Non
di rado nella letteratura la vita e il vivere sono descritti come una
strada, un cammino, un percorso che si compie. Non di rado il viaggio
come il viaggiare divengono metafora della vita e del vivere. Il
viaggio è il luogo dove il divenire si fa più intenso e diviene
logica di vita; un luogo dove tutto e il contrario di tutto può
accadere e per quanto esso sia razionalizzato e meticolosamente
organizzato, proprio perché dominato da un rapido e sovente
incontrollabile susseguirsi di eventi, lascia un ampio spazio
all'imprevisto, proprio perché imprevedibile. Questo è il viaggio.
Questa è la vita.
Nel
suo film “Il tè nel deserto”, tratto da “The
Sheltering Sky” (Il cielo protettivo), romanzo del 1949
dell’americano Paul Bowles, Bernardo Bertolucci presenta il dramma
di una giovane coppia solo apparentemente in crisi matrimoniale,
poiché il loro amore come i loro rapporti sono solidi e mai messi in
discussione, nonostante i loro reciproci tradimenti. Il loro male
profondo, quello che Bertolucci racconta in questo viaggio, è la
crisi esistenziale di questa coppia, alla ricerca del senso della
vita e, di conseguenza, del senso del loro amore. Lo fa attraverso il
racconto filmico di un viaggio che spinge i protagonisti sempre più
all'interno del deserto del Sahara, metafora della loro vita, arida e
priva di ogni idealità e spiritualità e percorsa dalla costante
paura della morte, che incombe su di loro. Per ben quattro volte essa
viene allusa o chiaramente richiamata nel corso di questo viaggio in
mezzo al deserto delle loro vite, prive di ogni speranza, poiché
oltre il cielo, dirà il protagonista, c'è soltanto il buio della
notte eterna. Significativa è la scena d'amore, consumato senza
emozioni e senza partecipazione, in mezzo all'aridità del deserto,
metafora dell'aridità del loro amore privo di ogni idealità e su
cui incombe la fugacità del tempo e la morte. Riporto qui di seguito
dei passaggi che formano la chiave di lettura dell'intero racconto di
questo viaggio drammatico alla ricerca del senso della vita e su cui
vale la pena soffermarsi, poiché tratteggia bene il dramma della
nostra epoca.
Scena
dell'arrivo al porto di Tangeri: Tunner:
“Forse siamo i primi turisti che hanno dopo la guerra”; Kit:
“Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori”; Tunner: “E
che differenza c'è?”; Kit: “Il turista è quello che pensa al
ritorno a casa fin dal momento del suo arrivo”; Port: “Là dove
un viaggiatore può anche non tornare” (prima allusione alla morte
del protagonista, che non tornerà da questo viaggio). Il turista,
dunque, considera il viaggio come una breve parentesi della sua
routine quotidiana; mentre il viaggiatore fa del viaggio la ragione
della sua stessa vita; un viaggio che è ricerca di senso, come lo è
per i due protagonisti Kit e Port.
Scena al caffè: Tunner, amico di Port e Kit, si rivolge a Port: “Ci atterremo ai tuoi programmi”; Port: “Il mio solo programma è che non ho programmi”. Una vita, dunque, senza regole, senza progetti, senza orientamenti, che si lascia vivere e trascinare dagli eventi fino ad una morte tragica.
Segue
qui una riflessione con voce fuori campo che commenta il dramma della
coppia e che verrà ripresa alla fine del film: “Poiché Kit e Port
non avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano
commesso entrambi un fatale errore di considerare in modo confuso il
tempo come inesistente; un anno come un altro e alla fine tutto
sarebbe potuto accadere”.
Scena
di amore in mezzo al deserto: Port:
“Qui il cielo è così strano, è quasi solido come ci proteggesse
da quello che c'è oltre”; Kit: “Da quello che c'è oltre?” -
Port: “Non c'è niente. Solo notte”; Kit: “Vorrei essere come
te, ma non ci riesco”; Port: “Forse tutti due abbiamo paura della
stessa cosa”; Kit: “No, no, non hai bisogno di niente; di niente
né di nessuno. Vivresti anche senza di me”; Port: “Kit, sai che
amare significa amare te. Qualunque cosa non vada tra noi non potrà
esserci un'altra. Forse tutti due abbiamo la paura di amare troppo”;
Kit: “andiamocene via”. Il loro amore è solido e tale da non
potersi pensare con una diversa persona. Un amore, che tuttavia non
crea tra loro emozioni, ma che si riduce ad uno stanco e faticoso
rapporto fisico, perché manca di quella scintilla, che solo ciò che
è al di là del cielo può dare loro, ma che essi non vedono e non
percepiscono perché sono avvolti dalla notte e da un senso
nichilistico della vita, così che quel luogo diventa per loro
insopportabile e opprimente e spinge Kit ad andarsene via. Oltre il
cielo non c'è niente, solo la notte. Tutto ciò che essi hanno sono
loro stessi; loro sono il senso delle loro vite e questo li riempie
di angoscia per quel senso di morte incombente che li sovrasta:
“Forse tutti due abbiamo paura della stessa cosa”.
Scena
conclusiva:
una voce fuori campo commenta la grande illusione che ha intossicato
le vite dei due protagonisti: “Poiché non sappiamo quando
moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo
inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte; un
numero minimo di volte … eppure tutto sembra senza limite”. Certo
non si conosce il quando si muore, ma l'accadere delle cose, il loro
divenire scandisce il tempo della nostra vita, come il tic tac
dell'orologio. Una considerazione questa che riprende e porta a
conclusione quella della scena iniziale del caffè. Si tratta dunque
di un viaggio alla ricerca del senso della vita, ma un viaggio ed una
ricerca che si compiono soltanto ora, qui, finché c'è tempo, che
non va sprecato, poiché è l'unico spazio che ci è concesso per
trovare e dare senso al nostro vivere, che diverrà definitivo
nell'eternità, dove lo spazio e il tempo hanno cessato di esserci.
Un
altro celebre viaggio è quello narrato da Omero
nella sua Odissea,
dove si racconta l'avventuroso ritorno di Ulisse
alla sua amata Itaca, durato dieci anni, disseminato di ostacoli e
pericoli di ogni genere, che sembravano escogitati dagli dei per
punire l'eroe, che con l'inganno del cavallo ha espugnato Troia.
Omero ce lo presenta intelligente, astuto, intrepido e inarrestabile
di fronte ad ogni pericolo, convincente trascinatore dei suoi fedeli
compagni d'avventura. L'eroe, insomma, che s'impone su tutto e contro
tutto e resiste agli dei e li sfida, pur subendone l'ira. Dante
lo pone nell'ottava
bolgia infernale,
quella dei consiglieri
fraudolenti
per aver ideato l'inganno del cavallo di Troia. Ma ciò su cui si
sofferma Dante, seguendo una tradizione medievale, è la motivazione
che spinse Ulisse a questa nuova e drammatica avventura, che lo
porterà alla rovina: “né
dolcezza di figlio, né la pieta del
vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far
lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir
del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore”
(Inf. XXVI, 94-99 ). Dante pone qui a confronto due dimensioni
proprie dell'uomo: il mondo degli affetti e dell'amore con quello del
desiderio, qui definito come un ardore invincibile e indomabile per
la conoscenza e, in ultima analisi, l'affermazione del
soddisfacimento del proprio ego. Dante, affronta qui con la sua
genialità, quello che due grandi scienziati del comportamento umano
affermeranno circa cinque secoli più tardi: Freud, lo studioso
dell'eros, dell'io che va verso il tu e in questo trova la sua
affermazione e realizzazione; Adler, che gli oppone la teoria della
volontà di potenza, il desiderio irrefrenabile dell'uomo di
affermare il proprio ego, che avrà come conseguenza il sacrificio
dell'eros. Due realtà tra loro inconciliabili e irriducibili l'una
all'altra, ma che segnano profondamente il cammino di vita di ogni
essere umano. Dante qui non condanna l'amore per la conoscenza,
sapendo che essa appartiene alla natura dell'uomo e, anzi, la vede
come un principio di evoluzione dell'uomo e lo fa dire allo stesso
Ulisse: “Considerate
la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir
virtute e canoscenza”
(Inf XXVI, 118-120). Ciò che qui il Poeta condanna è una conoscenza
spinta oltre ogni limite, imposto dalla natura stessa delle cose e,
in definitiva, dalla divinità. Un limite qui simboleggiato dalle
colonne d'Ercole, oltrepassando le quali Ulisse, sfidando ogni
divieto divino, entra in una dimensione che gli è sconosciuta e
proibita e che gli si torcerà contro distruggendolo.
Abbiamo
fin qui analizzato due viaggi: il primo riguardante la drammatica
ricerca di senso della vita, senza il quale l'uomo vive
nell'angoscia, che lo porta alla dissipazione esistenziale e alla
morte, privandolo di ogni speranza; il secondo, riguarda, da un lato,
una scelta di vita, che ha per oggetto o l'amore che si fa dono per
l'altro o l'affermazione del proprio ego a spese dell'amore;
dall'altro, la coscienza che tutto ha un limite oltre il quale, come
afferma Orazio, non può esservi il giusto. Limiti e confini, insiti
nella stessa natura umana, che vanno rispettati per non subirne le
conseguenze disastrose. Vedremo ora alcuni viaggi di personaggi
biblici, che si muovono sull'ascolto e la ricerca di Dio, con
l'essenzialità dei nomadi, come Abramo e l'esodo nel deserto; i
Magi, i due discepoli di Emmaus e i viaggi di Gesù.
Il
nomadismo
I
nomadi sono i primi grandi viaggiatori della storia, per i quali il
viaggiare è parte determinante del loro modo di essere e di vivere.
Vivono in territori poverissimi, prevalentemente nel deserto o ai
suoi margini. La loro unica ricchezza sono capre e pecore; il loro
modo di vivere è essenziale, rispondente ai soli bisogni primari:
discendenza numerosa, che garantisca la sopravvivenza del clan, buoni
pascoli e greggi abbondanti. I ritmi della loro vita sono scanditi
dai ritmi della natura. Quando i greggi o il clan aumentavano troppo
e i pascoli erano insufficienti per tutto il bestiame, allora il clan
di origine si divideva per formare altri clan con a capo altri
patriarchi. La loro fede era essenziale e si cristallizzava attorno
al dio del comune antenato, che doveva garantire benessere al clan,
prosperità e difesa dai nemici, altri nomadi come loro o popolazioni
stanziali in cui si imbattevano nel loro perenne girovagare. Si rende
necessaria una regolamentazione della vita comunitaria come il non
uccidere, non rubare, il rispetto del padre e della madre, il diritto
di asilo e di ospitalità. Sono elementi che si fondano sul rispetto
della persona. La partenza, dopo la lunga sosta invernale, si
regolava sulla prima luna di primavera ed era caratterizzata da una
ritualità ancestrale di tipo apotropaico: si immolava un agnello, lo
si mangiava con pane senza lievito e con il suo sangue si tingevano i
pali delle tende, per allontanare gli spiriti malvagi. Essenzialità
di vita, conformata ai ritmi della natura, che la scandiva e la
regolava; interessi che non trascendevano mai ciò che era necessario
per vivere, nel rispetto degli altri, contraddistinguevano questo
modo di vivere, governato dalla natura, da cui le loro vite
dipendevano.
Abramo
A
questo mondo apparteneva anche Abramo, anche lui chiamato a compiere
un lungo viaggio fondato su una promessa. Ma prima di iniziarlo egli
deve procedere ad una sorta di rituale di spogliazione di tutte le
sue sicurezze e dei suoi legami con il mondo in cui era radicato. Si
trattava di una liberazione e di una purificazione da un sistema di
vita che lo avrebbe condizionato e certamente non lo avrebbe reso
disponibile ad un viaggio così avventuroso e apparentemente senza
meta. Ecco perché la sua chiamata comincia con un ordine perentorio:
“Vattene
dal tuo paese, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso
il paese che io ti indicherò”.
Per compiere questo viaggio è necessario, dunque, liberarsi da tutte
le logiche che fino ad oggi avevano garantito le sue sicurezze,
perché soltanto così Abramo potrà abbandonarsi alle controverse e
spesso incomprensibili esigenze di questo Dio. La meta di questo
viaggio è “la terra che ti indicherò”. Nulla di preciso, nulla
di sicuro, nulla di garantito: Abramo è chiamato a compiere questo
viaggio lasciandosi condurre, giorno dopo giorno, dalla mano di Dio
in piena fiducia. Riceve la promessa di una numerosa discendenza e
subito, considerata la vecchiaia di sua moglie, egli decide di avere
un figlio dalla sua giovane schiava Agar. Abramo continua ancora a
muoversi secondo logiche umane; deve ancora imparare a guardare le
cose dalla prospettiva di Dio e lasciarsi condurre da lui: non Agar,
ma Sara sarà la madre di suo figlio. Ed ecco Isacco, il figlio di un
riso sgorgato dall'incredulità di Sara. È difficile fidarsi di
questo Dio così indecifrabile, così ambiguo, così imprevedibile e
illogico nelle sue pretese: ti promette una discendenza numerosa e
poi ti senti dire, con una sorta di tono irriverente e canzonatorio:
“Prendi
tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di
Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”
(Gen 22,2). Anche qui la meta è incerta e la devi attendere da Dio,
devi lasciarti condurre da lui. Queste sono le regole del suo gioco.
Ma Abramo questa volta ha capito chi ha davanti, ne sta comprendendo
un po' alla volta e a gran fatica le logiche e accetta quest'altra
sfida e compie un altro viaggio con la morte nel cuore. Ma si fida e
su questa sua fede estrema, che accetta anche l'inaccettabile, Dio
genererà un grande popolo. E Abramo giunge, infine, al termine della
sua vita, carico di anni e di benedizioni: “Poi
Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e
si riunì ai suoi antenati”
(Gen 25,8). Un lungo viaggio in cui egli ha imparato, giorno dopo
giorno, a fidarsi di Dio, mano nella mano, per giungere a quella meta
che ora anche lui conosce: l'eternità di Dio stesso, dove egli
stesso, ancor oggi, accoglie nel suo seno i figli della Promessa.
L'esodo
Lo
aveva promesso ad Abramo di dargli una numerosa discendenza e una
terra, ma questa discendenza è ormai divenuta forzosamente stanziale
in Egitto. Serve un leader,
una guida che sblocchi la situazione: Mosè, entrato a far parte
della famiglia del faraone. Ma prima di servirsene, Dio costringe
Mosè ad un viaggio-fuga attraverso il deserto, il luogo della prova
e della purificazione, spogliandolo di ogni titolo e di ogni
possibile potere, perché dalla debolezza di quel uomo meglio
traspaia la potenza di Dio. Si tratta ora di convincere non soltanto
il faraone a rinunciare a quella manodopera a buon mercato, ma lo
stesso popolo, che preferisce la sicurezza e la tranquillità di un
po' di cibo pagato con una dura schiavitù, all'incognita della
libertà. Ma Dio ha una promessa da mantenere e il popolo, suo
malgrado, s'incamminerà per un lungo viaggio verso una terra che Dio
gli indicherà e il cui cammino solo lui conosce. Un popolo dalla
dura cervice, che il salmista definirà come “[...]
generazione
ribelle e ostinata, generazione dal cuore incostante e dallo spirito
infedele a Dio”
(Sal 77,8). Serviranno quarant'anni e nuove generazioni prima di
giungere nella Terra Promessa. Un duro viaggio nel deserto dove il
popolo viene ripetutamente messo alla prova e purificato dal suo
orgoglio, che resiste a Dio e gli si oppone tenacemente fino a
giungere al tentativo di sostituirlo con una qualche altra divinità
più accomodante e più a misura d'uomo, ma che lo avrebbe ricondotto
nella precedente schiavitù. E il popolo continua questo viaggio
dove, toccando i limiti della propria esistenza, impara a fidarsi di
Dio. Un cammino condotto attraverso un duro confronto tra l'uomo e
Dio, ma che aiuta a capire come ogni cammino di liberazione per
giungere alla vera libertà, non può mai prevedere l'esclusione di
Dio, poiché solo lui sa dove si trova la Terra Promessa.
Diversamente il popolo continuerà a girovagare in un deserto senza
uscite fino alla sua distruzione.
Sono
viaggi che hanno dei tratti che li accomuna: la necessità di
lasciare le proprie sicurezze; fare dell'essenzialità di vita la
logica del proprio vivere; accettare le dure sfide che provengono
lungo il cammino, considerandole dei test che interpellano
continuamente l'uomo ed esigono da lui continue risposte
esistenziali, continui riposizionamenti del proprio modo di vivere,
che lentamente creano il suo orientamento di vita; l'imparare a
fidarsi di Dio anche là dove ogni logica umana vorrebbe rifuggirlo,
poiché le vie e i pensieri di Dio sono ben lontani da quelli
dell'uomo. Si rende quindi necessario imparare a vedere e a
comprendere le cose e la vita mettendosi dalla sua prospettiva. Solo
così si potrà raggiungere la Terra Promessa, che è sempre là dove
Dio la indicherà.
I
Magi
Altri
famosi viaggiatori della storia sono questi studiosi che provengono
dall'Oriente. Essi hanno fatto della loro vita una continua ed
attenta ricerca di segni e individuatone uno, decidono di mettersi in
viaggio. È per loro una scommessa, poiché nessuno ha detto loro che
quel segno è quello giusto, che essi cercavano. Poiché neppure loro
sapevano esattamente cosa stavano cercando. Tuttavia, anche loro,
lasciate le loro sicurezze e il loro paese, si mettono in gioco
seguendo, giorno dopo giorno, quel segno celeste, che indicava loro
la strada. Non sanno dove li porterà, ma sanno che è un segno
regale e che loro sono chiamati a seguirlo. Ed essi si lasciano
guidare anche se ancora la comprensione di quel segno è soltanto
parziale e confusa. È un viaggio fondato soltanto sulla fiducia e su
di una comprensione ancora incompleta. Devono per questo fermarsi e
cercare ancora, poiché quella stella da sola non è sufficiente. Si
imbattono negli intrallazzi del potere, rischiando di rimanerne
invischiati. Solo le Scritture getteranno luce sulla loro ricerca e
finalmente riusciranno a comprendere il vero significato di quella
stella e di quella regalità che essi stavano cercando. Riprendono il
loro cammino pieni di gioia, ora rafforzati dalla Parola, finché
giungono davanti a quel insignificante bambino, che nulla ha di
regale, nulla che possa dir loro che quello lì è Dio e che da lui
proviene. Ma la loro connaturata sensibilità umana, attenta ai segni
del divino, illuminata dalla Parola, li spinge ad inginocchiarsi
davanti a quel bambino, riconoscendolo loro Re e Signore. Si tratta
di un viaggio della fede, che partendo dalla semplice natura umana,
capace di intuire il divino, viene perfezionata e compiuta
dall'incontro con la Parola.
I
due discepoli di Emmaus
Quanta
delusione, quanta amarezza e rabbia agitavano i loro animi. Pensavano
che fosse lui il messia che avrebbe rimesso le cose a posto. Qualcuno
aveva anche pensato di trarne un qualche profitto, sperando di sedere
alla sua destra o alla sua sinistra alla ricostituzione di Israele.
Lo hanno seguito fino all'ultimo momento. Ma ora è tutto finito. Gli
hanno dedicato alcuni anni della loro vita, ma ha fatto la fine di
tutti gli altri messia. In fondo, la fine che si meritava
quell'impostore. E con il cuore in tumulto e affranto se ne tornarono
indietro, rimuginando tristi pensieri, chiusi nel buio delle loro
anime, in un vortice di solitudine e rabbia. Ed ecco, lungo il
cammino, un tale in vena di chiacchiere, chissà da dove veniva,
visto che non era al corrente degli eventi eclatanti che avevano
scosso l'intera Gerusalemme in quei giorni. E comincia a parlare con
un'insistenza fastidiosa. Loro volevano soltanto rimanere soli con il
loro profondo dolore. Ma questo non molla, si è ormai affiancato a
loro, ne è divenuto compagno di viaggio … e continua a parlare. E
man mano che parla il gelo delle loro anime si scioglie, il loro
cuore comincia a battere nuovamente, il ritmo del cammino si fa più
vivace, quasi saltellante. Il sorriso è ritornato sui loro volti. Li
ha pure redarguiti, definendoli dei tardi di cuore e chiusi nella
pochezza delle loro menti. E continua a parlare. Un cammino lungo,
durato tutto il giorno con questo che continua a parlare e non si
ferma mai. Ma la sua parola ha riacceso la speranza in loro e
vorrebbero continuare con lui, ma ormai si è fatta sera. Lo invitano
a restare con loro ancora un po', a mangiare un boccone. Entrano e
l'oste porta loro un po' di pane e un boccale di vino, le vivande
semplici, ma che rinfrancano i viaggiatori. E lui ha smesso di
parlare. Ma ora li guarda con quello sguardo profondo e penetrante,
sorride loro con un sorriso enigmatico con una leggera vena di
ironia. Prende il pane, lo spezza e lo dona loro. Un lampo! È lui!
Stanno per gettarsi ai suoi piedi ed abbracciarlo, ma lui già non
c'è più. Ancora una volta li ha lasciati soli? Li ha traditi
ancora? Li sta prendendo ancora in giro? Ma poi ci riflettono un
istante, si guardano tra loro e capiscono che il loro viaggio ora può
continuare e non saranno più soli perché hanno con loro la sua
Parola e il suo Pane. Egli li accompagnerà sempre, finché non verrà
nuovamente la sera delle loro vite. Il cammino riprende, ma il loro
cuore ora è pieno di gioia.
Il
grande Viaggiatore
Proveniva
da un luogo molto remoto e sconosciuto e si era messo a camminare tra
noi, parlando di sé e del Padre, che lo aveva mandato. Ha cercato di
convincerci di andare con lui. Gli abbiamo chiesto dove stesse
andando e ci ha risposto che stava ritornando là da dov'era venuto e
che là c'era posto anche per noi. Molti gli hanno detto che non
interessava loro e se ne andarono via. Molti di quelli che l'avevano
seguito lo abbandonarono. Ma lui continuava a camminare in mezzo a
noi e con noi, perché doveva compiere un lungo viaggio, cercando di
creare tra di noi un grande movimento che raccogliesse tutti attorno
a sé, come la chioccia raccoglie sotto le sue ali i suoi pulcini,
per riportarci tutti a suo Padre, al nostro Padre, dal quale anche
noi, come lui, siamo usciti, ma senza più farvi ritorno, poiché ne
avevamo smarrito la strada. Questa era la sua missione. Aveva
percorso infatti tutta la Galilea e poi giù fino a Gerusalemme,
insegnando nelle sinagoghe e guarendo dalle loro infermità tutti
quelli che andavano da lui. Passò tra di noi beneficando tutti.
Accoglieva tutti e non respingeva nessuno. Aveva parole di conforto e
di perdono per tutti e non toglieva mai la speranza a nessuno. Non
frequentava i palazzi del potere, ma cercava quelli che i benpensanti
respingevano e inorriditi cercavano di ignorare, ghettizzandoli.
Erano questi quelli con cui preferiva banchettare, perché erano
questi che nel corso del loro cammino si erano smarriti. Si lasciava
toccare dalle prostitute e aveva per loro parole di perdono. Nessuna
si è mai sentita condannata o respinta, ma soltanto compresa ed
amata. E le additava ad esempio ai benpensanti. Camminava in mezzo a
tutti e tutti potevano raggiungerlo, ascoltarlo e toccarlo e ne
rimanevano guariti. In questo suo viaggiare si era fatto tutto a
tutti. Il suo viaggiare era sobrio, essenziale e neppure gli animali
avevano meno di lui. Essi potevano contare su di un qualche rifugio,
una tana, un nido, ma lui non aveva neppure una pietra dove posare il
capo. E pretendeva che questa essenzialità di vita l'avessero anche
quelli che avevano deciso di seguirlo, affascinati da quest'uomo, che
essi sentivano che parteggiava per loro, senza mai incitarli alla
rivolta o all'odio. Il loro modo di viaggiare doveva riflettere il
loro modo di vivere: non dovevano accumulare oro e argento, né
procurarsi di più di quello che era necessario per vivere giorno per
giorno; niente vestiti di ricambio nella bisaccia, niente sandali
oltre a quelli che indossavano, ma dovevano cercare solo le cose che
contano, quelle di Dio, e a tutti quelli che incontravano donare la
sua pace. Ce l'aveva fisso nella testa e ne era quasi ossessionato:
egli doveva compiere un viaggio per cui era venuto, la cui meta era
Gerusalemme, la porta per ritornare al Padre, da cui era uscito e
verso cui, ora, stava ritornando. Non a mani vuote, ma portando con
sé quanti avevano accettato di seguirlo. Nessuno di quelli che il
Padre gli aveva dato sono andati perduti. Era questo il suo orgoglio
di Figlio, poiché questi erano quelli che avrebbero continuato a
camminare e a viaggiare lungo i secoli anche quando lui, finalmente,
era ritornato al Padre.
Giovanni Lonardi