TEOLOGIA PASTORALE FONDAMENTALE
(Elaborazione dei miei appunti integrati da sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)
Agire pastorale e riflessione teologica
La pastorale può essere intesa come l'agire della Chiesa finalizzato a favorire l'incontro degli uomini con la Parola, incarnandola in un determinato contesto storico-culturale. Essa, pertanto, si pone come una sorta di servizio sia alla Parola che agli uomini, cercando di favorire in loro una fede adulta, cioè incarnata nell'esistenza di tutti i giorni.
La teologia pastorale, in quanto tale, dice una riflessione su Dio e il suo mondo contestualizzato storicamente e culturalmente in mezzo agli uomini. Diventa, in tal modo, una sorta di "teologia pratica", le cui finalità sono quelle di rendere accessibile al mondo degli uomini, stoicamente contestuato, il mondo stesso di Dio.
Il punto di partenza, pertanto, della teologia pastorale è di tipo fenomenologico e non speculativo. Essa, come ogni teologia, parte dalla "storia della salvezza", cioè da un'attenta analisi dell'agire di Dio nella storia che si intreccia con l'agire dell'uomo. Essa, in quanto pastorale, funge da tramite tra l'agire divino e quello umano, dando concretezza al primo, attraverso la prassi ecclesiale (Parola, Sacramenti, Ministeri), rendendolo, in tal modo, accessibile al secondo. Il suo agire, dunque, è di tipo sacramentale e si attua nella Chiesa, dinamicamente colta nel suo divenire storico.
Una panoramica storica
L'intento di questo excursus storico è quello di individuare schematicamente e sinteticamente il formarsi, per gradi, dell'agire della Chiesa nei vari contesti storico-culturali, cioè il suo agire pastorale.
La pastorale nella Chiesa antica
Sul finire del primo secolo la Chiesa è costituita da piccole comunità impegnate: a) nell'annuncio della Parola (kerigma), da cui nasce la fede che apre al battesimo, collocando l'uomo in Cristo e rendendolo partecipe della vita stessa di Dio; b) nell'attuare, attraverso la celebrazione rituale e liturgica, gli eventi della salvezza rendendoli, "hinc et nunc", accessibili al credente ai quali viene configurato; c) nell'attuare concretamente nella carità vicendevole quanto creduto e celebrato.
A partire dalla seconda metà del IV sec. appaiono già ben strutturate alcune figure pastorali quali il "catecumenato", la "penitenza" e l' "anno liturgico", che alla fine di tale secolo è pastoralmente ben consolidato, grazie anche a tutta una legislazione costantiniana che favorisce il cristianesimo e la sua espansione. Da Costantino, in poi, infatti, la Chiesa, da una struttura locale e poco più che familiare, è chiamata ad operare a livello sociale su vasto raggio.
La pastorale della Chiesa medievale
A partire già dall'alto medioevo (VI-VIII sec.), la Chiesa trova un'enorme espansione, dovuta prevalentemente ai battesimi di massa, ma che non trova una corrispondente qualità di fede. La pastorale, pertanto, qui sarà finalizzata ad operare sulle strutture e l'organizzazione sociali perché siano sempre più configurate cristianamente. Nascono le parrocchie, le diocesi, la penitenza antica, molto dura e radicale, che investiva l'intera comunità, si traduce in quella individuale, benché inizialmente osteggiata anche dal sinodo di Toledo (586 d.C.).
La pastorale della Chiesa post-tridentina
La Chiesa all'epoca della Riforma risente ancora molto della sua struttura medievale, che la vedeva invischiata nel potere politico e sociale e in questo identificata.
Il Concilio di Trento, quale risposta alla Riforma protestante, ma anche sintesi e conclusione di un lungo cammino plurisecolare di riforme tentate, già a partire dal XI sec. (lotte per le investiture, concordato di Worms, ordini mendicanti, osservanze, chierici regolari, devotio moderna, compagnie del divino amore, nuovi ordini religiosi, ecc. ), darà il tocco finale alla riforma nella Chiesa che da un punto di vista pastorale si concretizzerà: a) nell'obbligo di residenza dei vescovi e dei parroci; b) obbligo di visite pastorali periodiche; c) formazione del clero; d) obbligo delle omelie domenicale e costituzione di un catechismo per la ripresa della formazione cristiana del popolo; e infine, e) riforma della liturgia, riparametrata su quella romana.
Come si vede, al centro dell'interesse ci sta la "cura animarum", a cui Paolo III (1538-1549) aveva dedicato una lunga riflessione, condensata nel documento "Consilium de emendanda ecclesia", che si rivelerà fondamentale nell'attuazione della disciplina pastorale della Chiesa nel Concilio stesso.
La pastorale della Chiesa nel Vaticano II
Questo concilio si propone di essere un "concilio pastorale" e, come primo atto, tenta una riconciliazione e un riaggancio con il mondo contemporaneo nel significativo documento pastorale "Gaudium et Spes". Esso esordisce in modo significativo con quel "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini ... sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". E' la Chiesa che, finalmente, dopo secoli di isolazionismo e di sospetti nei confronti del mondo, si riscopre inserita nella storia e facente parte della stessa storia dell'umanità, con cui ha riscoperto il dialogo.
Ma se ci fossero dubbi in tal senso, Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio (11.11.62) toglie ogni esitazione, affermando che il senso di questo concilio non è dottrinale, bensì incarnare la già ampiamente acquisita dottrina nel contesto storico-culturale contemporaneo, parlando all'uomo d'oggi con il suo proprio linguaggio.
Questa intenzione squisitamente pastorale trova la sua concretizzazione nella costituzione pastorale "Gaudium et Spes". Essa parte da un'analisi fenomenologica dell'uomo contemporaneo, colto nella società che egli ha costruito, nelle sue incertezze e contraddizioni, nei suoi problemi. Un uomo che viene riletto alla luce della Parola di Dio, scoprendo in essa la sua naturale vocazione.
Per raggiungere l'uomo nel suo contingente vivere storico, la Chiesa punta ad un suo "aggiornamento", cioè un rendere presente all'uomo d'oggi la proposta di salvezza portata da Cristo. Tale aggiornamento si esplica in due momenti: nella riforma, a partire da quella liturgica, in cui si deve scoprire ciò che è essenziale da ciò che è soltanto forma espressiva, che va, invece, aggiornata. Questo costringe la Chiesa a ricentrare la propria attenzione su Cristo e la sua Parola. La riforma, tuttavia, necessita anche di un "rinnovamento" interiore oltre che formale e questo rimanda necessariamente a distinguere,ancora una volta, tra ciò che è essenziale e fondamentale, da ciò che non lo è.
Un altro aspetto significativo nell'ambito del rinnovamento pastorale viene indicato nella espressione "segni dei tempi". Essi sono quell'insieme di fenomeni che, per la loro natura, caratterizzano la nostra epoca. Sono fatti, dunque, che letti alla luce della Parola di Dio lasciano trasparire da loro stessi l'azione di Dio nella storia, consentendone, pertanto, una lettura teologica. E' indispensabile, quindi, per la Chiesa incentrare la propria attenzione sulla storia, cercando di scoprire in essa, mossa e illuminata dallo Spirito, l'agire di Dio. Posta in questo orizzonte dichiaratamente pastorale, il Concilio sollecita che l'intera teologia e il suo insegnamento acquisiscano una dimensione pastorale, poiché ogni disciplina è finalizzata all'edificazione del popolo di Dio; e così, pure, l'operatore pastorale deve essere educato e formato in tale ottica.
In questa sua determinazione riformatrice, la Chiesa lancia un programma di rinnovamento pastorale pluridecennale (piano pastorale CEI), così articolato:
a) Primato dell'evangelizzazione: l'annuncio è fondamentale per la fede (anni '70) b) Primato della comunione nella comunità: la fede fonda e configura la comunità e crea comunione (anni '80) c) Primato della carità: quale espressione e concretizzazione di un annuncio accolto, vissuto nella comunità e che si fa concreta azione di amore. (anni '90) d) Primato della speranza: che spinge il cammino della Chiesa e dell'umanità verso il realizzarsi dei cieli nuovi e terra nuova, che il credente è chiamato ad accendere fin d'ora nel suo concreto vivere storico quotidiano, dando testimonianza all'intera umanità che una nuova creazione, operata dal Cristo risorto,è oggi in atto (primo decennio degli anni 2000).
Esemplificazione di evoluzione storica di alcune strutture pastorali
Il percorso catecumenale
Le informazioni più rilevanti circa il catecumenato ci vengono fornite dalla "Tradizione apostolica" di Ippolito, databile intorno al 220-250. Essa si suddivide in tre parti: a) riguarda la struttura ministeriale della chiesa: vescovi, presbiteri e diaconi; parla della loro elezione e consacrazione. b) riguarda il catecumenato; c) riguarda alcune indicazioni particolari sulla vita cristiana.
L'ingresso nel catecumenato si presenta tutt'altro che facile e immediato. Il candidato, presentato da cristiani che si rendono garanti per lui davanti ai catechisti, viene interrogato sulla sua capacità di accogliere la Parola, intendendo per "capacità" il suo stato di vita privato, il suo stato sociale e professionale e, più precisamente, se è sposato e se intende rispettare il suo matrimonio e rimanervi fedele; se, invece, è da sposare gli si chiede di non fornicare. Lo si interroga sulla sua professione per vedere se è compatibile con il nuovo stato di vita a cui intende accedere. Se non lo è, deve abbandonare la sua professione (costruttore o commerciante di idoli, gladiatore o loro istruttore, attore, sacerdote pagano, soldato, prostituta o invertito, ecc.).
Il percorso catecumenale si svolge per la durata di tre anni, ma per chi mostra disponibilità e zelo il tempo può anche accorciarsi, assumendo rilevanza, in tal caso, la sua condotta. Il cammino catecumenale è scandito essenzialmente da tre momenti: a) l'insegnamento, in cui si espone la storia della salvezza a partire da Abramo fino a Cristo; b) una iniziazione alla preghiera e c) una iniziazione alla pratica della carità.
Al termine del percorso si prospettava l'ammissione al battesimo. Essa è preceduta da una valutazione comportamentale del candidato durante il catecumenato e in particolare se è vissuto onestamente, onorando le vedove, visitando gli ammalati, impegnandosi nelle opere di bene. Su ogni punto ci doveva essere la testimonianza dei loro accompagnatori. Soltanto allora vengono ammessi all'ascolto della Parola, formando un gruppo a parte, su cui vengono giornalmente imposte le mani fino al momento del battesimo
Attorno ai catecumeni, poi, si snodava una serie di ministerialità che li accompagnavano nel loro cammino: i padrini, il cui compito era di presentazione e accompagnamento del catecumeno; i catechisti, il cui compito era quello della loro formazione per mezzo della Parola e, in vario modo poi, vescovi, presbiteri e diaconi, secondo la funzione loro propria.
Ma con l'andar del tempo, con il rapido diffondersi del cristianesimo, soprattutto nel periodo dell'alto medioevo (VI-VII sec.) e in particolare con l'affermazione della prassi del pedobattesimo, il catecumenato andò lentamente scomparendo. In sua sostituzione andò affermandosi, soprattutto in Occidente, la formazione post-battesimale, affidata principalmente alla famiglia, supportata dalla catechesi nella comunità.
Gli obiettivi del catecumenato erano sostanzialmente tra: a) dotare il candidato di un racconto, cioè della storia della salvezza narrata dalle Scritture e che doveva costituire il luogo della sua identità e della sua memoria; b) introdurlo, poi, in un mondo simbolico e sacramentale in cui doveva riconoscere la permanente azione salvifica di Dio; c) aiutare il candidato a configurare il proprio vivere alla nuova identità cristiana che voleva abbracciare.
Persosi lungo i secoli, il catecumenato conoscerà un suo ritorno con il Vaticano II e, ancor prima, con l'azione missionaria.
La penitenza come struttura pastorale
La storia della penitenza all'interno della Chiesa è ricca di sfaccettature. Essa comprende, oltre alle forme ufficiali del perdono e della riammissione nella comunità (battesimo, eucaristia e unzione degli infermi), molte altre forme come, ad esempio, la reciproca esortazione, l'opera di mediazione per avvicinare le parti, la reciproca confessione dei peccati, il perdono personale e la preghiera, digiuni, elemosine, ecc.
Un cambiamento importante avviene nel passaggio dalla penitenza della Chiesa antica, molto dura e non ripetibile per più di una volta nella vita, alla confessione ripetibile introdotta nel tardo medioevo dai monaci irlandesi.
Nella Chiesa antica la pratica della penitenza era scandita da tre momenti fondamentali: la scomunica, durante la quale al pubblico peccatore il vescovo imponeva una dura penitenza e lo rivestiva di un abito penitenziale davanti a tutta la comunità; il tempo della penitenza, che poteva durare anche diversi anni, talvolta anche tutta la vita, durante il quale il pubblico peccatore doveva compiere la penitenza impostagli dal vescovo. I penitenti possono partecipare alla vita di comunità solo in modo limitato, mentre la comunità sostiene la loro penitenza con preghiere di intercessione. La riconciliazione è il terzo momento, in cui i penitenti vengono riammessi in seno alla comunità e con essa riconciliati. Segno della loro riammissione è la partecipazione alla comunione eucaristica. Tuttavia, anche se riammessi, gli ex penitenti dovranno sottostare per tutta la vita a delle limitazioni; saranno, comunque, sempre cristiani di serie B. Una seconda ricaduta era per l'ex penitente fatale e veniva affidato soltanto alle preghiere della comunità della comunità e alla misericordia di Dio.
Due i momenti rilevanti di questo processo: la penitenza, che doveva essere proporzionata alla colpa, era vista dalla Chiesa orientale in termini terapeutici, come una medicina che cura la malattia del peccato commesso; mentre la Chiesa occidentale la concepiva in termini giuridici, cioè come colpa che abbisognava di un'adeguata soddisfazione.
Il secondo momento fondamentale è la comunità che con le sue preghiere e la sua costante presenza sostiene lo sforzo di conversione del peccatore. Ma è la riammissione del penitente nella comunità che sancisce sacramentalmente l'avvenuta riconciliazione e la pace con Dio.
La reiterazione della penitenza
La durezza della penitenza all'interno della Chiesa antica, che durerà fino a tutto il VI sec., fece sì che molti rimandassero la riconciliazione alla fine della loro vita, così che ben presto la penitenza scomparve dalla vita della comunità.
Tale vuoto venne riempito da una nuova forma di somministrazione della penitenza introdotta dai monaci iro-scozzesi, che riportarono la loro prassi conventuale: la confessione personale e segreta dei propri peccati al priore del convento, da cui venivano assolti.
Inizialmente questa prassi venne condannata dalla Chiesa come atto di presunzione (Sinodo di Toledo 589), ma infine accettata con una condizionale: questa nuova prassi valeva solo per i peccati privati, mentre per quelli pubblici valeva ancora l'antica procedura penitenziale.
Caratteristiche della nuova prassi sono: a) la ripetibilità, b) la segretezza e c) la progressiva scomparsa del periodo di penitenza.
Con il passaggio dalla penitenza pubblica a quella privata, il ruolo della comunità lentamente si offuscò fino a scomparire; in sua vece venne posto in rilievo quello del sacerdote. Tale confessione, considerata la vergogna che il peccatore prova nello svelare i propri riprovevoli segreti, viene considerata già di per se stessa una penitenza.
Nella scolastica del XII sec. l'elemento fondamentale e decisivo, tra i tre atti necessari al penitente (confessione, dolore e soddisfazione) per il perdono è il dolore dei peccati o pentimento. La scolastica del secolo d'oro, il XIII, collegherà il dolore con l'assoluzione come elementi indispensabili per la remissione delle colpe.
Su questa linea si posiziona Duns Scotto, che identifica il sacramento con l'assoluzione e in cui confessione, pentimento e soddisfazione sono elementi necessari, ma non sacramentali. Egli, poi, elabora due vie per la remissione dei peccati: quella sacramentale (mediante l'assoluzione) e quella extrasacramentale, in virtù del pentimento perfetto. Ma poiché nessuno può ritenersi sicuro che il suo sia un pentimento perfetto, consiglia comunque la confessione sacramentale.
Forme particolari della prassi penitenziale
Forme particolari sono considerate le indulgenze e la confessione ai laici.
Quanto alle prime, si muovono sullo sfondo dottrinale delle "pene del peccato", cioè delle dolorose conseguenze del peccato.
Le indulgenze affondano le loro radici nella prassi penitenziale della Chiesa primitiva, la quale riteneva che con la cancellazione di una colpa davanti a Dio, le sue conseguenze nella vita di un uomo, come, ad esempio, il male causato o le inclinazioni a questo, non erano semplicemente scomparse, ma dovevano essere in qualche modo "pagate". Tali conseguenze, dunque, andavano eliminate attraverso la pratica penitenziale.
L'indulgenza, storicamente apparsa intorno all'XI sec., significa appunto condono di opere penitenziali, in genere molto dure e caratterizzate da una lunga durata di tempo, che vennero sostituite da altri atti dal valore penitenziale, ma molto più contenuti.
Alle indulgenze si arrivò anticamente attraverso tre passaggi fondamentali: a) con il passaggio dalla penitenza della Chiesa antica, che vedeva prima la penitenza della colpa e poi la sua remissione, a quella dell'assoluzione, che ha introdotto un cammino inverso, prima l'assoluzione poi la penitenza. Si rese, quindi, necessario espiare le pene dovute al peccato, dopo che questo era già stato perdonato. b) Dal primo medioevo in poi si collegò la purificazione dopo la morte con la penitenza ecclesiale, per cui le penitenze non operate in questa vita si sarebbero dovute compiere nell'aldilà, in un apposito luogo di purificazione: il purgatorio. c) Nel XIV sec. si andò formando il concetto del "thesaurus ecclesiae", secondo il quale i meriti acquisiti da Cristo e dai santi andavano a beneficio dell'intera Chiesa, la cui autorità deteneva le chiavi al fine di dispensarle ai fedeli.
La cosa, però, andò degenerando nel tardo medioevo così che l'indulgenza divenne un simbolo del potere ecclesiastico e un affare commerciale, causando le forti e fatali reazioni di una parte della Chiesa.
Quanto alla confessione fatta ai laici, nella Chiesa orientale, dalla concezione più terapeutica e meno giuridica della confessione e penitenza, si legò la penitenza e il perdono delle colpe alla santità della persona, ritenuta ripiena dello Spirito in virtù della sua santità, la quale accoglieva la confessione; questa non necessariamente doveva essere un sacerdote. Solamente nel XIII sec. l'idea di "portatore dello Spirito" fu legata nuovamente al ministro consacrato. In Occidente, tra l'XI e il XIII sec., la confessione fatta ai laici nacque come funzione sussidiaria e aggiunta a quella sacramentale: si confessavano i propri peccati ad un altro cristiano nel caso non fosse possibile raggiungere ad un sacerdote, convinti che anche in questo modo si otteneva il perdono divino. Infatti, anche se il laico non poteva impartire l'assoluzione, il sommo sacerdote Cristo provvedeva a colmare tale lacuna.
Questo tipo di confessione venne a cadere dopo Duns Scoto, il quale riteneva che essenziale per avere il perdono dei peccati fosse l'assoluzione sacramentale.
Alcune posizioni magisteriali
Il Concilio Lateranense IV (1215), indetto da Innocenzo III, stabilisce che ogni fedele ha l'obbligo di confessare fedelmente al suo parroco i propri peccati almeno una volta all'anno e di eseguire la penitenza assegnatagli. Da tale affermazione si possono rilevare due considerazioni: la prima riguarda la ormai consolidata prassi della confessione ripetuta, introdotta dai monaci iro-scozzesi nel primo medioevo; e il concetto di peccato, che qui è inteso come "peccato mortale". L'obbligo a confessarsi, dunque, va applicato soltanto nel caso in cui il fedele ha coscienza di aver commesso un qualche peccato mortale.
Il Concilio di Trento (1545-1563) in risposta a Lutero che riteneva la confessione deformata dalla Chiesa, in quanto essa la legava ad atti del penitente e del sacerdote e non alla "sola gratia", ribadì che la confessione era stata istituita da Gesù Cristo stesso e venne motivata con Gv 20,22: "Ricevete lo Spirito Santo; a coloro che rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi".
Precisa inoltre che per la completa e perfetta confessione sono necessarie "la confessione, la contrizione e la soddisfazione", considerate "quasi materia del sacramento della penitenza", mentre l'assoluzione del sacerdote viene concepita come un atto giudiziario che assolve dalle colpe, ma perché si possa assolvere ci vuole la confessione delle colpe commesse.
Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha promosso un'ampia revisione della struttura della penitenza, che ha dato origine all' "Ordo Paenitentiae" del 1973. Esso evidenzia il cammino della riconciliazione, scandito dall'accoglienza, ascolto della Parola, confessione, penitenza, assoluzione, rendimento di grazie e congedo.
Questa sequenza celebrativa prevede tre forme diverse: a) quella privata o auricolare, che si svolge tra confessore e penitente; b) quella assembleare, caratterizzata dall'ascolto della Parola, invocazione di perdono e ringraziamento; c) quella di assoluzione generale, in caso di mancanza di tempo e situazioni di particolare gravità, con obbligo successivo di ricevere individualmente l'assoluzione, appena se ne ha l'opportunità.
PROPOSTE DI ITINERARIO METODOLOGICO
Queste proposte puntano tutte allo studio di un itinerario metodologico incentrato sulla prassi finalizzata al passaggio da una situazione data a quella desiderata.
Tra i vari metodi proposti ne prendiamo in considerazione tre: a) metodo applicativo; b) metodo del "vedere, giudicare, agire"; c) metodo teologico, empirico-critico.
Metodo applicativo
La teologia pastorale o pratica è stata spesso ridotta ad una semplice prassi applicativa di dogmi, dottrine, leggi morali, canoniche o liturgiche. Se da un lato è indiscutibile che nell'ambito di una pastorale si debba tener conto di questi aspetti applicativi, da cui una corretta pastorale non può prescindere; dall'altro diventa alquanto riduttivo e umiliante per una teologia limitarsi ad una mera applicazione di decreti e dottrine.
Compito di una teologia è, innanzitutto, proporre una riflessione che porti ad una maturazione interiore e crei una struttura mentale, una sorta di "forma mentis" che aiuti a vivere ciò che si è riflettuto, compreso o scoperto. Suo compito, inoltre, è quello di sensibilizzare, provocando all'interno delle persone una crescita spirituale oltre che umana.
In questa prospettiva, siamo ben lungi da una semplice "applicazione" di norme, contro cui Gesù stesso si è scagliato durante il suo ministero (Mt 23,1-36).
Nonostante ciò è il più diffuso tra gli operatori pastorali e utilizzato anche dai documenti pastorali del Magistero.
Il suo procedimento metodologico è di tipo deduttivistico: si elabora una dottrina, delle norme o dei principi che si applicano, poi, all'azione. In questa prospettiva la teologia pastorale si riduce ad un sapere applicativo, che di certo non valorizza l'azione ecclesiale, quale espressione carismatica dello Spirito.
Il metodo "vedere, giudicare, agire"
Il metodo applicativo o deduttivo si può dire che viene impiegato nella Chiesa fino a Giovanni XXIII: attraverso l'elaborazione di principi teologici, filosofici, normativi e morali passa la lettura della società, che a questi principi, poi, viene ricondotta.
Con Giovanni XXIII e la sua Mater et Magistra (1961) c'è un radicale cambiamento di lettura della storia: non più dai principi alla storia, bensì da questa alla elaborazione dei principi. Non è un semplice cambio di prospettiva, ma uno spostamento di valori e, soprattutto, di interessi. Ciò sta ad indicare un nuovo orientamento della Chiesa che prelude ad una sua apertura alla storia e all'uomo, uscendo dalle barricate innalzate prima contro la Riforma e poi contro l'Illuminismo. Tale apertura sarà sancita, poi, dal Vaticano II (v. LG, GS e SRS).
E' un approccio alla realtà, quello operato da Giovanni XXIII, simile al metodo della JOC (Jeunesse Ouvrière Chretienne): "Vede, Giudicare, Agire". Esso ha costituito per molti anni il punto più avanzato della pastorale.
Questo metodo si articola in tre fasi: con il vedere si tratta di descrivere, analizzare e valutare, anche con l'aiuto delle scienze antropologiche, sociali, economiche, il contesto storico preso in esame. Giudicare: in questa fase ci sta il raffronto dei valori storicamente contestuati ed espressi dalle situazioni considerate con i valori proposti da Cristo e dalla sua Parola. E', quindi, un rimando critico alla Bibbia e alla tradizione cristiana. Agire diventa la logica conseguenza delle due fasi precedenti. Si tratta di dare concretezza storica ai valori e alle critiche emerse in precedenza. L'intento è quello di modificare la situazione rilevata per conformarla ai valori della Parola e cristiani in genere.
Il metodo teologico, empirico critico
Tale metodo è proprio delle scienze della prassi e dell'azione. Esso comporta il riferimento ad altre discipline teologiche e scienze umane.
Il metodo in analisi è scandito da tre fasi: Kairologica o analisi valutativa della situazione che, in qualche modo, corrisponde alla fase "vedere" del metodo precedente. Si tratta di analizzare e descrivere , interpretare e valutare una determinata situazione con l'aiuto delle scienze umane e della fede, al fine di cogliere le indicazioni che lo Spirito ci offre proprio attraverso il linguaggio della storia. Proprio per questa azione dello Spirito nella storia, questa fase viene chiamata Kairologica.
La fase Progettuale corrisponde ad un primo momento dell' "agire" di quella precedente. A partire dal disagio della chiesa o dei singoli, si tratta di individuare gli obiettivi da raggiungere in tempi lunghi per far transitare la situazione da uno stato insoddisfacente ad uno di conformità ai valori evangelici. Ci si avvale in questa fase di criteri razionali, teologici e/o di fede.
La fase Strategica corrisponde ad un secondo momento dell' "agire"; ed è il momento in cui la fase progettuale acquista concretezza nel dettaglio di un piano operativo, in cui si stabiliscono tempi, dinamiche, impiego di persone, mezzi, ecc., accompagnati da verifiche periodiche e finali. Il tutto è finalizzato al consentire il passaggio da una certa situazione data ad una diversa desiderata. Essa viene attuata attraverso la "programmazione pastorale", comprendente piani anche pluriennali.
E' questo un metodo piuttosto complesso e fortemente articolato, qualificato come empirico, in quanto si riferisce alla situazione concreta e muove i suoi passi e la sua analisi dall'esperienza e dalla prassi storicamente contestuate. E' l'aspetto fenomenologico. E' qualificato, inoltre, come "critico" in quanto sviluppa una riflessione critica sul rilevato dall'esperienza. Vaglia, inoltre, criticamente le informazioni che provengono da altre discipline sia teologiche che antropologiche. Si presenta, infine, anche come "teologico" poiché ha come parametro di riferimento e di valutazione i valori che provengono dal mondo del Vangelo e dello Spirito e attraverso a questi rilegge e critica la realtà data. Su questi valori, poi, imbastisce una strategia di intervento.
LA PASTORALE COME ECCLESIOLOGIA IN ATTO
La metodologia sopra accennata presuppone all'interno della Chiesa una molteplicità di azioni e di intenti, che si esplicano e si articolano tra di loro in modo dinamico e che formano un po' la mappa della stessa pastorale, colta nel suo attuarsi. Vediamola da vicino.
Pastorale come servizio alla fede
L'attuarsi della Chiesa qui nella storia si qualifica primariamente come un servizio alla fede, che dice soprattutto servizio all'uomo. La fede, infatti, apre l'uomo ad un mondo valoriale che punta all'affermazione dell'uomo stesso, gli svela il senso del suo esserci e del suo esistere. Svela, in ultima analisi, il mistero dell'uomo all'uomo stesso. Nella fede l'uomo si ricomprende sempre più come tale, riqualifica le sue relazioni con la creazione e con gli altri e ne coglie il senso. Spinge, inoltre, l'uomo a seguire Cristo, uomo perfetto, aprendolo ad un processo di umanizzazione che, nel soddisfare le esigenze di Dio, realizza l'uomo ad ogni livello. Egli, in tal modo, diventa sempre più tale, migliorando il suo processo di identificazione di se stesso.
I livelli dell'esprimersi della Chiesa
In quanto essere dinamico con personalità propria, la Chiesa si esprime a diversi livelli. In particolare si muove sul "piano delle azioni" che dicono tutto il dinamismo della Chiesa finalizzato al raggiungimento di determinati obiettivi che le sono propri. Ma l'azione in sé e per sé non ha senso se oltre ad un obiettivo non è sostanziata dal compito. Il "piano dei compiti", pertanto, costituisce il "quid" stesso dell'azione, così che l'azione diventa ad essere l'esplicitarsi storico di questi compiti, che dicono la missione stessa della Chiesa. Con il "piano delle relazioni", compiti e azioni tra loro intrecciati, danno origine, danno corpo al soggetto che si vuole plasmare e che è contenuto nel progetto.
Gli obiettivi della pastorale
Gli obiettivi della pastorale esprimono anche il senso della missione stessa della Chiesa, che potremmo così brevemente sintetizzare:
a) Introdurre alla fede: la fede se da un lato è un dono che viene direttamente da Dio e mediatamente dalla Chiesa, comporta da parte del soggetto interpellato un'accoglienza, che si qualifica come libera, anche se si pone davanti a lui come un imperativo che pretende una risposta, che si fa scelta di tipo esistenziale (Mc 1,15).
b) Accompagnare la fede verso la maturità: una volta data la propria risposta esistenziale all'indicativo di salvezza, si tratta di alimentare e sostenere questa scelta iniziale perché non solo non abbia a venir meno, ma soprattutto perché si affermi sempre più in un cammino costante.
c) Mantenere la fede tra l'impegno storico e il compiuto escatologico: la sproporzione che si rileva tra la relatività e la finitezza della storia e il realizzato escatologico, spinge la Chiesa e con essa ogni credente ad un impegno storico altamente critico, in quanto sempre difforme dalla pienezza escatologica. Il loro compito è quello di riempire, per quanto possibile, questo divario tra il "già" e il "non ancora", che creano nell'ambito della storia una forte tensione verso il compiuto.
I fattori genetici dell'azione ecclesiale
L'elemento sorgivo della Chiesa e della fede stessa è la Parola, che è Parola incarnata. In quanto tale essa si esprime concretamente attraverso i sacramenti, che si qualificano, da un lato, come azioni proprie della Chiesa che dicono la sua natura; dall'altro sono una specificazione dell'azione stessa di Dio nella storia, che proprio per questo suo intrecciarsi con l'umano, diventa storia della salvezza.
La Parola, inoltre, divenuta sacramento, trova un'ulteriore modalità di incarnazione proprio nella diaconia. In essa la Parola diventa servizio all'uomo, perché nella Parola incarnata l'uomo ritrovi se stesso, sviluppando con Lei un dialogo salvifico, che lo ricolloca nella stessa dimensione divina.
La pastorale come servizio alla Parola
Vediamo, ora, come le varie fasi sopra esposte si attuano proprio nell'ambito di una pastorale colta come servizio alla Parola.
Le azioni della Parola
Queste si manifestano, globalmente, nella testimonianza portata a livello esistenziale; una testimonianza che con il suo porsi ad ogni livello interpella, scuote, interroga e spinge a riflette e prendere posizione quanti incontra sul suo cammino. Siamo, qui, nel caso della Parola che è stata esistenzializzata nel testimone.
Ma la Parola si fa anche "annuncio esplicito" nel "kerigma" che nel suo annunciare, proclamare e raccontare l'evento di salvezza, interpella direttamente l'ascoltatore, spingendolo ad una presa di posizione (Mc 1,15). Si compie, inoltre, sia nella "catechesi di iniziazione", in cui risuona, in una continua riflessione di approfondimento, il significato dell'Evento salvifico, proclamato dentro all'esistenza; sia nella "catechesi mistagogica" che lascia trasparire il farsi dell'Evento attraverso i segni celebrativi, liturgici. Omelia, esortazione e teologia sono strumenti al servizio della Parola perché la fede possa alimentarsi e crescere. L' "omelia" (dal gr. omilia, cioè conversazione, intrattenimento) ha il compito, all'interno di un'assemblea o di un gruppo di persone tra loro legate dall'unica fede già affermata in loro, di spezzare il pane della Parola, perché la Parola annunciata illumini il mistero che si celebra. L' "esortazione" scaturisce dalla catechesi permanente e spinge a vivere quelle realtà significate dalla Parola e che lo Spirito, di volta in volta, ci fa intuire e ci rivela. La "teologia", infine, si presenta come un servizio di approfondimento della Parola stessa, colta nel suo dinamico dispiegarsi storico e contenutistico. Essa consente una profonda comprensione della Parola stessa, favorendone una incarnazione, che configura esistenzialmente la persona. Offre una visione di vita, svelandone il senso profondo, nonché le ragioni della fede.
La Parola, annunciata e approfondita con la spiegazione, abbisogna di essere accolta e fatta risuonare nel silenzio interiore per essere assimilata e metabolizzala nella propria vita. Tale silenzio apofatico o critico consente alla Parola di giudicare la realtà dell'oggi ponendola in raffronto con quella del domani o escatologica. In tal modo la Parola mette in evidenza tutta l'insufficienza dell'oggi rispetto al suo compimento escatologico, creando una forte tensione dell'oggi verso il suo compimento finale o escatologico.
L'inserimento nella tradizione della Parola
Introdurre alla fede non significa soltanto spingere la persona ad una decisione esistenziale verso Dio, ma anche mantenersi fedele ad una Tradizione nel cui ambito si è sviluppato, nel corso dei secoli, un'ampia riflessione sulla Parola stessa. La Tradizione, pertanto, quale ricchezza ereditata dal passato, si pone come specifico servizio alla Parola e, quindi, alla fede, che dalla Parola nasce. In tal modo la Tradizione diventa "tradizione della Parola", cioè storia di una Parola incarnata lungo il corso dei secoli.
Una fede, dinamicamente contestuatasi nella storia, facendosi in tal modo Tradizione, abbisogna sempre di un'adeguata "interpretazione", perché sciolta dal contingente storico, possa rivelare tutto lo splendore della sua verità, colta nel corso del tempo. La fede, quindi, liberata dalla sua contestualizzazione storica e culturale per mezzo dell'ermeneutica, diventa disponibile per una sua nuova ricontestualizzazione nel nostro oggi, arricchendosi di nuove sfaccettature e di nuovi significati, arricchendo, di conseguenza la Tradizione della Parola.
Questo bisogno di continua interpretazione della Tradizione per una sua riformulazione e ricontestualizzazione dice tutta la fragilità della formulazione della fede nel tempo. Le sempre nuove formulazioni e continue riformulazioni della fede, pongono in evidenza l'inadeguatezza dell'esprimersi della fede nella storia, poiché la storia, a motivo del suo divenire, relativizza tutto, anche la fede, spingendoci sempre a nuove comprensioni e contestualizzazioni. Infatti la fede ci apre, qui nella storia, a realtà escatologiche, che per loro natura sono perfettamente compiute, mettendo in tensione la storia con la metastoria, il finito con il compiuto escatologico. Ma è proprio la Tradizione, quale dinamico "depositum fidei", arricchita sempre più nel corso dei secoli, che realizza, un po' alla volta l'escatologia nella storia. La Tradizione, quindi, è un "crescere" dell'escatologia nella storia. In altre parole, è proprio questo continuo e progressivo arricchimento della Tradizione che dice il progressivo attuarsi dell'escatologia qui nella storia, finché la storia non coinciderà pienamente con l'escatologia. Allora il tempo lascerà posto all'eternità.
Le relazioni che si instaurano in riferimento alla Parola
La Chiesa si pone qui nella storia come una "ekklesia", cioè come una comunità di persone, poste in comunione tra loro dall'unica fede. Quando io esprimo la mia fede, io non dico qualcosa di mio personale, ma testimonio la fede di una comunità in cui sono incorporato. E' sempre, quindi, un "Io" dentro un "Noi". L'origine di questa fede è la Parola, sui cui si fonda l'intera comunità credente e, quasi trama avvolgente, crea una perfetta comunione che si esprime nella fede e si attua nell'amore. Una fede e una Parola che sono incarnate all'interno della comunità e si lasciano vivere e interpretare in forme sempre nuove e rinnovanti, che continuamente rigenerano la comunità e ogni suo singolo componente in Cristo. In tal modo la Parola si fa comunicazione e si traduce in relazione di accoglienza e di amore. E in questo gioco la Parola cresce con la comunità, alimentando la fede comune. Tutti, pertanto, parlano lo stesso linguaggio, tutti sono "un cuor solo e un'anima sola", poiché nell'unica fede e nell'unica Parola "non vi è più né giudeo, né greco; né schiavo, né libero; né uomo, né donna, poiché tutti noi siamo uno in Cristo" (Gal 3,28).
Una comunità così delineata dalla fede e configurata alla Parola è costantemente una comunità posta sotto "silenzio", cioè posta in uno stato permanente di "ascolto", che dice come questa comunità non ha ancora pienamente realizzato la sua comunione, che deve essere continuamente perfezionata dall'ascolto, che apre a nuovi e sempre più avanzati orizzonti, posti al di là della contingenza storica e del suo divenire.
VERSO L'AZIONE ECCLESIALE
Criteriologia pastorale
Ogni forma pastorale, che si decide di attuare, è finalizzata, per sua natura, a rendere accessibile la Parola di Dio nei suoi significati; i sacramenti, quali attualizzazione dell'azione salvifica di Dio nella storia; la carità, quale espressione e attualizzazione dell'amore di Dio che qui nella storia raggiunge gli uomini di ogni epoca e latitudine.
La pastorale, quindi, parla di un'azione storicamente e culturalmente contestuata e abbisogna, per questo, di un suo continuo aggiornamento. Esso avviene attraverso criteri vari. Qui ne prendiamo in considerazione tre.
Il criterio antropologico
Non si può attuare una corretta evangelizzazione senza che questa non promuova l'uomo in ogni sua dimensione. L'affermazione dell'uomo, così come lo si incontra nel suo contesto storico, dunque, è la strada maestra che ogni pastorale deve percorrere. Perché l'uomo è l'obiettivo di ogni pastorale? Perché ogni uomo è un uomo redento. Per questo ogni uomo, indistintamente dal suo porsi storico, è l'oggetto primario di ogni pastorale.
Per attuare questo criterio bisogna riferirsi ad un triplice livello: "fenomenologico", che richiede attenzione ai fatti, colti nel loro svolgersi storico e in cui le persone si esprimono; "culturale", quale espressione dei valori in cui le persone si riconoscono e per mezzo dei quali si esprimono; "teologico", che aiuta a leggere nei "segni dei tempi", nel divenire della storia l'agire di Dio, cercando di cogliere quegli elementi che lo possono rallentare o bloccare.
L'uomo di cui qui si parla non è l'uomo dei filosofi o delle varie teorie antropologiche, ma quello colto in tutta la sua concretezza storica ed espressiva: la sua età, le sue relazioni sociali, l'ambiente di vita.
Il criterio cristologico-pneumatico
Proprio perché "Dio ha tanto amato l'uomo da dare suo Figlio" (Gv 3,16), Cristo diventa il dono del Padre rivolto all'uomo. In tal senso Egli è la via che il Padre ha scelto per raggiungere l'uomo e proporgli concretamente di rientrare nella vita divina da cui è uscito.
La figura di Cristo, pertanto, quale azione storica del Padre per l'uomo, spinge la pastorale verso la gratuità, quale modalità propria del suo agire; verso il dialogo, da cui deve trasparire la proposta del Padre; verso la cura dei segni, quale attenzione di un Dio che continuamente parla; verso l'apprezzamento della storia, quale luogo sacramentale di incontro tra Dio e gli uomini. L'attenzione alla storia porta naturalmente all'attenzione dell'azione dello Spirito nella vita di ogni singola persona. Il cammino di fede, infatti, non è da noi controllato, poiché ogni cammino è creazione dello Spirito. In tal modo il criterio cristologico sfocia in quello pneumatologico, così che tale criterio dice tutto il dispiegarsi dell'azione salvifica del Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.
Il criterio ecclesiologico-escatologico
La Chiesa nel mondo si pone quale prolungamento della missione di Cristo e, per questo, è segno e strumento dell'agire di Dio nella storia. Per questo la Chiesa deve agire in modo da lasciar trasparire da lei l'azione di Dio e indicarne il percorso. L'azione della Chiesa, che si esplicita nell'azione pastorale, diventa spazio d'incontro tra Dio e gli uomini. In questo spazio la Chiesa deve tener presente che i due interlocutori sono su posizioni uguali e, pertanto, deve creare le condizioni idonee perché la gratuità di Dio si incontri con la libertà dell'uomo. Ciò comporta spesso dei cammini lunghi e laboriosi, tenendo ben presente che i tempi e le logiche di Dio sono ben diversi dalle nostre.
Proprio perché la Chiesa è il prolungamento della missione di Dio nella storia e strumento del suo agire storico, rimbalza subito evidente come tale azione deve essere estesa "fino ai confini del mondo", perché tale azione sia evidente a tutti e a tutti immediatamente accessibile. Per questo la sua natura prima è essenzialmente missionaria.
Proprio perché "Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio", la Chiesa nel suo agire storico deve essere rispettosa delle culture proprie degli uomini che incontra sul suo cammino, nella coscienza che già in quegli uomini l'azione della Chiesa è già stata preceduta da Dio per mezzo del suo Spirito. La Chiesa, pertanto, pur portatrice della Verità tutta intera, deve saper leggere nelle varie espressioni culturali e religiose l'azione di Dio, nella coscienza che essa non ha il monopolio della Verità, né l'esclusiva di Dio, il cui agire è ben più ampio dell'agire della Chiesa.
La progettualità pastorale
Prima di introdurci sul tema della progettualità pastorale ci soffermiamo un po' per chiarire alcuni termini e più precisamente che cosa si intende per "orientamenti", "Progetto", "Programmazione".
Orientamenti: definiscono alcune linee di fondo a vasto raggio su cui si muoverà l'azione pastorale. Sono un po' dei punti di riferimento proposti per un arco di intervento pastorale piuttosto esteso nel tempo.
Progetto: ha un carattere più operativo, ma si muove ancora su linee generali. E' una sorta di specificazione degli orientamenti, dà loro un aspetto più concreto, benché non ci sia ancora una dettagliata e particolareggiata concretizzazione, compito questo della programmazione.
Programmazione: la si potrebbe definire come la concreta attuazione del progetto. Essa, infatti, determina i tempi, individua le persone che opereranno, definisce il materiale occorrente. Dà, in buona sostanza, attuazione ed esecuzione al progetto. Ha un carattere di forte concretezza, anche se non di rigidità. In tale ambito vanno previste delle verifiche sia intermedie che finali.
La progettualità, istanza teologica
Ogni azione pastorale mira a trasformare una situazione in un'altra, che risponde ad alcuni parametri di riferimento predefiniti e che formano gli obiettivi dell'azione stessa. Per raggiungere tali obiettivi la nostra azione abbisogna di una certa coerenza, che le viene data sia dalle finalità o intenzioni che ci si è dati, sia dalle modalità operative che danno concretezza alle finalità in vista del raggiungimento degli obiettivi.
Ma perché progettare? Direi per tre buone ragioni: a) innanzitutto, il progettare spinge a prendere in seria considerazione il contesto storico-culturale in cui ci muoviamo e su cui incentrare la nostra azione, evitando, in tal modo, di disperdere le energie; b) poi, perché l'operare della Chiesa non dice soltanto la capacità organizzativa della Chiesa stessa, ma ne esprime soprattutto il volto intimo. In altre parole, l'operare pastorale è una testimonianza di fede che si fa annuncio e sua attuazione; c) di conseguenza, l'operare dice il rapporto che intercorre tra azione e fede.
Ma che cos'è che spinge la Chiesa all'azione pastorale? E', a mio avviso, la coscienza che essa ha della propria missione e, in particolar modo, da chi le deriva e da chi le è stata assegnata questa missione. Giovanni nel suo vangelo ce lo ricorda: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv ). Una missione che, partita dal cuore del Padre, investe Cristo e si travasa su di noi. La Chiesa, pertanto, investita da tale missione, ha la coscienza di essere il prolungamento di Cristo nella storia e che la sua azione è la stessa azione di Cristo. L'azione pastorale nella Chiesa dice proprio questo.
In tal senso, l'episcopato italiano, forte di tale coscienza, ha formulato degli orientamenti pastorali con cadenza decennale: a) Evangelizzazione e sacramenti (anni '70) Coscienti che dall'annuncio nasce l'ascolto e che da questo nasce la fede, si rende necessario ripartire dall'annuncio, poiché da sola la pratica cristiana non può sostenere una vita realmente e profondamente cristiana; b) Comunione e comunità (anni '80) Soggetto a cui è destinata l'evangelizzazione è la comunità credente. Soltanto il credente, infatti, alimentato dalla Parola e dalla fede è in grado di sviluppare delle vere convinzioni di fede e sviluppare relazioni qualificate all'interno della comunità; c) Evangelizzazione e testimonianza della carità (anni '90) Nasce dall'esigenza di riscoprire il senso del nostro credere che, alimentato dall'annuncio trova la sua attuazione nella carità, che rende credibile l'annuncio accolto; d) Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (anni 2000) Esprime l'esigenza di incarnare il Vangelo in una società piena di contraddizioni e in rapido mutamento, poiché essa rimane sempre il luogo di incontro tra Dio e gli uomini, in cui la Chiesa si fa mediatrice.
Elementi per un progetto pastorale
Prima di attuare un progetto è necessario evidenziare alcuni elementi fondamentali che andranno a sostanziare il progetto stesso. E' indispensabile, innanzitutto: a) verificare le condizioni della fede oggi. Cioè a quali livelli essa si pone all'interno della società e se risponde ancora alle sue nuove esigenze; b) stabilire una mappa di priorità e c) individuare i soggetti ecclesiali dell'azione pastorale.
Le condizioni della fede oggi
E' necessario, prima di qualsiasi azione pastorale, fotografare lo status quo della fede. Tale fotografia formerà il punto di partenza per un'evoluzione verso nuovi orizzonti. Indagini sociologiche specifiche hanno rilevato che a) la fede è esposta a diverse fonti di valori provenienti da diverse parti ed è sovente posta in concorrenza con esse. Una fede che è chiamata a valutare e ha scegliere e deve trovare in se le ragioni alternative alle altre proposte; b) inoltre, in una società abituata a vivere nel contingente e a ragionare in termini di immediatezza e di tornaconto rapido, la proposta della fede che apre a dimensioni di trascendenza, di assoluto e di indiscutibile è, quanto meno, vista con sospetto, se non ripudiata; c) infine, in una società del benessere e del consumismo, che tende a valutare solo in termini di "star bene", la fede rischia di essere colta come una sorta di panacea ai problemi esistenziali, una sorta di strumento che deve migliorare la qualità del vivere.
A fronte d tali rischi la fede deve sapersi inculturare, cioè porsi all'interno delle realtà, colte nel loro contesto storico e culturale, cercando di spiegarne il senso e di darne una diversa lettura, alla luce dei valori evangelici. La fede deve diventare, quindi, interprete del contesto storico-culturale in cui si inserisce e diventare risposta alle esigenze della società.
Una mappa di priorità
Al fine di elaborare una mappa di priorità, possiamo prendere in esame gli orientamenti CEI e più precisamente: "primato della evangelizzazione", "primato della comunione", "primato della carità" e "primato della speranza".
Il "primato dell'evangelizzazione" comporta, innanzitutto, l'essere attenti all'impatto della fede nella persona; curarsi che la fede venga assimilata nel proprio vivere quotidiano e diventi atteggiamento mentale. Una fede, dunque, capace di far crescere la persona nei suoi rapporti con se stessa e con gli altri, favorendo una crescita armonica dell'intera personalità.
Il "primato della comunione" deve portare a comprendere come tale comunione scaturisce da Cristo stesso. Esso, infatti, è il principio fondatore e unificatore della comunità, poiché in lui non c'é più "né giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo né donna" (Gal 3,28). Tutti noi ci cibiamo dell'unico Cristo e, pertanto, in lui troviamo la nostra fonte di unità e comunione.
Il "primato della carità" dice come all'interno della storia umana si è inserita quella divina che offre gratuitamente all'uomo l'accesso al mondo divino. Ed è proprio in tale orizzonte di gratuità che l'uomo è chiamato ad esprimersi storicamente. Gratuità che dice disponibilità all'altro, che si fa accoglienza dell'altro in sé, diventando noi dono divino per l'altro.
Il "primato della speranza" dice come la riuscita della storia non è frutto degli sforzi umani, ma dalla fedeltà di Dio, indipendente dalla giustizia umana. Anzi, tale fedeltà è comunque presente nonostante la fragilità umana. Dio, comunque, porta a compimento questa storia nonostante le infedeltà dell'uomo.
Individuazione dei soggetti ecclesiali
I soggetti ecclesiali in grado di intervenire sulla situazione sociale e personale, modificandola sono: la parrocchia, primo ambito territoriale di missione, in cui avviene il primo annuncio e tutta l'assistenza spirituale e umana successiva. La famiglia che quale chiesa domestica e depositaria dei valori umani e di fede, è chiamata, in primis, a trasmettere il primo annuncio, facendolo trasudare nell'ambito dell'educazione. Infine, i "gruppi, le associazioni, i movimenti e le differenti ministerialità", quali spazi accoglienti in cui vengono proposti e vissuti i valori evangelici e consentono un'adeguata formazione morale, umana e spirituale.
LA TEOLOGIA PASTORALE: IDENTITA' E COMPITI (Sunto e riflessioni sull'articolo di Sergio Lanza)
La teologia pastorale nel dibattito contemporaneo
Con l' avvento del Concilio Vaticano II si innesca un profondo rinnovamento teologico e liturgico che coinvolge e stimola l'intero vissuto ecclesiale, che si colloca in una società in profondo e radicale cambiamento. Essa si rivelerà, con l'avvento del "boom economico", una società fondata sul benessere e su di un galoppante materialismo, che spinge il credente sempre più lontano dai tradizionali parametri religiosi in cui era solito muoversi.
E' questo il momento in cui il tradizionale credente si scoprirà sempre meno tale e la sua fede, prima sostenuta da una società a struttura sostanzialmente religiosa, sarà sempre più evanescente e surclassata da una inesorabile avanzata del benessere materialistico e consumistico.
Primo segnale della decadenza religiosa è l'allontanamento dalla pratica religiosa, mentre la pratica religiosa diventa sempre più pratica e sempre meno sostanziata e supportata dal messaggio cristiano.
La scoperta dell'ignoranza dei contenuti della propria fede costituisce un elemento caratterizzante il periodo postconciliare. Si incomincia, infatti, a parlare di "rievangelizzazione" o di "nuova evangelizzazione", soprattutto in un'epoca segnata da una forte immigrazione di popoli, provenienti dai vari continenti, che portano con sé le loro religioni e la propria cultura. Tutto ciò spinge i cristiani a confrontarsi con questa nuova realtà, fino ad oggi sconosciuta; un confronto che trova i cristiani sostanzialmente impreparati, perché ormai non più credenti e, comunque, non più supportati da un adeguato sapere teologico e dottrinale e, quindi, privi di una sufficiente capacità critica.
Da qui, una forte tendenza a relativizzare il cristianesimo ponendolo come una religione tra le altre, cercando di rintuzzare tutte le sue pretese di primarietà.
E' proprio in tale contesto che si pone l'urgenza di ridefinire e rilanciare la Teologia Pastorale, finalizzata a sostanziare e sostenere l'azione pastorale, ridonandole vigore ed efficacia. Finora, infatti, la pastorale era sentita soltanto come un'azione di mantenimento del cristianesimo sul territorio e una amministrazione di sacramenti.
L'emergere del problema in orizzonte ecumenico
Le teologie pastorali, cattolica e luterana, fino al Concilio Vaticano II, procedevano separate, semplicemente ignorandosi. Ma il grave secolarismo montante e il nuovo clima ecumenico venutosi a creare con il Vaticano II, spingono le parti a superare le divergenze con fecondi scambi e incontri interconfessionali.
Il Krause evidenzia quattro obiettivi principali da raggiungere nella Teologia Pastorale: a) necessità di dare uno spazio proprio alla Teologia Pastorale nell'ambito delle scienze teologiche; b) la necessità di riconiugare gli aspetti scientifico-pratici nella teologia; c) necessità di collegare la TP alle scienze sociologiche; d) tutto ciò in vista di un recupero di cristiani in fuga dalla prassi religiosa.
Necessità, quindi, di ricollocare al centro dell'attenzione la TP, evitandole il posto di cenerentola. La situazione oggi, infatti, non lo consente più.
La teologia, infatti, non può più rimanere nella sua torre d'avorio a speculare ciò che avviene nell'alto dei cieli, ma essa si giustifica soltanto se finalizzata alla crescita spirituale e, quindi, alla salvezza delle genti.
Il punto di partenza, pertanto, è l'evento chiesa; l'obiettivo, la sua realizzazione. In tale contesto si pone il rapporto tra l'agire di Dio e quello degli uomini, da cui sgorga il farsi della storia della salvezza. La TP dice, appunto, questo farsi della salvezza nella quotidianità storica degli uomini.
La praticità della TP è inscritta nella stessa Parola di Dio, che si incarna nella storia, assumendo aspetti e dimensioni storici, utilizzando un linguaggio squisitamente storico e incontrando gli uomini nel loro habitat naturale e nella loro quotidianità.
La svolta empirica
A favorire il passaggio da una teologia meramente speculativa ad una empirica è la constatazione di una progressiva emarginalizzazione della religiosità e della chiesa dalla società, mostrandosi del tutto inutile, perché inascoltato, il richiamo morale o alla buona volontà.
Altro elemento che favorisce la svolta teologica verso l'empirico è l'affermarsi delle scienze umane quali la psicologia, la pedagogia e la sociologia, applicabili all'azione pastorale. Esse aiutano, nella metodologia applicativa, l'incarnarsi della teologia nel'uomo. L'annuncio della Parola, infatti, da un punto di vista umano, in nulla differisce da qualsiasi altro insegnamento. In tutto ciò, tuttavia, va salvaguardata la libera e imperscrutabile azione di Dio sull'uomo. La fede, infatti, non è la conclusione di un bel ragionamento, né, tantomeno, il frutto di un'azione psicologica o pedagogica.
Gli strumenti umani possono favorire, ma mai fondare la fede.
La TP nel suo comunicarsi e nel suo farsi sociale certo troverà un adeguato ed efficace aiuto nelle tecniche comunicative, nelle conoscenze delle dinamiche psicologiche e sociali del vivere umano, ma attenzione che non si affermi un primato della scienza e della tecnica psico-sociologica e pedagogica, poiché, in ambito di fede e di salvezza, ciò è decisamente inaccettabile.
Le scienze umane possono sicuramente favorire il rapporto madre-figlio, ma non potranno mai sostituire e tantomeno creare il rapporto di amore, che rimane primario e insostituibile.
La Teologia pastorale come teoria funzionaledella prassi ecclesiale
Il K.W. Dahm concepisce la religione come una istituzione organizzata per l'affermazione e la trasmissione dei valori fondamentali per la società. In quanto istituzione, la religione è colta, da un lato, nel suo relazionarsi sociale; dall'altro, nel suo impegno sociale.
In questo ambito essa ha due compiti fondamentali: a) formulare, esporre e trasmettere fondamentali sistemi di valore e di significato del vivere umano; b) essere fattivamente presente nelle situazioni di crisi e di difficoltà.
In tale cornice la TP ha il compito di intervenire fornendo il supporto teoretico e pratico, finalizzato alla realizzazione dei compiti propri della religione-istituzione.
Un sistema così concepito nega, di fatto, il valore della fede nell'agire ecclesiale, riducendo il sistema religione ad una industria di elaborazione di valori finalizzati a supportare e animare socialmente l'uomo; mentre la TP diventa ad essere uno strumento di coordinazione e attuazione del sistema.
Il quadro, da un punto di vista di fede, a mio avviso è abbastanza desolante, poiché si rischia, in concreto, di umanizzare la religione, applicandole soluzioni tecnicistiche e funzionalistiche e togliendole l'aspetto misterico e di fede che, invece, sono essenziali e costitutivi di ogni religione.
Non si può gestire la chiesa, la religione e la vita di fede come se fossero un'industria o suoi apparati tecnico-scientifici.
In contrapposizione ad una visione tecnico-scientifica della religione, nel cui ambito si muove la TP, lo Schleiermacher, padre della TP, vede, piuttosto, un cristianesimo quale anima della società e sua parte integrante, garante della società stessa e in funzione della sua emancipazione umana.
In un cristianesimo così concepito, la TP è colta come una "teoria critica di una prassi religiosa" che si pone nella società e intende animarla. Ha, quindi, funzioni meramente riflessive, speculative e orientative.
La TP come teoria dell'agire comunicativo
In questa prospettiva la TP viene colta come scienza teologica dell'azione, la cui finalità è quello di creare all'interno della società una comunione cristiana, finalizzata ad una testimonianza concreta della speranza cristiana in seno alla società e alla vita. In questo quadro non c'è spazio per teorie tecnico-scientifiche, che rischiano di ridurre la testimonianza in azione applicativa di determinati parametri preconfezionati e scientificamente testati.
Per attuare questa visione di cristianesimo il Mette propone una TP così caratterizzata: a) approccio induttivo della realtà; b) valorizzazione dei metodi empirici; c) utilizzo di strumenti interdisciplinari per orientare l'agire della TP.
Questo quadro fa vedere come la TP si configura come una disciplina incentrata sull'agire cristiano ed ecclesiale, ma non va ridotta all'organizzazione ecclesiastico-istituzionale. Essa va, dunque, liberata dallo schema del clericalismo e dalla istituzionalità.
Una tale TP non va colta come un sapere accademico da applicare alla realtà, ma come una comunicazione della realtà stessa, colta nel suo vissuto. Diventa, pertanto, un sapere dinamico e fortemente inserito nella quotidianità.
Dall'insieme di questo breve carrellata di diverse visioni della TP, si può ricavare come il sapere della TP non può essere separato dal concreto vivere quotidiano e dagli interessi specifici della comunità cristiana, chiamata a dare concrete risposte in seno alla società.
In tal senso la TP potrebbe essere definita come la "Teologia della crisi", poiché il suo sorgere è strettamente legato alla crisi di fede che sta investendo l'intero cristianesimo nella nostra epoca. Essa è chiamata al non facile compito di dare una concreta risposta alle difficoltà in cui oggi le comunità cristiane si stanno muovendo.
La risposta, al di là di ogni tecnologismo e apparato scientifico, deve essere essenzialmente una risposta di fede, basata sulla Parola. Questo elemento fondamentale, a mio avviso, non va mai dimenticato. Paolo ce lo ricorda nella sua prima lettera ai Corinti: "Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere" (1Cor 3,6), come dire che nessuna tecnologia, nessuna scienza, nessuna azione umana, per quanto perfetta, può sostituire l'indispensabile e unica azione divina.
Attenzione, dunque, a non tecnologicizzare la fede: essa è riservata soltanto all'azione di Dio e non è frutto della bravura umana. Serve l'impegno dell'uomo, ma questo non deve essere tale da avanzare pretese di poter sostituire Dio. La fede che ne verrebbe fuori sarebbe di stampo squisitamente umano e sotto controllo umano, cioè non sarebbe più fede. L'emergere della problematica teologico-pastorale
L'ingresso della TP negli studi universitari è dovuto all'imperatrice Maria Tersa d'Austria, sovrana illuminata dell'Ancien Régime, il cui intento era quello di formare dei pastori, quali autentici funzionari di stato, che si occupassero, quindi, non soltanto di anime, ma anche degli aspetti civili della vita.
Ciò che è richiesto al pastore d'anime in questa epoca è che il pastore si impegni a educare non solo dei buoni cristiani, ma anche buoni cittadini per lo stato, e veri uomini, amici per la comunità umana.
Ma la TP, al di là degli interventi di Maria Teresa, trae anche la propria origine e il proprio consolidarsi come disciplina teologica al progressivo e rapido trasformarsi della società e di contesti socio-culturali in cui le comunità cristiane sono chiamate ad operare. Sono, dunque, sopratutto queste condizioni concrete ad aver creato l'esigenza di una scienza che sapesse dare concrete risposte ai problemi e alle sfide della quotidianità della storia. La pastoralità di tutta la teologia
Questa affermazione evidenzia come in realtà tutta la teologia ha una sua dimensione pastorale. Una teologia puramente speculativa e che esaurisca il suo compito all'interno di una mera speculazione, è una teologia che ha tradito la sua funzione primaria: quella di rendere raggiungibile al credente il mondo di Dio.
Tutta la teologia, pertanto, ha una sua specificità pastorale. Essa viene evidenziata anche dal Vaticano II nel suo documento "Optatam totius", al paragrafo 16, in cui afferma: "Nell'insegnamento della teologia dogmatica ... si insegni loro a riconoscerli (ndr i misteri della salvezza) presenti e operanti sempre nelle azioni liturgiche e in tutta la chiesa; ed essi imparino a cercare la soluzione dei problemi umani alla luce della rivelazione, ad applicare le verità eterne alla mutevole condizione di questo mondo e comunicarlo in modo appropriato agli uomini contemporanei".
Questa nuova impostazione della teologia sottrae la teologia stessa dal tranquillo mare della speculazione per immetterlo nel turbinoso torrente della storia. In altri termini, Dio non va soltanto contemplato, ma donato agli uomini e continuamente incarnato nell'oggi della storia.
Dio, infatti, per operare la salvezza degli uomini non ha mandato qualche suo angelo, mentre Lui rimaneva beato nei cieli, ma "... pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo" (Fil 2,6-7). In altri termini, Dio non ha temuto di sporcarsi le mani con l'uomo, ma operò in prima persona, divenendo il primo pastore della storia della salvezza, in cui ha sviluppato una pedagogia e una pastorale tutte divine.
Pertanto, nell'ambito della storia della salvezza Dio più che un'idea da speculare è un dono che si è fatto storia e che qui nella storia ha assunto il volto di Cristo. Infatti, "Dio ha tanto amato il mondo da donare suo Figlio ..." (Gv 3,16). Cristo è divenuto, pertanto, lo spazio storico in cui il Padre convoca gli uomini perché possano essere ricondotti a Lui e possano nuovamente condividere la sua vita. E', quindi, nell'ambito della concretezza della storia che si compie l'azione divina, che si rivolge agli uomini e li interpella nella loro quotidianità.
Da qui, il fatto che la fede non è un'intima contemplazione del divino, ma una risposta esistenziale al Dio, che dice apertura esistenziale a Lui.
In questa prospettiva, la TP o pratica trova il suo ruolo primario nella comprensione dell'azione divina nella storia e nella vita di ogni uomo, fungendo, poi, da stimolo per una giusta e corretta risposta di vita a Dio da parte dell'uomo. Il suo compito, dunque, è quello di rendere facilmente coglibile e raggiungibile Dio qui nella storia, aiutando l'uomo a fare proprie le esigenze di Dio, incarnandole nella propria vita e lasciandosi configurare esistenzialmente dal suo amore.
La dimensione pastorale, pertanto, si trova inscritta nel cuore stesso della teologia, che assume un ruolo di servizio e di stimolazione. La teologia pastorale è, dunque, servizio all'uomo perché servizio a Dio e non può, di conseguenza, rinchiudersi nella propria torre d'avorio a speculare, così come Dio non è rimasto nel suo alto dei cieli a compiangere la triste sorte dell'uomo, ma si è fatto lui stesso tale, condividendone la sorte.
In tale prospettiva, la teologia pastorale è teologia incarnata nelle vicissitudini dell'uomo e che si spende a suo favore.
Una prima applicazione del concetto di "pastoralità della teologia" la si può trovare nella costituzione pastorale "Gaudium et Spes". Essa si apre in modo significativo, a mo' di proclama e di dichiarazione d'intenti rivolti al mondo: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi ... sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore" (GS 1).
E' il grido di una Chiesa che ha deciso di uscire dalla propria torre d'avorio, di una Chiesa che non si concepisce più come una cittadella fortificata, posta su di un monte e assediata dai nemici, ma che vuole essere protagonista della storia umana, di cui si scopre partecipe. E' una Chiesa che ha scoperto come la propria incarnazione sia preceduta e richiesta da quella di Dio. Il luogo del suo annunciare e operare è, pertanto, il mondo e l'umanità. E' una Chiesa, infine, che ha deciso di obbedire e conformarsi alle logiche della storia della salvezza.
Tale nuova posizione della Chiesa nel mondo si esprime in particolar modo e primariamente con la TP; ed è proprio quest'ultima a garantire la "pastoralità" di tutta la ricerca teologica.
Essa, infatti, pone sul tappeto le questioni sociali e umane in genere, in mezzo alle quali si trova ad operare, e con esse si interroga e interpella contemporaneamente tutte le altre discipline teologiche, spingendole ad approfondire e ad aprire nuovi orizzonti di speranza per l'intera umanità.
Incertezze epistemologiche
Una delle accuse più frequenti lanciate alla TP è che essa si insigni del termine "Teologia" quando ancora vaga sperduta in cerca di una propria identità ben definita. Infatti, se l'espressione "Teologia" indica una scienza religiosa, la qualifica "pastorale" dice più una finalità a cui è destinata la teologia, che un metodo scientifico di indagine e di speculazione.
Parlare, quindi, di TP sembra essere una contraddizione "in terminis", poiché questa espressione parla di una "speculazione, di una teoria pratica". Come si vede il cammino è ancora lungo e difficile, al cui termine c'è una meta forse irraggiungibile.
Forse la migliore definizione della teologia è la "Fides quaerens intelectum sui", cioè una fede che cerca di comprendersi nei suoi contenuti e, quindi, scoprire la sua vera identità e la sua intima configurazione. In tal modo la teologia diventa una ricerca orientata dalla fede verso una sempre maggiore comprensione e realizzazione della vita cristiana e un servizio rivolto all'intera comunità ecclesiale.
Forse sta proprio qui il nucleo centrale della TP: una ricerca speculativa finalizzata al vivere cristiano. Ed è proprio tra la "ricerca speculativa" e il "vivere cristiano" che si pone la chiave di traduzione della "speculazione" in "vivere cristiano"; tale chiave la definiamo come "metodo di traduzione", il quale, partendo dalla fenomenologia, risale la china e interroga la speculazione per ottenere delle risposte di senso per spiegare e sostanziare il fenomeno, per poterlo cambiare e configurare in fenomeno cristiano, così da poterlo, infine, comprenderlo come tale.
Perché una Teologia Pastorale ?
Di fronte alle numerose questioni che una TP pastorale pone va anche aggiunto, però, che oggi non è più possibile fare ricorso al solo "buon senso". Infatti, l'attitudine alla pittura non ha mai fatto da sola l'artista, ma questo nasce dal felice connubio della sua attitudine raffinata da uno studio metodico e sistematico.
Così in campo pastorale la semplice "pratica" può risultare non vincente se non è accompagnata e raffinata da una adeguata "teoria", soprattutto in tempi così complicati e complessi quali sono i nostri, in cui la pastorale tradizionale è stata messa in scacco ed oggi sta giocando alle corde, se non, addirittura, non ha già subito un qualche KO.
A fronte dei rapidi e spesso contraddittori cambiamenti sociali, spesso gravemente lesivi della dignità umana e disorientanti, serve ben poco operare un qualche escamotage per tirare avanti in qualche modo.
Oggi è da interrogarsi se, innanzitutto, le strutture attuali di pastorali, come la parrocchia, così come è oggi strutturata, sono ancora in grado di rispondere alle sfide del nostro tempo; se le "scuole di catechismo" sono ancora all'altezza di rispondere ai problemi che i catechizzandi e la cultura del nostro tempo pongono; se una pastorale ancora centrata sul parroco e qualche suo collaboratore sia ancora la formula vincente per portare avanti un annuncio efficace; se il considerare il laicato come l'oggetto passivo finale di una pastorale centrista sia ancora un concetto adeguato, anziché considerarlo come attore primario di un'azione pastorale decentrata proprio sul laicato, da cui si irradia poi sull'ambiente che si pone attorno ai laici; se considerare la pastorale e l'annuncio come azione propria del clero sia ancora un'idea vincente. E così si potrebbe continuare.
Gli esiti di questa pastorale tradizionale sono sotto gli occhi di tutti: disaffezione e defezione dalla pratica cristiana, sostanziale fallimento dei sacramenti della iniziazione cristiana, sostanziale ignoranza dei rudimenti della dottrina cristiana e del vivere cristiano.
Come porre rimedio a questa débacle?
Risposte concrete le può dare solo la Teologia Pastorale unitamente ad una buona azione pastorale.
Tutto ciò richiede un ripensamento serio e deciso se non si vuole che superficialità, improvvisazione, dilettantismo uniti magari alla paura di cambiare, rafforzata ad una certa pigrizia di fondo che ci affida al solito tran tran, non ci ponga a breve di fronte ad una "comunità cristiana" e che noi continuiamo a trattare come tale, ma che di fatto ha già scavalcato il muro e vive in un quieto paganesimo consumistico e materialistico dove Dio, ormai, non interessa più a nessuno.
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