TEMI DI MISTICA CRISTIANA
(Elaborazione dei miei appunti integrati da sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)
I CARATTERI DELL'ESPERIENZA MISTICA
Desiderio d'unione
Che cos'è la mistica? Per comprenderla partiamo da una riflessione sul termine stesso. Esso deriva dal verbo greco "muw", che racchiude in sé un duplice significato: "a) sono chiuso dentro; b) sto calmo, mi quieto, sto silenzioso, cesso".
Già da qui possiamo intuire come la mistica sia una sorta di introduzione nel mistero divino, un collocarvisi dentro, un fare, in buona sostanza, un tutt'uno con lui. Ma in quale modo? Ed ecco che ci soccorre la seconda parte del significato. Essa ci invita a fare silenzio dentro di noi, spogliandoci dalla frenesia e dalle urgenze quotidiane, per creare in noi una sorta di mare calmo, che ci immerge nell'affascinante mondo del silenzio interiore.
Ciò premesso, va comunque detto che non è semplice definire il mondo della mistica, proprio perché essa si aggancia ad un mondo che ci supera, lanciandoci in dimensioni che solo pochi privilegiati hanno potuto sperimentare e che difficilmente, nel loro esprimersi, sono da noi comprese e raggiungibili.
La mistica, quindi, sembra trovare il suo slancio interiore da un appassionato desiderio di unità e di fusione osmotica, compenetrante con l'Assoluto.
Quando parliamo di esperienza mistica, la nostra mente corre al mondo del religioso che ci introduce nel rapporto con Dio. Ma in realtà, esiste anche una sorta di mistica, per così dire, laica in cui l'obiettivo finale non è il ricongiungimento con Dio, ma il raggiungimento di una certa rappacificazione con il cosmo, con la totalità dell'universo, con se stessi e gli altri.
Minimo comune denominatore, che accomuna entrambe le esperienze, sembra essere la gratificante e rappacificante unione con l'Uno, il "perdersi" nell'infinità del suo essere. Il sentirsi posseduti da Lui.
Di notevole rilevanza, a mio avviso, per comprendere il senso e la dinamica della mistica è la poesia "L'Infinito" del Leopardi, composta all'età di 21 anni nel 1819.
Staccato dalle cose terrene, grazie ad una siepe che gli preclude la vista del panorama, il Leopardi si lascia trasportare dal suo spirito verso quei mondi infiniti fatti di "interminati spazi" e "sovrumani silenzi e profondissima quiete", di fronte ai quali lo coglie un senso di vertigine e di paura, così che "per poco il cor non si spaura". Immerso in questo "infinito silenzio" entra nel mondo dell'eterno: "e mi sovvien l'eterno". Ed ecco il miracolo della mistica che, spinto il poeta al di là delle barriere spazio-temporali, lascia fluttuare il suo spirito nell'infinito e "così tra questa immensità s'annega il pensier mio". Introdotto in questi spazi infiniti, avvolto da profondi e arcani silenzi, viene pervaso da una quiete ineffabile che lo penetra e lo permea nel profondo del suo essere, quasi in una osmosi con il divino, e così "il naufragar m'è dolce in questo mare".
Fatta questa premessa, occupiamoci, ora, della mistica religiosa. Il mistico è l'uomo che sperimenta una comunione unificante con il mondo del divino, in cui trova il pieno appagamento di sé, estinguendo quella sete di infinito che lo inquieta. In tal senso S.Agostino affermava nelle sue confessioni che "inquietum est cor nostrum, Domine, donec requiescat in te". In questo appagamento spirituale il mistico sperimenta uno stato di beatitudine, di pace gioiosa e di grande calma interiore, poiché è entrato nel mondo di Dio.
Questa unificazione con il divino viene espressa secondo le modalità culturali e religiose proprie, contestuate in un determinato periodo storico. Tale osmosi con il mondo del divino viene espressa nelle religioni di tipo profetico (ebraismo, cristianesimo e islamismo) attraverso un rapporto dialogico tra l'amato e l'amante, tra Dio e l'uomo, richiamata nella metafora dell'unione nuziale.
Ma per poter attuare questa unificazione, l'uomo deve diventare altro da ciò che è, cioè deve sintonizzarsi con il mondo del divino e rendersi disponibile a lasciarsi assorbire in esso. Un traguardo questo irraggiungibile se Dio stesso non ci avesse resi capaci di tale unione e non ci elevasse fino a Lui.
Occorre, però, liberarsi da tutti gli appesantimenti materialistici ed egoistici, che ci rendono estranei all'Uno. Si tratta, dunque, di compiere un passaggio dall'Io al Tu, dall'egoismo all'amore, dalla chiusura e dal ripiegamento su se stessi e le cose all'apertura verso la Totalità, che ci trascende.
E quando parliamo di amore, qui, non lo si deve intendere come un sentimento, ma piuttosto come un modo di essere, caratterizzato da un atteggiamento di totale apertura all'altro, totale donazione di sé all'altro, totale accoglienza dell'altro in sé. Tutto ciò ci eleva ad un livello superiore di vita, da cui traspare chiara la traccia del divino in noi, che ci mette in sintonia con Lui.
L'unione mistica con il divino non svilisce la persona né la dissolve o l'annienta, ma la fa ritrovare pienamente, poiché in Dio essa è pienamente compiuta. Ritrovatosi in Dio, il mistico, dotato di un'umanità perfetta, perché permeata dal divino, sa vivere la quotidianità anche in situazioni disagiate, poiché ne sa cogliere il senso e la permea con la pace della sua presenza.
Il mistico cristiano: il carattere essenziale
La mistica cristiana si può dire tale soltanto quando è in assonanza con i valori cristiani, anzi ne realizza la forma piena e perfetta. Essa consente di realizzare nell'uomo la piena conformità a Cristo; avviene cioè in lui una sorta di cristificazione che lo porta ad esclamare con Paolo "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). E ciò corrisponde agli intenti del progetto di salvezza di un Dio che si è fatto come noi, perché noi diventassimo come Lui, così che, reintegrati in Lui, possiamo vivere della sua stessa vita divina.
PERCORSO STORICO-TEOLOGICO: BIBBIA E PADRI DELLA CHIESA
Premessa
Già a partire dal III sec. il fenomeno mistico trovò accoglienza nella chiesa. Esso fu espresso attraverso una coniugazione della Bibbia e dei misteri greci, famosi tra tutti quelli eleusini. Ciò non significa, tuttavia, che la mistica cristiana sia stata succube alla cultura ellenistica e tantomeno derivi da essa, ma ne utilizzò gli strumenti per fini propri. Del resto il cristianesimo, nel suo esprimersi storico, non inventò nulla, ma utilizzò ciò che il contesto culturale, in cui era sorto, gli forniva.
Il fascino di questi misteri ellenistici consisteva nel fatto che l'iniziato poteva essere introdotto in un rapporto del tutto particolare e personale con la divinità, acquisendo da tale contatto una conoscenza negata ad altri. Pertanto, al di là delle dottrine e delle teologie, ma mai nel loro rifiuto, la mistica consentiva un trascendimento delle stesse a favore di un rapporto più diretto e dal vivo con la divinità.
A differenza dei misteri eleusini, la cui finalità era l'acquisizione di una conoscenza superiore, la mistica cristiana punta all'incontro e alla fusione con la persona del Cristo e di far propria la sua esperienza, al punto tale che Paolo esclamerà: "per me vivere è Cristo". Il cristianesimo, quindi, non è un sistema di dottrine che ci fa comprendere qualcosa di Dio, ma è soprattutto esperienza di Dio in Cristo per mezzo dello Spirito.
L'epoca delle Scritture
"Conoscere il mistero" era l'espressione con cui la tradizione cristiana designava l'esperienza di fede vissuta. Ma che cosa significava per essa il termine "mistero"? Era il Vangelo stesso, che trova il suo culmine nella vicenda pasquale di Cristo. In tal modo viene data una fondazione biblica alla spiritualità e alla mistica cristiana.
Il significato del Vangelo
Il temine vangelo è stato mutuato dalla chiesa primitiva dal mondo ellenistico. Con tale termine si designava un evento particolare come le nozze la nascita del figlio del re, le sue nozze o la vittoria sui nemici; evento che, in qualche modo, tornava a favore del popolo. Anche, nel mondo cristiano, esso indica un evento: Dio si è fatto vicino agli uomini, anzi li ha incontrati e ha parlato loro per mezzo dell'uomo Gesù, il suo Cristo e Figlio. Gesù, quindi, si qualifica non soltanto come l'annunciatore di un lieto messaggio proveniente da Dio stesso, ma egli stesso è il centro dell'azione divina in mezzo agli uomini; egli è la risposta del Padre alle esigenze e ai problemi dell'uomo. Egli viene costituito dal Padre, per mezzo dello Spirito, nuovo Adamo, da cui sgorga una nuova umanità che, grazie alla risurrezione, è chiamata ad entrare nel nuovo mondo ricreato in Cristo per mezzo dello Spirito.
Anche l'AT aveva i suoi vangeli, cioè i suoi lieti annunci nei quali Israele leggeva l'intervento di Dio a favore del suo popolo: il ritorno dall'esilio, la riunificazione del popolo, la ricostruzione di Gerusalemme, ecc.
Tali annunci rivelano agli uomini che Dio è tornato in mezzo a loro ed opera ancora a loro favore. Essi svelano l'intenzione di Dio di dare una svolta decisiva alla storia dell'uomo. Ecco, quindi, l'annuncio, non di una dottrina, ma di un evento a fronte del quale l'uomo è chiamato a prendere posizione e dare la sua risposta: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15).
Ecco, dunque, il significato di vangelo: Dio non ha abbandonato l'uomo al suo destino di morte, ma opera ancora a suo favore. Tale azione di Dio trova il culmine e il suo compimento in Cristo stesso. Cristo, dunque, è il Vangelo, cioè l'agire di Dio nella storia, che chiama gli uomini a raccolta attorno al suo Cristo per ricondurli nella sua dimensione divina, da cui l'uomo proviene.
Il significato di mistero
Ciò che era nascosto fin da principio si attua e si svela, ora, in Cristo. Ecco, dunque, il significato di mistero: è il progetto di salvezza elaborato dal Padre fin dall'eternità e svelatoci in Cristo. Paolo ce lo ricorda nella sua lettera agli Efesini: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per farci santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo" (Ef 1,4-5). In Cristo, dunque, il Padre "ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà ... per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose del cielo come quelle della terra" (Ef 1,9-10).
Si tratta, quindi, di una nuova creazione, che viene attuata nella morte e risurrezione di Cristo, nella quale l'uomo è chiamato a parteciparvi fin dall'eternità. Questo è il mistero e il lieto annuncio, svelato e attuato in Cristo. Ebbene, la mistica e la spiritualità cristiane sono una conseguenza di questo dispiegarsi del mistero e indicano il parteciparvi dell'uomo, anzi ne sono un'attuazione concreta.
Il carattere pasquale ed "agapico" del mistero del Vangelo
Se, come abbiamo visto, il mistero del Vangelo altro non è che l'attuarsi di una nuova creazione in Cristo a cui l'uomo è chiamato a parteciparvi, vediamo, ora, come tutto ciò non è frutto della bravura o dell'intelligenza dell'uomo, né tantomeno nasce dalle suoi meriti, ma è frutto di un puro atto di amore del Padre che "ha tanto amato il mondo da donare suo Figlio" (Gv 3,16). Tale amore, che è e si fa grazia, trova piena manifestazione nella morte di suo Figlio "nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,7). Al centro, quindi, di questo mistero-progetto salvifico, svelatoci e attuato in Cristo, ci sta il dono di amore del Padre, che assume storicamente il volto del Cristo crocifisso.
"Io, infatti, - esclamerà Paolo - non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16). Per Paolo il "vangelo" altri non è che il Cristo crocifisso, che nell'atto della risurrezione diventa "potenza di Dio" finalizzata alla salvezza di "chiunque crede". In altri termini, tutti vi possono partecipare per mezzo della fede, cioè nell'abbandono fiducioso all'amore di Dio. Questo significa che l'uomo, per mezzo della fede, è introdotto nel mondo divino e ne è reso partecipe: Dio, in Cristo, condivide la sua vita con gli uomini.
In Cristo, pertanto, l'uomo subisce un processo di deificazione grazie alla sua cristificazione, cioè alla sua configurazione a Cristo. Più semplicemente potremmo dire che Dio si è fatto, in Cristo, come noi, per farci come lui. In ciò Dio ha mostrato e realizzato il suo amore per noi: "Egli, infatti, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo una natura di servo e diventando simile agli uomini" (Fil 2, 6-7). L'epoca cristiana antica
Entrando nella tomba le donne la trovano vuota: non c'è più il corpo di Gesù, ma al suo posto trovano un annuncio e un invito a ricordare ciò che lui aveva detto a compiuto (Lc. 24,5-8). In altre parole, oggi Gesù si presenta a noi sotto forma di Parola e di culto o, se vogliamo, di Parola celebrata e vissuta nella carità. Parola e Culto sono i due punti fondamentali d'incontro con il Cristo attraverso i quali si comunica a noi e ci assimila a lui, così che il credente è un altro Cristo.
Ben si comprende, allora, come la liturgia o celebrazione del culto diventi il luogo d'incontro tra Dio e gli uomini, lo spazio entro cui Dio invita gli uomini a partecipare alla sua vita divina, resa presente nel rito liturgico e grazie a tale azione cultuale, l'uomo viene assimilato e configurato a Dio stesso. Avviene qui un processo di deificazione e di cristificazione, che costituisce l'essenza stessa della mistica cristiana.
Sotto tale forma Parola celebrata, il mistero di Cristo, cioè la sua azione salvifica, viene perpetuata nel tempo, offerta ad ogni uomo, che da essa viene interpellato e spinto a prendere posizione e dare la sua risposta esistenziale.
Per spiegare la relazione tra evento storico, ormai compiuto, e la sua attualità per i credenti di ogni tempo, S.Agostino pone una distinzione tra "veritas" e "solllemnitas". La prima dice il fatto storico, fatto puntuale nel tempo e storicamente non più raggiungibile; la seconda dice il suo recupero e la sua riattualizzazione hinc et nunc grazie alla parola e al rito.
Grazie alla liturgia, il tempo dell'uomo viene sospeso per dare spazio al tempo di Dio, in cui l'uomo viene introdotto, quasi in un anticipo di eternità, dove ogni atto diventa pienamente compiuto e irripetibile.
Le feste liturgiche, così variamente disseminate nel corso dell'anno, celebrano il mistero di Cristo, cioè il farsi di Cristo nella storia. Grazie alla risurrezione, l'intera vita del Gesù della storia acquisisce un significato completamente nuovo: l'operare dell'uomo Gesù era, in realtà, l'operare di Dio in mezzo agli uomini. Ogni sua azione e ogni sua parola, pertanto, diventa mistero di salvezza, cioè attuazione e compimento del progetto di salvezza. Ebbene, la liturgia riprende proprio questo operare (azioni e parole) e, sotto forma di parola e rito, cioè sacramentale, lo celebra riattualizzando nell'oggi di ogni uomo tutta la sua carica salvifica che lo coinvolge, assimilandolo nella dimensione divina.
Grazie a questa azione liturgia e sacramentale, il credente partecipa realmente, seppur mediatamente, a questi misteri e viene reso partecipe della stessa vita divina, a cui è chiamato a conformarsi esistenzialmente.
Quanto alla Scrittura, è significativo quanto Luca ci racconta nell'episodio dei due discepoli di Emmaus: "E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24,27). Cristo stesso, quindi, ripercorrendo le Scritture riscopre se stesso e in esse si lascia raggiungere dai credenti. Questo non può che significare una cosa molto semplice: Cristo è il contenuto profondo dell'intera Scrittura. Gesù stesso, del resto, affermerà che lui non è venuto ad abolire la Legge e i profeti, ma a darne compimento. Ciò significa che Cristo non solo si costituisce come chiave interpretativa di tutto l'AT, ma è il vertice dell'intera Scrittura, anzi, per la verità, vi si identifica. Non a caso Giovanni apre il suo vangelo con la contemplazione del Verbo, cioè della Parola che si fa carne, una Parola che, poi, assumerà la forma sacramentale di Scrittura e in essa si rivela.
In tal senso le Scritture, ancor prima di essere un testo letterario, sono una persona, quella del Cristo stesso, vivo e vero, che sotto forma di Parola scritta, giunge a noi e con noi si incontra e ci interpella. L'autore della Lettera agli Ebrei ricorderà che la parola di Dio è viva ed efficace, più tagliente di una spada a due tagli (Eb 4,12). La Scrittura, dunque, è un essere vivente, dinamico ed efficace, cioè produce quello che dice; in altre parole è un Dabar, cioè una parola in cui è presente l'azione stessa di Dio.
Proprio perché tale Parola è un essere vivente, essa è capace di incontrare l'uomo che, in un ascolto accogliente, viene trasformato e configurato a Cristo stesso e viene reso capace di vedere le cose dalla sua stessa prospettiva e di avere in lui "gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù" (Fil 2,5), cioè lo stesso modo di sentire e di vedere di Dio. In altre parole, la Scrittura vivente che Cristo diventi la nuova "forma mentis" del credente. L'uomo, così rinnovato viene trasformato in un tabernacolo vivente della Parola stessa.
La Scrittura, quindi, diventa il luogo sacramentale in cui il credente e con lui ogni uomo possono incontrare e sperimentare Cristo, in un incontro avvolgente che proietta l'uomo nel mondo stesso di Dio.
In tal modo tutta l'esistenza cristiana diventa una realtà mistica, in quanto esistenza chiamata ad incarnare in sé e, quindi, a vivere il mistero di Cristo a cui è configurata. Ma non è possibile né incarnare né vivere tale mistero se prima esso non viene contemplato. Infatti, Cristo è l'immagine viva del Padre, impronta della sua sostanza; pertanto, solo contemplando in un silenzio meditativo tale mistero, esso ci compenetra e ci permea in ogni fibra del nostro essere, così che possiamo esclamare con Paolo "per me vivere è Cristo".
L'esperienza cristiana, pertanto, è il farsi di Cristo stesso nella vita del credente nella sua morte e risurrezione, così che veramente la vita cristiana diventa ad essere una vita essenzialmente pasquale: un continuo passaggio dalla morte alla vita.
LA PRASSI: EROS E AGAPE
La passionalità o il sentire della fede
Il cristianesimo antico ha pensato e vissuto l'esperienza della fede come un vivo desiderio di Dio che spinge il credente alla ricerca del proprio amato. I monaci erano visti come degli innamorati.
E' proprio la metafora dell'amore (ma è proprio una metafora o non si tratta, invece, di una vera e propria pulsione amorosa passata attraverso il filtro della sublimazione?) consumato tra amanti, che ci rinviano al Fedro di Platone e all'analisi del processo di innamoramento, che lì viene trattata.
L'Eros in Platone e Plotino
Per Platone l'Eros altro non è il desiderio di ottenere ciò di cui si è privi o di continuare a godere ciò che già si possiede. Si tratta, in ultima analisi, del "desiderio di bellezza", che è espressione della bontà stessa dell'essere, che, a sua volta, risplende nella bellezza. Se queste sono le premesse, se ne conclude che, allora, che l'eros è il desiderio di bene.
Esso si coglie come una forza semidivina che spinge l'uomo alla ricerca della sua perfezione, cioè del suo completamento e compimento, che sfocia nella beatitudine divina. Una forza che scaturisce da una perenne inquietudine esistenziale, che a sua volta nasce da un senso di vuoto interiore e che spingerà S.Agostino ad esclamare: "Inquietum est cor nostrum, Domine, donec requiescat in Te".
Dietro a questa spinta inquieta si nasconde il desiderio di felicità, che è desiderio di pienezza e completezza, desiderio di sazietà. In tal senso, allora, Eros è la forza che anima tutte le nostre azioni.
Ma questa inquieta ricerca della bellezza e del bene che, errabonda, si posa qua e là sull'effimera e fragile bellezza e bontà delle creature, non potrà mai essere saziata pienamente, perché l'insaziabilità dell'anima in realtà è sete di infinito, che solo Dio e non la sua creatura può saziare. La creatura c'è, ma essa richiama e rimanda sempre al suo Creatore, poiché essa non è la Bellezza né la Bontà, ma soltanto un pallido riflesso di queste.
L'Eros, dunque, è questa scintilla divina che nella sua insaziabilità ti fa intuire e ti indirizza, di creatura in creatura, trascendendola, verso la fonte prima del Bene assoluto.
Quanto a Plotino, egli vede nel progresso il segno inequivocabile dell'imperfezione dell'uomo. Infatti, il progresso è sempre sotteso dal divenire, che dice tutta la fragilità e l'imperfezione dell'uomo, che aspira sempre ad un maggior perfezionamento e completamento. Questo cammino tra il "già e non ancora" crea nell'uomo una forte tensione, che si manifesta nella spinta alla ricerca del "non ancora". Questo dice che la sua realizzazione non si trova qui, ma sempre più in là, in un continuo e mai finito gioco di trascendimento di sé e della creatura. Tale spinta, pertanto, non si esaurisce in un ripiegamento narcisistico su se stessi o sulle creature, ma ti spinge ad andare sempre oltre, poiché tale sete di sazietà è, come abbiamo visto, insaziabile.
L'Eros, dunque, denuncia nell'uomo una fame esistenziale insaziabile, che di creatura in creatura, lo apre verso l'eternità, pena il suo fallimento totale. Questo dice come l'uomo, in ultima analisi, si può pienamente trovare soltanto varcando i confini del divino, verso cui è sospinto dalla sua inquietudine esistenziale.
Pur nei suoi meriti, tuttavia la realtà divina platonica è del tutto impersonale e, pertanto, priva l'uomo del suo rapporto con Dio; mentre la sua ascesa verso il divino viene fatta a spese del corpo: il vero uomo per Platone, infatti, risiede soltanto nella nouV (anima), destinato a fondersi nell'essere divino, mentre il corpo è un vuoto a perdere. Da qui la difficoltà per il mondo greco ed ellenistico di credere nella risurrezione.
Desiderio e volontà
La moderna antropologia ha scoperto l'importanza del sentimento e dell'emotività, che nelle scelte, sia esistenziali che nel quotidiano, giocano un ruolo importante. Ragione e sentimento non sono, pertanto, due realtà contrapposte e che tendono ad escludersi, ma, al contrario, si intrecciano tra loro.
Desiderio (epiqumia) e volontà (bouleusij), che nel mondo greco sono il corrispondente della nostra "ragione e sentimento", costituiscono le due forze che fanno muovere l'uomo: il primo è la forza che spinge verso ciò che è piacevole; la seconda è la forza che rivolge l'uomo verso il bene. Identica, quindi, è la loro natura, benché diverse siano le mete, anche se non tra loro contrapposte, poiché la bellezza è parte integrante del bene; e diverse siano le modalità di espressione: l'epiqumia è un desiderio spontaneo, mentre la bouleusij è un desiderio deliberato. Due forze, quindi, identiche che nel nostro Illuminismo occidentale hanno subito una frattura insanabile.
Anche la ricerca di Dio fa parte del desiderio, che non è puro sentimento, ma che si esplica anche in un impegno etico. La passionalità, quindi, ha una sua razionalità, che, però, la deve animare. In altri termini non è sufficiente amare Dio, questo amore deve diventare impegno etico, in cui finalità prima ed ultima è conformarsi al volere dell'amato.
L'amore non può mai travalicare il limite della ragionevolezza, ma soltanto muovendosi in essa troverà la sua piena soddisfazione. Il travalicare tale limite diventa fonte di morte e non più di vita.
Desiderio e vita di fede
La fede è quella forza che ti apre esistenzialmente al mondo divino, da cui l'uomo viene irresistibilmente attratto. In tal senso essa si qualifica come desiderio di Dio. L'essere attratti è il segno inequivocabile dell'azione divina su di noi. E' Lui che per primo prende sempre l'iniziativa, così che la storia di un cammino di fede è sempre la storia di un'attrazione fatale. Un'attrazione che si trasforma in un anelito verso Dio. In tale senso il salmista esprime il suo desiderio di Dio, velato da una certa sofferenza spirituale: "Come una cerva anela ai corsi d'acqua, così la mia anima anela a te, o Dio. L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?" (Sal 41). L'eco di tale desiderio si trasforma in una struggente ricerca di Dio: "O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua. Così nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria" (Sal 62,2-4).
Desiderio e bellezza di Cristo
La vita di fede, che pervade le fibre intime del vero credente, si trasforma in passione per le cose di Dio che sono apparse nel suo Cristo. Giovanni dà proprio questa intonazione all'intero suo vangelo già fin dal suo inizio: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come unigenito dal Padre,pieno di grazia e di verità" (Gv 1,1.14). Lo splendore del Verbo divino, contemplato da Giovanni, è la stessa forza avvincente del Cristo, da cui traspare lo stesso mondo di Dio, che Giovanni ha contemplato in quel "In principio" metafisico (Gv 1,1).
Il fascino di Cristo va ben al di là della bellezza platonica, che non avrebbe mai riconosciuta sulla croce, ma che, invece, ben è stata colta da Paolo al punto che egli si riconosce soltanto nel Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani (1Cor 1,23), ed esclama: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato la sua vita per me" (Gal 2,20). Egli, infatti, non si vergogna del vangelo, cioè del Cristo crocifisso, poiché in esso vi ha scorto la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16). Il Cristo crocifisso, pertanto, diventa per Paolo la sapienza e la potenza stessa di Dio (1Cor 1,24). Cose inconcepibili queste per il mondo greco! Godere Dio
L'Eros, quale forza vitale che spinge l'uomo verso la ricerca della pienezza in vista di una soddisfazione totale, quando si rivolge al mondo di Dio e lì vi approda, trova in esso la sua piena soddisfazione e appagamento, da cui scaturisce una inebriante gioia. Tale gioia, benché non ricercata per se stessa, tuttavia, è la logica conseguenza del "perdersi in Dio".
La bellezza del cristiano
Con la sua morte e risurrezione Cristo non solo ha ricondotto l'uomo nel mondo di Dio, ma lo ha anche ricreato in sé a sua immagine e somiglianza. Tale trasformazione spirituale, prodotta nel credente, lo apre anche ad una piena umanizzazione, perché Cristo, che nella risurrezione è divenuto l'uomo perfetto, l'uomo così come pensato da Dio fin dall'eternità, rende perfetto nella sua umanità chiunque si apre esistenzialmente a lui.
La pace, che promana dalla risurrezione e che dice tutta la forza dell'uomo riconciliato con Dio, diventa il segno visibile di tale trasformazione nell'uomo e ne costituisce il suo stile di vita. Infatti, chiunque si dedichi alla contemplazione del mondo divino, ne rimane contaminato e permeato e da lui traluce in pienezza. E' quanto accadde a Mosé sul Sinai, dopo quaranta giorni di permanenza con il Signore: "Quando Mosè scese dal monte Sinai ... non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore" (Es 34,29).
Eros e contemplazione
L'Eros, quale forza vitale che anima il vivere dell'uomo, è attratto naturalmente verso lo splendore della Bellezza, che diviene, pertanto, l'oggetto della sua contemplazione o ammirazione estatica. Il processo avviene tramite lo sguardo che contempla la bellezza che lo ha sedotto. Contemplare, dunque, significa rivolgersi alla luce, ma anche, di conseguenza, assorbirla e rifletterla sugli altri. La contemplazione, ben lungi dall'essere un atto intellettuale, afferra le profondità dell'essere e lo trasforma nella luce dell'oggetto contemplato.
Ce lo ricorda Paolo nella sua seconda lettera ai Corinti: "Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2Cor 3,18). L'intelletto e la stessa persona che contempla, vengono deificate da ciò che essi contemplano.
A tal punto, ben si comprende come la spiritualità cristiana sia un lasciarsi trasformare dallo splendore del Cristo contemplato, da cui veniamo attratti, a lui assimilati e configurati, così che il suo splendore diventa un segno che caratterizza la vita del vero credente.
Contemplare, pertanto, diventa ad essere un sinonimo di essere trasformati in ciò che si contempla,così che la contemplazione lascia trasparire l'azione trasformante di Dio in noi.
Scrittura, preghiera e liturgia diventano i luoghi naturali della contemplazione e della trasformazione, poiché da esse passa la forza trasformante dello Spirito, che avvolge e permea il credente, configurandolo a Cristo. Ma ciò che trasforma è la contemplazione della Parola, così che l'udire apre la strada al vedere.
DESIDERIO DI DIO E FEDELTA' ALLA TERRA: L'OPPOSIZIONE ALL'EROS
Premessa
"Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio" (Gv 3,16), un amore talmente intenso da farsi dono per gli uomini ed ha assunto il volto storico di Cristo, spazio entro cui il Padre si muove nella storia per incontrare gli uomini e proporre loro il rientro nella sua dimensione divina.
Nasce così il cristianesimo: da un libero atto di amore di Dio per gli uomini, che ha amato quando questi erano ancora immersi nel peccato e, pertanto, nemici dichiarati di Dio.
Una visione questa totalmente innovativa: si passa da una visione di Eros, quale pulsione vitale che spinge l'uomo alla ricerca del suo appagamento, ad una in cui l'Eros si trasforma in Agape, cioè in un amore totalmente gratuito e donativo, nato da una libera iniziativa di Dio a favore degli uomini. Non più, dunque, l'uomo che va alla ricerca di un Dio ignoto, ma Dio che va alla ricerca dell'uomo, spinto da un amore incondizionato verso di lui; una ricerca che già è iniziata nel Paradiso terrestre appena dopo la colpa: "Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: <<Dove sei>>" (Gen 3,9).
Recentemente si sono sviluppate tendenze opposte alla posizione prevalente dell'Eros nella ricerca di Dio. Agape ed Eros, afferma il Nygren sono tra loro inconciliabili, poiché mentre il primo si qualifica come amore allo stato puro, senza secondi fini e solo a favore dell'oggetto dell'amore; il secondo si qualifica come una forza che spinge l'uomo verso l'altro solo per un suo personale appagamento.
Il Rizzi, invece, propone di rifondare la spiritualità cristiana sull'Agape e non sull'Eros, cioè sul desiderio di Dio, che spinge l'uomo ad astrarsi dall'impegno nel mondo; mentre l'Agape, espressione dell'amore di Dio per il mondo, spinge il credente a conformarsi allo stesso amore divino. Si tratta, quindi, di passare da un amore astratto dal mondo (Eros), ad un amore di Dio che passa attraverso il mondo.
Critica all'eros
La critica più severa verso l'Eros viene da chi considera tale tipo di amore come una fuga dal mondo, poiché spinge a rivolgersi su se stessi in una perenne ricerca di Dio, nel quale trovare un proprio soddisfacimento.
Mentre il Nygren s proponeva di ritornare alla dottrina luterana sulla giustificazione, che prevede il totale abbandono in Dio per mezzo della fede, sviluppando una concezione negativa dell'uomo decaduto per la colpa originale e totalmente incapace di bene, il Rizzi punta, invece, a purificare l'amore cristiano dalle incrostazioni del postmodernismo, che staccandolo dal mondo soprannaturale, lo aveva ridotto ad una pura dimensione orizzontale.
La nuova visione agapica dell'amore cristiano spinge il credente a riprodurre nella propria vita il modello divino di amore, che è un amore incarnato, ma che punta a ricondurre l'uomo nella dimensione divina. La parola d'ordine, pertanto, è "incarnarsi" e la strada indicata è l'inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2,6-11)
L'uomo è desiderio
La posizione del Rizzi circa l'Eros è decisamente negativa e tende ad espellerlo dall'ambito del cristianesimo.
Ma cosa intende egli per Eros?
L'Eros è la spinta interiore dell'uomo che lo spinge ad affermare se stesso e la propria vita. La questione si pone, però, da un punto di vista etico. Cosa comporta, infatti, tale affermazione di sé? E' un'affermazione che pur di riuscire nell'intento non esita a distruggere quanto gli si para davanti? Consente, poi, essa un certo livello di apertura agli altri, in modo libero e di autentica donazione e accoglienza? In altre parole, tale Eros è in grado di subire un processo evolutivo dal sé fino a diventare dedizione altruistica e, quindi, capace di solidarietà?
La risposta del Rizzi a questi interrogativi è altalenante: da un lato, ritiene non credibile che l'Io esca da sé verso l'affermazione dell'altro, quasi che tale affermazione produca uno sminuimento del Sé; dall'altro, vede l'Eros come una naturale propensione verso l'altro, nella cui autoaffermazione vede la realizzazione dell'Io.
Tale Eros forma l'uomo come "essere desiderante", in costante altalena tra l'affermazione di Sé e quella dell'altro da sé, e costituisce una parte integrante del suo esistere tale che non si può pensare di escluderlo dalla propria vita. Se tale è la posizione dell'Eros nell'uomo, è evidente che esso non può essere scardinato neanche dalle espressioni umane, religiosità e spiritualità comprese. Infatti, non è possibile perseverare nel bene senza nutrire un desiderio, senza essere sostenuti da una forte tensione interiore che vitalizza tutte le energie dell'uomo verso l'oggetto proprio del tendere.
In tal senso la storia del cristianesimo non è storia dell'Agape, ma di un Eros redento. Il desiderio, espressione dell'Eros, ha la sua origine in Dio stesso, che è pienezza d bene pienamente realizzato e soddisfatto, al punto tale di espandersi in una creazione di altro da Sé. Il desiderio dell'uomo, cioè la sua forte tensione verso l'affermazione di sé in un'attuazione piena di sé, altro non è che il riflesso del desiderio divino, che spinge l'uomo ad uscire da se stesso alla ricerca del desiderio ultimo.
Estinzione del desiderio?
L'uomo, per sua natura, è necessità che tende incessantemente verso l'appagamento di sé. Ma appagamento, in realtà, significa acquiescenza del desiderio e, di conseguenza, afflosciamenrto dell'uomo fino alla morte. Appagamento, pertanto, è sinonimo di morire.
Fede, quale tendenza all'appagamento di infinito, e consumismo, quale tendenza all'appagamento di dei bisogni materiale, sono espressione di morte, in quanto insieme distruggerebbero il desiderio. Che dire di fronte a tale affermazione?
La mistica cristiana ha sempre rifiutato il concetto di soddisfacimento pieno e definitivo, affermando, invece, nell'uomo l' "epektasij ", cioè l'espansione o il continuo divenire, sia perché l'uomo, assoggettato ai parametri della storia, è un essere sempre e comunque relativo alla ricerca della sua piena attuazione, sia perché le dimensioni di Dio, verso cui tende e si muove, sono infinite e, pertanto, egli non eguaglierà mai Dio. La spiritualità cristiana, pertanto, è caratterizzata da una continua dilatazione in Dio e trova il suo dinamismo nella stessa creaturalità dell'uomo.
Nell'ambito della mistica cristiana, quindi, non esiste il pieno appagamento, poiché la sazietà, in quanto sazietà relativa, diviene essa stessa stimolo di desiderio, cioè di una maggiore e più soddisfacente sazietà. Essa, pertanto, diventerà una sazietà alla ricerca di una pienezza che non troverà il suo appagamento che nell'aldilà, dove l'uomo, sottratto ai limiti della storia e, quindi, del divenire, troverà un punto fermo alla sua espansione, poiché le sue dimensioni umane avranno acquisito, allora, quelle stesse divine.
Desiderio e passionalità
Il Demouillé ritiene che il cristianesimo abbia condannato il desiderio e la passionalità come un male che porta alla degenerazione dell'uomo. In realtà desiderio e passionalità sono forze vive dell'uomo che puntano all'affermazione della vita stessa; esse sono per la vita e non per la degenerazione e, pertanto, moralmente positive. Tuttavia, a motivo del degrado causato dal peccato originale, tali forze hanno bisogno di essere sostenute e inquadrate in un progetto morale, che indichi loro la via dell'affermazione e il senso del loro esserci.
Lo stesso discorso vale per il "piacere". Esso è la conseguenza dell'appagamento dei bisogni. Tuttavia, anch'esso ha la necessità di essere indirizzato verso la vita, perché non tutto ciò che dà piacere è a favore della vita, ma talvolta punta verso la sua distruzione. Pertanto, il piacere non può essere preso come criterio etico di affermazione incondizionata della vita.
La ricerca dell'amore ideale
Talvolta il desiderio di Dio viene interpretato, come nel caso di Galimberti, come un nascoto rifiuto di rifiuto dell'altro. Se questo, da un punto di vista psicologico può anche avverarsi, ciò non significa che tale sia la natura genuina di questo desiderio. In questo caso abbiamo solo una distorsione del desiderio di Dio; ma deve essere ben chiaro che il rifugiarsi in Dio per fuggire l'altro è una patologia, ma non dice l'autentica natura di questo desiderio.
Il Galimberti, infatti, ritiene che l'eros spinga l'uomo al trascendimento di se stesso verso l'altro da sé in cui trova il suo naturale appagamento. Ogni diversa destinazione è considerata da lui come una manipolazione di tale forza, che può trasformarsi anche in una deviazione o, peggio, in una patologia. La castità è considerata come un rifiuto di rapportarsi all'altro a favore di un amore astratto o platonico, dietro al quale egli vede un sostanziale disprezzo del prossimo.
Ma il Galimberti non considera che l'amore di Dio non è mai disgiunto dall'amore del prossimo; anzi, per la verità, non è mai concepibile un amore di Dio disincarnato da quello del prossimo. L'amore di Dio si attua proprio nell'amore del prossimo. Giovanni è chiaro in tal senso: "Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chia ama Dio, ami anche il proprio fratello" (1Gv 4,20).
Amore di Dio e del prossimo, pertanto, non sono due amori distinti, inconciliabili o contrapposti, ma un unico amore che lega inscindibilmente l'uomo a Dio, così che l'autenticità dell'amore di Dio si verifica nel mio andare verso il prossimo. L'amore per Dio, infatti, ti spinge verso l'altro, verso la sua affermazione, poiché l'amore di Dio è espansivo e non restrittivo o di ripiegamento narcisistico e autocontemplativo. E' questo il suo marchio di autenticità.
DESIDERIO DI DIO E AMORE DEL MONDO
Se l'Eros conduce alla contemplazione appagante della Bellezza, consentirà ancora che l'uomo ritorni al grigiore dell'impegno quotidiano per fare l'annuncio, magari incompreso, della sua esperienza?
Platone e il ritorno
Una volta raggiunto il sommo Bene attraverso la contemplazione, il filosofo non riceve nessuna spinta al ritorno verso il quotidiano travaglio degli uomini, ma naturalmente ne rifugge. Platone ritiene che per i filosofi si debba preparare un percorso inverso per ricondurli in seno alla città corrotta. In tal senso, i filosofi dovrebbero avere un senso di solidarietà tale da spingerli all'educazione in favore dei cittadini. Se essi ritornano ciò non è dovuto ad un gesto naturale, ma ad un loro gesto di generosità.
Plotino e il ritorno
A differenza di Platone, Plotino ritiene che il filosofo, dopo la contemplazione del sommo Bene, può indifferentemente tornare per rendere partecipi gli altri o rimanere nella sua torre d'avorio. Tuttavia, la decisione del vero contemplativo è proprio quella di estraniarsi dagli altri, per perseguire la propria perfezione in mezzo ad un mondo che sprofonda. Si tratta, in buona sostanza, di un misticismo finalizzato ad una fuga dalla miseria di un'epoca storica carica di angoscia, come era quella del tardo impero romano.
In questa prospettiva di autosalvezza per mezzo della fuga mistica, Dio non poteva essere pensato diversamente da come l'uomo pensava se stesso né si poteva attribuirgli un comportamento diverso.
Ecco, pertanto, che l'Uno, per Plotino, non può volgersi verso l'uomo per venirgli in soccorso, ma la salvezza è pensata come un'autosalvezza. Un Dio, dunque, molto diverso da quello presentato dalla Bibbia, che non solo benefica gli uomini, ma li ama.
S.Paolo: desiderio di Dio e ritorno
Decisamente diverso è l'atteggiamento di Paolo nei confronti delle proprie comunità, considerato dai Padri della chiesa come un modello di mistica cristiana.
Egli è in carcere in attesa della sentenza definitiva, che potrebbe essere per lui di pena capitale. Egli, dunque, si rivolge alla sua comunità di Filippi e compie una riflessione: per lui vivere è Cristo e morire un guadagno. Pertanto il suo desiderio ardente è quello di unirsi, per mezzo della morte, definitivamente a Cristo. Ma egli sa, anche, che la sua presenza in mezzo alla comunità significa portare frutto per lei e per Cristo. Di fronte all'alternativa, tuttavia, mette da parte il suo desiderio di Dio e sceglie di rimanere presso la sua comunità (Fil 1,21-24). In realtà, qui non si tratta di ripudiare l'una a favore di un'altra, ma la forza che ti dà l'una (il desiderio di Dio) ti spinge verso l'altra (il rimanere).
In tale situazione, il filosofo greco avrebbe deciso per la sua salvezza personale; mentre Paolo, pur combattuto tra le due esigenze, tuttavia si lascia sopraffare dalle esigenze della carità.
Ma che cosa spinge Paolo a compiere questa scelta? Egli ce lo rivelerà nella sua seconda lettera ai Corinti: "Poiché l'amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti" (2Cor 5,14). L'amore di Cristo per l'umanità, pertanto, funge da modello mistico per Paolo, su cui tara la propria vita. Infatti, proprio nella sua lettera ai Filippesi, Paolo sollecita la sua comunità ad avere in lei "gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simili agli uomini" (Fil 2,5-7).
Il cristiano, pertanto, se vuole arrivare a Dio, deve assimilare in sé (avere gli stessi sentimenti) l'amore di Dio per l'uomo, che ha assunto il volto storico di Cristo.
Distacco e immersione
Ma questo duplice "desiderio di Dio e amore verso gli uomini" costituisce un caso isolato, tale da caratterizzare soltanto Paolo, oppure è una costante nei mistici? Da un'attenta analisi del comportamento e degli scritti dei mistici, vediamo come questo atteggiamento di Paolo sia una caratterizzante anche per i mistici, così che essi si sentano interpretati da questo passo della lettera ia Filippesi.
In proposito vediamo alcuni mistici a partire da Guglielmo di saint Tierry. Se la comunione con Dio costituisce la vera sorgente di felicità per l'uomo, tuttavia essa non lo distrae dal suo impegno sulla terra. La contemplazione di Dio, infatti, sentita come anticipazione della condizione futura, assimila l'uomo a Dio e lo spinge a viverlo nella carità, poiché Dio è l'Amore che si è fatto dono per gli uomini (Gv 3,16) e questo amore-dono si è presentato come amore incarnato, cioè assimilato agli uomini.
Riccardo di san Vittore parla di quattro gradi della "carità violenta". Nel primo grado l'uomo rientra in se stesso per salire a Dio (secondo grado) e, quindi, terzo grado, immergersi nella gioia. Giunto al quarto grado della maturità spirituale, Riccardo paragona l'amore verso Dio alla sete. Il principiante inizia con la sete di Dio e desidera soddisfarla pienamente in lui. Ma nella sua maturità spirituale egli incomincia ad aver sete "secondo Dio". Questo comporta un mettere da parte la propria sete di Dio per soddisfare quella di Dio per gli uomini. In questo grado egli si affida totalmente a Dio e a lui si conforma. A tal punto il massimo godimento è ricevere da Dio la forza di imitarlo nel suo amore donativo per l'uomo. Ed è proprio a tal punto che egli sente la necessità di uscire da se stesso per ritornare in mezzo agli uomini e condividere l'amore di Dio per loro, di cui il mistico diventa segno e punto di riferimento.
L'agape, cioè l'amore divino che spinge all'amore verso gli uomini, rappresenta il punto culminante della maturità spirituale cristiana. Il cammino verso tale stadio è paragonato efficacemente alle varie fasi della trasformazione del ferro sotto l'azione del fuoco. L'uomo è come un pezzo di ferro che deve perdere la sua durezza per diventare malleabile nelle mani di Dio: dapprima si riscalda, poi si arroventa, infine si liquefa.
Tutte le esperienze che sgorgano dalla comunione estatica con Dio servono a riscaldare e ad arroventare il cuore dell'uomo; ma alla fine egli si liquefa per assumere la forma che Dio gli vuole dare. Tale liquefazione avviene quando l'uomo ha raggiunto il terzo grado. Soltanto dopo tale liquefazione interiore l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Il santo, infatti, è colui che si presenta come un altro Cristo, capace di viverne i sentimenti e di vedere le cose dalla prospettiva di Dio (Gal 2,20 e Fil 2,5). Ed ecco il tema paolino che ritorna. Anche per Riccardo si pone il dilemma: rimanere con Dio o ritornare agli uomini. A tal punto egli pensa a Mosé, che rinuncia di associarsi a Dio, per rimanere con un popolo di disgraziati destinato alla rovina (Es 32,32).
Teresa d'Avila
Questa mistica immagina il cammino spirituale come un percorso all'interno di un castello a sette stanze. Giunta alla settima stanza, l'anima vive uno stato di matrimonio spirituale con Dio, in cui lo sposo mostra all'anima un anticipo della beatitudine celeste e le consente di vivere un intimo e profondo rapporto con lui. Tale rapporto di unione è l'atto culminante della partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, così che la farà esclamare con Paolo: "Per me vivere è Cristo e morire un guadagno" (Fil 1,21).
Tale unione con l'amore crocifisso per gli uomini, che la porta ad una vivissima solidarietà con l'umanità, mostra subito i suoi effetti. Il primo è l'oblio di sé e il secondo la piena disponibilità a consegnarsi a configurarsi alla volontà divina. La persona non esiste più per se stessa. Questi due effetti associano l'anima al Cristo crocifisso e, quindi, il desiderio di soffrire, se necessario; e il perdono dei nemici.
Benché, Teresa non citi S.Paolo, tuttavia anche lei manifesta il desiderio di rinunciare al desiderio di vedere Dio a favore degli uomini.
LO SPLENDORE DELL'AGAPE
Che cos'è l'agape? Essa potrebbe essere sintetizzata dall'espressione giovannea di un Dio che "ha tanto amato gli uomini da donare suo Figlio" (Gv 3,16). Un amore, quindi, che ha assunto la concreta espressione storica del volto di Cristo, che non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso per gli uomini fino alla morte di croce.
Ciò che muove Dio verso gli uomini è l'amore per loro. Dio non è un ente benefico che elargisce come la dea bendata i suoi benefici, ma egli si prende cura individualmente, perché l'amore non è mai un qualcosa di generico.
Questo amore divino riversato sugli uomini ha anche delle conseguenze sugli stessi, i quali, proprio perché amati per primi, sono chiamati ad amare con lo stesso amore con cui sono stati amati. Essere capaci di amare con le dimensioni divine della gratuità e della fedeltà è la questione primaria per il mistico.
E' possibile l'altruismo?
Ma si pone subito un quesito: è possibile per l'uomo, essere limitato sempre in cerca di un proprio tornaconto più o meno inconscio, amare veramente in modo gratuito? Il dono, per quanto gratuito, dà origine ad un contraccambio. Dove va, dunque, la gratuità?
Vi è, tuttavia, un modo di donare che trova la sua più intima soddisfazione e ricompensa nell'atto stesso del donare e che, comunque, non chiede il contraccambio, come l'amore parentale. E' necessario porre, quindi, una distinzione tra il dono e l'atto del donare, che si muove, se sincero nella gratuità. Del resto, l'amore, di cui il dono è una concreta espressione, è per sua natura gratuito, altrimenti non sarebbe amore, ma soltanto merce di scambio. E il test che garantisce la gratuità dell'amore e del dono è la gioia e la soddisfazione, che si provano nel gesto stesso del donare e dell'amare, nonché il senso di arricchimento che ne consegue.
La gratuità nel dono e nell'amore è, dunque, possibile, anzi è richiesta per l'autenticità del gesto stesso.
Dio agisce per amore di se stesso
Per alcuni il pensare ad un Dio che ama disinteressatamente le sue creature è incomprensibile. Se Dio ama, ama mosso dall'amore per se stesso e non per le sue creature, che se egli ama, le ama in quanto sono in se stesso e, in qualche modo parte di sé, senza volere con questo cadere nel panteismo. Dietro questo amore, dunque, sembra esserci quasi un narcisistico amore di sé.
Per comprendere la gratuità dell'amore di Dio e come questo investa le sue creature, basta guardare alla natura stessa dell'amore. Esso è totale apertura di sé all'altro, totale dono di sé all'atro, totale accoglienza dell'altro in sé. Questa concezione di amore, che in Dio non delinea un sentimento, bensì un atteggiamento che gli è connaturato, fa sì che Dio non possa fare a meno di amare, cioè di donare.
La creazione, pertanto, è frutto di un atto libero e gratuito di questo amore, che promana dalla stessa natura di Dio e dice, nel contempo, la sua natura. Dio non può fare a meno di donare, perché ciò gli è "imposto" dalla sua stessa natura di amore. E in questo dono di amore, che si fa creazione e creatura, Dio si riconosce e si rispecchia in esse. In tal senso, è significativo il commento che accompagna ogni atto della creazione. "E Dio vide che ciò era cosa buona": è Dio che non solo vede nella creazione la perfetta corrispondenza con la sua volontà, ma in essa si vede e si riconosce, poiché tutto è stato fatto a sua immagine e somiglianza; tutto gioisce della sua gloria incandescente con cui ogni creatura è rivestita.
La provocazione dell'agape
Ma il dono di amore, che si attua nel volto sofferente e glorioso di Cristo, non è indifferente all'uomo, perché gli chiede una contropartita di amore: il decidere la propria vita per questo amore, lasciandosi assorbile, assimilare e configurare all'Amore primordiale, da cui defluisce ogni forma di vita. Questo amore chiede, come risposta, un libero atto di adesione esistenziale a fronte di un amore già donato e che splende nella redenzione già compiuta, in cui l'uomo è invitato ad entrarvi liberamente.
Tale risposta esistenziale non grava sull'uomo come un peso coercitivo o come un tributo da pagare ad un Dio che si erge sovrano sulla sua creatura e la domina, ma come una proposta di liberazione già avvenuta, che l'uomo può anche rifiutare. Egli sulla croce attirerà tutti a sé, ma non impone a nessuno di rimanere vincolato a sé.
In definitiva, la risposta di amore che il credente può dare, nasce da un suo intimo e libero atto di riconoscenza e non un tributo o una contropartita che egli deve pagare.
DALL'EROS ALL'AGAPE
Se da un lato, l'uomo pregno di eros, cioè di desiderio che lo fa tendere verso l'altro per un senso di affermazione e di appagamento di sé; dall'altro, è anche vero che nel volto storico di Cristo crocifisso splende l'amore agapico divino, cioè un amore totalmente libero e gratuito speso per l'affermazione e il recupero dell'uomo alla stessa dimensione divina.
Come avviene, dunque, questo passaggio dall'eros all'agape?
Pedagogia dell'amore
Nella sua opera "De diligendo Deo", s.Bernardo traccia un percorso di redenzione dell'eros, scandito in quattro tappe: a) amare se stessi per se stessi; c) amare Dio per se stessi; c) amare Dio per Dio; d) amare se stessi per Dio.
Nel primo e quarto punto di questo cammino vediamo un amore speso per se stessi. Identico, quindi, è l'oggetto dell'amore, ma abissale ne è la motivazione: nel primo vediamo un eros che, incluso nel sé come sua intrinseca forza vitale, punta, per sua natura, all'affermazione del sé; nel secondo vediamo un sé che trova la sua affermazione in Dio e da Lui proveniente, così che tale affermazione lo apre anche all'altro da sé.
In ciò vi è una sorta di trasformazione dell'eros in agape, cioè di un amore ristretto nei propri confini e preoccupato di se stesso in un amore capace di trascenderli e, proprio, in questo trascendimento ritrova se stesso e la propria affermazione.
In questo gioco di passaggio e di trasformazione dell'eros in agape, non si deve pensare ad un eros che perde la sua natura, che rinnega se stesso per affermare l'altro, così che eros ed agape risultino tra loro irriducibili e inconciliabili; ma è un eros, che nel suo cammino evolutivo del sé verso l'altro da sé, scopre l'altro come fonte di affermazione di sé. In tal modo eros ed agape risultano tra loro intrecciati, anzi, per la verità, l'agape risulta ad essere la fase evolutiva più perfetta e piena dell'eros.
La forza trasformante della compiacenza
Il primo atto che Dio compie quando chiama a sé una persona è quello di abilitarlo all'agape, cioè quello di renderlo capace di superare i ristretti limiti del sé per aprirlo all'oceano dell'altro; fargli capire come l'altro non è la tomba del sé, ma lo spazio della sua piena realizzazione. Soltanto in tal modo il sé è garantito contro il suo annichilimento e ritrova nell'altro da sé il proprio compiacimento e la propria soddisfazione.
L'esperienza di Dio, che ogni credente è chiamato a compiere, porta il credente a comprendere la bellezza dell'amore gratuito e a cogliere in esso il luogo della propria realizzazione. Esperimentando questo amore gratuito, il credente impara ad amare gratuitamente, così che al termine di questo cammino nasce il sentimento dell'agape, cioè di un amore gratuito, che da Dio si riversa naturalmente sull'altro e si fa carità, intesa come sacramentalizzazione dell'amore gratuito di Dio, che travasatosi in me, rimbalza sull'altro, così che l'altro coglie e sperimenta nel mio amore quello divino.
E', dunque, la compiacenza, cioè il piacere dell'amore gratuito che io ho esperimentato nella mia comunione con Dio, a costituire la forza che mi traghetta dal mio eros all'agape, che si fa, poi, carità. Il mondo agapico di Dio diventa così il mio mondo e trova, nel mio vivere quotidiano, la sua naturale esplicitazione nella carità.
Nella compiacenza, infatti, sono presenti due forze: quella dell'eros che cerca la sua gratificazione e quella del superamento dei ristretti confini del sé, che alla fine del cammino coincideranno. Infatti, l'eros, così purificato e coinvolto nell'amore divino, riuscirà a trovare il proprio appagamento in ciò che è altro da sé. In tal modo la forza dell'agape si identifica esattamente con quella dell'eros e viceversa.
Il distacco
L'eros, presente nella persona fin dal suo nascere, non è naturalmente rivolto all'altro, ma per sua natura è finalizzato ad affermare il sé. Serve tutto un cammino di educazione per aiutare l'eros a distaccarsi dalle proprie naturali tendenze e fargli cogliere come i suoi obiettivi possono essere raggiunti egualmente e in modo più soddisfacente e realizzante attraverso l'affermazione dell'altro. Si tratta, in buona sostanza, di polarizzare l'eros sull'altro, distaccandolo da un avvilente ripiegamento narcisistico sul sé.
Questo distacco, delineato da Plotino con l'espressione "afairesij" (togliere, levar via), indica la disincrostazione di tutto ciò che appesantisce la forza vitale dell'eros, impedendogli il salto di qualità verso l'agape. Si tratta di liberare l'eros dagli appesantimenti egoistici che spingono la persona a chiudersi e ripiegarsi in se stessa, tutta preoccupata a salvaguardare la sua integrità. L'egoismo tarpa le ali riducendo l'aquila ad una gallina.
Il distacco, che dice liberazione dalla preoccupazione di sé, aiuta l'uomo a partecipare all'amore proprio di Dio, caratterizzato dall'assoluta gratuità e teso all'affermazione dell'altro, poiché soltanto in tale affermazione il sé troverà la propria piena realizzazione.
Conclusione
Il modello dell'amore cristiano lo troviamo in Dio, che ha tanto amato il mondo da donare suo Figlio. Un amore libero, distaccato; un amore che fa sempre sorgere il sole sui buoni come sui cattivi; un amore che si esprime nella benevolenza di un Dio che, lasciate le novantanove pecore nel chiuso di una staccionata, va alla ricerca di quella smarrita e, trovatala, fa festa.
Un amore, ancora, che è di reciproca corrispondenza e di libero scambio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che si manifesta nella donazione pasquale del Figlio. Un amore che è totale apertura dell'uno agli altri, totale donazione di sé agli altri, totale accoglienza degli altri in sé.
Tale amore divino o agapico viene proposto all'uomo in Cristo e in Cristo l'uomo, a lui configurato per grazia, viene abilitato a viverlo pienamente.
MISTICA E AFFETTIVITA'
L'esaltazione odierna dell'eros ha portato ad assorbire in sé l'intera sfera affettiva, togliendogli ogni altro spazio e caratterizzazione. Anche l'amicizia ne è stata coinvolta. Spetta, pertanto, alla spiritualità cristiana restituire gli spazi rubati a tale naturale e costruttivo rapporto tra persone.
Aelredo nel suo trattato sull'amicizia espone alcuni principi per vivere questo rapporto in un orizzonte evangelico. L'amicizia viene da lui definita come l'avere le medesime convinzioni, la medesima volontà unita ad un sentimento di benevolenza. Essa si presenta, quindi, come una sorta di vincolo affettivo che lega tra loro gli animi in un sentire comune, facendoli muovere nello stesso orizzonte.
Difficile, comunque, dare una definizione di amicizia; forse più semplice è descrivere alcuni tratti del vero amico: egli è il custode dell'animo, ne conserva tutti i segreti, correggendo e sopportando i difetti che scorge; si rallegra e si rattrista per le gioie e le tristezze dell'amico. C'è, quindi, una sorta di simbiosi affettiva che li lega profondamente e si nutre di gratuità reciproca.
Può esserci anche un'amicizia tra persone malvagie e corrotte. Aelredo non la nega, ma la definisce una falsa amicizia, perché manca dell'elemento della gratuità e legata a interessi estranei all'amicizia stessa, per cui essa viene, in questo caso, soltanto strumentalizzata. Al contrario la vera amicizia favorisce la reciproca crescita morale e spirituale. Essa, pertanto, diviene un valore duraturo su cui si basa il reciproco rapporto.
La vera amicizia, per Aelredo, è, comunque, soltanto quella spirituale che lega due spiriti alla ricerca di un bene non mondano, ma spirituale. L'elemento della sua autenticità è riposto nella durata: una vera amicizia dura per sempre, mentre il suo venir meno mette in luce le motivazioni inautentiche su cui essa era fondata.
Una vera amicizia, poi, viene accostata alla carità, senza la quale non può vivere, ma anzi ne è espressione concreta. Tale amicizia sopravvive anche là dove ci sono delle difficoltà di rapporto, proprio perché essa tutto spera, tutto crede, tutto sopporta, tutto è pronta a perdonare e scusare.
Essa, tuttavia, si distingue dalla carità, poiché questa è aperta anche ai nemici, mentre l'amicizia si consuma tra spiriti affini che si sono scelti reciprocamente. Essa non è rifiuto dell'amore, ma una sua modalità di attuazione ed è un forte sostegno a vivere l'agape, favorendo la comunione, che caratterizza la comunità e il vivere cristiano.
Aelredo, poi, individua anche delle motivazioni teologiche su cui si fonda l'amicizia. Essa è vista come la traccia che Dio ha lasciato di sé in ogni uomo e si radica, più che nella Trinità, nell'unità di Dio. Infatti, l'amicizia tende a fare degli amici un cuor solo e un'anima sola, pur nel rispetto delle proprie reciproche differenze, colte come motivo di reciproco arricchimento.
Vede, ancora, nella creazione delle diverse specie animali una sorta di metafora dell'amicizia, perché ognuno di essi faccia amicizia con la propria specie, in cui si ritrova e si riconosce. E così, parimenti, per l'uomo, creato maschio e femmina, di pari dignità perché possa in questa diversità trovare motivo di comunione e condivisione.
L'amicizia, dunque, è un dono creato da Cristo nella nostra esistenza perché in esso possiamo comprendere qualcosa di più di Dio, avvicinandoci a Lui. La benevolenza dell'amico è la stessa benevolenza di Cristo, che attraverso quella dell'amico ci fa sperimentare la sua. Il rapporto amicale diventa così un'immagine del nostro rapporto futuro nella celeste Gerusalemme.
Il senso spirituale della sessualità
Secondo il pensatore russo Salovev, l'amore coniugale possiede una valore spirituale. Esso è dato da due elementi fondamentali: a) l'assoluta originalità della sessualità umana rispetto a quella animale circa il suo fine, che non si limita alla riproduzione della specie, ma punta all'unificazione dell'uomo; b) la necessità che l'uomo possa trovare un suo riscatto nel superamento degli stretti confini del suo Ego, grazie all'unione-fusione con il proprio partner, e unirsi così alla totalità del cosmo, che lui chiama l' "Unitotalità" o totalità unificata.
Per Salovev la sessualità umana non può essere ridotta ad un mero meccanismo di riproduzione della specie. Ciò è dimostrato dal fatto che nell'esercizio della sessualità si possono avere i due casi contrapposti di una mera riproduzione senza amore e di un amore senza riproduzione. Di conseguenza l'uso della sessualità è polivalente.
Egli sottolinea la dignità dell'uomo e della sua sessualità rispetto a quella animale, poiché l'uomo è capace di profonde evoluzioni che lo possono elevare a livelli di perfezionamento senza limiti. Per questa sua capacità di evolversi all'infinito, anche la sua dignità è illimitata.
Tuttavia, in questa sua illimitata dignità l'uomo deve fare attenzione a non porsi talmente al centro di tutto da disconoscere la dignità altrui, poiché a tal punto sconfina nell'illecito con gravi ripercussioni personali e sociali. Ecco allora che l'amore, cioè la capacità dell'uomo di autotrascendersi per incentrarsi nell'altro, è l'unica forza che lo libera dai propri limiti.
L'amore sessuale, se autentico, diversamente non è amore, è l'espressione concreta di questa sua capacità di superamento e di ritrovarsi e fondersi nell'altro, così che "i due formeranno una carne sola". Nell'amore sessuale, dunque, abbiamo l'uomo che va verso la sua unificazione totale, creando, proprio attraverso e in questa unificazione, un nuovo essere che lo rende immagine e somiglianza di Dio e, quindi, capace di donare la vita.
L'amore sessuale, quindi, ha un compito spirituale ben preciso: quello di collocare l'uomo a livelli di unità divina nel superamento della sua mascolinità e femminilità. Da qui nasce l'uomo autentico, l'uomo ad immagine del suo Creatore.
L'amore, in tutte le sue forme espressive, ha il compito di dare valore assoluto alla persona o, meglio, aiuta a scoprire nella persona il suo valore assoluto, in cui ci si ritrova al punto tale da non poterne più fare a meno. Un amore, quindi, che tende a riscattare la persona dalla sua quotidianità ed elevarla verso una idealizzazione, che dice appunto la sua illimitata dignità, avendo riscoperto in lei l'immagine e la somiglianza divine.
Posti in questa cornice, l'amore coniugale compie una missione mistica, spirituale e religiosa, poiché in essi scoprono il mondo del divino, che viene celebrato nella quotidianità della fedeltà, del rispetto e dell'affermazione dell'altro, trasformando in tal modo la propria vita in una liturgia di lode e di ringraziamento.
Un eros, quindi, che è capace di raggiungere le cime più elevate dell'agape, in cui il maschile e il femminile costituiscono una nuova entità assimilata a quella divina, chiusa in un circolo di amore espansivo, che si esprime nella carità.
Anche secondo i coniugi Maritain (Raissa e Jaques Maritain) l'amore coniugale può portare alla perfezione umana che si apre nella carità perfetta.
Considerare il matrimonio come un "remedium concupiscentiae" o uno stato imperfetto di vita, rispetto allo stato di verginità, sostenuto da quelle che Jaques chiama le pseudo-teologie, è arrecare una grave offesa al matrimonio e precludersi la strada alla sua vera comprensione.
L'amore coniugale, in quanto espressione del vivere umano, è soggetto anche lui ad una evoluzione che va dall'innamoramento romantico ad un amore più autentico, donativo ed folle.
Quanto all'innamoramento, mentre Saloviev lo vedeva come una forma di illuminazione e di scoperta della bellezza e del divino nella persona, Maritain la considera come una fase necessaria, ma ancora acerba dell'amore, che richiede un suo superamento.
Quanto all' "amore folle" esso costituisce la fase finale del vero amore, in cui l'impeto dell'affetto conduce l'amante fuori da sé e, quasi in un'estasi naturale, si identifica con l'oggetto del proprio amore e porta il coniuge a rinunciare a se stesso per l'affermazione dell'altro: è il vertice di perfezione del rapporto uomo-donna.
Ciò implica l'unione fisica, ma essa non va letta come mero soddisfacimento sensuale, ma come il linguaggio concreto ed espressivo del vertice amoroso che anima i due. In ciò si ha una sorta di reciproca consacrazione che coinvolge interamente e profondamente i due.
Caratteristica dell'amore folle è l'assolutizzazione dell'altro: la persona amata diventa il tutto per l'altro, che vi si identifica.
Questo amore folle trova la sua concretizzazione nel quotidiano attraverso la carità, che assimila l'amante a Dio stesso, perché ci rende partecipi di ciò che egli è: amore accondiscendente. In tale cornice anche l'atto sessuale non diventa un impedimento alla vita mistica, né alla contemplazione, poiché esso è il linguaggio dell'amore, che apre a Dio. Tuttavia, Maritain nega che l'amore folle possa essere contemporaneamente tale per il coniuge e per Dio, poiché tale amore è esclusivo e chiede una rinuncia.
Ordo amoris
Vediamo, ora, il senso teologico dell'affettività. Origene, in una sua omelia, mette in rilievo il rimprovero di Dio rivolto agli Israeliti per essersi piegati alle varie divinità. Ma quante altre divinità noi abbiamo nella nostra vita di tutti i giorni? Tutti siamo disposti a riconoscere l'assolutezza di Dio, ma nella nostra quotidianità la nostra attenzione va alle cose che più amiamo, a cui maggiormente siamo legati e per le quali siamo disposti a sacrificarci. Tutte cose che ci separano, di fatto, da quel Dio che, in via teorica, riconosciamo e dichiariamo unico e assoluto, ma che spesso non riesce a reggere il confronto con i nostri piccoli idoli di tutti i giorni.
Come si vede, si tratta del nostro rapporto che intratteniamo contemporaneamente sia con Dio che con le realtà terrene. E' un rapporto basato sul sentire le cose, sul nostro grado di apertura ad esse e sulla nostra disponibilità a lasciarci afferrare da queste.
L'affetto, pertanto, che dice il nostro livello di apertura e attaccamento a ciò che è altro da me e la mia disponibilità a legarmici, può trasformarsi in motivo di idolatria, nella misura in cui mettiamo in concorrenza Dio con le cose, facendogli spesso perdere il confronto.
L'affetto, per Origene, è un sentire legittimo e naturale, ma può farci prendere una piega sbagliata e aprirci all'idolatria.
A differenza delle cose che, impadronitesi dei nostri affetti, ci tengono legati ad esse, Dio illuminando di sé l'affettività, ci dà una giusta comprensione delle realtà, creando al loro interno una sorta di ordine gerarchico, che ci aiuta ad orientarci tra le realtà quotidiane, sapendo dare a loro il giusto valore.
Soltanto ciò che è assoluto può darci il senso della relatività delle cose, poiché ciò che è relativo ci spinge ad aggrapparci ad esso per esserne fatto un assoluto.
Dio si presenta a Israele come un "El kannah", "un Dio geloso che punisce le colpe dei padri nei figli fino alla terza e quarta generazione" (Es20, 5). E' un Dio, infatti, che non ammette concorrenza: "non avrai altri dèi di fronte a me" (Es 20,3). Si noti come Dio non esclude altre divinità, non ne mega l'esistenza, ma non vuole essere messo a confronto o in concorrenza con essi.
Così Dio non esclude gli affetti, ma non vuole che questi amori siano tali da offuscarlo e de deviare l'uomo da Lui. Tuttavia questa esclusiva che Dio vuole per sé non restringe gli orizzonti dell'uomo, ma anzi assume quelli stessi divini: proprio perché ci dedichiamo totalmente a Dio diventiamo anche capaci di darci totalmente agli altri, perché ameremo, allora, con gli stessi infiniti parametri divini.
Posta in questa cornice, l'affettività umana comincia ad amare entro le logiche divine, poiché essa diventa conseguenza di quell'amore divino che la permea. Essa non sarà più per te e basta, ma per tutti.
Ma che cosa significa che ogni creatura deve essere amata per Lui? S.Francesco di Sales stabilisce un suo ordo amoris partendo da una riflessione sul Cantico dei Cantici. Il re apprezza di essere attorniato da molte fanciulle, ma tra tutte ne preferisce solo una.
A cosa alludono le fanciulle? Esse rappresentano i vari stadi di evoluzione personale nell'amore. Sono quelle persone che, liberate dal peccato, sono rivolte a Dio, ma molte altre cose le distraggono da Lui.
Così l'amore per la concubina è pari a quello di quei cristiani che, pur amando sinceramente Dio e si tengono lontani dal male, tuttavia sono legati da un altro amore, che impedisce loro di fare un salto qualitativo verso Dio.
Ci sono, poi, le regine; sono quelle persone che amano Dio per Dio, capaci di un amore esclusivo per Lui.
Infine vi è la regina preferita, l'unica veramente corrispondente all'amore del sovrano. L'amore di questa per il sovrano ha la caratteristica della gratuità. Essa non soltanto ama Dio al di sopra di tutte le cose, ma lo ama in tutte le cose. Le cose non hanno più potere distraente per lei, ma riconducono sempre al suo amato.
La colomba rappresenta il livello dell'esperienza mistica. Qui la regina accede all'amore folle. Uomini e creature sono sempre amati, ma dentro Dio.
A conclusione, quale funzione svolge l'affettività umana nel cammino verso Dio?
Va subito detto che l'affettività nel cristianesimo trova la sua eco e il suo inquadramento nell'amore di Dio, cantato dalla lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11), in cui cogliamo l'amore folle di Dio per l'uomo, per il quale non esita a svuotarsi delle sue giuste e connaturate esigenze divine fino a toccare il fondo di una morte ignominiosa. Un amore che ha per oggetto il mondo segnato dalla colpa e tale da tradursi in un dono, che storicamente assume le fattezze del volto stesso di Cristo (Gv 3,16).
Un amore che dispiega tutta la sua efficacia e il suo splendore proprio nel momento dell'annullamento; un amore che canta la sua vittoria più brillante sul peccato proprio nel momento della più vergognosa delle sconfitte: la morte di croce.
Un amore così vissuto è un amore che ti assimila a Cristo, ti fa un tutt'uno con lui, così che Paolo esclamerà: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).
IL CORPO SPIRITUALE
Il cristianesimo, nella sua concezione sull'uomo, è rimasto profondamente condizionato dal platonismo, che lo ha portato ad una dicotomia tra anima e corpo e, da qui, ad una loro insanabile contrapposizione, che vedeva vincente lo spirito sulla carne con tutti i relativi connessi di emozioni, sentimenti, affetti, sessualità.
Vediamo come la mistica ha vissuto e pensato la corporeità.
La posizione classica
Influenzato dalla cultura greca, che vedeva nel corpo il carcere dell'anima e nelle emozioni, negli istinti e nelle passioni il turbamento dello spirito, anche il cristianesimo si collocò su tali posizioni.
Tuttavia, ad onore della verità, va detto che bisogna distinguere una concezione duale dell'uomo, visto come un insieme di anima e corpo, da una visione dualistica, che vede i due composti in contrapposizione tra loro. Il pensiero platonico, pur muovendosi nell'ambito del dualismo orfico-pitagorico, tuttavia è un tentativo di superamento dello stesso. L'orfismo, infatti, ritenendo l'anima preesistente, la considerava come innaturalmente posta nel corpo, in una collocazione del tutto provvisoria. Essa, infatti, doveva continuamente reincarnarsi finché non si fosse completamente purificata. Il corpo, dunque, era un carcere di punizione, in cui l'anima era costretta per l'espiazione delle sue colpe.
Platone vede un'anima nel corpo, ma non in termini negativi e di costrizione. L'uomo, infatti, è una sorta di sinfonia dei due elementi, congiunti tra loro da una decisione del Demiurgo. Non vi è in Platone un disprezzo del corpo, ma rispetto, così che egli invita ad averne cura. Le affermazioni negative verso il corpo assumono l'aspetto di provocazioni contro il mondo orfico. La passionalità, infatti, non è attribuita da Platone al corpo, ma allo spirito, alle sue parti irrazionali: quella irascibile e quella concupiscibile.
Platone non suggerisce, comunque, la soppressione delle passioni o degli istinti, ma un loro coordinamento e sottomissione alla parte razionale dell'uomo. Esse, quindi, sono concepite positivamente e a servizio dell'uomo. Non si tratta di un dominio forzato dell'una sugli altri, ma una sorta di collaborazione, in cui la ragione è stimolata dalla passionalità e questa è imbrigliata e resa efficace forza vitale e creatrice nell'uomo.
I Padri della Chiesa seguono la posizione platonica-aristotelica: le passioni non sono un pericolo da sconfiggere, ma delle energie da canalizzare a servizio della vita. Non sono né un bene né un male, ma costituiscono una ricchezza patrimoniale della persona.
La svolta post-moderna
Se per il mondo greco l'uomo era essenzialmente uno spirito costretto in un corpo, per il Nietzsche l'uomo è essenzialmente un corpo, colto come un centro coordinatore e propulsore di tutto l'uomo, assimilando in sé le funzione che un tempo erano proprie dell'anima.
In fondo il Nietzsche non pensa in modo molto dissimile da ciò che credeva l'uomo antico, il quale riteneva di essere il proprio corpo, concepito come un concentrato di energia viva. Un corpo, quindi, sottoposto ad una forte tensione interiore, che il Nietzsche definisce come volontà di potenza. Un corpo strettamente legato alla dinamica della natura e, pertanto, sottratto alle leggi morali; un corpo, quindi, che si poneva al di la del Bene e del Male.
Contrariamente al Nietzsche, l'uomo della Bibbia, concepito come un corpo spiritualizzato e spirito incarnato, riteneva nella sua profonda e osmotica dualità di poter incontrare Dio, mosso da un suo interiore spirito religioso, una sorta di sete di Dio, che lo spingeva verso il Bene e rifuggire il Male.
Una sintesi
Quali conclusioni possiamo trarre da questi due modelli antropologici? Certamente una valorizzazione del mondo delle passioni, delle emozioni, dei sentimenti, degli istinti e della sessualità quali forze vitali e vitalizzanti, che costituiscono, alla fin fine, il mondo dell'eros, della passionalità e si esprimono nel desiderio, che sottopone ad una forte tensione l'intera personalità.
Ma anche la necessità di un coordinamento razionale di questo patrimonio vitale perché, privo di argini, non travolga l'uomo disperdendolo in un desiderio senza meta, che ricade su se stesso fragorosamente.
Guglielmo di Tierry riteneva che il monaco maturo fosse quello che si lasciava condurre dalla ragione, si lasciava trascinare dal sentimento e moderare dalla discrezione.
Ogni atto di volontà deve essere animato e sostenuto da una brama che lo sospinge verso la sua meta, desiderata.
L'esperienza del "corpo spirituale"
Vediamo, ora, l'atteggiamento dei mistici nei confronti del corpo. "Sentirsi corpo" o "avere un corpo" dice un serio quanto drammatico passaggio culturale dall' "essere" all' "avere" e, quindi, dal "sentirsi dono" al "possedere e dominare su corpo". C'è, dunque, un passaggio da un concetto spiritualistico della vita ad uno materialistico, in cui il corpo da dono diventa oggetto di scambio e di commercializzazione. C'è, di conseguenza, una perdita di valore della persona e di senso della vita.
La spiritualità cristiana, alla luce della risurrezione, suggerisce un recupero della corporeità, colta non soltanto nella sua materialità, ma come spazio di redenzione per l'uomo. In altri termini, se l'uomo si salva, ciò avviene nella sua corporeità e per suo mezzo. Il corpo, pertanto, riscattato dalla stessa risurrezione di Cristo, diventa il luogo futuro di un mondo redento.
La libertà di spirito
Giovanni della Croce, formato alla scuola della Scolastica e sensibile alla dicotomia platonica, sente molto il contrasto tra la necessità di un autodominio e la tendenza a lasciar libero corso all'istintualità e alla passionalità. Tuttavia, egli non considera quest'ultima come un elemento negativo, bensì, se adeguatamente educato, un bene arricchente. Infatti l'uomo, lasciato a se stesso, diventerebbe il peggiore nemico di sé e quelle forze, che ben coordinate costituirebbero un patrimonio del tutto positivo, si rivolterebbero contro di lui distruggendolo.
Al fine di evitare tale catastrofe, egli consiglia il suo discepolo ad acquisire la "libertà di spirito", quella che noi chiameremmo la "purezza di cuore", poiché "omnia munda mundis".
In merito a questa libertà di spirito, posta in relazione all' "appetito sensitivo", egli afferma: a) l'uomo coglie le realtà migliore non con i sensi, ma con la sua razionalità; b) se lascaita a se stessa, la sensualità tende a prevalere sull'uomo; c) tuttavia, nonostante questa propensione alla sensualità, i sensi dell'uomo possono essere illuminati dallo spirito.
L'armonia tra corpo ed anima
Nell'esperienza dei mistici non si trova soltanto una tensione tra anima e corpo, materia e spirito, ma anche armonici punti di contato e di reciproca compenetrazione. Ecco i momenti di contatto armonizzato tra le due realtà:
Tensione tra corpo e spirito
Proprio perché l'esperienza mistica coinvolge in qualche modo il corpo, questo, coinvolto nell'esperienza dello spirito, mostra tutta la sua inadeguatezza a sostenere tali esperienze dirompenti. In tal senso si comprende l'affermazione di Dio nei confronti di Mosé, che gli chiedeva di mostrargli la sua gloria: "... tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo" (Es 33,20).
Del resto, il credente, spiritualmente maturo, conduce la sua vita nelle realtà spirituali, che sperimenta interiormente, ma che sente anche sensibilmente; e denuncia tutta la sua inadeguatezza di questo suo sentire delle realtà, che già sono presenti e vivono in lui, ma che non è ancora in grado di parteciparvi pienamente per la limitatezza del suo corpo. Il mistico rileva qui quello che la teologia escatologica sottolinea come la forte tensione esistente nel credente tra il "già" e il "non ancora". In questo caso il corpo è sentito veramente come un carcere, che impedisce di godere di una piena beatitudine e tiene in una sorta di esilio terreno il mistico. Può crearsi, allora, una sorta di frustrazione per la triste condizione in cui il mistico viene a trovarsi: sospeso tra cielo e terra, lanciato verso il cielo, ma fastidiosamente trattenuto sulla terra da un corpo del tutto inadeguato e misero, che fa sentire tutto il peso della sua decadenza.
La cura del corpo
Di fronte ad un corpo che frustra le aspirazioni mistiche, sembrerebbe logico che nel mistico nasca un giusto disprezzo per questa palla al piede, che non gli permette di volare pienamente.
In realtà, il mistico non vuole liberarsi del corpo, a cui appartiene e in cui si identifica, ma ne vuole il suo pieno riscatto. Infatti, finché il corpo è lasciato a se stesso, senza essere coinvolto in tali esperienze, grazie ad una adeguata preparazione ascetica, esso costituirà sempre un intralcio. Il corpo materiale deve essere educato al mondo dello spirito proprio grazie ad una rigorosa ascesi, che lo renderà disponibile, sensibile e pronto a rispondere al dischiudersi del mondo dello spirito.
Non disprezzo del corpo, quindi, ma particolare attenzione e cura perché esso deve sostenere il mistico nella sua esperienza spirituale. Quando si parla di corpo o di corporeità nella mistica non si intende soltanto il corpo fisico, ma anche la stessa vita fisica che si conduce nella quotidianità e nella relazione con gli altri. Ed è proprio attraverso questa corporeità del vivere che deve trasparire la luminosità dell'esperienza mistica, che è esperienza del mondo spirituale. In tal modo anche gli altri, con cui ci relazioniamo, possono parteciparvi o intuirvi la bellezza e la dolcezza di un mondo sconosciuto ai più.
Vediamo, dunque, come l'esperienza mistica non è una astrazione dal mondo materiale, ma una unificazione, un'armonizzazione tra i due mondi e come, proprio attraverso questa rappacificazione, l'uomo tocca i vertici della propria maturità umana.
APPLICAZIONI
IL CAMMINO DI CONVERSIONE
Cercheremo di vedere in questo capitolo la strumentazione idonea a percorrere il sentiero della mistica e quali sono le idee guida che la informano.
La prima riflessione che nasce nell'intraprendere questo cammino è la certezza che l'accedere a Dio e al suo mondo non dipende da una semplice decisione dell'uomo, ma da una chiamata divina. E' Dio che ha sempre l'iniziativa e parte per primo. Senza questa sua iniziativa l'uomo rimarrebbe fermo al palo. Con tale consapevolezza Geremia si rivolge a Dio e lo invoca: "Signore, fammi ritornare e io ritornerò" (Ger 31,18). E' Lui, dunque, che ha sempre l'iniziativa della riconciliazione; l'uomo è chiamato a rispondere.
Cercare Dio, pertanto, è lasciarsi afferrare da Lui; Egli, infatti, è sempre vicino a chi lo cerca con cuore sincero (Sal 144,18) e lo accompagna, per mezzo del suo Spirito, nel cammino verso di Lui. E' proprio il suo Spirito, infatti, che crea in noi "gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù" (Fil 2,5), cioè lo stesso modo di sentire, di vedere e di ragionare di Dio. E' lo Spirito che ci aiuta a vedere le cose dalla prospettiva di Dio e ce le fa comprendere con la stessa intelligenza di Dio. E', dunque, grazie allo Spirito che noi siamo assimilati e configurati a Cristo, così che possiamo esclamare con Paolo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). In tal modo la mia vita diventa la manifestazione di Cristo in me.
Fatica e leggerezza
In un cammino di conversione dobbiamo coltivare due certezze: la prima, Dio ci desidera e il suo desiderio ci attrae a Lui; la seconda, Egli ci afferra, facilitandoci il nostro avvicinamento a Lui. Ma a questa iniziativa di Dio deve corrispondere la nostra risposta, senza la quale diventa impossibile a Dio realizzare il suo desiderio. E' necessaria, per così dire, una collaborazione con il divino.
Lo Pseudo Macario parla di due fasi di questo cammino: quella in cui prevale la fatica e un senso di pesantezza, quasi fossimo lasciati soli; e quella in cui ci sembra facile e leggero il nostro cammino verso di Lui, ottenendo dei risultati superiori al nostro reale impegno, grazie alla presenza in noi dello Spirito.
Lottare e combattere è compito del credente, ma sradicare il male spetta a Dio. Rimane basilare, infatti, nell'ascetica cristiana che Dio completerà nell'uomo quanto l'uomo ha già incominciato per grazia divina.
L'unità del cuore
Il primo risultato che si ottiene in questo camminare verso Dio, lasciandosi afferrare dal suo desiderio di noi, è una maturazione della propria umanità, che parte dalla propria interiorità e consiste in un recupero della vita interiore.
Soltanto nel rifacimento della nostra interiorità noi diamo credibilità anche al nostro agire; soltanto allora il nostro agire sarà veramente trasformante e delineerà in noi uno stile di vita riconoscibile e autentico. Ci sarà, quindi, coincidenza tra l'essere e l'apparire.
L'ascesi, che facilita in noi l'azione dello Spirito, farà nascere in noi un cuore pacificato, riconciliato con se stesso e con Dio.
L'obbedienza a Dio
L'autenticità di un cammino di conversione è sostanziata sempre dall'obbedienza a Dio. Un'obbedienza che non va intesa come umiliazione e sottomissione, ma come il creare in noi uno spazio interiore da riservare a Dio, un mettere da parte le nostre esigenze per accogliere e far proprie quelle di Dio.
La cultura teologica può fungere da stimolo in una crescita spirituale, ma sarà soltanto il nostro aprirci a Dio e l'accoglierlo nella nostra vita che ci assimilerà a Lui. La teologia, pertanto, raggiunge il suo scopo soltanto se riesce a condurre l'uomo a Dio, diversamente essa diviene solo esercizio intellettuale e accademico. Infatti, una cosa è disquisire del pane, altra è il mangiarlo.
Si può ben capire, dunque, che la conversione va a toccare la profondità e la verità della nostra vita intima, l'unica a rendere sincero e autentico il nostro sapere. Di conseguenza, l'insegnare le cose di Dio presuppone, prima, l'averne fatto esperienza, così che si possa trasmettere ciò che noi siamo diventati e non ciò che abbiamo semplicemente acquisito per via intellettuale.
Il discernimento
Oltre che quella della Scrittura, il cercatore di Dio deve saper cogliere e accogliere anche l'altra Parola: quella che lo interpella nel suo quotidiano. In altre parole, deve imparare a saper leggere la storia in senso teologico, cioè saper cogliere, attraverso le pieghe della vita quotidiana, il Dio che lo cerca e lo interpella. In tal senso Paolo esorta la comunità di Roma: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).
Si parla qui, dunque, del dono del discernimento che nasce e si perfeziona sempre più nella misura in cui noi conformiamo il nostro pensare e il nostro giudicare a quello di Cristo. Paolo esorta la comunità di Roma a compiere due azioni fondamentali per giungere al discernimento: la prima, è il non conformarsi alle logiche umane; la seconda, è l'innescare un processo di revisione interiore che ci porti ad un rinnovamento della nostro modo di pensare, sintonizzandolo a quello di Cristo. Soltanto in tal modo riusciremo scorgere la volontà di Dio.
Una simile esortazione la troviamo anche nel vangelo di Marco: "Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mc 8,34). Il seguire Cristo comporta un rinnegare se stessi, cioè la propria mentalità e le proprie logiche umane, per abbracciare quelle di Cristo. Paolo dirà: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù" (Fil 2,5); mentre Pietro si sente rimproverare da Gesù: "Lungi da me satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini" (Mc 8,33). Egli, dunque, è un satana perché ragiona con logiche umane, per questo non può capire il ragionare di Dio. Occorre, per questo un processo di rinnovamento interiore che passa fatalmente attraverso il rinnegamento e la croce. Tutto ciò è quello che S.Giovanni Cassiano chiama "la discrezione o discernimento", che corrisponde alla virtù biblica del "consiglio".
La capacità di discernimento, inoltre, comporta anche un saper cogliere il senso degli avvenimenti e, di conseguenza, il saper prendere la giusta posizione di fronte ad essi; nella coscienza che tutto avviene "nel volere" di Dio, anche se non sempre "per volere" di Dio.
Origene nelle sue omelie sulla Genesi affermava che: "nulla si compie ... al di fuori della sua provvidenza ... Molte cose si compiono senza la sua volontà, nulla però senza la sua provvidenza". Molto, se non tutto, rimane chiuso nel mistero del suo disegno di salvezza, che coinvolge il cosmo intero e ogni sua creatura; un mistero che va rispettato nel suo silenzio, senza voler indagare con nostri ragionamenti e attribuendogli ciò che è totalmente estraneo al suo volere. Siamo certi, comunque, che in ogni circostanza non saremo mai privi del suo aiuto amorevole. Tutto ciò deve sviluppare un sentimento di fiducia e di abbandono in Dio, che non dimentica mai la sua creatura e che ti predispone ad accogliere la grazia dell'imprevisto.
Diceva Doroteo di Gaza, rivolto ai suoi monaci, con la convinzione che scaturisce dalla certezza della presenza divina in ogni avvenimento: "... nulla accade senza la provvidenza di Dio ... in ogni cosa dobbiamo rendere grazie alla sua bontà e non abbatterci o scoraggiarci mai per quanto accade, ma accettare gli avvenimenti senza turbarci, con umiltà e speranza in Dio ...".
Abbandonarsi a Dio e cogliere in ogni omento dell'esistenza l'occasione di grazia che ci viene offerta, sono i due atteggiamenti per vivere un reale rapporto di fede e trovare un'autentica purificazione del cuore. Ciò non significa assoggettarsi passivamente e supinamente agli avvenimenti, ma saper discerne il giusto comportamento, anche di lotta, da tenere in essi. Gli avvenimenti ci mettono allo scoperto e ci dicono chi veramente siamo.
LECTIO DIVINA E MEDITAZIONE
Gli eventi salvifici compiutisi nel passato sono racchiusi nella Parola e tramite essa ci sono nuovamente proposti. Essi, nel loro annuncio, ancor oggi, ci coinvolgono e ci spingono a prendere esistenzialmente posizione di fronte ad essi.
Il mistero di Cristo, dunque, si attua ancor oggi attraverso la proclamazione della sua Parola.
Due i possibili modi di accostarci alla Parola: la "Lectio divina" e la "Meditazione". Nella prima ci introdurranno Origene e Guigo, mentre nella seconda sarà Clorivière.
L'esperienza di Origene
I suoi suggerimenti ci provengono dalla sua esperienza pastorale.
Attualità dello Spirito
Origene dà molta importanza alla predicazione nell'ambito di un'assemblea cultuale. E' in essa che si attua la parola annunciata e la costituisce assemblea celebrante. Lì, dunque, vi si trova il Cristo incarnato nell'assemblea, che ha accolto l'annuncio, cioè il Cristo sacramentato nella sua Parola.
La prima meditazione, dunque, avviene all'interno dell'assemblea per mezzo dell'omelia. Tale riflessione, poi, fatta propria da ogni singolo, viene da questi prolungata a livello personale ed esperienziale.
Gli eventi passati, pertanto, trovano la loro attuazione nell'annuncio meditato e incarnato nel proprio vivere quotidiano, per mezzo dello Spirito che opera attraverso l'omelia e l’ascolto. Mediante l'annuncio è il Signore stesso che si rende presente in mezzo ai suoi attraverso il servizio reso dai suoi annunciatori, mossi dallo Spirito.
In tal modo la storia della salvezza non è ancora chiusa, ma continua e continuamente si attua attraverso l'annuncio e l'ascolto accogliente, che si attua e si celebra nel vivere quotidiano. Non bisogna, quindi, pensare che gli avvenimenti passati, ricordati nell'annuncio, siano fatti accaduti ad altri, ma ognuno deve sentirsi coinvolto in essi come se fossero capitati a lui stesso. Tutte quelle cose si compiono nell'oggi secondo un disegno divino. Così la storia sacra continua e si rende continuamente attuale. Il vero omileta deve saper fare questa trasmutazione e questo passaggio: il messaggio dei tempi antichi deve essere reso presente e attualizzato nell'oggi e nella vita degli ascoltatori di ogni tempo e latitudine.
Il primo luogo della meditazione di una parola annunciata è, dunque, l'assemblea liturgica, così chi ascolta, più che meditare, partecipa ad un evento di grazia che si compie nell'assemblea celebrante.
Concentrazione su Cristo
Dopo la sua risurrezione, che cosa è rimasto di Gesù? Il racconto dei discepoli di Emmaus si incarica di dipanare questo interrogativo. Due sono i momenti fondamentali del racconto: Gesù accompagna i due discepoli nel loro cammino, conversando con loro; una parola che fa ardere il loro cuore: "Non ci ardeva il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32). Gesù, infine, "entrò per rimanere con loro" (Lc 24,29). Non si dice dove Gesù sia entrato, ma si sottolinea che entrò per rimanere con loro. Ciò che importa è che Gesù rimane con i suoi discepoli anche dopo la sua risurrezione. Ed ecco che egli viene riconosciuto nello spezzare del pane.
Gesù, dunque, non se ne è andato, ma entrò. Dove entrò per rimanervi? La Parola e l'Eucaristia. Oggi, quindi, Gesù è continuamente presente in mezzo alla sua Chiesa e l'accompagna nel suo cammino in particolar modo con la Parola.
Giovanni riconoscerà Gesù come la Parola eterna del Padre e apre il suo vangelo contemplando il Verbo quando ancora era presso il Padre, quel Verbo che, poi, si fece carne e venne ad abitare il mezzo a noi.
Le Scritture, quindi, non sono un libri di letteratura sacra, ma una persona, che cammina in mezzo alla sua chiesa e l'accompagna lungo il cammino della storia. L'avvicinarsi alla Scrittura, il leggerla e l'accoglierla nel silenzio interiore significa incontrarsi con Cristo stesso, sacramentato nella Parola. E poiché tale Parola è "viva ed efficace" (Eb 4,12), essa entra in noi e, lentamente e gradualmente, ci cambia configurandoci a se stessa. Non serve l'impegno dell'uomo a cambiare, ma soltanto la disponibilità a lasciarsi cambiare. Infatti esse è un Dabar, cioè azione divina efficace, ossia produce quello che dice. Essa è l'unica in grado di rivelarci la dimensione divina del creato e della nostra vita.
Il frequentare le Scritture è la pratica contemplativa per eccellenza, poiché lì, è certo, facciamo esperienza del Signore, lo incontriamo e, se accolto, ci trasforma nel nostro modo di vedere e di sentire le cose, ci introduce in una dimensione divina che ci fa cogliere tutte le realtà dalla prospettiva di Dio.
Il discepolo prediletto che poggia il suo capo sul petto di Gesù, in una dolcezza sublime e unica, è la figura del mistico, che appoggiando il suo capo sulle Scritture sente i battiti profondi del cuore di Dio.
Memorizzazione e ruminazione
Secondo Origene, consumazione eucaristica inizia con l'ascolto accogliente della Parola. Si mangia il corpo di Cristo e si beve il suo sangue non soltanto quando si magia e si beve il pane e il vino consacrati, ma anche quando si ascolta la sua parola proclamata e spiegata. Si può, dunque, dire che Cristo, nella celebrazione eucaristica, viene accolto in noi sotto solo le specie del pane e del vino, ma anche sotto le specie della parola.
La stessa cura con cui la chiesa custodisce le specie eucaristiche, altrettanta cura dovrebbe mettere nel custodire la sua Parola.
La Parola, pertanto, annunciata e accolta nel proprio cuore deve essere, poi, celebrata nella vita, cioè far sì che le nostre vite diventino memoriali della Parola del Signore, così che da essere trasformati in suoi tabernacoli viventi in mezzo agli uomini.
Ma tutto ciò non è possibile se la Parola ascoltata viene, poi, lasciata a se stessa. Perché essa diventi parte della nostra vita e la nostra vita si trasformi in memoriale e tabernacolo vivente, è necessario che la Parola venga prima "ruminata", cioè meditata e rimeditata in un continuo contatto quotidiano. Solo così essa ci permea al punto tale da fare un'osmosi divina con noi.
Lo sviluppo nella prassi ecclesiale
La frequentazione delle Scritture, pertanto, è fondamentale per la formazione del credente maturo. Le Scritture, infatti, sono l'unico mezzo che abbiamo per introdurci nella conoscenza del mondo divino e dalle quali ricevere una radicale trasformazione della nostra vita. Il continuo contatto con questa Parola vivente ed efficace fa sì che questa Parola diventi un tutt'uno con noi, facendoci crescere nella stessa dimensione di Dio.
Non solo Origene, ma numerosi altri Padri della Chiesa suggeriscono un rapporto costante con la Parola a partire già dalla tenera infanzia. Essa viene colta come il luogo in cui il credente deve trovare la propria illuminazione e in cui dissetarsi.
La sua lettura e meditazione diventa essenziale per il credente e viene, in particolare, consigliata durante il periodo quaresimale, al punto tale che chi non sa leggere deve cercare chi gliela legga. Al problema dell'analfabetismo si ricorre, dunque, con la solidarietà.
La lettura della Parola deve anche sapersi trasformare naturalmente in preghiera e suggerimento sul cosa chiedere al Signore. La preghiera, quindi, deve costituirsi come risposta alla lettura meditata della Parola. In tal modo essa si trasformerà in un dialogo con Dio, in cui noi veniamo attratti e trasformati, così che le nostre vite si trasformino in esegesi viventi della Parola.
Guigo e la "lectio divina"
Nella sua "Epistula de vita contemplativa", Guigo, monaco certosino di epoca medievale, insegna la lettura spirituale della Bibbia, meglio conosciuta con l'espressione "lectio divina". La sua opera, in realtà, vuole essere un'introduzione alla vita spirituale, finalizzata alla contemplazione raggiunta per mezzo di una esplorazione delle Scritture.
Tale cammino viene scandito in quattro momenti: lectio, meditattio, oratio, contemplatio.
La Lectio è un attento esame del testo, che richiede capacità introspettive e di confronto con altri passi e testi scritturistici, mosso dal desiderio di cercare Dio. In buona sostanza è una sorta di esegesi ante litteram.
La lettura attenta e prolungata si trasforma spontaneamente in Meditatio. Ciò avviene quando il lettore viene attratto da qualche passo che lo colpisce particolarmente e vi si sofferma sopra, lasciandolo risuonare dentro di sé. E' una vera e propria masticazione della Parola, grazie alla quale si incomincia a gustarne il sapore. Qui incominciano le prime manifestazioni della vita mistica.
La meditatio si trasforma ben presto e naturalmente in Oratio. Ed ecco che la preghiera si fa intenso rapporto dialogante con Dio, predisponendo l'anima all'intervento divino.
Questo crescendo spirituale verso Dio sfocia, infine, nella Contemplatio, quando il lettore incomincia a sentire le consolazioni interiori e a vivere interiormente gli eventi di salvezza annunciati, nel senso che vi si sente partecipe.
Tale esercizio di lettura, che apre all'esperienza mistica, viene definito "Lectio divina" perché si è convinti che sia la potenza della Parola ad innescare la dinamica che apre il credente a tale esperienza.
L'esperienza di Pierre Clorivière
P. Clorivière, un gesuita francese e mistico del XVIII sec., nella sua opera "Preghiera e Orazione" pensa alla meditazione come il soffermarsi su di un argomento prefissato per tenere in esercizio le tre facoltà dell'anima: la memoria, che intrattiene la mente sull'oggetto scelto; l'intelletto, che lo esamina e approfondisce; la volontà che in diversi modi lo applica alla vita.
L'oggetto della meditazione viene tratto da un libro o dal complesso delle verità cristiane. L'atto del meditare non deve trasformarsi in uno studio logorante, in cui ha la prevalenza il ragionamento o il sofismo. Esso deve essere, soprattutto, un far risuonare dentro di sé l'argomento così che susciti in noi emozioni e sentimenti. Solo qualche pensiero che penetri profondamente in noi e da cui sgorghino degli atti di fede e riflessioni sulla nostra condotta. Da qui si passa, poi, alla preghiera, che si fa colloquio con Dio e a formulare concreti propositi di correzione del nostro comportamento.
La meditazione, quindi, deve avere uno scopo pratico, cioè influire sia sulla nostra condotta che sul nostro cammino spirituale. In tal modo si forma il cristiano maturo.
Due metodi a confronto
Si tratta ora di raffrontare il metodo proposto dal Clorivière con la tradizione spirituale del cristianesimo primitivo.
1) I Padri della Chiesa consigliano per la meditazione una lettura continuata della Bibbia; Clorivière trascura, invece, totalmente la Bibbia, consigliando un argomento tratto da un libro o dalle verità delle fede cristiana. Ciò significa che in quest'epoca si era attenuata di molto la sensibilità verso le Scritture.
Pertanto la meditazione non è un esercizio che si affianca alla lettura della Bibbia, ma la sostituisce del tutto.
Clorivière, inoltre, non colloca mai la meditazione nell'ambito dell'assemblea liturgica né nella celebrazione liturgica. Essa è più che altro un'azione personale e individuale, completamente scollegata dalla comunità. In tal modo l'esperienza mistica che ne deriva perde il suo contatto con la storia della salvezza. Contrariamente ai Padri che vedevano, invece, nella Scrittura la base dell'esperienza mistica. La "Lectio", in quanto legata alla liturgia, diveniva una memoria degli eventi salvifici in cui veniva inserito il mistico.
2) Inoltre, mentre nella tradizione antica si conglobava nel concetto di "Lectio" tutte le varie tappe del cammino mistico, con Clorivière la meditazione cessa nel momento in cui il credente avverte i primi segni della sua esperienza mistica.
3) Infine, mentre la Scrittura si è sempre imposta in ogni epoca come il principale strumento di grazia, il Clorivière, invece, ne recupera il valore solo attraverso l'esperienza mistica. Questo è il cammino che lui propone: a) inizialmente il principiante si applica alla sola meditazione; b) successivamente, grazie a questa pratica e ad una sua maturazione spirituale, egli si apre ad una forma di preghiera più profonda, definita come "preghiera affettiva". Ciò che caratterizza questa fase è la nuova esperienza che il credente ha con la Parola, in cui vedono la fonte che sazia la loro sete spirituale di Dio. La Scrittura acquista sempre maggiore importanza per la vita del credente a misura che egli cresce spiritualmente.
La Scrittura diviene, quindi, il centro della vita spirituale del credente così che anche di fronte alle difficili letture di autori diversi, la Parola è sempre un saldo punto di riferimento che dischiude ogni mistero, introducendoti nel mistero stesso. Tutto, allora, diventa luminoso.
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