TEOLOGIA SACRAMENTARIA
Sunto parziale e riflessioni sul libro "Dottrina dei Sacramenti" di Franz-Josef Nocke Traduzione di Carlo Danna Editrice Queriniana integrati da miei appunti
Premessa
Nel suo libro "De captivitate babylonica ecclesiae" Lutero negava i sacramenti e ne salvaguardava uno soltanto: il perdono dei peccati, che si manifestava in tre segni sacramentali: battesimo, eucaristia penitenza.
La risposta della Chiesa cattolica fu quella di radicalizzare la propria vita e la propria azione pastorale attorno al sacramento stesso.
Da allora, la teologia sacramentaria, che risentiva della polemica antiprotestante e della riflessione teologica medievale, non fu più mutata.
Ma l'avvento del Concilio Vaticano II (1962-65) e l'apertura ad un dialogo ecumenico rinnovò completamente la teologia sacramentaria, che percorse tre vie significative: quella del rinnovamento liturgico, quella dello sviluppo della ecclesiologia e, infine, dell'antropologia.
Il rinnovamento liturgico
Tale rinnovamento ha portato alla scoperta di una comunità che si ritrova attorno al Cristo morto e risorto e ne celebra i misteri di salvezza, ne annuncia la parola, rende grazie e attende la venuta del suo Signore. La "comunità che celebra" attua in mezzo a se stessa e all'umanità l'azione salvifica che Cristo ha compiuto una volta per tutte, realizzando attraverso il culto, cioè con azioni simboliche e rituali, la propria conformazione a Cristo.
Lo sviluppo dell'ecclesiologia
Il rinnovamento della riflessione teologica sui sacramenti è, ancora, strettamente legato allo sviluppo dell'ecclesiologia. In tale ambito si è compiuto un recupero del concetto patristico di sacramento, inteso come "l'unione del divino con l'umano, del visibile con l'invisibile". Tale concetto di sacramento venne esteso alla Chiesa stessa, ricompresa quale sacramento vivente di Cristo: "La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (LG §1).
Da qui, la comprensione della Chiesa quale sacramento primario, da cui scaturiscono tutti gli altri sacramenti, intesi come azioni proprie della Chiesa e attuazione della sua realtà.
La Chiesa, dunque, è la prosecuzione storica, cioè sacramentale del Cristo, primo e originario sacramento del Padre, da cui defluisce ogni altra sacramentalità, che viene attuata per mezzo del culto e del rito.
Aspetti antropologici
Qui l'attenzione si sposta dalla Chiesa all'uomo. Il sacramento viene qui ricompreso come simbolo ritualmente celebrato, che come tale diventa elemento di comunicazione umana. Il sacramento potrebbe essere definito come il divino che si esprime con un linguaggio umano; con tale linguaggio incontra l'uomo, comunica con lui e lo stimola a dare una risposta esistenziale a Dio che lo interpella sacramentalmente.
IL SACRAMENTO: LE BASI BIBLICHE
Il termine e il concetto di sacramento come musthrion
Il termine "sacramentum" è stato mutuato dal linguaggio militare e indicava il giuramento di fedeltà che il soldato prestava all'imperatore, una sorta di consacrazione al suo signore e di cui portava sul corpo un "signum". Per analogia, Tertulliano, agli inizi del III sec., introduce nella chiesa e nella teologia il termine di "sacramentum militare" con cui definisce il battesimo, che ascrive il credente alla milizia sacra di Cristo. Fu così che il battesimo, conosciuto come musthrion di iniziazione, cominciò ad essere chiamato con l'espressione "sacramentum". A partire, dunque, dal II sec. musthrion e sacramento tendono a fondersi, completandosi a vicenda.
"Sacramenta" non sono detti soltanto il battesimo e l'eucaristia, ma anche i piani di Dio che si attuano nella storia; "sacramentum" è pure detta anche la religione cristiana, che porta nascoste in sé le realtà divine. Rientrano nel termine "sacramentum" anche quelli propri di Israele, quali la circoncisione, sacrifici, la festa della Pasqua, l'unzione regale e sacerdotale, ecc.
Ma il sacramento maggiore, da cui defluisce l'intera sacramentalità, è l'incarnazione stessa di Cristo.
Il musthrion, primariamente, era un rito che aveva lo scopo di rendere presente un avvenimento di salvezza, avvenuto in tempi lontani, e solo secondariamente implicava una consacrazione alla divinità (da "Nuovo Dizionario di Liturgia" Ed Paoline - Anno 1993 - Voce: Sacramenti). Il termine deriva dal verbo greco muein, che significa chiudersi, rimanere chiuso. Esso indica, pertanto, una realtà che supera le capacità espressive del linguaggio umano, per cui "rimane chiusa, nascosta".
Il concetto di "sacramentum" richiama, invece, primariamente l'idea di consacrazione. Infatti, il termine sacramento ha la sua origine etimologica in "sacrare", che significa rendere sacro e, quindi, riservare alla divinità. A sua volta, "sacrare" deriva da "secare" che significa tagliare, separare. La consacrazione, quindi, è un atto che tende a separare le cose, sottraendole lla disponibilità umana per riservarle, invece, alla divinità.
Mentalità sacramentale: la corporeità della storia della salvezza
Nel linguaggio cristiano delle origini il grande "musthrion-sacramentum" è Cristo stesso, "nel quale sono nascosti tutti i tesori della scienza e della sapienza" (Col. 2,2). In altri termini, Cristo è il volto storico del Padre; è il segno concreto della presenza di Dio e del suo mondo in mezzo agli uomini e con la sua presenza li interpella e ne sollecita una risposta esistenziale.
Da qui nasce la convinzione che la storia umana sia diventata il luogo privilegiato dell'incontro tra gli uomini e Dio. In tale prospettiva, i fatti, gli avvenimenti, i personaggi della storia sono percepiti come il linguaggio storico di Dio, attraverso cui Egli tenta un dialogo di salvezza, finalizzato a recuperare l'uomo alla sua dimensione originaria: quella divina. In buona sostanza, con la sua incarnazione nel Figlio, Dio ha inaugurato l'era della sacramentalità, stabilendola come l'elemento fondamentale e strumentale del dialogo e del rapporto con gli uomini, attraverso cui Dio si autocomunica ad essi e ne tenta il recupero alla propria vita divina, da cui l'uomo originariamente proviene.
Questo dialogo storico tra Dio e gli uomini si costituisce come un unico atto salvifico divino, ma che idealmente e per questioni pratiche, viene suddiviso in "Antico e Nuovo Testamento".
Con questo dialogo storico ha inizio una lenta e graduale incarnazione-rivelazione di Dio nell'ambito della storia. Il primo atto è la stessa creazione, attraverso cui Dio rivela le proprie qualità invisibili e si rende raggiungibile da ogni intelletto umano (Rm 1,20). Ma non contento, ecco la sua alleanza con Abramo, Isacco, Giacobbe, poi, Mosé, il popolo ebreo, costituito ai piedi del monte Sinai quale sua proprietà, un regno di sacerdoti e una nazione santa. Israele qui riceva la sua nuova identità e diventa sacramento, cioè segno visibile di Dio in mezzo agli uomini. Una realtà che Israele capirà a partire dall'esilio babilonese in poi (597-538 a.C.). Ma anche i profeti sono segno visibile di Dio in mezzo ad Israele. Il termine stesso di profeta sta ad indicare la presenza di Dio, che si fa voce in mezzo al suo popolo. Tutta la storia di Israele, pertanto, ha un valore simbolico-sacramentale.
Se l'AT segna il lento e graduale incarnarsi di Dio nella storia, il NT ne segna il compimento definitivo, che assume il volto storico di Cristo: egli l' escaton di Dio, in quanto che in lui si compie definitivamente e pienamente il disegno del Padre. Egli è, quindi, il profeta escatologico, cioè l'ultimo discorso di Dio agli uomini; per questo egli si costituisce anche come l'elemento di giudizio sugli uomini: "chi non è con me è contro di me" (Mt 12,30).
In tal senso l'autore della lettera agli Ebrei ne dà una sintesi mirabile: "Dio, che aveva già parlato in tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose ... Questo Figlio è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza" (Eb 1,1-3).
Ma è Cristo stesso a dare la sua testimonianza: "Filippo chi vede me vede il Padre" (Gv 14,9);e ancora: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10,30); ... "le cose che io dico non le dico da me; ma è il Padre che compie le sue opere" (Gv 14,10). Possiamo ben dire, dunque, che Cristo è per eccellenza il "Sacramentum Patris", attraverso cui viene manifestato e comunicato agli uomini il mondo stesso di Dio: "In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Gv 1,1.14).
La sacramentalità della salvezza nasce, dunque, dalla volontà stessa del Padre, attuandosi per mezzo dell'incarnazione del Figlio, fonte della sacramentalità stessa e di ogni altro sacramento.
Lo sviluppo storico dogmatico
Passeremo, ora, in rassegna le tappe fondamentali della riflessione teologica sui sacramenti e che nel corso della storia ne hanno arricchito i contenuti e la comprensione.
Esse sono costituite dal pensiero dei Padri della Chiesa (II-V sec.), di S.Agostino (354-439), della Scolastica (XII-XIII sec.) , della Riforma e del Concilio di Trento (1545-1563), per giungere fino al Vaticano II (1962-1965).
I Padri greci
La comprensione del mustherion nel mondo dei Padri della Chiesa si aggancia al concetto di "simbolo reale", nel senso che una realtà è simbolo di un’altra più elevata e quest'ultima esprime se stessa in quella inferiore. Il termine "simbolo", infatti, deriva dal greco "sumballw" che significa: "getto, metto insieme, unisco, paragono, confronto". Il simbolo, quindi, richiama sempre due realtà, messe tra loro a confronto e che si richiamano a vicenda, nel senso che l'una si esprime sempre per mezzo dell'altra.
Lo schema di fondo che permette la comprensione del simbolo è il pensiero platonico che vede l'idea iperuranica racchiudersi nell'immagine e in essa farsi presente ed esprimersi in qualche modo.
Su tale linea, l'eucaristia è pensata come l'immagine di Cristo, contenuto ed operante in tale immagine, la quale, a sua volta, rimanda a Cristo stesso. Per questo si può parlare che nell'eucaristia non c'è soltanto il Cristo operante, ma anche "attuale", così che mentre i partecipanti vengono coinvolti nel mistero del Cristo celebrato, egli stesso si partecipa nell'evento figurato.
Similmente nella Catechesi mistagogica si interpreta il battesimo come immagine e imitazione della passione di Cristo: la deposizione degli abiti prima dell'immersione è associata alla spogliazione di Cristo prima di essere crocifisso; con la triplice immersione imitano i tre giorni della morte di Gesù, immerso nel sepolcro. La liturgia, quindi, viene vissuta come un'imitazione e, quindi, come una partecipazione alla vita stessa di Gesù.
S.Agostino
S.Agostino può essere ben definito come il padre del pensiero occidentale. Egli parte ponendo una distinzione tra "cose" e "segni". Mentre le "cose" indicano soltanto se stesse, il "segno", per sua natura e in quanto tale, rimanda sempre ad un'altra realtà che lo trascende e che in sé significa.
Vi sono, poi, "segni naturali", come ad esempio il fumo che indica la presenza di un fuoco; e "segni dati", cioè convenzionali, stabiliti. I sacramenti fanno parte di quest'ultima categoria. Essi sono detti anche "sacri" perché rimandano ad una realtà sacra. Ma il segno decisivo, afferma Agostino, è sempre la Parola: è lei che dà il senso al segno. Che cos’è l'acqua senza la Parola? Soltanto acqua, ma se su di essa viene effusa la Parola ecco che l'acqua si trasforma in sacramento, così che il sacramento diviene una sorta di "Parola visibile". Questa è Parola desunta dalla Bibbia e, pertanto, è Cristo stesso; da ciò ne deriva la forza che rende efficace il sacramento.
La Scolastica
Il concetto di sacramento e il numero dei sacramenti fluttuano e non sono ancora ben definiti all'interno della Chiesa. Quanto al numero, esso varia da due a dodici. Sarà soltanto con l'avvento della Scolastica che la questione verrà affrontata in termini sistematici e il numero definito in sette.
Per Ugo di S.Vittore (m.1141) i sacramenti non sono solo segni, ma vasi di grazia, cioè contengono e donano quella grazia che la loro natura significa. Essi sono concepiti come una medicina contro il peccato.
Pietro Lombardo (m.1160) afferma che "si dice sacramento in senso proprio ciò che è segno della grazia di Dio così da portarne l'immagine ed esserne causa". Se il termine "immagine" ricorda la patristica greca, l'espressione "causa" apre e introduce la questione della causalità: come può una cosa essere segno di un'altra e nel contempo causare l'effetto di quella significata? Sarà questo lo sfondo su cui si muoverà l'intera Scolastica.
Causa della Grazia
Il concetto di sacramento come "causa della grazia" viene accolto con molto sospetto. Infatti, da un lato si teme di limitare e, in qualche modo imbrigliare l'opera di Dio a un qualche cosa di materiale; dall'altro ci si interroga come un qualcosa di materiale possa influire su realtà spirituali.
S.Bonaventura (m.1274) parla del sacramento come una realtà che predispone alla grazia, ma è soltanto Dio che la infonde, il quale non l'avrebbe legata ai sacramenti. La grazia, quindi, non dipende da una virtù propria dei sacramenti, ma soltanto dalla disposizione di Dio che, in qualche modo, si impegna a operare efficacemente ogniqualvolta viene dato il sacramento.
A S.Tommaso d'Aquino (m.1274), che ha avuto il merito di dare un'impostazione sistematica e scientifica alla teologia, non va a genio la definizione data da S.Bonaventura, poiché in tal modo si svaluterebbe totalmente il sacramento in sé e per sé. Esso non avrebbe in se stesso un valore, ma questo gli è attribuito soltanto da Dio.
S.Tommaso preferisce parlare di "causa strumentale", cioè i sacramenti sono strumenti nelle mani di Dio, attraverso i quali Dio opera efficacemente. In questa prospettiva, l'autore della grazia rimane sempre Dio, ma il sacramento diventa strumento indispensabile attraverso il quale Dio fa fluire la sua grazia, dal sacramento significata. In tal modo il sacramento mantiene tutta la sua indispensabile importanza.
Ex opere operato, non operantis
Una questione a suo tempo già affrontata durante le persecuzioni del III sec., circa la validità del battesimo somministrato da ministri apostati e ripresentatosi nel IV sec. con il donatismo, è l'efficacia dei sacramenti amministrati da ministri indegni.
I sacramenti, in quanto strumenti attraverso cui opera Dio direttamente, non dipendono per la loro efficacia dal livello di fede o di santità del ministro. La loro validità è, pertanto, intrinseca, cioè il sacramento opera efficacemente e in modo indipendente dalla persona del ministro. L'affermazione viene definita con la formula "ex opere operato, non operantis".
Il sacramento, in tal modo viene slegato dalla soggettività del ministro e gli viene assegnata integralmente tutta la sua oggettività ed efficacia.
Character indelebilis
Con questa espressione la Scolastica riprende e conferma una questione già affrontata da S.Agostino, cioè il carattere indelebile di alcuni sacramenti come il battesimo, la cresima e l'ordine sacro. Con questa espressione si vuol dire che taluni sacramenti segnano profondamente e in modo irreversibile una persona, indipendentemente dal livello della sua fede o il grado della sua santità. A motivo di tale "character indelebilis" il sacramento non può più essere ripetuto, se non "sub conditione", cioè nel caso in cui si abbia il dubbio della sua somministrazione.
Materia sacramenti - Forma sacramenti
S.Agostino già aveva distinto nel sacramento l'elemento visibile, ad es. l'acqua per il battesimo, dalle parole udibili, che imprimono l'efficacia al sacramento, specificandolo.
Tommaso, rifacendosi all'ilemorfismo di Aristotele, ricongiunge la forma alla materia e ne fa un'unica realtà. Infatti, "forma" e "materia" non sono singole parti tra loro separabili, ma costituiscono un tutto, determinandosi, in tal modo, a vicenda. Pertanto, parole e cose diventano un tutt'uno nel sacramento: la Parola da forma alla materia, e la materia da concretezza alla Parola. Questo, nel suo insieme è il sacramento, una realtà complessiva e unitaria.
Il Concilio di Firenze (1438-1445), seguendo S.Tommaso, compirà una sintesi del pensiero della Scolastica e definirà i sacramenti in numero di sette, pari ai nostri attuali, ponendo una distinzione tra quelli dell'AT, che non producevano grazia, ma soltanto la preannunciavano, e i nostri, che, invece, contengono la grazia e la danno. Per la loro corretta somministrazione devono possedere tre elementi fondamentali: la materia, la parola che è la forma e il ministro che deve operare secondo l'intenzione della Chiesa. Tra questi sacramenti ve ne sono tre, battesimo, cresima e ordine sacro che, imprimendo un carattere indelebile, dovranno essere somministrati una volta per sempre.
Le controversie nel periodo della Riforma
Il clima spirituale della Chiesa, in cui è nata la Riforma luterana, non era tra i migliori: il livello morale e spirituale, soprattutto in capite, e nel clero in genere era degenerato e degradato al punto tale da creare un vero e proprio insopportabile scandalo.
Le posizioni dei Riformatori
Alle varie formulazioni teologiche e all'autoritarismo della Chiesa essi oppongono la loro quadruplice, ma quanto mai efficace formula: "sola fide", "sola gratia", "sola Scriptura", "Solus Christus". Quanto ai sacramenti ne contestano il numero e la loro legittimità, in quanto non trovano fondamento nella Scrittura.
Proprio in merito Lutero, nella sua opera "De captivitate babylonica ecclesiae", afferma: "In primo luogo io nego i sette sacramenti; per il momento se ne devono conservare solo tre: il battesimo, la penitenza e l'eucaristia ... se volessimo parlare con il linguaggio della Scrittura non dovrei ammettere che un solo sacramento e tre segni sacramentali". Esiste, dunque, per Lutero soltanto un sacramento, quello del perdono dei peccati, che si manifesta in tre segni: il battesimo, l'eucaristia e la penitenza.
Ma la formula più criticata è l' "ex opere operato" in cui vedono un inaccettabile automatismo che prescinde dalla fede, dal cuore dell'uomo, legando il tutto ad un atto esteriore, ad un rito.
Il Concilio di Trento
Il Concilio ribatte colpo su colpo, confermando il numero dei sacramenti, la loro natura, la loro istituzione da parte di Cristo. Respingono che siano un semplice nutrimento pietistico della fede, ma trasmettitori e strumenti primari della grazia, confermando la loro efficacia "ex opere operato".
La Teologia post-tridentina proseguirà sulle logiche della scolastica, accentuando la polemica antiprotestantica. I protestanti insistono sul carattere meramente simbolico dei sacramenti, mentre la parte cattolica sottolinea la loro efficacia. Così si continuerà fino al Vaticano II, che darà alla Chiesa intera un nuovo volto e un più ampio respiro, fornendola di una nuova coscienza.
UNA RIFLESSIONE SISTEMATICA SUL SACRAMENTO
Che cos'è il Sacramento
I Sacramenti potrebbero essere definiti come atti che celebrano ed esprimono la vita stessa della Chiesa. Sono atti che dicono la natura sacramentale della Chiesa e ne sono una sua manifestazione.
La loro celebrazione li definisce come "simboli", come "parola", come "rappresentazione" e parla di un "mondo redento".
In quanto simboli essi parlano di espressività corporale, l'unico linguaggio comprensibile all'uomo. Essi significano realtà ben più profonde, spirituali, e con un linguaggio tutto umano rimandano a tali realtà, diversamente impercettibili. In quanto simboli, essi non solo dicono queste realtà, ma le esprimono e consento all'uomo di raggiungerle anche corporalmente. Come l'uomo avrebbe potuto avvicinarsi a Dio, parlargli, conoscerlo se questi non avesse assunto il volto storico del suo Cristo?
Il simbolo, nella sua espressività corporea, si rende più accessibile e maggiormente significato se associato alla parola. Un sorriso dice il tuo animo sereno e gioviale, ma se ad esso aggiungi un "Ti amo", il sorriso acquista allora il volto dell'amore.
Ed è proprio la Parola che fa il sacramento e gli imprime l'efficacia che gli è propria. Fin dalle prime pagine della Genesi la Parola di Dio ci viene presentata come Parola creatrice. Essa non è un semplice flatus vocis, ma un Dabar, cioè una Parola che è azione. L'autore della lettera agli Ebrei afferma che la Parola di Dio è viva ed efficace (Eb 4,12), cioè è un essere vivo, dinamico e produce ciò che dice. Il sacramento, quindi, è parola che crea realtà. S.Agostino, in proposito, parla di "Verbum visibile".
Segno e Parola nel sacramento sono tra loro dinamicamente uniti e dànno luogo ad una "rappresentazione sacra" che coinvolge e trasforma i partecipanti, che entrano, così, nell'evento celebrato. Il Cristo morto e risorto non è più un evento di duemila anni fa, ma si fa presente con tutta la sua carica salvifica, inalterata ed efficace.
Così espressi, i sacramenti diventano "celebrazioni di una comunità". In essi si costituisce la comunità come assemblea di Cristo e ne fa memoria, attualizzandolo. In essi viene in qualche modo annunciata e attivata la vita nuova a cui sono conformati i credenti. Nella loro celebrazione, infine, viene rappresentata e celebrata la storia della salvezza che apre l'umanità ai cieli nuovi e terra nuova che loro, in qualche modo, anticipano.
Il sacramento, materia informata e resa efficace dalla Parola, celebrato dalla comunità come storia di salvezza che si attua, preannunciando il nuovo mondo inaugurato dalla morte e risurrezione di Cristo, diventa esso stesso un annuncio di salvezza e predica un mondo ricreato dalla Parola, in cui l'intera umanità è invitata ad entrare. Parla di un "mondo trasformato e redento".
Precisazioni concettuali
Quando parliamo di sacramenti, nella nostra mente si delineano i singoli sacramenti che la nostra tradizionale dottrina ci propone. Ma dove trovano essi la loro origine? Quale giustificazione dare al loro esserci?
Alla base del sacramento ci sta Cristo stesso, che si qualifica con la sua incarnazione quale sacramento del Padre e dello stesso mondo di Dio; ci sta la Chiesa, sacramento vivente di Cristo, che da essa è mediato nella storia e, grazie ad essa, continua la sua missione nel mondo, proponendo continuamente agli uomini il suo messaggio di salvezza.
I singoli sacramenti sono, pertanto, radicandosi in Cristo e nella Chiesa espressione viva e loro viva attuazione. Per loro mezzo rendono ancora una volta efficace l'opera stessa di Cristo. Nella Chiesa tutto è segno del Cristo morto e risorto e ogni segno dice la vita stessa della Chiesa, che nel segno diventa quello che è.
I sacramenti, quindi, trovano la loro origine in Cristo stesso, che con la sua incarnazione giustifica la sacramentarietà della salvezza. Essi sono fondati nelle azioni simboliche di Gesù, testimoniateci dalla Scrittura, e ne prolungano l'attività salvifica. Non sono, quindi, opere inventate dalla Chiesa. Il sacramento deriva l'intera sua forza dall'azione redentrice di Cristo, di cui ne è l'espressione, l'attuazione e l'applicazione concreta.
Cristo è sempre presente là dove si celebra un sacramento e in esso vi opera. Questo è il senso dell' "ex opere operato". Cos’è, dunque, un sacramento? Quale il suo proprium?
I Sacramenti potrebbero essere definiti come azioni liturgiche proprie della Chiesa che, rivelandone la natura, attualizzano in mezzo all'assemblea il mistero di Cristo, sviluppando su di lei un'azione consacrante e di configurazione a Cristo stesso. Essi consentono il prolungarsi dell'azione salvifica di Cristo nella storia, facendo sì che essa continui ad essere una storia si salvezza e di dialogo con Dio.
IL BATTESIMO
Premessa
Il battesimo, assieme alla confermazione e all'eucaristia, è il primo sacramento della iniziazione cristiana, che può definirsi, essa stessa, come una sorta di unico sacramento in tre tappe.
E' il sacramento fondamentale della vita cristiana, non soltanto perché la fonda, incorporando il credente a Cristo e accorpandolo alla Chiesa, ma anche perché costituisce la base essenziale per il ricevimento degli altri sacramenti, di cui è la "conditio sine qua non ...".
Il CIC al can. 96 lo individua come l'unico strumento per poter accedere alla Chiesa di Cristo: "Mediante il battesimo l'uomo è incorporato nella Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri, ..." ; mentre il can. 204 evidenzia gli effetti che il battesimo opera sulla persona battezzata. Infatti, "I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere".
Quindi, se da un lato il battesimo incorpora il credente nella Chiesa di Cristo, costituendolo come persona, quindi come individuo titolare di diritti e doveri propri (can.96); dall'altra ne definisce la natura teologica: in quanto incorporato a Cristo, il credente non solo partecipa alla natura divina di Cristo, ma è anche investito dal suo triplice ufficio di sacerdote, re e profeta. La sua vita, dunque, unita a quella di Cristo, diventa una vita consacrata e consacrante, chiamata ad attualizzare lo stesso Cristo in mezzo agli uomini. Il credente, inoltre, viene inserito nella più ampia assemblea ecclesiale, definita popolo di Dio, in cui è chiamato a vivere e testimoniare la propria fede, che assume una dimensione comunitaria.
IL BATTESIMO: LE BASI BIBLICHE
Il simbolismo dell'acqua
Da un punto di vista antropologico, il battesimo può essere inserito nell'ambito di quei riti di iniziazione che sono propri delle comunità primitive, attraverso i quali la persona veniva introdotta in comunità, assumendone la configurazione di membro effettivo e, quindi, riconosciuto e tutelato dalla comunità stessa. Per l'iniziato incominciava, pertanto, un nuovo stato di vita che lo portava anche all'incontro con la divinità propria di quella comunità, diventandone, in qualche modo, figlio.
L'elemento che caratterizza il battesimo è l'acqua, carica di simbolismi antichi a cui si agganciano esperienze umane antichissime, che si sedimentarono in racconti mitici e ne hanno costituito una sorta di archetipo.
Al tema dell'acqua sono legati antichi racconti di caos primordiale e di esperienze catastrofiche per il genere umano. Pensiamo, ad esempio, alle acque della creazione, sopra le quali aleggia lo Spirito di Dio (Gen. 1,2); o al diluvio universale ricordato non solo dal cap.7 della Genesi, ma anche dall'intera letteratura mesopotamica.
Ma essa si costituisce anche una fonte di vita. Fu proprio attraverso il passaggio delle acque del mar Rosso che Israele conobbe la propria liberazione e l'inizio di una nuova vita. L'acqua che sgorgò, poi, dalla roccia lo salvò dalla morte. Lo stesso Egitto si considerò un dono del dio Nilo, mentre il fiume che sgorga da Eden porta benefici all'intera creazione. L'acqua, poi, nell'ambito sapienziale assume la figura della sete spirituale che viene placata dall'incontro con Dio.
L'acqua, infine, è sentita come un elemento che purifica e vivifica. Se l'impurità porta all'esclusione dalla comunità e preclude al rapporto con Dio, l'acqua funge da strumento purificatore, che rigenera l'uomo alla comunità e a Dio. Il salmista invoca: "lavami e sarò più bianco della neve" (Sal 50,9), mentre Ezechiele annuncia i nuovi tempi proprio attraverso l'aspersione dell'acqua, che nel purificare l'uomo, lo rigenera alla vita stessa di Dio: "Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati ... vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi un cuore nuovo ... porrò dentro di voi il mio Spirito e vi farò vivere secondo la mia Legge" (Ez. 36, 25-27). E' interessante vedere qui l'associazione dell'acqua allo Spirito: in essa si vede l'azione dello Spirito. La stessa Regola della comunità di Qumran (1QS IV, 19-21) leggeva l'azione dell'acqua come l'azione rigenerativa dello Spirito di Dio sull'uomo: "Io lo purificherò da tutte le sue azioni malvagie per mezzo di uno Spirito Santo; quasi acque purificatrici io aspergerò su di lui lo spirito di verità".
Le abluzioni in Israele
Le abluzioni, assai frequenti in Israele, trovano la loro origine nei capp. 11-25 del Levitico e nel cap. 19 dei Numeri. In questi testi vengono elencati tutti i casi di impurità che contaminano l'uomo e lo pongono fuori dalla comunità, escludendolo anche dal rapporto con Dio. Marco, al cap. 7 del suo vangelo, ci dà un saggio di queste continue e quasi maniacali abluzioni a cui gli ebrei si sottoponevano in ossequio alla Legge.
La stessa comunità di Qumran, che viveva in una forte tensione escatologica, si assoggettava a quotidiani bagni rituali di purificazione prima di accedere al pasto messianico.
In questo contesto va visto anche il battesimo dei proseliti, che entrano a far parte della comunità d'Israele.
Il Battesimo di Giovanni
Legato idealmente alle continue e ripetute abluzioni giudaiche, il battesimo di Giovanni se ne distingue, tuttavia, radicalmente poiché esso esigeva, a differenza di quelle, un comportamento morale nuovo: si trattava di operare una conversione di vita in vista della venuta del Signore. E' una sorta di iniziazione di Israele alla nuova comunità messianica che si andava profilando con la venuta di Cristo e che introduceva il popolo negli ultimi tempi. Esso ha il carattere della irripetibilità, come irrepetibile la chiamata alla conversione.
Esso è anche un battesimo che ne prefigura un altro: "Io vi ho battezzati con l'acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo" (Mc 1,8), da cui si distingue nettamente.
Il battesimo di Gesù ricevuto da Giovanni
Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni è un fatto storico, riportato da tutti gli evangelisti. Questo, nell'ambito di una certa rivalità che era successivamente sorta tra i discepoli di Gesù e quelli di Giovanni (Mt 9,14; Lc 11,1; Gv 3,22-25 e 4,1-3), veniva letto da parte di questi ultimi come argomento di superiorità del Battista su Gesù.
Ma nel quadro complessivo dei vangeli esso diventa un motivo di rivelazione della natura di Gesù, dei suoi rapporti con il Padre e dà senso e origine alla missione stessa di Gesù, qualificandola sotto l'egida dello Spirito.
Inoltre, sotto il profilo cristologico, Gesù si rende solidale con i peccatori, accomunandosi a loro e con loro condivide la triste sorte della condizione umana segnata dal peccato.
Il racconto del battesimo di Gesù, infine, consente agli evangelisti di evidenziare i tratti propri del battesimo cristiano, che lo differenziano da quello delle comunità battiste: in esso viene donato lo Spirito di Dio, quale dono di amore del Padre, grazie al quale, come Cristo, ogni battezzato è riconosciuto quale figlio di Dio e come Cristo inviato a compiere la propria missione di annuncio e di testimonianza.
Il battesimo cristiano nelle prime comunità
Le prime comunità cristiane legarono il battesimo all'ordine di Gesù di andare e ammaestrare tutte le nazioni "battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,20), nonché al modello della sua vita missionaria che ebbe inizio con il battesimo di Giovanni. Gli Atti degli Apostoli, poi, ci riportano il battesimo come una prassi indispensabile per poter accedere al perdono dei peccati e al dono dello Spirito: "Pietro disse: <<Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome d Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito>>" (At 2,38). Paolo, invece, ci presenta il battesimo come una prassi ormai gia acquisita e scontata per poter accedere nella nuova comunità messianica.
Il battesimo non è mai un fatto individuale, ma comunitario. E' la comunità che dona il battesimo assieme alla fede e le formule usate inizialmente sono ad un membro: il battesimo viene dato nel nome di Gesù Cristo o si viene battezzati in Cristo Gesù, come indica Paolo, evidenziando l'incorporazione del credente in Cristo, per cui egli viene a lui configurato e rivestito di lui come di un abito nuovo. Ma intorno agli anni 80 la formula battesimale è già trinitaria: "Andate ed ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).
Il battesimo, poi, non investe soltanto singole persone, ma abbraccia intere famiglie con i relativi servi. Pensiamo ad es. la casa di Lidia a Filippi (At 18,18); la casa di Crispo, responsabile della sinagoga a Corinto (1Cor 1,16 e 16,17); la casa di Stefana.
Esso è vissuto come una netta cesura tra il vivere del prima e del dopo, e come scelta assai esigente di vita. E' preceduto da un periodo di catecumenato, la cui durata variava e che nella chiesa di Roma era di tre anni.
Quanto al battesimo dei bambini, non abbiamo sufficienti testimonianze che ci indichino la sua pratica. Soltanto a partire tra il II e il III abbiamo testimonianze certe a riguardo (Tertulliano, Ippolito e Agostino). E', comunque pensabile che il battesimo ai bambini fosse praticato soltanto dopo il II secolo, cioè quando il cristianesimo incominciò ad affermarsi e cominciavano a nascere bambini da giovani coppie cristiane. Ma con il battesimo ai bambini incominciò anche perdersi gradualmente il senso del catecumenato fino alla sua sparizione.
Che cosa avviene nel battesimo?
Prima di rispondere a questo interrogativo, vediamo prima come si arriva al battesimo. Ci sono nel NT dei passi significativi che indicano le tappe fondamentali per giungere al battesimo: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19-20); e ancora: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo ..." (Mc 16,16); ... "In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, ... e aver in essa creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo" (Ef 1,13).
Dalla breve citazione di questi testi si evince come il battesimo è preceduto sempre dall'annuncio e dall'ascolto, che generano la fede che porta, poi, al battesimo. Senza annuncio, infatti, non vi può essere ascolto; e senza ascolto non si genera la fede; e senza la fede non vi può essere battesimo, che dalla fede è sempre preceduto.
Una sequenza logica, questa, che ricorda anche Paolo nella sua lettera ai Romani: "Come potranno invocarlo senza prima aver creduto in lui? E come potranno credere senza prima aver sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati? ... La fede dipende dunque dalla predicazione" (Rm 10,14-15.17).
Ma non è sufficiente essere battezzati per raggiungere la salvezza, bisogna anche che le realtà spirituali, inserite in noi dal battesimo, siano incarnate nella nostra vita. Infatti, Matteo non si limita a dire di ammaestrare e battezzare, ma anche ad "insegnare ad osservare", cioè conformare il proprio vivere quotidiano a ciò che si è crede.
Ora siamo in grado di comprendere meglio il contenuto del battesimo. Esso viene somministrato "nel nome di Gesù Cristo" (At. 2,38). Una formula questa che indica che sul credente è stato imposto, quale segno indelebile, il nome di Gesù. Ciò significa che egli ha cambiato di proprietà: non appartiene più a se stesso, né alle realtà di questo mondo, ma soltanto a Cristo, a cui è stato conformato.
Paolo parla di essere "battezzati in Cristo Gesù". Questo significa che il battesimo immerge il credente in Cristo, lo riveste di Cristo come di un abito nuovo; egli viene così cristificato al punto tale che Paolo esclama "non sono più io che vivo, ma Cristo vie in me" (Gal. 2,20). Ne consegue che il credente, avvolto e permeato da Cristo diventa una nuova creatura ed è rigenerato, in Cristo e per suo mezzo, alla vita stessa di Dio, a cui appartiene per sempre. Anche il senso e l'orientamento del vivere e del morire cambia radicalmente, poiché, dopo il battesimo noi non viviamo più per noi stessi, ma per il Signore. Di conseguenza mutano, anche, i nostri rapporti sociali e ogni barriera culturale, razziale e sessuale perde il suo significato e il suo senso: "Non c’è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28)
C'è, inoltre, nel battesimo una piena condivisione della vita stessa di Cristo, che Paolo esprime con un linguaggio tutto suo, premettendo ai verbi che ci assimilano all'esperienza del Cristo morto e risuscitato la particella "sun"; per cui avremo che nel battesimo siamo "con-crocifissi", "con-morti", "con-sepolti", "con-risorti" e in lui "con-viviamo". In altre parole, il battezzato è stato profondamente unito agli stessi destini di Cristo ed è chiamo, pertanto, a configurare la propria vita a quella di Cristo in cui e di cui vive.
Perdono dei peccati
Si è detto che l'essere inseriti in Cristo, per mezzo del battesimo, significa essere stati con-crocifissi e con-morti con lui. E questo ci porta al morire al peccato. Infatti, afferma Paolo: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto è ormai libero dal peccato. ... Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rm 6,6-7.11).
Tuttavia, il battesimo non porta con sé soltanto la morte al peccato, grazie alla quale la nostra vita acquista un senso nuovo, ma per mezzo del sangue di Cristo ci viene concesso anche il perdono dei peccati e la redenzione, cioè la rigenerazione ad una nuova vita: "... nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,7).
Pertanto, grazie al battesimo siamo stati lavati, santificati e giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito Santo (1Cor 6,11).
Dono dello Spirito
"In quei giorni Gesù ... fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba." (Mc 1,9-10).
Il battesimo, dunque, è accompagnato dal dono dello Spirito, la cui azione è significativamente indicata negli Atti come un rombo improvviso che proviene dal cielo, "come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano" (At.2, 2).
Un linguaggio simbolico per indicare la potenza rigenerante dello Spirito che fa nuove tutte le cose, rigenerandole e ricostituendole nella vita stessa di Dio. Questo Spirito è lo stesso Spirito del Risorto, che ci assimila alla novità della sua vita e ci ricolloca in Dio, così che il vivere del cristiano è un vivere nello Spirito, lasciandosi da lui guidare (Rm 8,14).
E' quello Spirito che ci dona l'intelligenza di Dio e ci aiuta a vedere le cose e a comprenderle secondo la sua prospettiva. Lo Spirito, dunque, diventa il nuovo spazio di vita in cui il credente viene collocato. Esso diventa lo spazio della comunità in cui tutti i credenti sono convocati e fatti uno in Cristo.
Sviluppo storico-dogmatico
La storia del battesimo e la sua comprensione segue la storia della Chiesa, mentre la sua comprensione è legata all'evoluzione teologico-culturale propria delle varie epoche. Il pensiero della Chiesa cresce e si evolve con la storia e ne diventa una risposta.
Chiesa Antica: il battesimo come ingresso nella comunità escatologica e salvifica
Fino alla svolta costantiniana la chiesa si trovava sotto forma di piccole comunità variamente sparse sul territorio. Convertirsi al cristianesimo significava entrare in una società alternativa, mentre il battesimo era vissuto come una scelta radicale di vita, molto esigente, che introduceva il credente in un nuovo e completamente diverso modo di vivere.
Il battesimo era preceduto da un periodo di alcuni anni di catecumenato, in genere tre, e per accedervi bisognava avanzare una motivata domanda e, qualora la professione praticata non fosse compatibile con la scelta, doveva essere abbandonata, come nel caso dei gladiatori e i loro istruttori o i fabbricanti di idoli.
Tutto questo processo di iniziazione, che culminava nella notte di pasqua, costituiva un lungo distacco dalla vecchia vita e una progressiva introduzione nella vita della comunità.
La teologia del battesimo era sottesa dall'idea dell'abbandono del vecchio mondo del peccato, simboleggiato dallo stato di schiavitù dell'antico Israele; passaggio attraverso il mar Rosso, che simboleggiavano le acque battesimali; ed, infine, entrata nella terra promessa, il Cristo morto e risorto.
Ma battesimo significava anche entrare nella comunità che, illuminata e animata dallo Spirito, attendeva l'avvento del suo Signore e con lui la definitiva costituzione del mondo nuovo, in cui già erano stati in qualche modo collocati.
La Chiesa dell'Alto Medioevo: il battesimo come conseguenza della conversione del proprio sovrano
Nel periodo dell'alto medioevo il cristianesimo trova un forte impulso e una grande diffusione grazie al nuovo metodo missionario e alla cultura dell'epoca. La cristianizzazione non avviene attraverso la conversione di singole persone o di singoli gruppi familiari, ma attraverso il compatto passaggio di intere popolazioni al cristianesimo a seguito della conversione del loro sovrano, di cui erano sentite come proprietà personale.
In questo periodo la teologia del battesimo è sottesa dal comando del Signore di andare ed ammaestrare tutte le genti e di battezzarle.
Questo sistema provocherà l'entrata nel cristianesimo di enormi masse di persone, in cui, però, il cristianesimo era del tutto superficiale e inconsistente, mischiato a pratiche pagane e riti magici. Con questo sistema, affermava il teologo di corte di Carlo Magno "Si può spingere al battesimo, ma non alla fede".
La Scolastica: la teologia del battesimo nel contesto della teologia dei sacramenti
Il XIII secolo è il secolo d'oro della Scolastica, in cui la teologia passa da una semplice contemplazione del pensiero dei Padri della chiesa, ad una sistematizzazione scientifica del pensiero teologico stesso. Ne nasce una dottrina del sacramento fortemente caratterizzata dalle categorie di "causa" ed "effetto".
Quanto il modo di operare, anche il battesimo, come per il resto dei sacramenti, si sottolinea l' "ex opere operato" sottraendolo, in tal modo, alla dignità soggettiva del ministrante. L'efficacia del battesimo, come per tutti i sacramenti, è strettamente legato all'azione di Dio, che opera per mezzo del sacramento ed imprime il carattere anche senza la presenza della fede.
L'Epoca della Riforma: il battesimo come sacramento della fede inteso in maniere diverse
Con Lutero i sacramenti sono decisamente negati. Soltanto uno viene salvato: quello del perdono dei peccati che si esplica sotto tre segni: il battesimo, la cresima e l'eucaristia.
In Lutero (m.1546) il battesimo era strettamente legato alla fede, necessaria per infondergli validità: "Senza la fede l'acqua battesimale non serve a niente".
La fede era, inoltre, il modo giusto di vivere il battesimo.
Per Zwingli (m.1531) il battesimo acquista il semplice valore di un distintivo, che dice soltanto l'impegno del credente; mentre per Calvino (m.1564) è un segno con cui manifestiamo pubblicamente la nostra fede.
Il Concilio di Trento (1545-1563) si riaggancia alla teologia della Scolastica e la collega alla dottrina del peccato originale e della giustificazione. Il tutto viene sintetizzato su quattro livelli: Cristologico: è necessario Cristo per la salvezza dell'uomo; Ecclesiologico-sacramentale: la salvezza e affidata alla chiesa a cui si accede per mezzo del battesimo; Antropologico: tutti gli uomini hanno peccato in Adamo e sono posti fuori dalla vita di Dio; Eziologico: la colpa originale è stata commessa dai nostri progenitori e da allora il male e la morte si è diffusa in tutto il mondo.
Si introduce, infine, il "votum baptismi", cioè il battesimo di desiderio, applicabile a quei credenti che, non per loro colpa, pur desiderandolo, non riescono a ricevere il battesimo.
Le recenti riforme circa il battesimo sono scaturite a seguito del Vaticano II (1962-1965) e riguardano prevalentemente il battesimo dei bambini o "pedobattesimo".
La questione fu introdotta dal teologo riformato K. Barth (m. 1968) il quale evidenzia nel battesimo la sua natura "cognitiva", propria della dottrina calvinista: il battesimo è un segno per mezzo del quale noi testimoniamo la nostra fede e questo richiede da parte del battezzando una comprensione e un'accettazione. Per questo il battesimo dato ai bambini per Barth snatura il proprium del battesimo, riducendolo ad un semplice rito.
Di posizione esattamente opposta è il teologo luterano Edmund Schlink che vede proprio nel battesimo dei bambini una nuova creazione operata per "sola gratia". In altri termini, proprio nel battesimo dei bambini appare chiaro come Dio accolga nel suo Regno l'uomo indipendentemente dalla sua collaborazione.
Da parte cattolica, invece, agganciandosi alla prassi della Chiesa antica, si sottolinea l'aspetto di iniziazione della vita cristiana operata dal battesimo. Questo concetto di fondo ha portato la Chiesa a stabilire due riti di battesimo: l'uno proprio degli adulti, preceduto da un periodo di catecumenato finalizzato ad un graduale inserimento del battezzando nella comunità cristiana, che culmina, per l'appunto, con il battesimo. Nacque così nel 1975 il "Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti".
Quanto al battesimo dei bambini si stabilì che il rito fosse adattato alla loro condizione reale. Per soddisfare a questa esigenza nacque per la prima volta nella storia della Chiesa il "Rito del battesimo dei bambini" nel 1969, impostato prevalentemente sul dialogo con i genitori e la loro responsabilizzazione, nel far crescere il bambino nella fede da loro scelta e in cui il bambino, in virtù del battesimo, è inserito.
Ma quali sono le motivazioni che in qualche modo giustificano il battesimo al bambino?
Per poter rispondere alla questione, bisogna rifarsi alla dinamica stessa del battesimo, che prevede un precedente cammino di fede scandito a) dall'annuncio, b) dall'ascolto, c) dal battesimo e d) dalla vita comunitaria.
Se leggiamo attentamente questo cammino di fede, che introduce con il battesimo il credente nella comunità, scopriamo in esso delle analogie con quello praticato dai bambini. Innanzitutto va premesso che il battesimo è un dono che la comunità credente fa indistintamente sia all'adulto che al bambino; la fede, poi, dell'adulto è la fede della stessa comunità credente in cui l'adulto è inserito, e ciò vale anche per il bambino. Ciò premesso, vediamo come le tappe del cammino di fede che porta l'adulto nella comunità per mezzo del battesimo, siano riscontrabili, anche se non nel rigoroso ordine di successione, nel bambino. L'annuncio e l'ascolto nel caso del bambino vengono compiuti all'interno della famiglia e della comunità e assumono, qui, la configurazione di una vera e propria educazione religiosa e cristiana. Essi vanno a completare il battesimo, che già è stato somministrato e di cui soltanto ora, nell'ambito dell'annuncio-ascolto, si prende reale coscienza, vivendo, ora, responsabilmente la vita di comunità, in cui già si è inseriti.
Vediamo, dunque, come con il battesimo dei bambini si attui un processo inverso a quello degli adulti. In tale processo, come del resto per gli adulti, assume un ruolo fondamentale l'annuncio e l'ascolto, che nell'adulto precedono il battesimo, mentre nel bambino lo seguono, ma in entrambi i casi sono di vitale importanza.
Il problema da porsi, tuttavia, non va posto sulla "liceità" del battesimo ai bambini, quanto piuttosto sulle condizioni ambientali particolari in cui esso si attua e che sono di un sostanziale paganesimo e di un ateismo pragmatico.
UNA RIFLESSIONE SISTEMATICA SUL BATTESIMO
Il battesimo: iniziazione all'appartenenza a Gesù Cristo e alla vita di comunione del Dio trino.
La Scrittura stessa ci illustra quali effetti siano prodotti dal battesimo.
Con il battesimo, in quanto accorpati a Cristo e divenuti un'unica cosa con lui, partecipiamo, di conseguenza, anche ai suoi destini; ci viene donato, poi, lo Spirito con cui veniamo rigenerati alla vita stessa di Dio, che è essenzialmente una vita trinitaria, in cui circola l'amore che qualifica il vivere cristiano, sicché esso diventa una sorta di sacramentalizzazione della vita stessa di Dio e una sua testimonianza in mezzo agli uomini; il vivere cristiano diventa, pertanto, un dire la vita di Dio. Grazie al battesimo, poi, ci sono rimessi i peccati in quanto che in Cristo e per mezzo dello Spirito siamo purificati e rigenerati alla vita stessa di Dio e in lui ricollocati. Di conseguenza siamo generati ad una vita nuova che ci fa nuove creature in Cristo per mezzo dello Spirito e da cui scaturisce un nuovo modo di concepire la vita, ora, orientata definitivamente al Signore. Con il battesimo, poi, tutti i battezzati sono accorpati a Cristo e in lui soltanto riconoscibili; così qualificati essi costituiscono una nuova comunità messianica che annuncia i tempi nuovi e ne dà testimonianza con un nuovo stile di vita e un nuovo modo di relazionarsi, al cui interno tutte le differenze etniche, sociali, culturali e sessuali sono superate o, comunque, perdono di significato, poiché ciò che conta ora è l'essere tutti cristificati, cioè diventati un'unica realtà in Cristo.
Configurati, pertanto a Cristo, nasce come esigenza primaria di conformare il nostro vivere quotidiano a queste realtà in cui siamo immersi e rivestiti come di un abito nuovo.
Il battesimo, quindi, è il segno concreto che realizza la nostra accoglienza nella Chiesa e la nostra comunione con lei e tra di noi; tale comunione, poi, è sacramento della comunione con la vita di Cristo, che ci colloca nella vita trinitaria stessa e ce ne rende partecipi.
Aspetti ecclesiologici
Il Vaticano II, nei suoi documenti AG e SC, parla di "riti di iniziazione" ricollegandosi alla teologia battesimale della Chiesa antica, per la quale il battesimo, la cresima e l'eucaristia facevano parte dell'unico rito di iniziazione e dicevano l'introduzione del credente nella nuova comunità messianica salvata e configurata a Cristo.
L'iniziazione era un processo di crescita e di maturazione spirituale che comportava l'abbandono del vecchio stile di vita per assumerne uno nuovo. Grazie ad esso il credente si inseriva gradualmente nella comunità e, nel contempo, la comunità si avvicinava al credente e lo accoglieva nel proprio seno.
Ma il battesimo, proprio perché inserisce tutti i credenti in Cristo, facendone una nuova realtà e una sola cosa in lui, apre nuovi spazi ecumenici; per cui tutti i battezzati in Cristo sono in comunione con lui e ogni barriera storica è di fatto superata. Ognuno in Cristo parla lo stesso linguaggio di fede e di amore. Le divisioni, oltre che essere uno scandalo e una profanazione del corpo di Cristo, mentono sulla reale condizione dei credenti in Cristo.
La questione della necessità del battesimo per salvarsi
Quanto è necessario il battesimo per la salvezza? E, similmente, quanto è necessario appartenere alla Chiesa per accedere alla salvezza?
Si diceva anticamente "Extra Ecclesiam nulla salus". L'espressione, tuttavia, per ben comprenderla, va ricollocata nel contesto storico in cui è sorta. Essa voleva stigmatizzare l'apostasia dei cristiani che, perseguitati, spesso abbandonavano la fede. Non era, quindi, un'affermazione assoluta di principio.
Se da un lato il battesimo incorpora il credente alla Chiesa e, per mezzo suo, a Cristo, decretandone in tal modo la salvezza, ciò non significa che il non battezzato non possa in alcun modo accedere alla salvezza, con modo suo proprio che, comunque, lo configura a Cristo, anche a sua insaputa.
La stessa Parola di Dio ci testimonia la volontà salvifica universale di Dio stesso: "... Dio nostro salvatore, che vuole che tutti gli uomini siano salvi" (1Tm 2,4). Un principio questo che è stato recepito anche nel nostro Credo: "... per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo".
Proprio perché la salvezza manifestatasi in Cristo è universale, il suo ambito trascende la Chiesa visibile stessa e si lascia trovare ovunque l'uomo la cerchi con cuore sincero: "Pietro prese la parola e disse: <<In verità mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenza di persone, ma chiunque lo teme e pratichi la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto>>." (At. 10,34-35).
Un principio questo ormai ampiamente accolto anche nel magistero della Chiesa in cui si afferma che anche "quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, in vari modi sono ordinati al popolo di Dio" (LG 16a); e ancora "Dio non è neppure lontano dagli altri che cercano il dio ignoto nei fantasmi e negli idoli ... infatti, quelli che senza colpa ignorano Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio ... possono conseguire la salute eterna" (LG 16b).
La salvezza, quindi, non appartiene soltanto all'uomo cristiano, ma alla stessa nozione cristiana dell'uomo.
Ciò che determina la salvezza dell'uomo è la sua unione con Dio, che si attua nell'amore verso l'altro, in cui Cristo stesso è sacramentato (Mt 25,40.45). Rispetto a questo sia il battesimo che l'appartenenza alla Chiesa sono soltanto strumentali e non essenziali. Paolo direbbe qui che il vero giudeo non è colui che appare all'esterno, ma chi lo è interiormente (Rm 2,28-29). A lui appartiene la salvezza. Nessuno si salva perché è battezzato, come nessuno si danna perché non lo è.
Il battesimo dei bambini
Per inquadrare bene la questione bisogna innanzitutto capire, da un punto di vista teologico, che cos'è il battesimo e che cosa avviene in esso; di conseguenza, esaminarne la legittimità.
Che cosa avviene nel battesimo dei bambini
La differenza tra il battesimo degli adulti e quello dei bambini risulta immediatamente dal diverso rito e dal diverso cammino che i due sono chiamati a fare. Nel caso dell'adulto, il cammino di fede che apre al battesimo è segnato da un periodo di catecumenato, scandito dall'annuncio, dall'ascolto, dal crescere e maturare gradualmente nella fede della comunità, in cui si è gradualmente inseriti. Esso comporta una scelta responsabile e viene richiesta una radicale adesione di vita ai principi della fede.
Al momento del rito, poi, la comunità, nella persona del celebrante, svolge un dialogo diretto con il candidato.
Nel caso del bambino, nulla di tutto questo. Il dialogo è svolto direttamente con i genitori, che a nome e per conto del figlio e in quanto unici responsabili della sua corretta crescita e educazione, chiedono il battesimo e si impegnano nella sua formazione. Sarà proprio quest'ultimo elemento determinante per la crescita cristiana e, quindi, per il recupero della coscienza dell'essere battezzati e inseriti nella comunità escatologica e degli impegni che da tutto ciò discendono. Il processo, quindi, proprio perché inversi sono i candidati (l'adulto è l'opposto del bambino) inverse sono anche le procedure e il cammino, ma identico è il risultato.
Quanto alla legittimità del battesimo dei bambini, va detto che da un punto di vista scritturistico non vi è alcun impedimento. Nulla vieta poi che l'esperienza della fede possa partire proprio dalla coscienza dell'essere battezzati. In tale caso il battesimo si prospetta come il dischiudersi di uno spazio di fede. Non si può, poi, parlare di una violenza o di un atto coatto perpetrati su di un innocente indifeso. Nessuno, infatti, estorce al bambino il battesimo e nessuno ne approfitta del suo stato di incoscienza. Il bambino è per sua natura e per diritto affidato ai suoi genitori, che sono responsabili della sua crescita e della sua educazione e, quindi, forniti di naturale e legale autorità per disporre del bene del proprio figlio.
LA CONFERMAZIONE
Premessa
La confermazione è un sacramento nato assieme al battesimo, ad esso strettamente legata e che nel suo contesto è sempre stata letta e compresa. Essa, più che una confermazione, era vista come una "cresima" (dal gr. criw = ungo), cioè un'unzione, attraverso cui il credente era consacrato a Dio nello Spirito.
Ma nel tempo, con il diffondersi del battesimo dei bambini e per altre ragioni storiche, si andò gradualmente staccandosi e la separazione divenne definitiva con la riforma carolingia. Così separata la confermazione perse la sua identità e venne compresa semplicemente come un sacramento complementare del battesimo. Ed ecco il primo interrogativo: perché complementare? Forse che il battesimo in sé è un sacramento imperfetto che abbisogna di un successivo sacramento per essere perfezionato?
Si vede, inoltre, la confermazione come il sacramento del dono dello Spirito. Sorge allora un secondo interrogativo: ma lo Spirito non è già dato nel battesimo? Quale Spirito dona, dunque, la confermazione che già non sia stato dato nel battesimo?
Interrogativi che denunciano come il dibattito sulla confermazione sia ancora aperto e sulla cui definizione c'è ancora molta incertezza. Così slegata dal battesimo essa ha perso la propria configurazione e rispetto al battesimo appare come la parente povera.
Per ritrovare il senso della confermazione bisogna ricollocarla all'interno dei sacramenti dell'iniziazione cristiana, dove è nata: battesimo, cresima, eucaristia. Essi nella chiesa primitiva costituivano per il credente un unico atto, preceduto da un adeguato periodo, in genere triennale, di cammino catecumenale, che lo inseriva gradualmente nella comunità escatologica con cui condivideva la fede e la speranza.
Letti in questa prospettiva i tre sacramenti, somministrati nello stesso momento, costituivano da un lato, il vertice del cammino catecumenale; dall'altro, un'unica azione consacratoria. Sarà proprio la loro dilazione nel tempo che farà perdere il senso e la visione unitaria dei tre sacramenti, e ciò favorito anche dalla perdita di senso dell'iniziazione cristiana. Infatti, con l'ormai diffuso e consolidato cristianesimo, venne di fatto perduto il catecumenato e con questo anche il senso dell'iniziazione cristiana, di cui il catecumenato era parte importante e fondamentale.
Di conseguenza, i tre sacramenti, che costituivano il punto di arrivo dell'iniziazione e il consolidamento del credente all'interno della comunità, perdono il senso della loro unitarietà a favore di una nuova pastoralità, inaugurata con il battesimo dei bambini. Diventa gioco forza dilazionare e scandire nel tempo i tre sacramenti, che accompagnano in tal modo il bambino nella sua crescita, fino ad introdurlo responsabilmente nella comunità, in cui era già stato inconsciamente inserito in virtù del battesimo.
Questa dilazione, però, se pastoralmente aveva senso, ha provocato la perdita di un altro senso: quello dell'unità dei tre sacramenti, che ora, svincolati l'uno dall'altro, sono letti separatamente, perdendo parte del loro significato e, causando, in tal modo anche la perdita dell'identità della confermazione stessa.
L'iniziazione cristiana
E' necessario, quindi, recuperare il significato dell'iniziazione cristiana al cui interno rileggere e ricomprendere i tre sacramenti, con particolare attenzione, nel nostro caso, alla confermazione.
L'inscindibile unitarietà dei tre sacramenti trova la sua giustificazione all'interno dello stesso mistero cristiano: uno è il Cristo morto e risorto che si dona nella parola, nel pane e nello Spirito.
In questo mistero è inserito il credente attraverso il triplice sacramento del battesimo, confermazione ed eucaristia, che con carisma proprio, incorporano il credente alla Chiesa e, per suo mezzo, in Cristo, unendolo alla sua morte e risurrezione, facendolo partecipe della natura stessa di Cristo, Figlio di Dio, e del suo triplice ufficio sacerdotale, regale e profetico. Mentre, grazie allo Spirito, il credente è rigenerato alla vita stessa di Dio e abilitato ad esercitare la sua connaturata missione di sacerdote, re e profeta. Chiamato alla testimonianza e all'esistenzializzazione personale della morte e risurrezione di Cristo, a cui è intimamente unito e conformato.
In questa prospettiva, l'iniziazione cristiana diventa un cammino fortemente accentrante e unificante al punto tale che potremmo quasi dire che i tre sacramenti sono in realtà un unico sacramento, che si scandisce in tre modi e forme diverse, perché uno è il Cristo che viene donato e a cui si viene incorporati. Cristo, infatti, è l'unico sacramento da cui ogni altra sacramentalità si origina e trae la propria giustificazione. Così che ogni sacramento, a sua volta, potremmo definirlo come una specificazione e attuazione dell'unica azione salvifica di Cristo.
Ricompresi, dunque, nell'ambito del mistero pasquale, i tre sacramenti configurano il credente al Cristo morto e risorto, lo associano alla sua missione salvifica, abilitandolo a compierla. Ciò significa che il cristiano, costituito come altro Cristo, diventa, grazie ai tre sacramenti, generatore, egli stesso, di salvezza e cooperatore di Cristo nella realizzazione del progetto salvifico di Dio, non certo per virtù propria, ma per quella di Cristo, che vive ed opera in lui (Gal 2,20).
LA CONFERMAZIONE: LE BASI BIBLICHE
Se leggiamo attentamente il NT, non troviamo in esso, come prassi normale, il conferimento dello Spirito, dato separatamente dal battesimo. In altri termini, non vi è un rito a se stante finalizzato al dono dello Spirito.
Per il NT il dono dello Spirito fa parte del battesimo. Giovanni, nel dialogo con Nicodemo, parla della nascita dall'acqua e dallo Spirito (Gv 3,5); mentre per Paolo il battesimo significa sempre anche dono dello Spirito.
Acqua e Spirito formano all'interno della Bibbia un connubio inscindibile, testimoniatoci anche dall'AT.
Infatti, l'A.T. è percorso dal simbolismo dell'acqua che purifica interiormente l'uomo e lo rigenera spiritualmente a Dio e che esprime l'azione dello Spirito di Dio sull'uomo. In Is 44,3 l'azione dell'acqua viene paragonata a quella dello Spirito: "... io farò scorre l'acqua sul suolo assetato ... spanderò il mio spirito sulla tua discendenza e la mia benedizione sui tuoi posteri"; e ancora in Ez. 36,25-27: "Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo". Ma, per venire in tempi più vicini a quelli del NT, anche nella regola del Qumran (1QS IV, 19-21) si leggeva l'azione dell'acqua come l'azione rigenerativa dello Spirito di Dio sull'uomo: "Io lo purificherò da tutte le sue azioni malvagie per mezzo di uno Spirito Santo; quasi acque purificatrici io aspergerò su di lui lo spirito di verità".
A tal punto "acqua e Spirito" potrebbero essere lette come una sorta di endiadi: "l'acqua che è Spirito".
Del resto nello stesso racconto del battesimo di Gesù, lo Spirito è associato e conseguente al battesimo: "Gesù ... uscendo dall'acqua , vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba" (Mc 1,10).
Acqua e Spirito vengono associati per contrapposizione e per evoluzione in Mc 1,8: "Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito santo". L'acqua veterotestamentaria di Giovanni si trasforma nel NT in Spirito, evidenziando ancor più la stretta connessione e la profetica evoluzione dell'acqua e dello Spirito.
E' indubbio, quindi, che acqua e Spirito si configurino nella Bibbia come una sorta di sinonimo, così che l'acqua diventa ad essere l'esplicitazione dell'azione dello Spirito e in cui lo Spirito è, in qualche modo, raffigurato e significato.
Soltanto in due passi del NT il dono dello Spirito viene donato non per mezzo dell'acqua, bensì attraverso l'imposizione delle mani: "(lo Spirito Santo) infatti non era ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano lor le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo" (At 8,16-17); e ancora: "Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo" (At 19,5-6).
Nella lettera agli Ebrei, databile intorno al 70, si fa una breve elencazione dei sacramenti in cui si associa il battesimo e l'imposizione delle mani come due momenti distinti e che si susseguono l'uno all'altro come un fatto ormai dottrinalmente acquisito e consolidato: "... passiamo a ciò che è più completo, ..., della dottrina dei battesimi, della imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno" (Eb 6,1-2)
Infine, in At 10,44 e ss, vediamo come lo Spirito scende sui credenti ancora prima del battesimo: "Pietro stava dicendo ancora queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che stavano ascoltando il discorso. ... Allora Pietro disse: <<Forse che si può proibire che siano battezzati con l'acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?>>" (At 10,44.47).
Dall'insieme dei passi fin qui citati, sembra che lo Spirito sia effuso non soltanto attraverso l'acqua, ma anche per mezzo dell'imposizione delle mani o per mezzo del semplice ascolto della Parola. Tutto ciò potrebbe far pensare, da un lato, che all'interno della chiesa nascente la prassi non fosse ancora consolidata; dall'altro, l'effusione dello Spirito in modi diversi (acqua, imposizione delle mani, ascolto della Parola) potrebbe significare una diversa azione dello Spirito sui credenti: nel caso del battesimo, ad esempio, potrebbe significare la rigenerazione alla vita stessa di Dio in cui l'uomo viene ricollocato; nel caso dell'imposizione delle mani, l'effusione dello Spirito poteva indicare una particolare investitura o missione all'interno della comunità; mentre nel caso dell'effusione per mezzo dell'ascolto della Parola, potrebbe indicare una specifica azione dello Spirito indicata nella Parola stessa, per cui la Parola, concepita come Dabar, cioè come azione di Dio, è "viva ed efficace" (Eb 4,12), cioè produce quello che dice. Sono chiaramente delle ipotesi, ma che, a mio avviso, non vanno aprioristicamente escluse.
Imposizione delle mani, unzione e sigillo
L'imposizione delle mani nella Bibbia assume significati diversi a seconda del contesto in cui si attua. Essa può significare un semplice gesto di affetto, ma anche di trasmissione di vita, forza, potere, energia, come azione benedicente o come affidamento di un incarico. Nel NT lo incontriamo più volte nell'attività taumaturgica di Gesù, quasi a significare l'infondere un'energia salvifica e rigenerante, per cui all'uomo viene restituita la sua originale dignità.
Quanto all'unzione, essa ha una radice molto antica e profana. Con l'olio, infatti, si ungevano i corpi dei lottatori per renderli viscidi alla presa, ma anche per renderli più elastici. Ci si ungeva, inoltre, il corpo dopo il bagno per ammorbidire la pelle, tonificarla e profumarla.
Questo aspetto profano viene recuperato anche nell'ambito di azioni sacre, in cui il significato è del tutto spirituale. In Israele, ma non solo, si ungevano i sacerdoti e i re, per cui l'espressione "l'unto di Dio" indicava l'unzione regale e una particolare consacrazione. Vediamo, poi, come il termine "Mashia" (unto), tradotto poi in greco con "cristoV", acquisisce un significato del tutto particolare che indicherà "Salvatore escatologico", colui che doveva realizzare in mezzo ad Israele le promesse di Dio. Indicava, dunque, l'uomo di Dio, l'inviato del Signore su cui riposava lo Spirito di Dio. E benché nel NT non si trovi nessuna "unzione", tuttavia essa assume il significato metaforico di "conferimento dello Spirito". Gesù, benché non unto fisicamente, assumerà il titolo di Cristo, per indicare l'unzione, cioè il ricevimento dello Spirito.
Quanto al sigillo, vediamo come questo nel NT sia assimilato al dono dello Spirito: "E' Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori" (2Cor 1,21-22).
L'immagine del sigillo viene mutuata, anche questa, dall'uso corrente del sigillo che si faceva nell'antichità. Il sigillo era un segno che veniva impresso su contratti, documenti, sugli schiavi, sugli animali e richiamava l'appartenenza delle cose o delle persone o animali che portavano il sigillo. Esso esprimeva, dunque, un marchio di proprietà.
Concludendo, possiamo rilevare come l'imposizione delle mani e l'unzione nel mondo biblico diventano segni di consacrazione e di infusione di potere, energia e investitura, che verranno accolti anche nella realtà neotestamentaria, in cui significheranno l'iniziazione del credente; mentre il sigillo diventa un termine per indicare la conseguenza dell'imposizione delle mani e dell'unzione: la consacrazione, cioè l'appartenenza a Dio, del credente. Lo Spirito funge, dunque, da sigillo con cui il credente è segnato e dice la sua appartenenza a Dio e al suo mondo.
Sviluppo storico-dogmatico
Nella Chiesa antica non si conoscono riti di iniziazione di battesimo e confermazione tra loro separati, ma soltanto il battesimo, che avviene nell'acqua e nello Spirito (Mc 1,8; Gv 3,5; Tt 3,5; 1Cor 12,13). Esso comporta oltre che la remissione dei peccati, il dono dello Spirito. Lo stesso evento di Pentecoste è qualificato come battesimo e non come confermazione: "Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni" (At 1,5).
L'iniziazione cristiana nella Chiesa antica, dunque, è percepita come un fatto unitario, senza distinzioni. La teologia crismale si fonda ed è ricompresa in quella battesimale.
Un fatto, pertanto, appare chiaro: il dono dello Spirito, proprio del tempo messianico è tale che caratterizza la nuova comunità, è comunicato ad ogni battezzato, benché il modo del conferimento, come abbiamo visto in precedenza, non sia uniforme (acqua, imposizione delle mani e ascolto della Parola).
A partire dal IV sec. l'imposizione episcopale delle mani, comincia a separarsi dal battesimo. Il fattore determinante di questa separazione è il battesimo dei bambini. Ad essi non si può imporre un cammino catecumenale, non si può pretendere una scelta di vita e di fede. Per loro conto agiscono i genitori, che si assumono anche l'impegno di crescerli nella fede, in cui sono stati battezzati e grazie alla quale hanno ricevuto lo Spirito. Il "cammino catecumenale", quindi, avviene dopo il battesimo e si inserisce nell'ambito dell'azione educativa e di catechesi del bambino. In altri termini, la fede cresce con il bambino che viene portato a compiere naturalmente e di fatto la scelta di vita cristiana, in cui è stato allevato.
Si rese, quindi, necessaria la dilazione del rito di iniziazione, che viene, così, spalmato lungo l'arco di vita e di crescita del bambino, segnandone i passaggi fondamentali. In tale orizzonte la confermazione assume anche il significato di una scelta personale e responsabile del proprio credere e del proprio impegno all'interno della comunità.
Ma nel tempo, tre sono stati gli elementi che hanno influito sulla separazione: a) lo sviluppo della dottrina del peccato originale, che ha spinto a battezzare i bambini; b) la riammissione nella Chiesa degli eretici battezzati, ai quali il vescovo imponeva le mani; c) la diffusione delle comunità ecclesiali e la crescente distinzione tra le funzioni del presbitero e quelle del vescovo, per cui i presbiteri battezzano, mentre soltanto al vescovo compete l'imposizione delle mani, la quale assume il significato di "confirmatio", cioè di conferma, di ratifica e di completamento del battesimo.
Questa separazione tra battesimo e cresima o "confirmatio" che si opera in Occidente, non trova successo in Oriente che, invece, continua a mantenere integra l'unità dei tre sacramenti dell'iniziazione cristiana. Ancora oggi si amministra al neonato il battesimo, l'unzione con il muron e l'eucaristia assieme in un unico rito.
Ma una volta separata dal suo contesto naturale dell'iniziazione cristiana, la "confirmatio" perde la sua identità e diventa incomprensibile o, quanto meno, di difficile individuazione e collocazione. Si cerca, pertanto di attribuire a questo sacramento dei significati propri, ma sempre insoddisfacenti. Si parla, pertanto, di "pienezza del proprio essere cristiani", "conferimento della missione dell'annunciare e testimoniare", "rinvigorimento nella lotta contro il male". Quest'ultimo aspetto diventa il motivo dominante nel periodo della Scolastica: il battesimo viene dato per la remissione dei peccati, mentre la cresima per il rinvigorimento spirituale del credente, che ora è chiamato alla lotta contro il male.
La Riforma protestante vede nella confermazione una svalutazione del battesimo e, in quanto sacramento non istituito da Gesù Cristo, perde la sua natura di sacramento.
Con l'avvento del Vaticano II (1962-1965), benché non venga elaborata una specifica teologia e dottrina sulla confermazione, né venga attua alcuna riforma del sacramento in questione, pur predisponendola, tuttavia, viene enunciato un principio di capitale importanza: "... più intimamente appaia l'intima connessione di questo sacramento con tutta l'iniziazione cristiana" (SC § 71). Finalmente la confermazione ha ritrovato la propria abitazione originale.
Concretamente la connessione con il battesimo viene attuata per mezzo del rinnovo delle promesse battesimali, posto all'inizio del rito, e con l'eucaristia, all'interno della quale viene celebrato il rito.
Quanto al tempo della confermazione, l'età è fissata verso i sette anni, ma è lasciata alla discrezionalità delle Conferenze episcopali il fissare anche un'età più matura, se lo ritengono pastoralmente più idoneo.
Ministro ordinario della confermazione è il vescovo, il quale, in caso di sua impossibilità, può anche delegare un semplice presbitero.
Il riconoscere il vescovo come ministro ordinario della confermazione assume all'interno della Chiesa una notevole importanza. Infatti, vi è chiesa universale là dove c'è il vescovo. Egli è il pastore per eccellenza che dà garanzia alla fede e attorno a lui si costituisce la comunità. La confermazione, quindi, amministrata dal vescovo, assume una valenza tutta ecclesiale e dice l'introduzione e l'accoglienza ufficiali del credente all'interno della comunità, sancendone i diritti e i doveri. E' il vescovo, quindi, che con la confermazione introduce ufficialmente il battezzato nella comunità, lo rende responsabile di fronte ad essa e ne sollecita l'impegno e la testimonianza.
Circa il rito essenziale della confermazione, Paolo VI nel 1971 ha stabilito che "il sacramento della confermazione si conferisce mediante l'unzione del crisma sulla fronte, che si fa l'imposizione della mano e mediante le parole: ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono". Con tale nuova formulazione si è ripresa un'antica formula del IV sec., che vede la confermazione come il sigillo dello Spirito impresso sul credente.
L'EUCARISTIA
Premessa
La celebrazione dell'eucaristia, in quanto azione di Cristo e del popolo di Dio, costituisce il centro della vita cristiana. In essa si coglie la presenza dinamica e irradiante del mistero di Cristo, sia nella globalità e unicità dell'atto redentivo; sia come presenza dei misteri di Cristo, colto nei suoi vari aspetti e momenti di unico atto salvifico.
Essa, pertanto, diventa la fonte di grazia primaria da cui sgorga ogni altra grazia; è il mistero e il sacramento da cui defluiscono e trovano il loro senso e la loro ricomposizione tutti gli altri misteri e sacramenti.
E' punto centrale e nevralgico di tutta la liturgia e della stessa vita della Chiesa e di ogni credente, scandita nel corso dell'intero anno liturgico e ritmato quotidianamente dalla celebrazione della liturgia delle Ore.
L'EUCARISTIA: LE BASI BIBLICHE
Il simbolismo del pasto
Il mangiare e il bere rientrano tra le attività quotidiane e obbligatorie dell'uomo, attraverso le quali egli mantiene il proprio contatto con il mondo, lo introietta e ne diventa parte. Grazie ad esse l'uomo si alimenta e sostiene la propria vita fisica. Il mangiare e il bere, dunque, sono, da un lato, un atto dovuto alla vita; dall'altro, un riconoscere che la vita non dipende da noi, ma abbisogna di qualcosa d'altro per sostenersi.
Il mangiare e il bere, poi, quali atti quotidiani del vivere dell'uomo e quali espressione del suo essere, assumono aspetti di socialità che si fa convivialità; diventa un momento di incontro in cui si rafforza la comunione con gli altri.
Il pasto in comune assume un altro significato: quello del ringraziamento del Creatore che, attraverso la creazione, sostiene la nostra vita, divenendo Lui la fonte primaria del nostro vivere. Il convivio, pertanto, diventa segno di comunione con Dio.
Il convito in Israele
Come presso tutti i popoli antichi, ma anche nella nostra modernità, così anche per Israele il banchetto assumeva, al di là della necessità del sostentamento quotidiano, il significato di comunione, condivisione, accoglienza, ospitalità, un saluto di addio, ecc.
Ma il pasto consumato sta ad indicare, talvolta, l'unione con Dio, come nel caso del racconto dell'ospitalità di Abramo presso il querceto di Mamre: l'ospite è sempre percepito come l'inviato di Dio, ospitarlo significa accogliere Dio che passa.
A conclusione, poi, dell'Alleanza ai piedi del Sinai, Israele compie un pasto alla presenza del Signore: "... essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero" (Es. 24,11). Rientrava nelle logiche del tempo: ogni alleanza e ogni patto si concludeva con un pasto che suggellava la comunione tra i partner. Nel nostro caso, il pasto suggellava l'unione di Dio con Israele. Il pasto consumato davanti a Dio, dunque, esprime la comunione tra Dio e gli uomini, ma anche la totale diversità tra i due partner: Dio, infatti, è presente al banchetto, ma non vi partecipa, non è un commensale fra gli altri.
Ma a sigillare l'Alleanza , ancor prima del pasto, c'è il sacrificio: "... Mosé incaricò alcuni giovani tra gli israeliti di offrire olocausti e sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per il Signore. ... Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo e disse: <<Ecco il sangue dell'Alleanza che il Signore ha concluso con voi" (Es 24,5.8). A conclusione di tutto il rito dell'Alleanza si pone il pasto conviviale davanti al Signore.
Alleanza, sacrificio e pasto, dunque, formano un'unica realtà che pone l'uomo in comunione con Dio.
Ma in Israele non solo i pasti sacri hanno una dimensione religiosa, ma anche quelli della quotidianità: si incomincia con una preghiera di lode allo spezzare del pane e termina con una di ringraziamento. Ciò si accompagna spesso con una anamnesi, cioè con un ricordo delle azioni salvifiche di Dio. I pasti, così consumati, diventano, pertanto, non solo il segno dell'amore di Dio, ma anche il momento della comunione con lui.
Nel culto del pasto, assume un aspetto fondamentale la Pasqua, una festa nomadica, che celebrava attraverso un sacrificio e un pasto in comune, la partenza dei popoli alla ricerca di nuovi pascoli, all'aprirsi della primavera. Essi avevano il significato di procurarsi le benedizioni e le protezioni di Dio, e il rinvigorimento dei rapporti di parentela e di amicizia. Una festa a cui si univa, dopo l'entrata nella terra promessa e l'inizio della vita sedentaria, quella del ringraziamento per il raccolto; era la festa di massot in cui si sacrificavano le prime spighe e si teneva un banchetto.
Ancora una volta, pasto e sacrificio si uniscono e si fondono assieme.
Questi riti antichi, ora, diventano memoriale, che non solo ricorda, ma anche attualizza le gesta del Signore, e segni della elezione e della liberazione.
Nel tempo, il banchetto diventa l'immagine dei tempi escatologici in cui Dio convocherà sul suo santo monte tutti i popoli e per loro appresterà un banchetto: "Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti e di vini raffinati" (Is 25,6).
Il banchetto nel pensiero di Gesù
La vita di Gesù si doveva staccare nettamente dall'ascesi di Giovanni se i suoi contemporanei lo tacciavano come "un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori" (Mt 11,18).
Ma, nonostante la cattiva interpretazione che i suoi avversari davano al suo mangiare con i peccatori, Gesù ha attribuito a questo suo banchettare con gli uomini un significato simbolico specifico: il regno di Dio è giunto tra gli uomini e tutti sono invitati a parteciparvi, a partire proprio dai peccatori, ai quali era offerto il perdono gratuito.
Ecco, allora, che il banchetto assume una coloritura messianica ed escatologica. Esso diventa il segno degli ultimi tempi, in cui Dio chiama a raccolta tutti gli uomini e li invita a rientrare nella casa del Padre, cioè a partecipare alla comunione di vita con Dio.
Il banchetto per Gesù diventa, dunque, il segno degli ultimi tempi, il segno del venuto tempo di Dio, in cui Dio porta a compimento la sua opera di salvezza per mezzo del suo Cristo. E' il settimo giorno della creazione in cui Dio "...portò a termine il lavoro che aveva iniziato ... Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò" (Gen. 2,2-3). In questo settimo giorno, in questo spazio di Dio l'uomo è invitato ad entrare e a celebrare insieme a lui il suo ritorno in seno al Padre. Tutto questo viene espresso con il simbolo del banchetto messianico, in cui Dio e gli uomini fanno festa insieme perché, finalmente si sono ritrovati, fanno tra loro comunione di vita.
L'ultima cena
Alla luce del banchetto in Israele e del pensiero di Gesù, nonché della sua missione, anche l'ultima cena viene caricata di un senso tutto particolare: essa è il vertice di tutta la storia della salvezza, in cui Dio, dopo aver convocato gli uomini attorno ad un banchetto, si fa pane e vino, si fa cibo per loro, perché mangiando essi possano partecipare alla sua stessa vita.
Ogni banchetto menzionato nel Vangelo era un segno e un annuncio di quest'ultimo banchetto divino. Esso è l'ultimo banchetto non soltanto perché, dopo di esso, Gesù sarà condannato a morte, ma anche perché esso è prefigurazione del banchetto escatologico in cui gli uomini sono convocati a mangiare assieme, cioè a partecipare alla comunione della vita stessa di Dio.
Per questo, quest'ultimo banchetto diventa segno dell'amore di Dio in cui Dio, sotto la forma di pane e di vino, si consegna agli uomini e si fa cibo per loro, cioè condivide la propria vita con gli uomini. Cristo, infatti, diventa pane che si spezza per tutti, perché tutti possano partecipare alla comunione con il Padre.
Ma questa cena, oltre che essere l'ultima, contiene in sé anche una promessa futura: "Da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui io lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio" (Mt 26,29). Essa diventa così una cena di addio in prospettiva escatologica, un segno di speranza di fronte alla morte. Con essa sono inaugurati i tempi escatologici, è inaugurato il tempo di Dio, il kairoV, l'ultimo tempo, il settimo giorno della creazione.
Le prime comunità raccoglieranno l'eredità di quest'ultima cena e con fedeltà la prolungheranno lungo i secoli. In essa si fa memoria dell'amore di Dio, ma anche attualizzazione della sua azione salvifica. Nella liturgia, per mezzo del rito, il tempo umano viene sospeso per lasciare spazio a quello di Dio; e in questo spazio, lo spazio del settimo giorno, Dio continua a donarsi agli uomini, chiamandoli a raccolta attorno al banchetto della sua vita e della sua comunione, inaugurato da suo Figlio.
L'interpretazione teologica
Già nel parlare del banchetto e del pasto in Israele e nella missione di Gesù, abbiamo potuto intravedere dei profondi significati, che vanno ben oltre alla semplice realtà del segno, che il banchetto in sé contiene e che come segno indica.
Esso ci parla di raduno, di partecipazione al corpo di Cristo, di nuova Alleanza, annuncio della morte in croce, esperienza di risurrezione, segno escatologico, di perdono dei peccati, del credere e dell'amare insieme che si esprime in quel mangiare assieme.
Il raduno
Nella sua prima lettera ai Corinti, nell'ambito della pericope 11,17-34, in cui parla della Cena del Signore, Paolo per ben cinque volte parla di "radunarsi, riunirsi" (1Cor 11,17.18.20.33.34). La cena del Signore è concepita come una riunione (1Cor 11,17)
Corinto è una città di porto e di frontiera e assorbe in sé tutti i mali propri di queste città. In questa comunità cristiana sono in atto profonde divisioni che si ripercuotono negativamente anche sulla "cena del Signore". I Corinti non hanno colto bene il senso della cena, che celebrano tra divisioni e gozzoviglie, per cui mentre uno ha fame l'altro è ubriaco (1Cor 11,21).
L'importante per Paolo è che queste cene siano veramente un venirsi incontro, un condividere, un fare comunione. Tutto ciò viene espresso da Paolo in quel significativo "aspettatevi gli uni gli altri" (1Cor 11,33). Solo in tal modo sono celebrazione e memoria di quell'ultima cena divina, diversamente ne sono una profanazione. Per Paolo non è una semplice questione di etica o di buon gusto, ma è la stessa cena del Signore che è messa in discussione, profanata e pregiudicata. Infatti, per Paolo ciò "non è più un mangiare la cena del Signore" (1Cor 11,20).
Partecipazione al corpo di Cristo
Paolo ricorda ai Corinti le parole di Cristo nell'ultima cena, in cui il pane e il vino sono trasformati in corpo e sangue di Cristo stesso. Ma che cosa significa mangiare il corpo e il sangue di Cristo?
Paolo ce lo ricorda sempre nella sua prima lettera ai Corinti: "Il calice di benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti, partecipiamo all'unico pane" (1Cor 10,16-17).
Pane e vino, per la potenza creatrice della Parola, che è "viva ed efficace" (Eb 4,12), diventano corpo e sangue di Cristo. Corpo e sangue sono due elementi per dire l'interezza della persona. Mangiare e bere, dunque, significa per Paolo fare comunione con l'unico corpo di Cristo e tale comunione si riverbera su tutti noi, che in lui diveniamo un'unica realtà in lui e tra di noi. Infatti se uno è il pane di cui ci nutriamo, uno, in virtù di tale pane, diventiamo anche noi.
La nuova Alleanza
"Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue" (1Cor 11, 25), Luca aggiungerà "versato per voi" (Lc 22,20).
Il sangue versato allude all'aspetto sacrificale che venne attuato all'interno dell'Alleanza sinaitica (Es 24,4-5). Cristo, quindi, opera un collegamento alla precedente alleanza sinaitica e la sostituisce. C'è in tutto ciò una forte allusione alla morte in croce di Gesù, alla quale viene data questa lettura.
L'espressione "nuova alleanza" dice l'aggancio a quella precedente e nel contempo il suo superamento nonché il suo perfezionamento. Qui, infatti, non si parla più di sangue di animali, ma del Figlio di Dio, il quale è morto una volta per sempre, per cui non c'è più bisogno di ripetere continui sacrifici.
In questa nuova alleanza l'uomo vi è collocato una volta per sempre e vi partecipa attraverso la comunione del calice, divenendone partecipe. Partecipare dell'alleanza significa essere ricollocati, per mezzo del corpo e del sangue di Cristo, nella vita stessa di Dio.
Annuncio della morte in croce
"Ogni volta, infatti, che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga" (1Cor 11,26).
Il concetto di morte qui è strettamente collegato, da un lato, con il sangue versato e, quindi, con l'aspetto sacrificale; dall'altro, esprime l'azione del Padre "che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi" (Rm 8,32). In entrambi i casi viene espresso il concetto di dono, per cui la morte del Figlio va letta, da un alto, come il dono che Gesù liberamente ha fatto della propria vita (sangue versato); dall'altro, come il dono del Padre. Un concetto questo che Paolo aveva già ripreso nella lettera ai Galati: "... Figlio di Dio, che mi ha amato e ha da se stesso per me" (Gal 2,20).
La morte, quindi, come dono. Il mangiare e il bere , dunque, significa partecipare a questa morte che si fa dono. Una morte che viene espressa nello "spezzare il pane" e nel "versare il vino" e che viene da noi annunciata, testimoniata e celebrata ogniqualvolta le nostre vite sono spezzate per il bene degli altri. In tal modo il cristiano diventa uomo-eucaristia.
Esperienza di risurrezione
Nel pane spezzato e nel vino versato vengono anticipate e significate la morte di Gesù, a cui ci uniamo ogni volta che partecipiamo al banchetto sacrificale. Ma tale morte prelude già in sé alla risurrezione, poiché il sacrificio non è per la morte, ma per la vita.
Paolo ce lo ricorda nella sua lettera ai Romani: "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (Rm 6,4). Il termine greco, qui usato per esprimere la vita, è zwhche indica la vita stessa di Dio. L'unione alla morte di Cristo, dunque, è finalizzata a ricollocarci nella vita stessa di Dio. Morti, quindi, al peccato, ma viventi per Dio. Infatti Paolo prosegue: "Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio" (Rm 6,11).
Segno escatologico
"Ogni volta, infatti, che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga" (1Cor 11,26).
La partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo avviene per il credente in una situazione di forte tensione escatologica.
Infatti con la sua morte Gesù ha posto fine al vecchio mondo adamitico, segnato dal peccato; mentre con la sua risurrezione egli inaugura i tempi nuovi, compiendo una nuova creazione. Questa ha già avuto il suo inizio in Cristo, ma non ancora il suo pieno compimento storico.
Il cristiano, per mezzo del battesimo, è già inserito in questa nuova realtà ed è chiamato a conformarvisi anche esistenzialmente. Ciò comporta per lui una morte all'uomo vecchio, al vecchio stile di vita, al suo vecchio modo di pensare le cose secondo logiche umane; in una parola egli deve attuare nella sua vita la morte al peccato. Questo comporta automaticamente un porsi secondo le prospettive di Dio, significa lasciarsi guidare dalle logiche dello Spirito. Questa dinamica pasquale di morte-risurrezione, attuata nel proprio vivere quotidiano, diventa annuncio e testimonianza del nuovo mondo di Dio inaugurato nella morte e risurrezione di Cristo e dice, soprattutto, che il nuovo futuro è già presente, anche se non ancora pienamente compiuto. Attesta che l'umanità e la creazione hanno imboccato una via senza ritorno: quella dei cieli nuovi e terra nuova, verso i quali l'intera storia sta confluendo.
Una realtà questa che Paolo esprime molto bene nella sua lettera ai Romani: "... tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto ... essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando ... la redenzione del nostro corpo" (Rm 8,22-23). E' proprio questa forte tensione escatologica verso il mondo nuovo inaugurato dalla risurrezione di Gesù, che contrastando con la nostra realtà ancora segnata dal peccato, che ci fa gemere e che tiene desta la nostra attenzione verso il nuovo mondo che sta per venire.
Il perdono dei peccati
"In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per farci santi e immacolati al su cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo. ... nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,4-5.7).
Esiste, dunque, un disegno eterno del Padre che egli attua in Cristo. Tale disegno prevede la nostra elezione in Cristo finalizzata a inserirci nella vita stessa di Dio, generandoci in essa per mezzo di Cristo. Tale progetto si attua proprio attraverso il sangue di Cristo, cioè la sua morte sacrificale in croce. Essa produce due effetti strettamente connessi l'uno all'altro: la redenzione, cioè la rigenerazione dell'uomo alla vita stessa di Dio e, di conseguenza, la remissione dei peccati.
In altre parole, la morte-risurrezione di Cristo comporta per noi un essere definitivamente riconciliati con Dio e resi partecipi della sua stessa vita. Infatti, afferma Paolo che "Non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).
Si tratta, dunque, di un atto di riconciliazione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra di loro.
Sviluppo storico-dogmatico
Nella chiesa primitiva la celebrazione dell'eucaristia aveva un carattere prevalentemente domestico e familiare sia per l'esiguità delle prime comunità, per l'assenza di veri e propri luoghi di culto, sia per l'unione della celebrazione dell'eucaristia con la cena dell'agape. Agape e celebrazione eucaristica ben presto si separarono per evitare facili abusi, di cui Paolo ci ricorda nella sua prima lettera ai Corinti 11,21-22.
I termini "cena del Signore", "spezzare il pane" vengono sostituiti con l'espressione "eucaristia", termine greco che indica sia un beneficio ricevuto che la gratitudine per il dono. In tal modo si esprime anche il carattere catabatico della cena del Signore, cioè il rendimento di grazie che dall'assemblea sale verso Dio.
Questa semplicità, man mano che il cristianesimo si diffonde e aumenta il numero dei credenti, viene persa. Le "domus ecclesiae" sono sostituite da appositi luoghi di culto e le celebrazioni più elaborate. Con la svolta costantiniana si delinea sempre più la gerarchia ecclesiastica e le sue funzioni proprie all'interno della Chiesa.
L'eucaristia perde sempre più il suo senso originale di "cena del Signore" e assume sempre più un significato simbolico: essa è il luogo liturgico dove l'assemblea si ritrova per celebrare gli eventi della storia della salvezza e, attraverso il rito, vengono attualizzati. Coloro che si radunano attorno all'eucaristia partecipano a tali eventi nella loro celebrazione rituale. E' una partecipazione basata sulla comprensione e sull'attenzione a quanto il celebrante compie. Il partecipante diventa sempre più passivo, mentre il clero diventa la parte attiva nella celebrazione.
I Padri della Chiesa, nella loro riflessione teologica, evidenziano i vari aspetti della celebrazione eucaristica. S.Ambrogio (m.397) si sofferma sulla trasformazione dei doni in corpo di Cristo; mentre S.Agostino ne sottolinea il carattere sacramentale e della comunione della Chiesa nel corpo di Cristo.
La teologia medievale si concentra sulla presenza reale del corpo di Cristo nel pane e nel vino. Essi non sono più simboli del reale, ma sono essi stessi realmente corpo e sangue di Cristo. Pertanto, la consacrazione del pane e dl vino diventa il tema principale della teologia eucaristica medievale. Pertanto, ricorrendo alla filosofia aristotelica, si incomincia a parla di "sostanza" e di "accidenti". Questi sono la dimensione empirica percepibile, la forma del pane e del vino; mentre la sostanza è l'essenza metafisica, configurata negli accidenti. Si incomincia a parlare di "transustanziazione", c'è, cioè, un cambiamento di sostanza, mentre gli accidenti rimangono intatti. In tal modo si riesce a smorzare la tensione che si pone tra il segno reale (pane e vino) e la realtà in esso significata (il corpo di Cristo).
Viene qui persa tutta la dimensione di cena del Signore e di comunione ecclesiale, mentre tutta l'attenzione viene posta sulla transustanziazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo.
Le infinite dispute medievali sull'eucaristia, l'avevano ridotta ad un trattato di teologia filosofica, perdendone tutto il contenuto di mistero. I Riformatori cercano di restituire all'eucaristia la sua natura originaria di "cena del Signore", riportandola alla sua origine storico-biblica.
Contestano, pertanto, la messa romana e incentrano la polemica su tre aspetti fondamentali: il sacrificio, la presenza reale e il calice ai laici. Respingono la messa come "reiterazione del sacrificio della croce" perché contraddirebbe la lettera agli Ebrei che evidenzia, invece, l'unicità e l'irripetibilità del sacrificio di Cristo.
Quanto alla presenza reale le posizioni protestanti divergono tra loro. Per Martin Lutero vi è presenza reale nel pane e nel vino; per Zwingli non vi è presenza reale del corpo di Cristo, poiché questo è alla destra del Padre; pertanto il "questo è il mio corpo" va inteso in senso metaforico e traslato. Calvino prende una posizione intermedia tra Lutero e Zwingli: sottolinea la reale presenza di Cristo nella cena eucaristica e nella comunione al corpo di Cristo, ma non collega la presenza di Cristo al pane e al vino. La vera comunione avviene nel complesso della cena del Signore in cui Cristo ci eleva a lui mediante lo Spirito.
Quanto alla negazione del calice ai laici i protestanti vedono una chiara trasgressione al comando del Signore che dice "prendete e bevetene tutti". Un inganno e una truffa, quindi, perpetrati ai danni del popolo di Dio. L'affermazione da parte cattolica che nel corpo di Cristo si riceve anche il sangue, viene respinta come una giustificazione cavillosa.
Il Concilio di Trento ribatterà punto su punto. Quanto alla contestazione della messa come sacrificio, risponde che essa non è una ripetizione, ma una rappresentazione, farne memoria e un'applicazione dei meriti di quell'unico sacrificio di Cristo. Quanto alla presenza reale, il Concilio difende la presenza totale di Cristo sia nel singolo pane che nel singolo vino. Di conseguenza, perde di significato la polemica del calice ai laici, poiché Cristo viene ricevuto totalmente anche nel solo pane.
Il Vaticano II ha sottolineato l'aspetto del banchetto in cui si attua la memoria dei misteri della nostra salvezza e in cui la presenza reale di Cristo avviene per mezzo della Parola e del pane; una presenza che si fa reale anche in mezzo all'assemblea liturgica che lo accoglie nella Parola e nel pane. Viene evidenziato l'aspetto della comunità e della sua comunione, che si attuano attorno all'unico Pane e all'unica Parola. Essa è una comunità di sacerdoti, il celebrante, infatti, ne è il presidente, che celebra e si rende partecipe degli eventi della salvezza.
UNA RIFLESSIONE SISTEMATICA SULL'EUCARISTIA
Il banchetto comunitario
L'altare, il pane, il vino, il calice, la tovaglia, la comunità che celebra, le parole di Gesù nell'ultima cena, dicono che ci troviamo alla presenza di un banchetto comunitario.
Questa cena del Signore affonda le sue radici negli antichi banchetti di Israele, che univano i partecipanti tra di loro e li ponevano comunione con Dio. Riallacciandosi ad essi, Gesù imprime a loro un nuovo significato e un nuovo senso: essi sono una chiamata e una raccolta degli uomini nel Regno di Dio, in cui viene offerto gratuitamente il perdono e la riconciliazione con Dio stesso. Acquistano, dunque, un senso messianico ed escatologico, in cui l'uomo è rigenerato alla vita stessa di Dio e ad essa reso partecipe.
La vita stessa di Cristo e la sua intera missione trovano la loro massima espressione nell'ultima cena, in cui la pro-esistenza di Gesù trova la sua sintesi nel dono di sé.
Dall'esperienza del Sinai fino alla cena pasquale, è sempre il banchetto il segno dell'alleanza: l'alleanza di Dio con gli uomini è realizzata e significata nell'alleanza e nella comunione degli uomini tra di loro. Mangiando e bevendo il corpo e sangue di Cristo, gli uomini sono fatti partecipi di questa alleanza e chiamati ad attuarla in mezzo a loro.
Tale alleanza trova la sua massima espressione nell'amore verso Dio che si sacramentalizza nell'amore verso il prossimo. Nell'ultima cena Cristo si è fatto pane che si spezza per tutti e tutti coloro che partecipano a tale comunione sono chiamati a fare della propria vita un pane spezzato per gli altri. In tal modo il credente celebra la propria eucaristia e ne diviene segno concreto in mezzo agli uomini.
Eucaristia: il ringraziamento
Mangiando e bevendo l'uomo sperimenta la propria dipendenza dal cibo e scopre che la sua vita non dipende esclusivamente da lui, ma dal dono della creazione, di cui è parte viva ed integrante.
Ecco che, allora, la cena del Signore diventa una eucaristia, cioè un ringraziamento a Dio per il dono del suo amore che si esprime nella creazione, ma ancor più nel dono di suo Figlio che, nel redimerci, ci ha rigenerati alla vita stessa di Dio che, grazie a lui, anche condividiamo.
In essa, dunque, ci scopriamo creature e come tali siamo chiamati a relazionarci a Dio e ad occupare il nostro spazio nella storia della salvezza. Non più, quindi, l'uomo in concorrenza con Dio, ma l'uomo in un rapporto figliale e creaturale con lui. In tal modo l'uomo riscopre il senso del proprio essere e il suo mistero viene illuminato. Riscopre il senso della creazione, che vive come dono e non più come propria conquista, la custodisce e non se ne appropria, se ne sente responsabile e non la disperde e rovina.
Memoriale
"In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo ... nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,4-5.7).
Il progetto di salvezza pensato da Dio fin dall'eternità, finalizzato a rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio, collocandolo nel suo ciclo vitale di amore, viene attuato storicamente, dapprima, per mezzo della creazione, che costituisce il suo primo atto di rivelazione; infatti, "dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute" (Rm 1,20). Poi, attraverso una serie di ripetute alleanze, ha inteso completare la sua graduale rivelazione e a stabilire un dialogo salvifico con l'uomo. Ecco, quindi, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, il popolo ebreo, i profeti e ... , da ultimo, suo Figlio, in cui ogni promessa ha trovato la sua definitiva e stabile attuazione.
Il progetto di Dio, dunque, a partire dalla creazione, si è fatto storia e la storia di Dio, intrecciandosi con quella degli uomini, è diventata un'unica storia di salvezza.
Sono proprio questi eventi salvifici, disseminati nel corso dei secoli, con tutta la loro carica di salvezza, ad essere recuperati nell'anamnesi eucaristica.
Nella celebrazione eucaristica, infatti, se ne fa memoria. Ma lo "zakkar" (=ricordare) ebraico non è un semplice "ricordarsi" di eventi, che comunque rimangono collocati in un passato ormai perduto, ma è un "ricordare" che si fa "azione" qui nel presente; un'azione che rivive non solo grazie al ricordo, ma anche attraverso il rito. "Fare memoria", dunque, significa riattualizzare, attraverso il ricordo e il rito, un ricordo che si attua nel rito, quegli eventi di salvezza, che la comunità celebrante è chiamata a rivivere in mezzo a se stessa e di cui diviene partecipe.
Il ricordo, dunque, riporta il passato nel presente, mentre il rito ne da nuova concretezza storica.
La venuta di Cristo e la presenza del suo sacrificio
Se "fare memoria" vuol dire attualizzare, per mezzo del ricordo e del rito, l'evento di salvezza, allora significa che la comunità celebra la "venuta di Cristo" in mezzo ad essa. Tale venuta non va limitata alla semplice presenza nel pane e vino consacrati, ma acquista una dimensione più ampia.
Tale presenza non è frutto di una manipolazione umana (pane,vino e formula consacratoria), ma di un processo più ampio e dinamico. E' una presenza, innanzitutto, frutto di una promessa: "Ecco sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). E ancora: "Là dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono presente in mezzo a loro" ( ). Una presenza che si attua nella parola, nel pane, nella memoria ritualizzata, nella stessa comunità che celebra. E quando viene, egli viene con tutta la sua storia e nella sua dimensione di umanità redenta e definitivamente collocata nel ciclo vitale di Dio.
E' una venuta, dunque, che si fa presenza, una presenza che si fa dono, un dono che, se accolto, assimila e trasforma.
Partecipazione alla sua dedizione
Il Cristo, presenziato nell'assemblea per mezzo del ricordo ritualizzato, assimila l'assemblea a se stesso, l'accorpa alla sua storia di salvezza. Ciò viene reso quanto mai visibile e concreto nel momento in cui Cristo, fattosi pane che si spezza e vino versato per tutti, si fa dono trasformante nella comunione.
Il Cristo che viene mangiato nel "pane spezzato" e bevuto nel "vino versato", accorpa a sé il credente e lo trasforma in un altro se stesso. E' così che la vita del credente diventa a sua volta "dono sacrificale": come Cristo si è fatto pane che si spezza per tutti, così il cristiano, assimilato a Cristo, è chiamato a spezzare il pane della propria vita a favore degli uomini. In tal modo la sua vita diventa, a sua volta, una celebrazione eucaristica e la sua esistenza una "pro-esistenza".
La trasformazione
La venuta di Cristo in mezzo alla comunità celebrante per mezzo del pane, del vino, della parola e della memoria ritualizzata, non è indifferente per la comunità stessa, che viene assimilata da tale presenza e trasformata in una nuova realtà: Cristo che si fa dono sacrificale, a cui viene accorpata e trasformata in una comunità-eucaristia: pane di vita che si spezza per gli altri.
Nell'ambito di tale trasformazione, va prestata una particolare attenzione a quella del "pane " e del "vino" in "corpo e sangue di Cristo".
La Scolastica, utilizzando concetti propri della filosofia aristotelica, parlò di "transustanziazione": pane e vino, accidenti, venivano cambiati nella loro sostanza in corpo e sangue di Cristo. C'era, dunque, un passaggio di sostanza, cioè una transustanziazione.
Nel nostro linguaggio moderno, illuministico-scientifico, la "sostanza" ha acquisito un significato meramente fisico, cioè di una massa fisicamente e chimicamente definibili, perdendo del tutto il suo significato metafisico. Per cui, parlare di "transustanziazione", oggi, si rischia di incorrere in un equivoco che si radica nella mutata mentalità e cultura.
Un anello d'oro, in sé e per sé, è e rimane sempre un anello d'oro in qualsiasi occasione. Ma se questo è donato alla propria fidanzata o alla propria sposa, questo anello cambia sostanzialmente di significato e diventa segno concreto, sacramento di amore e di un mutato rapporto tra due persone. A questo anello d'oro, che rimane fisicamente sempre tale, è stato associato, legato l'amore di due persone.
Così il pane e il vino, dopo la loro consacrazione, rimangono inalterati nella loro sostanza fisica e chimica; ma grazie alla loro consacrazione, Cristo ha legato ad essi la sua presenza reale in anima, corpo e divinità. Per cui essi diventano simboli reali di una presenza concreta e integrale: quella di Cristo.
Oggi, dunque, è forse meglio parlare, più che di "transustanziazione", di "transignificazione".
Tutte le realtà fin qui descritte, presenza attuata per mezzo di una memoria ritualizzata; trasformazione della comunità e del pane e vino in Cristo, ecc., tutto ciò non avviene attraverso formule magiche o poteri occulti, bensì per l'opera dinamica e trasformante dello stesso Spirito, che attua ciò che la memoria ritualizzata dice. Tutto sarebbe gesto vuoto, tutto sarebbe rito insignificante se in essi non operasse la potenza dello Spirito, che a tutto da vita e tutto porta a compimento.
Rappresentazione anticipata del compimento finale
Dopo la consacrazione l'assemblea acclama: "Annunciamo, Signore, la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta".
In tal modo, l'assemblea ricorda che l'eucaristia non è solo memoriale della storia della salvezza, passato che è reso vivo nel presente, ma è anche segno efficace di un compimento futuro. Viene, quindi, a crearsi una forte tensione escatologica fatta di realtà "già" presenti e celebrate nell'eucaristia, ma anche di un "non ancora", cioè di realtà che, seppur già presenti, non sono ancora pienamente compiute. E a queste rimanda il vivere cristiano, segnato, qui nel presente, dalla speranza.
L'eucaristia, dunque, si pone come rappresentazione reale del mondo futuro in grado, fin d'ora, a cambiare il mondo presente.
In questa celebrazione eucaristica la Chiesa celebra se stessa, non tanto come atto di culto narcisistico, bensì dice quello che lei è e dovrebbe essere: una comunità di comunione tesa verso il proprio Signore. Una comunità di comunione che testimonia l'amore sacrificale di Cristo nel servizio al prossimo, facendosi per lui pane spezzato, come tale è il Cristo a cui è assimilata e accorpata. Soltanto così la sua vita diventa, come quella del Cristo, una "pro-esistenza".
LA PENITENZA
Premessa
Nonostante la riforma del rito della penitenza con il nuovo "Ordo Paenitentiae", questo sacramento ha subito e sta subendo una profonda crisi, dovuta in buona parte ad un mutamento culturale che ha creato una diversa sensibilità nei confronti delle realtà divine e spirituali in genere.
Si è passati da una cultura e da una società di tipo religioso, in cui Dio occupava il primo posto, ad altre, in cui Dio non è più percepito, è diventato assente e inutile. Si è giunti, quindi, ad un ateismo pragmatico, la cui filosofia di fondo potrebbe riassumersi nell'espressione: "Dio? Non m'interessa".
L'uomo, con la sua scienza e la sua tecnica, è diventato padrone della sua vita, il punto di riferimento del suo universo, la misura di tutte le cose.
E' evidente che la perdita del senso di Dio porti anche alla perdita del senso del peccato, inteso come allontanamento esistenziale da Dio. Esso viene inteso, ora, non più come offesa fatta a Dio, bensì come fatta all'uomo. E' un peccato ridotto ad una mera dimensione orizzontale, avendo perso la sua radice trascendentale.
Tale nuova concezione di peccato, meramente antropologica, trova la sua giustificazione in una mutata visione di vita, impostata esclusivamente sulla ricerca del piacere e del benessere, sull'affermazione di sé e sul fare soldi. Una filosofia di vita, come si vede, del tutto materialistica e immanentistica, in cui il sacerdote, quale ministro di Dio, è stato soppiantato da filosofi, psicologi e psichiatri, mentre l'ansia e l'inquietudine del vivere si risolve con qualche pillolina.
Tutto ciò chiude l'uomo nei ristretti spazi della storia e lo relega nella sola dimensione immanentistica, in cui vengono violentate e soffocate le sue esigenze spirituali. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: ansia, inquietudine del vivere, disorientamento esistenziale, abuso di psicofarmaci e droghe, suicidi e omicidi. Tutto ciò ci parla non soltanto della perdita del senso di Dio, ma anche quella dell'uomo e della sua dignità.
LA PENITENZA: LE BASI BIBLICHE
Colpa, conversione e remissione in Israele
Lo stretto nesso che intercorre tra la colpa e la miseria, in cui l'uomo conseguentemente vive, appare già chiaro fin dalle prime pagine della Genesi: l'uomo mangia dell'albero e si accorge di essere nudo, una nudità che lo collocherà fuori dalla dimensione divina e in cui esperimenterà la miseria del vivere quotidiano (Gen.3); appare il primo omicidio della storia (Gen. 4,1-16) e il male, inarrestabile, dilagherà sulla terra al punto tale che la terra ne rimane inquinata e porterà Dio alla decisione di distruggerla insieme agli uomini (Gen. 6,12-13).
Qui ancora non si parla di pentimento e conversione. Questi si imporranno quando l'uomo esperimenterà il fallimento della sua storia e lo collegherà alla sua malvagità. La Legge in ciò svolgerà un ruolo fondamentale, mettendo in rilievo tutta la fragilità dell'uomo e la sua incapacità di compiere il bene, e fungendo da parametro di raffronto denunciando il vivere dissennato dell'uomo e lo spinge a ripensare al proprio modo di vivere e a ritornare sui suoi passi.
In tal senso il profetismo aiuterà l'uomo a capire come le sue disgrazie sono una diretta conseguenza del suo comportamento; una coscienza questa che Israele acquisirà chiaramente nel momento dell'esilio, letto come diretta conseguenza del suo essersi allontanato dal Signore.
Nell'uomo sorge, dunque, l'esigenza di un ritorno a Dio, di una conversione. Ma questa non è frutto degli sforzi umani, poiché l'uomo da solo è incapace anche di rivolgersi a Dio, bensì è opera di Dio stesso: "Fammi ritornare, Signore, e io ritornerò" (Ger 31,18); e ancora: "Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. ... Quando vi avrò purificati da tutte le vostre iniquità, vi farò abitare le vostre città" (Ez 36,25-26.33). E' Dio, dunque, che opera la conversione e spinge l'uomo verso di Sé.
Una conversione che in Israele non è mai percepita come individuale, ma colta soltanto nella sua dimensione sociale: quando i profeti parlano, si rivolgono al popolo; Dio manda Giona a convertire Ninive; Gioele chiama l'intero popolo ad una penitenza pubblica.
Di conseguenza la conversione si traduce in atti pubblici ed è significata in un cambiamento di vita, che è preceduto dal riconoscimento dei propri peccati, dal lamento per la propria malvagità, dal digiuno e dal coprirsi con abiti penitenziali e cenere sul capo.
Il perdono e la conversione nel NT
Marco sintetizza la predicazione di Gesù in 1,15: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo". All'origine di ogni conversione, dunque, ci sta l'annuncio che il Regno di Dio si è fatto vicino agli uomini; di conseguenza l'uomo è perentoriamente chiamato a dare una radicale svolta alla sua vita: "convertitevi e credete al vangelo".
L'azione redentrice di Gesù punta a recuperare l'uomo nella sua interezza; egli, infatti non è venuto a salvare l'anima dell'uomo, ma l'uomo. Significativo, in tal senso, è il racconto di guarigione del paralitico. Il primo atto che Gesù compie su di lui è il rimettergli i peccati, il secondo è guarirlo anche fisicamente. Questo sta a significare che la riconciliazione con Dio si riverbera positivamente anche sul vivere dell'uomo e nei suoi rapporti sociali. E' l'uomo che viene recuperato nella sua interezza. Ma questo sta anche a dire che le disgrazie dell'uomo sono strettamente collegate al suo allontanamento da Dio. L'uomo conduce un vivere disgraziato perché vive in uno stato e in una condizione di peccato. Cristo è venuto proprio per recuperare l'uomo alla dimensione divina e restituirgli così la sua originaria dignità che ha perduto.
Il perdono e la riconciliazione che Gesù è venuto a portare, a differenza di quelle predicate dal Battista, si qualificano come un'offerta gratuita di perdono, indipendentemente da ogni rito e da ogni penitenza. All'uomo spetta solo accogliere esistenzialmente la proposta che gli viene da Dio.
Perdono e conversione nelle comunità neotestamentarie
La letteratura epistolare neotestamentaria, in particola modo quella paolina, ci presenta la comunità cristiana come il luogo privilegiato del reciproco aiuto per convertirsi, come spazio di reciproco perdono e di riconciliazione:
La comunità viene vista da Paolo come il luogo dove dimora lo Spirito di Dio e l'amore di Cristo. Su questi due parametri fondamentali, su cui ruota l'intera comunità, deve attuarsi la reciproca accoglienza che si fa perdono e riconciliazione. Il credente deve avere la consapevolezza che lui per primo è stato perdonato da Cristo e riconciliato a Dio per opera sua. Pertanto, amato deve amare, perdonato deve perdonare, riconciliato deve riconciliare.
Le regole della comunità
Una volta stabilita la base teologica, su cui si svolge l'intera dinamica del perdono all'interno della comunità, si tratta ora di stabilire una regola, una procedura per dare corpo al perdono e alla riconciliazione con la comunità. Chi pecca, infatti, si pone fuori dalla comunità ed è, quindi, la comunità, sacramento dell'amore di Cristo, la titolare del diritto del perdono e della riconciliazione.
Matteo, che scrive il suo vangelo intorno agli anni 80, quando ormai la comunità cristiana ha già assunto una sua stabile struttura, ci riporta una procedura del perdono articolata in quattro gradi progressivi finalizzati, da un lato, al perdono e al recupero del fratello che ha sbagliato, dall'altro, alla salvaguardia dell'intera comunità:
· Ammonizione personale e individuale, fatta a quattr'occhi; · Ammonizione fatta davanti a due testimoni; · Denuncia davanti all'assemblea; · Extrema ratio, espulsione dalla comunità. (Mt 18, 15-18)
La comunità è vista come depositaria del perdono divino e dotata, in proposito, di uno speciale potere divino, per cui assolvere o condannare spetta alla comunità: "In verità vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato anche nel cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo" (Mt 18,18).
Allontanarsi, quindi, dalla comunità significa allontanarsi da Dio; riconciliarsi con la comunità significa riconciliarsi con Dio, poiché Cristo è presente nella sua comunità. Infatti, "... dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20).
I segni sacramentali del perdono
Stabilito che depositaria del perdono dei peccati e della riconciliazione è la comunità; stabilita la procedura attraverso cui si esplicita la dinamica della riconciliazione; la comunità, ora, individua i luoghi concreti in cui si attua il perdono e la riconciliazione.
Primo fra tutti è il battesimo, che inserendo il credente in Cristo, lo riveste come di un abito nuovo e lo rigenera alla vita stessa di Dio, facendone una nuova creatura in Cristo, rinnovata per mezzo dello Spirito. Un secondo luogo in cui si attua il perdono e la riconciliazione è l'eucaristia, vista come il momento privilegiato della remissione dei peccati e della ricostituzione del peccatore perdonato nell'alleanza di Dio, di cui la comunità è il segno visibile: "Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati" (Mt 26,28).
Altro segno di riconciliazione e di perdono è l'unzione degli infermi: "... i presbiteri ... preghino su di lui, dopo averlo unto con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà l'ammalato e se ha commesso dei peccati gli saranno perdonati" (Gc 5,14-15).
Sviluppo storico-dogmatico
La storia della penitenza all'interno della Chiesa è ricca di sfaccettature. Essa comprende, oltre alle forme ufficiali del perdono e della riammissione nella comunità, molte altre forme come, ad esempio, la reciproca esortazione, l'opera di mediazione per avvicinare le parti, la reciproca confessione dei peccati, il perdono personale e la preghiera, digiuni, elemosine, ecc.
Un cambiamento importante avviene nel passaggio dalla penitenza della Chiesa antica, molto dura e non ripetibile per più di una volta nella vita, alla confessione ripetibile introdotta nel tardo medio evo dai monaci irlandesi.
Nella Chiesa antica la pratica della penitenza era scandita da tre momenti fondamentali: la scomunica, durante la quale al pubblico peccatore il vescovo imponeva una dura penitenza e lo rivestiva di un abito penitenziale davanti a tutta la comunità; il tempo della penitenza, che poteva durare anche diversi anni, talvolta anche tutta la vita, durante il quale il pubblico peccatore doveva compiere la penitenza impostagli dal vescovo. I penitenti possono partecipare alla vita di comunità solo in modo limitato, mentre la comunità sostiene la loro penitenza con preghiere di intercessione. La riconciliazione è il terzo momento, in cui i penitenti vengono riammessi in seno alla comunità e con essa riconciliati. Segno della loro riammissione è la partecipazione alla comunione eucaristica. Tuttavia, anche se riammessi, gli ex penitenti dovranno sottostare per tutta la vita a delle limitazioni; saranno, comunque, sempre cristiani di serie B. Una seconda ricaduta era per l'ex penitente fatale e veniva affidato soltanto alle preghiere della comunità della comunità e alla misericordia di Dio.
Due i momenti rilevanti di questo processo: la penitenza, che doveva essere proporzionata alla colpa, era vista dalla Chiesa orientale in termini terapeutici, come una medicina che cura la malattia del peccato commesso; mentre la Chiesa occidentale la concepiva in termini giuridici, cioè come colpa che abbisognava di un'adeguata soddisfazione.
Il secondo momento fondamentale è la comunità che con le sue preghiere e la sua costante presenza sostiene lo sforzo di conversione del peccatore. Ma è la riammissione del penitente nella comunità che sancisce sacramentalmente l'avvenuta riconciliazione e la pace con Dio.
La reiterazione della penitenza
La durezza della penitenza all'interno della Chiesa antica, che durerà fino a tutto il VI sec., fece sì che molti rimandassero la riconciliazione alla fine della loro vita, così che ben presto la penitenza scomparve dalla vita della comunità.
Tale vuoto venne riempito da una nuova forma di somministrazione della penitenza introdotta dai monaci iro-scozzesi, che riportarono la loro prassi conventuale: la confessione personale e segreta dei propri peccati al priore del convento, da cui venivano assolti.
Inizialmente questa prassi venne condannata dalla Chiesa come atto di presunzione (Sinodo di Toledo 589), ma infine accettata con una condizionale: questa nuova prassi valeva solo per i peccati privati, mentre per quelli pubblici valeva ancora l'antica procedura penitenziale.
Caratteristiche della nuova prassi sono: a) la ripetibilità, b) la segretezza e c) la progressiva scomparsa del periodo di penitenza.
Con il passaggio dalla penitenza pubblica a quella privata, il ruolo della comunità lentamente si offuscò fino a scomparire; in sua vece venne posto in rilievo quello del sacerdote. Tale confessione, considerata la vergogna che il peccatore prova nello svelare i propri riprovevoli segreti, viene considerata già di per se stessa una penitenza.
Nella scolastica del XII sec. l'elemento fondamentale e decisivo, tra i tre atti necessari al penitente (confessione, dolore e soddisfazione) per il perdono è il dolore dei peccati o pentimento. La scolastica del secolo d'oro, il XIII, collegherà il dolore con l'assoluzione come elementi indispensabili per la remissione delle colpe.
Su questa linea si posiziona Duns Scotto, che identifica il sacramento con l'assoluzione e in cui confessione, pentimento e soddisfazione sono elementi necessari, ma non sacramentali. Egli, poi, elabora due vie per la remissione dei peccati: quella sacramentale (mediante l'assoluzione) e quella extrasacramentale, in virtù del pentimento perfetto. Ma poiché nessuno può ritenersi sicuro che il suo sia un pentimento perfetto, consiglia comunque la confessione sacramentale.
Forme particolari della prassi penitenziale
Forme particolari sono considerate le indulgenze e la confessione ai laici.
Quanto alle prime, si muovono sullo sfondo dottrinale delle "pene del peccato", cioè delle dolorose conseguenze del peccato.
Le indulgenze affondano le loro radici nella prassi penitenziale della Chiesa primitiva, la quale riteneva che con la cancellazione di una colpa davanti a Dio, le sue conseguenze nella vita di un uomo, come, ad esempio, il male causato o le inclinazioni a questo, non erano semplicemente scomparse, ma dovevano essere in qualche modo "pagate". Tali conseguenze, dunque, andavano eliminate attraverso la pratica penitenziale.
L'indulgenza, storicamente apparsa intorno all'XI sec., significa appunto condono di opere penitenziali, in genere molto dure e caratterizzate da una lunga durata di tempo, che vennero sostituite da altri atti dal valore penitenziale, ma molto più contenuti.
Alle indulgenze si arrivò anticamente attraverso tre passaggi fondamentali: a) con il passaggio dalla penitenza della Chiesa antica, che vedeva prima la penitenza della colpa e poi la sua remissione, a quella dell'assoluzione, che ha introdotto un cammino inverso, prima l'assoluzione poi la penitenza. Si rese, quindi, necessario espiare le pene dovute al peccato, dopo che questo era già stato perdonato. b) Dal primo medioevo in poi si collegò la purificazione dopo la morte con la penitenza ecclesiale, per cui le penitenze non operate in questa vita si sarebbero dovute compiere nell'aldilà, in un apposito luogo di purificazione: il purgatorio. c) Nel XIV sec. si andò formando il concetto del "thesaurus ecclesiae", secondo il quale i meriti acquisiti da Cristo e dai santi andavano a beneficio dell'intera Chiesa, la cui autorità deteneva le chiavi al fine di dispensarle ai fedeli.
La cosa, però, andò degenerando nel tardo medioevo così che l'indulgenza divenne un simbolo del potere ecclesiastico e un affare commerciale, causando le forti e fatali reazioni di una parte della Chiesa.
Quanto alla confessione fatta ai laici, nella Chiesa orientale, dalla concezione più terapeutica e meno giuridica della confessione e penitenza, si legò la penitenza e il perdono delle colpe alla santità della persona, ritenuta ripiena dello Spirito in virtù della sua santità, la quale accoglieva la confessione; questa non necessariamente doveva essere un sacerdote. Solamente nel XIII sec. l'idea di "portatore dello Spirito" fu legata nuovamente al ministro consacrato. In Occidente, tra l'XI e il XIII sec., la confessione fatta ai laici nacque come funzione sussidiaria e aggiunta a quella sacramentale: si confessavano i propri peccati ad un altro cristiano nel caso non fosse possibile raggiungere un sacerdote, convinti che anche in questo modo si otteneva il perdono divino. Infatti, anche se il laico non poteva impartire l'assoluzione, il sommo sacerdote Cristo provvedeva a colmare tale lacuna.
Questo tipo di confessione venne a cadere dopo Duns Scoto, il quale riteneva che essenziale per avere il perdono dei peccati fosse l'assoluzione sacramentale.
Alcune posizioni magisteriali
Il Concilio Lateranense IV (1215), indetto da Innocenzo III, stabilisce che ogni fedele ha l'obbligo di confessare fedelmente al suo parroco i propri peccati almeno una volta all'anno e di eseguire la penitenza assegnatagli. Da tale affermazione si possono rilevare due considerazioni: la prima riguarda la ormai consolidata prassi della confessione ripetuta, introdotta dai monaci iro-scozzesi nel primo medioevo; e il concetto di peccato, che qui è inteso come "peccato mortale". L'obbligo a confessarsi, dunque, va applicato soltanto nel caso in cui il fedele ha coscienza di aver commesso un qualche peccato mortale.
Il Concilio di Trento (1545-1563) in risposta a Lutero che riteneva la confessione deformata dalla Chiesa, in quanto essa la legava ad atti del penitente e del sacerdote e non alla "sola gratia", ribadì che la confessione era stata istituita da Gesù Cristo stesso e venne motivata con Gv 20,22: "Ricevete lo Spirito Santo; a coloro che rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi".
Precisa inoltre che per la completa e perfetta confessione sono necessarie "la confessione, la contrizione e la soddisfazione", considerate "quasi materia del sacramento della penitenza", mentre l'assoluzione del sacerdote viene concepita come un atto giudiziario che assolve dalle colpe, ma perché si possa assolvere ci vuole la confessione delle colpe commesse.
LA PENITENZA UNA RIFLESSIONE SISTEMATICA
Premessa
Il sacramento della penitenza nel corso della storia della chiesa ha subito varie mutazioni operate prevalentemente dalla prassi a cui seguiva la teologia, che spesso veniva condizionata dalla stessa prassi, che in qualche modo rincorreva.
La crisi attuale del sacramento della penitenza, dovuta ad una nuova e radicalmente mutata sensibilità rispetto al passato, impone una nuova revisione di tale sacramento, che non necessariamente deve riprodurre gli stessi schemi del passato, per un malinteso senso della Tradizione. Tradizione non è conservazione e riproduzione del passato, ma anche sua messa in discussione per ripensarla in modo più idoneo e conforme alle esigenze del presente. Solo così la Tradizione non solo viene conservata, ma arricchita. Diversamente se ne decreta la morte.
Aspetti riscoperti
La dimensione sociale
La struttura dell'attuale confessione è essenzialmente auricolare, cioè un intimo e segreto incontro tra sacerdote e penitente all'interno del confessionale. Tale tipo di confessione fa perdere l'intera dimensione comunitaria del perdono e della riconciliazione. Segno evidente della riconciliazione con Dio è il reinserimento del peccatore perdonato nella comunità. La comunità, infatti, sacramentalizza in se stessa la presenza del Cristo morto e risorto, per cui il rientrare nella comunità, il riprenderne parte sta ad indicare l'avvenuto ritorno del peccatore nella casa del Padre.
Tutto ciò, oggi, è andato perduto, nonostante che il Vaticano II avesse recuperato l'aspetto comunitario della celebrazione penitenziale. Ciò, a mio avviso, è dovuto al fatto che la celebrazione penitenziale comunitaria si riduceva semplicemente ad una sovrastruttura di quella auricolare, che comunque, rimaneva l'unico strumento idoneo per la remissione dei peccati, mentre la celebrazione comunitaria assumeva soltanto un aspetto pietistico e occasionale, per dare solennità alla confessione auricolare. Ma tutto finiva lì. E' evidente che, entrata in crisi la confessione auricolare, ha seguito quella comunitaria, che fungeva da semplice contorno.
Riconciliazione, termine fondamentale
La penitenza era vissuta nella Chiesa primitiva come atto di riconciliazione con Dio, che trovava la sua attuazione sacramentale nella riconciliazione con la comunità. La sua natura di riconciliazione affonda le sue radici nello stesso mistero pasquale. Infatti, il Gesù risorto, apparendo ai discepoli radunati nel cenacolo, li saluta con l'espressione "Pace a voi" ripetuta per ben tre volte in pochi versetti (Gv 20,19.21.26). Da qui si evince come il dono della "Pace" sia strettamente connesso con la risurrezione, che è un evento rigenerativo dell'uomo, ricollocato in tal modo nella stessa vita di Dio.
Quel saluto di Pace, dunque, dice come l'uomo sia stato riconciliato con Dio e come le sue colpe siano state interamente perdonate. Tale concetto viene ripreso anche da Paolo, il quale affermerà nella sua lettera ai Romani che "... non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).
Una Pace, dunque, che esprime l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini e la cui dinamica sgorga dalla stessa azione dello Spirito: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi>>." (Gv 20,21-23).
Il dono della Pace nasce, dunque, dalla risurrezione e dice riconciliazione per mezzo dello Spirito. Riconciliati con Dio, quindi, i discepoli sono chiamati e mandati a diffondere e a donare a loro volta, come il Padre ha fatto con il Figlio, la Pace, cioè la riconciliazione, poiché questo è il senso fondamentale della stessa missione di Gesù e dell'intero progetto di salvezza del Padre.
Tale riconciliazione donata agli uomini e a cui è stato legato un mandato divino, dice come questa deve pervadere l'intera dinamica del vivere comunitario al punto tale da diventare lo stile distintivo della stessa comunità cristiana e di ogni suo singolo membro. La riconciliazione, pertanto, promana dalla comunità e da ogni suo membro e si diffonde tra gli uomini. Ogni cristiano, pertanto, segnato dalla riconciliazione diventa esso stesso sacramento e dono di riconciliazione e di perdono, che Gesù ha sempre insegnato a donare a larghe mani e incondizionatamente (per settanta volte sette). In tal modo si attua la salvezza.
Stabilito il principio teologico e il suo indispensabile radicamento nella Parola di Dio, si tratta ora di dare forma storica a questo mandato divino del "riconciliare". Nel corso della sua storia la Chiesa ha conosciuto varie forme di attuazione: quella della "pubblica penitenza e riammissione nella comunità", concessa una volta nella vita nella Chiesa antica; quella dell' "ascolto fraterno e della correzione"; "prassi della preghiera, del digiuno e della carità"; l' "eucaristia" quale fonte di riconciliazione e di perdono che si fa comunione; le "assoluzioni generali" e, in particolare, le "confessioni fatte ai laici", che sia in Occidente che in Oriente fu praticata per secoli (XI-XIII sec.) e la cui efficienza fu riconosciuta dalla stessa Scolastica. Nel concilio di Trento fu stabilita definitivamente la "confessione auricolare dei peccati", concepita come atto che si includeva in un processo giudiziale che si concludeva con l'assoluzione, assegnata definitivamente al sacerdote, divenne la causa strumentale del perdono dei peccati e della loro remissione.
Ma anche altri e diversi atti sono stati considerati utili alla riconciliazione e al perdono dei peccati come la risoluzione fraterne dei conflitti, la direzione spirituale. Da non trascurare, poi, la lettura e l’ascolto della Parola di Dio, che ripiena dello Spirito è capace di trasformare interiormente l'uomo che l'accoglie e riconciliarlo con Dio. Coloro, poi, che si radunano assieme nel nome di Cristo e insieme pregano per il perdono dei peccati hanno la promessa di essere esauditi: "In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve l'accorderà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,19-20).
In tutti questi atti può verificarsi una vera conversione, si può ottenere e realizzare la riconciliazione con Dio.
Una particolare attenzione, poi, va data a due sacramenti celebrati nell'ambito della liturgia: il battesimo e l'eucaristia.
Quanto al battesimo, è visto come il sacramento della conversione e del perdono per eccellenza, poiché in esso accorpa il credente a Cristo, lo assimila a lui e lo riveste come di un abito nuovo; lo rigenera alla vita divina e lo colloca nella stessa vita di Dio, che viene condivisa con il credente. Per questo Paolo può affermare che non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù (Rm 8,1), poiché in Cristo ogni peccato, passato, presente e futuro trova la sua naturale ed efficace assoluzione.
Di conseguenza anche tutte le manifestazioni penitenziali sopra ricordate, in virtù del battesimo, assumono in un certo qual modo una loro propria veste sacramentale, poiché diventano esplicitazioni concrete del battesimo e in questo sacramento si radicano e trovano la loro forza ed efficacia redentiva.
Quanto all'eucaristia, essa diventa ad essere il centro e la fonte propulsiva nonché il presupposto di ogni redenzione, di ogni perdono e riconciliazione, che vengono ripetutamente espressi nel corso della sua celebrazione: a) nell'atto penitenziale iniziale con cui sia apre; b) nell'ascolto della Parola; c) nel motivo del sangue dell'alleanza per la remissione dei peccati; d) nel motivo dell'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo; e) nello scambio della pace, che è riconciliazione tra i fratelli e nei fratelli con Dio; f) nell'invocazione prima della comunione all'Agnello a cui si chiede di dire soltanto una parola per essere salvati, una parola che già è stata pronunciata nelle letture; g) e infine nelle parole del congedo: "Andate in pace".
Tutti questi momenti sono altrettante espressioni del sacramento dell'eucaristia e in quanto tale produce nel credente ciò che esprime.
Il sacramento della penitenza
Tra le varie forme con cui Dio dona il suo perdono e attua la riconciliazione dell'uomo con se stesso e degli uomini tra di loro, si pone, come specifico atto proprio di perdono, il sacramento della confessione seguita dall'assoluzione sacramentale dei peccati da parte di un ministro autorizzato.
In tale sacramento si realizza concretamente e in modo specifico proprio il giudizio benigno di Dio sul peccatore e lo riconcilia a sé e alla comunità, in un abbraccio di comunione.
Essa è scandita da tre momenti costitutivi del sacramento stesso: il giudizio, la riconciliazione e la guarigione.
Il Giudizio
Nella confessione delle proprie colpe il penitente viene posto a confronto con la povertà della propria vita. Si riconosce, quindi, fragile e riconosce come questo suo comportamento lo ponga in dissonanza con le esigenze della propria fede.
Nella Chiesa antica questo momento era posto in particolare rilievo nel periodo della penitenza, durante il quale il peccatore era posto fuori dalla comunità e non poteva partecipare alla comunione eucaristica. Questo atto visibile della separazione dalla comunità, faceva capire concretamente al penitente in quale posizione il suo comportamento lo aveva collocato.
Oggi la denuncia delle proprie colpe al ministro fa prendere coscienza della propria fragilità e aiuta a prendere le distanze da essa.
Il termine "giudizio", tuttavia, va spiegato. In realtà non si tratta di un vero e proprio giudizio come noi lo concepiamo nella nostra mentalità forense. Imputato e accusatore, qui, coincidono e questo pone subito il penitente in un atteggiamento di riconoscimento spontaneo delle proprie colpe, e ciò funge da prologo alla conversione, anzi ne è il primo passo. Il ministro, poi, non è il giudice, che deve verificare la veridicità della confessione spontanea dei "reati", ma deve soltanto prenderne atto e, come padre accogliente, deve dire tutta l'accoglienza di Dio in quel momento, così che il giudizio diventa un giudizio di perdono e di grazia.
La Riconciliazione
Lo scopo principale del sacramento è il dono della riconciliazione. Riconciliazione che avviene a tre livelli: con Dio e, quindi, a cascata, con se stessi e con gli altri. E' l'uomo che viene ricostituito nella sua verginità originaria e ricollocato nella comunione con la comunità, sacramento vivente di Cristo. E' la pace di Dio che viene donata.
La Guarigione
Il dono della riconciliazione è frutto dell'azione dello Spirito che investe integralmente l'uomo in ogni suo aspetto e in ogni sua dimensione. Tale azione è rigenerante e ricollega l'uomo alla vita stessa di Dio, così che il penitente è costituito in seno alla stessa comunità come una nuova creatura, rigenerata alla vita stessa di Dio e, di conseguenza, costituito suo figlio e lo rafforza in tale posizione. L'aspetto terapeutico della penitenza e della riconciliazione era uno degli aspetti preminenti nella Chiesa antica, in cui il penitente ritornava ricostituito spiritualmente da tutta una lunga ed estenuante prassi rigenerativa, che lo ricostituiva nella sua condizione battesimale originale. Per cui la penitenza e la reimmissione nella comunità poteva essere concepito come una sorta di secondo battesimo.
|