sé, come la chioccia raccoglie sotto le sue ali i suoi pulcini, per riportarci tutti a suo Padre, al nostro Padre, dal quale anche noi, come lui, siamo usciti, ma senza più farvi ritorno, poiché ne avevamo smarrito la strada. Questa era la sua missione. Aveva percorso infatti tutta la Galilea e poi giù fino a Gerusalemme, insegnando nelle sinagoghe e guarendo dalle loro infermità tutti quelli che andavano da lui. Passò tra di noi beneficando tutti. Accoglieva tutti e non respingeva nessuno. Aveva parole di conforto e di perdono per tutti e non toglieva mai la speranza a nessuno. Non frequentava i palazzi del potere, ma cercava quelli che i benpensanti respingevano e inorriditi cercavano di ignorare, ghettizzandoli. Erano questi quelli con cui preferiva banchettare, perché erano questi che nel corso del loro cammino si erano smarriti. Si lasciava toccare dalle prostitute e aveva per loro parole di perdono. Nessuna si è mai sentita condannata o respinta, ma soltanto compresa ed amata. E le additava ad esempio ai benpensanti. Camminava in mezzo a tutti e tutti potevano raggiungerlo, ascoltarlo e toccarlo e ne rimanevano guariti. In questo suo viaggiare si era fatto tutto a tutti. Il suo viaggiare era sobrio, essenziale e neppure gli animali avevano meno di lui. Essi potevano contare su di un qualche rifugio, una tana, un nido, ma lui non aveva neppure una pietra dove posare il capo. E pretendeva che questa essenzialità di vita l'avessero anche quelli che avevano deciso di seguirlo, affascinati da quest'uomo, che essi sentivano che parteggiava per loro, senza mai incitarli alla rivolta o all'odio. Il loro modo di viaggiare doveva riflettere il loro modo di vivere: non dovevano accumulare oro e argento, né procurarsi di più di quello che era necessario per vivere giorno per giorno; niente vestiti di ricambio nella bisaccia, niente sandali oltre a quelli che indossavano, ma dovevano cercare solo le cose che contano, quelle di Dio, e a tutti quelli che incontravano donare la sua pace. Ce l'aveva fisso nella testa e ne era quasi ossessionato: egli doveva compiere un viaggio per cui era venuto, la cui meta era Gerusalemme, la porta per ritornare al Padre, da cui era uscito e verso cui, ora, stava ritornando. Non a mani vuote, ma portando con sé quanti avevano accettato di seguirlo. Nessuno di quelli che il Padre gli aveva dato sono andati perduti. Era questo il suo orgoglio di Figlio, poiché questi erano quelli che avrebbero continuato a camminare e a viaggiare lungo i secoli anche quando lui, finalmente, era ritornato al Padre.


Giovanni Lonardi