SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI
Traduzione e commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
Scarica Traduzione dal testo greco
PARTE INTRODUTTIVA
PREAMBOLO
Panorama
storico di Tessalonica
La
città di Therma, posta sul golfo Thermaico nel mar Egeo, fondata
probabilmente dai Corinti sul finire del VII sec. a.C., venne
rifondata dal generale macedone Cassandro nel 315 a.C., alla quale
dette il nome della propria moglie Thessalonike, sorellastra di
Alessandro Magno, e così chiamata per commemorare la vittoria che
Filippo II, padre di Alessandro Magno, ottenne sui Tessali nel giorno
della sua nascita. Tessalonica, l'odierna Salonicco, infatti,
significa “Vittoria sui Tessali”.
Dopo la conquista di Emilio Paolo nel 168 a.C., entrò nell’orbita di Roma, che nel 146 a.C. la fece capitale della provincia romana di Macedonia. Comincia così la sua ascesa verso il suo massimo splendore.
Già notevole centro commerciale e urbanistico, Tessalonica crebbe rapidamente d’importanza con la costruzione della via “Egnatia”, la principale arteria che univa Roma all’Oriente. Fu, dunque, un centro urbanistico e portuale tra i più grandi del mar Egeo e un crocevia etnico-religioso di notevole rilievo.
Lì si incontravano Greci, Romani, Egiziani ed asiatici, ognuno con le proprie divinità, le proprie credenze e le proprie culture. Lì vi era anche una consistente comunità ebraica con la propria sinagoga, con il proprio tribunale e con la propria assemblea degli anziani (At 17,1). Questo va tenuto presente, perché Paolo inizierà la sua evangelizzazione proprio a partire dalla comunità ebraica qui stanziata e da cui ne uscirà, come vedremo, la prima comunità credente di Tessalonica (At 17, 2-4), alla quale l'Apostolo indirizzerà, tra la fine del 50 e inizi del 51 d.C., la sua prima lettera.
Proprio per la sua posizione socio-economica e geografica, il livello morale della popolazione lasciava alquanto a desiderare, con tutti i vizi tipici di un grande centro commerciale e portuale, che si riscontreranno anche a Corinto. Un richiamo in tal senso Paolo lo farà in 4,3-6. E non a caso i valori morali erano difesi e propagandati anche da retori e filosofi che, a pagamento, svolgevano il ruolo di educatori, ma che, spesso , erano avidi approfittatori. Forse proprio per non essere confuso con questi, Paolo ricorderà in 1Ts 2,9-12 ai Tessalonicesi come lui ha sempre lavorato per non farsi mantenere da nessuno, cosa che verrà richiamata anche in 2Ts 3,7-10, chiamando inoltre a testimonianza gli stessi Tessalonicesi e Dio sulla sua rettitudine e correttezza nei loro confronti (1Ts 2,10a).
Nel
42 a.C. Tessalonica ottiene lo status giuridico di città
libera, con una propria assemblea popolare, un consiglio, un collegio
di magistrati eletti dal popolo e il cui numero variava da due a sei
membri (At 17,6.8).
L’evangelizzazione
di Tessalonica
L’importanza
della città ha sicuramente influito sulla decisione di Paolo di
recarsi a Tessalonica, spinto anche da una visione notturna, in cui
un Macedone lo supplicava di aiutarli (At. 16,9-10).
Paolo
vi giunge durante il suo secondo viaggio missionario, svoltosi tra il
49-52 d.C.
L’annuncio del vangelo è brevemente descritto in At 17,2-3: “Come era sua consuetudine Paolo vi andò (nella sinagoga nda) e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e dimostrando che il Cristo doveva morire e risuscitare dai morti; il Cristo, diceva, è quel Gesù che io vi annunzio”.
L’annuncio viene rivolto, come di consueto, dapprima ai Giudei (per ben tre sabati si reca alla sinagoga), poi ai Greci, a delle donne nobili. Ma dove trova più credito è presso le classi più umili: schiavi, liberti e sfaccendati, che Paolo riprenderà in 1Ts 4,11-12.
Il tempo che Paolo dedicò alla predicazione ai Giudei fu di soli tre sabati, ma è da pensare che la sua permanenza a Tessalonica sia stata almeno di sei mesi e probabilmente anche di più, considerato che, nel fuggire, lascia una comunità già strutturata e con dei capi, verso i quali chiede ai Tessalonicesi di rispettare ed amare (1Ts 5,12-13). Ma, tuttavia, non vi è rimasto un tempo sufficiente per completare la sua catechesi; infatti in 1Ts 3,10 afferma che desidera vedere nuovamente il volto dei Tessalonicesi per completare ciò che ancora manca alla loro fede. Temi di catechesi che Paolo anticiperà già in qualche modo nei capp. 4-5 della 1Ts.
Inoltre, lì a Tessalonica ebbe il tempo di esercitare un mestiere (1Ts 2,9) e di ricevere per ben due volte doni dai Filippesi, come ricorderà in Fil 4,16: “ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario” (Filippi dista da Tessalonica circa 150 Km).
Ma l’ostilità dei Giudei lo costringono ad una fuga repentina e precipitosa (At 17,10a). Si comprende, dunque, la sua ansia e la sua preoccupazione, che lo tormentano vivamente per la fede di una comunità, che aveva appena fondato e che ha dovuto abbandonare troppo presto: “per questo siamo consolati, fratelli, da voi in ogni nostra sofferenza e (in ogni nostra) afflizione per la vostra fede” (1Ts 3,7).
Da
qui fugge a Berea, dove sarà contrastato da Giudei giunti
appositamente da Tessalonica (At 17,10-14). Se ne andrà, dunque, ad
Atene. Qui, però, fallisce il suo tentativo di evangelizzazione (At
17,15-33). Da qui prosegue per Corinto (At 18,1), dove, ricevute
notizie rassicuranti sui Tessalonicesi da parte di Timoteo (3,6),
appositamente inviato (1Ts 3,1-5), scrive la sua prima lettera ai
Tessalonicesi, che è sostanzialmente, da un lato, un incontenibile
rendimento di grazie a Dio per la saldezza della loro fede
(capp.1-3); dall’altro, un completamento di istruzioni e catechesi
che non aveva potuto perfezionare (capp.4-5), per la sua fuga
repentina (1Ts 3,10).
PREMESSA
INTRODUTTIVA
La 1Ts è caratterizzata da un clima gioioso, entusiastico fino all'euforia (1Ts 2,19-20). Essa è un continuo rendimento di grazie, che si protrae per ben tre capitoli (1,2; 2,13; 3,9). Paolo si rivolge ai Tessalonicesi con fare familiare, ricordando la sua venuta e il suo operato in mezzo a loro (1Ts 2,1-20) con toni talvolta struggenti (1Ts 2,7-12). Ciò che ha spinto Paolo a scrivere la prima lettera è la grande e incontenibile gioia per le ottime notizie portategli da Timoteo, che gli hanno tolto quell'ansia e quell'inquietudine che lo tormentavano (3,1.5.6-8). Non ci sono, dunque, problemi in questa comunità, fattasi imitatrice di Paolo e del Signore (1Ts 1,6a) e che da Paolo viene portata a modello alle altre chiese della Macedonia e dell'Acaia (1Ts 1,7), che la stessa chiesa di Tessalonica ha convertito, annunciando loro la parola del Vangelo (1Ts 1,8-9), “così che noi non abbiamo più bisogno di parlarne” (1Ts 1,8b).
Ebbene questo clima, così gioioso, quasi euforico, rassicurante e familiare, nella 2Ts è completamente scomparso ed è, invece, sostituito da un clima cupo di preoccupazione. Diverse, poi, sono le motivazioni per cui questa seconda lettera è stata scritta: la chiesa di Tessalonica è duramente perseguitata e tribolata; persecuzioni di cui si sente tutta la pesantezza (1,4b-5); persecuzioni provocate da quelli che non conoscono Dio e da quelli che non obbediscono al Vangelo del Signore (1,8). Problemi questi che già, comunque, erano presenti anche nella prima lettera (1Ts 2,6b e 3,3), ma là erano affrontati con determinazione ed anche con un certo entusiasmo, ad imitazione del Signore, di Paolo e delle stesse chiese giudaiche (1Ts 1,6; 2,14), Vi è, poi, una situazione di confusione, di turbamento e di inganno circa l'imminenza della venuta del Signore, alimentati da "pretese ispirazioni", da "discorsi" o da "lettere fatte passare come nostre" (2Ts 2,2). Da questa situazione ne è discesa una condotta di vita disordinata, indisciplinata da parte di credenti, che vivono "senza far nulla e in continua agitazione" (2Ts 3,11), campando sulle spalle di altri. (2Ts 3,12). Quanto poi alla venuta del Signore, in 1Ts era sentita come imminente ed improvvisa (1Ts 5,1-3), mentre qui, in 2Ts, la Parusia non è più sentita né imminente (2Ts 2,2) né tanto meno improvvisa, ma è preceduta da persecuzioni, apostasie e dalla venuta dell'Anticristo, “l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione, che si contrappone e si mette sopra a tutto ciò che viene detto Dio o (sia) oggetto di culto, così da porre a sedere se stesso nel tempio di Dio, proclamando se stesso che è Dio” (2,2-4).
Ed è proprio la questione sui tempi della venuta del Signore, che sta creando dei problemi all'interno della comunità, poiché sta correndo voce che la Parusia è ormai alle porte (2,2; Gc 5,9), così che molti desistono dai propri impegni quotidiani, creando confusione e disordini, cercando di campare alla meno peggio alle spalle degli altri (3,1-15)
L'intento della lettera, quindi, è quello di riprendere questo stato di cose, stigmatizzarlo e ricondurre sulla retta via una comunità che presenta evidenti segni di sbandamento, che la potrebbero portare alla disgregazione.
Il
tono della lettera, pertanto, si muove su due binari tra loro
paralleli, ma che tra loro anche si intersecano: un discorso
escatologico e uno parenetico o meglio una escatologia in funzione
parenetica. Una parenesi che non occupa una precisa sezione della
lettera, come solitamente avviene nelle lettere paoline o di scuola
paolina, ma serpeggia un po' in tutta la lettera e che, qua e là, si
traduce anche in forme imperative dirette (2,15 e 3,12.14).
La
lettera
L'autore di questa lettera si richiama in 2,15 ad una precedente lettera che, quasi certamente, è la 1Ts, a cui si è certamente ispirato, dato che buona parte di questa è riportata nella presente lettera sia con parafrasi che con trasposizioni di intere frasi ed espressioni. Le due lettere, infatti, sono molto simili tra loro così da far pensare ad una dipendenza della Seconda dalla Prima.
I
punti più salienti di contato tra le due lettere sono i seguenti:
Il prescritto: 2Ts 1,1-2 con 1Ts 1,1;
il rendimento di grazie: 2Ts 1,3 con 1Ts 1,2-3;
l'accenno al Regno di Dio: 2Ts 1,5 con 1Ts 2,12;
la manifestazione di Gesù con gli angeli e i santi: 2Ts 1,7 con 1Ts 3,13;
il conforto e la consolazione da parte di Gesù: 2Ts 2,16-17 con 1Ts 3,11-13;
il lavoro, notte e giorno, di Paolo: 2Ts 3,8 con 1Ts 2,9;
il dono della pace: 2Ts 3,16 con 1Ts 5,23
l'augurio di pace:
2Ts 3,18 con 1Ts 5,28
L'unico
punto veramente nuovo è l'intero cap.2, il quale, agganciandosi al
cap.5,1-11 della 1Ts, in cui si parla dei “tempi
e dei momenti del giorno del Signore che arriva come un ladro,
d'improvviso”,
lo amplia scandendone gli eventi che lo precedono. Quindi quella
“venuta
improvvisa e di soppiatto”
non sarà più così improvvisa, ma sarà preannunciata dalla
“apostasia
in
cui dovrà essere svelato l'uomo iniquo, che si addita come Dio, ma
che Dio stesso con il soffio della sua bocca distruggerà”.
Altro nuovo elemento rispetto alla 1Ts è l'attestazione che "il
mistero dell'iniquità è già presente ed operante”
(2,7a)
e attende di essere liberato da chi ora lo trattiene (2,7b). Il
linguaggio, qui (2,1-12), si fa più intensamente escatologico ed
apocalittico rispetto a 1Ts, dove, pur essendo presente (1Ts 1,10;
5,1-3), è soltanto sfumato.
Scritto
autentico o pseudografico?
Benché l'autore nel prescritto si presenti come l'apostolo Paolo (1,1) e in chiusura della lettera quasi spergiura che è proprio lui Paolo, che ha scritto questa lettera (3,17); e benché nell'ambito della lettera si richiami sovente alla sua autorità, alle disposizioni da seguire e che lui ha dato, al suo esempio da imitare, alla sua comunicazione epistolare precedente, tuttavia ci sono elementi determinanti che fanno pensare ad una mano completamente diversa.
Va subito detto che ciò che solleva il dubbio sull'identità dell'autore è proprio questa sua insistenza nel far risaltare come autentica la lettera che sta scrivendo. In altri termini è troppa la preoccupazione per far apparire come paolino lo scritto perché lo sia veramente, anche se ciò può essere in parte giustificato dal fatto che all'interno della comunità circolano delle lettere fatte passare per scritti di Paolo. Infatti, l'autore in 2Ts 2,2 esorta a "non essere agitati rapidamente dalla mente né di essere turbati [...] né per mezzo di una (qualche) lettera come (se fosse) per mezzo nostro".
Tuttavia ci sono altri elementi che spingono a considerare non autentica questa 2Ts.
Innanzitutto il fatto che l'autore accenni in 2,2 di lettere fatte passare come sue, fa pensare ad un'epoca in cui il nome di Paolo era già ampiamente conosciuto e la sua dottrina altrettanto apprezzata e diffusa nelle comunità del cristianesimo primitivo. E ciò ci porta ad un'epoca posteriore a Paolo, forse verso la fine del primo secolo.
Altro aspetto è la stretta somiglianza tra le due lettere, in cui l'una riproduce in più punti l'altra. Non è pensabile che ciò sia avvenuto in un autore come Paolo, così creativo e che rifugge i doppioni. Sarebbe del tutto fuori luogo pensare ad un Paolo che copia o cita se stesso.
E' più verosimile, invece, pensare ad un autore, probabilmente un responsabile della comunità, che ben conosceva la prima lettera da cui trae ispirazione per questa seconda lettera, mutuandone il pensiero e lo stile, richiamandosi non solo all'autorità di Paolo, ma riproducendo il clima di quello scritto, da cui trae motivo per affrontare in termini nuovi (2Ts 2,1-12) alcuni problemi che stanno turbando la sua comunità.
Il riferimento, poi, al "mantenere le tradizioni" (2Ts 2,15 e 3,6) fa pensare ad un'epoca in cui, a motivo dell'insorgere delle prime eresie (v. ad es. il marcionismo, II se. d.C.), la chiesa si appella all'autorità dei primi testimoni come garanzia di autenticità. Il termine stesso "tradizioni", poi, richiama una ormai consolidata prassi di vita cristiana e dottrinale. Quindi, siamo in tempi ben lontani da Paolo, il cui martirio si pone intorno al 67 d.C.
Infine, è proprio il tema dell'escatologia di questa 2Ts che lascia perplessi sull'autore. Infatti, in 1Ts 5,1-3 Paolo attestava come l'avvento del Signore avverrà in modo improvviso, repentino come quello di un ladro, lasciando intravvedere in filigrana la sua imminenza, che meglio apparirà in 1Cor 7,29-31, mentre qui in 2,2 invita i Tessalonicesi a rimanere tranquilli e a non turbarsi per la venuta del Signore, “quasi che il giorno del Signore sia imminente” (2,2), lasciando intendere che tale giorno è ben lontano dall'essere vicino; anzi, contrariamente a quanto viene detto in 1Ts 5,1-3, afferma come la venuta del Signore sarà preceduta da numerosi eventi, che in qualche modo la preannunciano. Un simile dietrofront da parte di Paolo o pensare ad un Paolo che smentisce se stesso diventa molto difficile il crederlo. È da pensare, quindi, che la 2Ts sia opera di un altro autore, che in termini temporali si colloca a cavallo tra il I e il II sec., quindi 30-40 anni dopo la morte di Paolo, avvenuta intorno all'anno 67 d.C.
Nel merito va detto, poi, che il ritardo della parusia ha necessariamente spinto le primissime comunità cristiane a rivedere le loro posizioni (2Pt 3,3-10), ridimensionando la credenza in un imminente ritorno del Signore, sostituendolo gradualmente con un'attesa, in cui la vita cristiana era vissuta nella speranza del ritorno, come lascia intravvedere la fine del libro dell'Apocalisse, scritto nel 96 d.C., che termina con l'invocazione “Vieni Signore Gesù” (Ap 22, 20b). Un'invocazione che denota come la chiesa primitiva di fine I sec. credesse ancora, in fondo al suo animo (“Sì, verrò presto!” Ap 22,20a), in una venuta imminente del Signore, anche se incominciasse a rendersi conto che l'imminenza del ritorno del Signore stesse ormai diventando sempre meno imminente, aprendosi solo alla speranza del suo ritorno. Da qui l'invocazione “Veni, Signore Gesù”, che ne sollecita la venuta.
Ma ancor più significativa è la Seconda lettera di Pietro, scritta intorno al 125 d.C., che in 3,3-10 presenta un quadro storico più preciso circa l'imminenza del ritorno del Signore. Qui si parla, infatti, di schernitori beffardi, che rinfacciano ai “creduloni nell'imminente ritorno del Signore”: “Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,4). Al che l'autore di 2Pt cercherà di dare una risposta che spieghi in qualche modo il ritardo della venuta, tacitando così le malevole insinuazioni e cercando di dissipare i dubbi: “Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9); riaffermando subito la fede nell'imminente ritorno, collocandolo in un quadro escatologico-apocalittico, che risente ancora fortemente della tradizione giudaica e della chiesa del I sec.: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta” (2Pt 3,10).
Tale mutamento di indirizzo si è verificato in un tempo decisamente posteriore alla morte di Paolo (67 circa) e più precisamente, come si può rilevare qui sopra dalla datazione dei due scritti (96 e 125 circa d.C.), verso la fine del primo secolo, primi decenni del II sec. Epoca in cui va collocata anche questa 2Ts. Due gli elementi che spingono in questo senso: l'attestazione di 2,2, che invita la chiesa di Tessalonica a non essere turbata dai discorsi fantasiosi che girano al suo interno circa l'imminenza del ritorno del Signore, perché questo è ben lungi dall'essere imminente: “quasi che il giorno del Signore sia imminente”. Una convinzione questa che aveva spinto parecchi credenti a vivere disordinatamente e in modo disimpegnato la propria vita quotidiana, nella convinzione che ormai l'imminenza del ritorno, che avrebbe distrutto il regno degli uomini sostituendolo con quello di Dio, rendesse inutile qualsiasi impegno (3,4-15).
Dalla
citazione di questi due passai si può rilevare come la linea di
pensiero della chiesa primitiva stia mutando circa l'avvento del
Signore, poiché non sono più delle malevoli lingue ad insinuare che
il ritorno imminente non ci sarà (2Pt 3,3-4), ma è la stessa
autorità ecclesiastica primitiva che invita a pensare in tal senso
(2Ts 2,2), commutando la certezza dell'imminente ritorno con la
speranza che questo avvenga quanto prima, riprendendo duramente il
disimpegno di quei credenti che, invece, credendo ancora fermamente
nell'imminenza del ritorno del Signore, conducono una vita
disimpegnata e disordinata (2Ts 3,5-15).
Finalità
della lettera
Il motivo che spinge l'autore di questa lettera, probabilmente un responsabile della chiesa di Tessalonica, è duplice: da un lato, le persecuzioni e le afflizioni che stanno soffrendo, a causa della perseveranza nella loro fede (1,4), la comunità di Tessalonica e, quasi certamente con essa, l'intera regione della Macedonia e dell'Acaia, a cui probabilmente questa lettera è parimenti rivolta, in quanto che questa regione era stata convertita dalla stessa chiesa di Tessalonica, intorno agli anni 49/50 d.C. (1Ts 1,7-8) e in qualche modo da essa dipendeva, anche perché Tessalonica, centro urbano tra più grandi del mar Egeo, ne era la capitale; dall'altro, una correzione nella comprensione di questi dolorosi eventi, che spingono molti a leggerli come l'avvisaglia dell'imminente ritorno del Signore, che segna la fine della storia e dei regni umani, così che molti credenti, convinti di ciò, avevano abbandonato ogni loro impegno quotidiano, smettendo di lavorare e dissipando il loro tempo in inutili chiacchiere, campando sulle spalle degli altri, vivendo “[...] disordinatamente, non lavorando per niente, ma impicciandosi (di cose altrui)” (2Ts 3,11).
L'intera lettera si muove all'interno di una cornice escatologica ed apocalittica, entro cui vanno compresi i problemi di cui sta soffrendo questa comunità.
La questione escatologica, che Paolo aveva trattato nella sua prima lettera (4,13-5,11), viene, infatti, ripresa in questa seconda lettera ai Tessalonicesi, che si muove sullo sfondo dell'escatologia giudaica, che ha influenzato anche il pensiero del cristianesimo primitivo, che dal giudaismo proveniva e da questo, poi, si è evoluto. Immagini che ritroveremo, alquanto amplificate, anche nelle tre apocalissi dei vangeli sinottici e, in particolar modo, in Mc 13 e Mt 24, che vedono come questo mondo perverso andrà incontro ad una distruzione certa, che sarà preceduta da segni di carattere cosmico, da sollevazioni di popoli contro altri popoli, da guerre, da tribolazioni di ogni genere e da persecuzioni che provocheranno l'apostasia di molti. Dopo di ciò si attueranno gli eventi conclusivi della storia, ossia la risurrezione dei morti, la venuta di Cristo e il giudizio finale sul mondo, che peserà a salvezza o a condanna.
Da questo contesto culturale e religioso, di natura escatologica e apocalittica, alimentato da molte "chiacchiere" e da lettere falsamente attribuite a Paolo (2Ts 2,2), l'autore mutua qualche pensiero, rileggendolo in chiave cristiana: “prima deve giungere l'apostasia ed essere rivelato l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione, che si contrappone e si mette sopra a tutto ciò che viene detto Dio o (sia) oggetto di culto, così da porre a sedere se stesso nel tempio di Dio, proclamando se stesso che è Dio (2,3b-4).
Chi sia questo personaggio, che sembra avere il sopravvento sui credenti, non ci è dato di sapere. Del resto è proprio del linguaggio apocalittico il modo di esprimersi per simboli ed allusioni, che lasciano intendere, ma non dicono e avvolgono il tutto nell'oscurità del Mistero, poiché il futuro come il progetto di salvezza appartengono a Dio. I commentatori, comunque, vi vedono generalmente l'Anticristo o la personificazione delle forze del male. Tuttavia tale manifestazione è ancora molto lontana, benché le potenze del male siano già in atto (2,7a); ma perché esse si manifestino è necessario che venga tolto di mezzo l'impedimento che le trattiene.
Anche l'identità di questo ostacolo è lasciato nell'oscurità, così che alcuni vi vedono l'Impero romano, altri la preghiera della Chiesa, altri ancora una sorta di misterioso decreto divino o lo stesso Spirito Santo. Secondo alcuni autori moderni tale ostacolo è costituito dalla predicazione del vangelo, che prima deve essere diffuso su tutta la faccia della terra (Mc 13,10). Altri, infine, lo fanno risalire alla stessa volontà di Di, che nella sua provvidenza governa le vicende di questo mondo e della sua storia.
Un giorno, tuttavia, tale ostacolo sarà tolto e le forze del male si scateneranno, ma alla venuta del Signore esse saranno totalmente divelte e definitivamente distrutte con il solo soffio della sua bocca (2,8; 1Cor 15,22-28).
Il messaggio centrale che l'autore della 2Ts vuol far passare è che questi tempi non sono ancora giunti (2,8) e che, pertanto, le tribolazioni presenti a cui la comunità di Tessalonica è sottoposta, non sono il segno dell'inizio della fine. I credenti, dunque, devono ancora attendere pazientemente la venuta di Cristo, che non è imminente. L'attesa deve essere caratterizzata da una vita attiva e virtuosa: ognuno, quindi, si deve impegnare seriamente nella vita orientandola a Dio e guadagnandosi il pane con il proprio impegno quotidiano.
Da questo quadro ne esce una nuova figura di cristiano, saldamente radicato nella storia, ma con lo sguardo proiettato in avanti senza lasciarsi soffocare dalle cose del presente; una vita, dunque, vissuta nella vigilanza e nella speranza e proiettata nel futuro, benché saldamente radicata nel presente della storia in cui si trova, ma alla quale non appartiene, così che, affermerà un anonimo autore del II sec. d.C., scrivendo la sua Lettera a Diogneto: “i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo” (Diogneto 6,3), parafrasando quanto già aveva sollecitato l'autore di Col 3,1-2: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”.
La
macrostruttura della lettera si suddivide in dieci parti, che di
seguito propongo:
Il prescritto (1,1-2);
primo rendimento di grazie incorniciato in un contesto escatologico-apocalittico, che preannuncia il tema della lettera (1,3-10);
preghiera che si accompagna e conclude il primo rendimento d grazie (1,11-12).
Introduzione al tema della Parusia (2,1-3a);
La dinamica degli eventi che precedono e preannunciano la Parusia (2,3b-12);
Secondo rendimento di grazie e le sue motivazioni (2,13-14);
conseguente esortazione a rimanere saldi nelle tradizioni (2,15-17);
richiesta di preghiera e considerazioni conclusive (3,1-5).
Un caso singolare: sfaccendati ed oziosi nell'attesa di una creduta imminente Parusia (3,6-15);
Benedizione e saluti finali (3,16-18)
PARTE
ESEGETICO-TEOLOGICA
COMMENTO ALLA LETTERA
Il
prescritto (1,1-2)
1-
Paolo e Silvano e Timoteo alla chiesa dei Tessalonicesi in Dio nostro
Padre e (nel) Signore Gesù Cristo,
2-
grazia a voi e pace da Dio Padre [nostro] e (dal) Signore Gesù
Cristo.
Commento
Il prescritto con cui si apre questa Seconda Lettera ai Tessalonicesi riporta, pari pari, quello della Prima Lettera (1Ts 1,1), fatta salva l'aggiunta del v.2b, che indica la fonte della “grazia e della pace”, che vengono imposte, come una sorta di formula benedicente, sulla comunità credente di Tessalonica, perché il suo essere “in Dio nostro Padre e (nel) Signore Gesù Cristo” (1,1) sia pieno e porti frutti di crescita spirituale e di perfetta comunione.
Quanto al commento dei vv.1,1-2a riporto qui di seguito, pari pari, quello già fatto in 1Ts, al fine di facilitare al lettore la lettura, evitandogli la ricerca.
Nell’antichità greco-romana la lettera iniziava con un prescritto composto da tre parti: mittente, destinatario e saluti. Ne abbiamo un esempio in At. 23,26: “Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice, salute”. Tuttavia, il nostro prescritto si differenzia in quattro punti da quello citato:
Il mittente è plurimo: Paolo, Silvano e Timoteo, dove Paolo si associa con gli altri due suoi collaboratori, mettendo in evidenza l’aspetto collegiale ed ecclesiale dello scritto, che perde, quindi, la sua valenza personalistica per assumere un aspetto comunitario, dandogli un tono di ufficialità: non è più Paolo che scrive, ma è l'autorità ecclesiale, che prevale nello scritto.
Il primo collaboratore, che qui compare, è Silvano o Sila. Questi è un personaggio di rilievo nel cristianesimo del I sec. (il suo nome compare ben diciassette volte in At e nelle varie Lettere neotestamentarie) ed è membro stimato della chiesa madre di Gerusalemme e, insieme a Paolo, Barnaba e Giuda, è inviato dall'assemblea conciliare di Gerusalemme ad Antiochia con una lettera che decretava la non obbligatorietà della circoncisione per gli etnocristiani1 (At 15,22-32).
Quanto a Timoteo, questi nacque da padre greco e madre giudea, che gli insegnò le Sacre Scritture (2Tm 1,5; 3,15a). Paolo lo prese con sé nei suoi viaggi missionari, durante i quali egli si convertì al cristianesimo. Paolo lo definirà in Rm 16,21 “mio collaboratore”, mentre in 1Cor 4,17 lo chiamerà “mio figlio diletto e fedele nel Signore” e così in 1Tm 1,2 “Timoteo, mio vero figlio nella fede” e in 2Tm 1,2 “al diletto figlio Timoteo” e similmente in 1Tm 1,18 “figlio mio Timoteo”, mentre altrove lo chiamerà “fratello” (2Cor 1,1; 1Ts 3,2). Da questi appellativi, di cui Timoteo è insignito da Paolo, si può pensare che tra i due corresse un particolare legame di affetto e di grande e reciproca stima (2Tm 1,4), cose queste che non erano semplici da ottenere da Paolo, molto esigente e duro con i suoi collaboratori.
I nomi dei mittenti, infine, sono posti senza appellativi, contrariamente a quanto Paolo, invece, farà altrove, dove si presenterà sempre con le sue credenziali, affermando la sua speciale apostolicità, quale investitura proveniente direttamente da Dio Padre e da Gesù Cristo e non dagli uomini (Gal 1,1; Rm 1,1; 1 e 2Cor 1,1). Questo può significare, da un lato, che la sua autorità, qui, non è messa in discussione; ma anche, dall'altro, che egli doveva forse ancora maturare pienamente l'unicità esclusiva del suo ruolo apostolico di origine divina, lasciando, invece, maggior spazio alla ecclesialità. Del resto, fu questa la sua prima esperienza di vita cristiana. Solo successivamente, dopo una decina di anni trascorsi in seno a diverse comunità credenti, maturerà la sua vocazione missionaria e il suo ruolo esclusivo di “apostolo delle genti”, come si autodefinirà in Rm 11,13, inviato direttamente da Dio Padre e da Gesù Cristo, imponendosi così in mezzo agli altri apostoli.
Destinatario qui non è una persona, bensì una comunità: l’ ™kklhs…a. (ekklesía). Questo titolo nel cristianesimo primitivo era assegnato alla Chiesa madre di Gerusalemme, formata esclusivamente da giudeocristiani, che si ispiravano ancora alla Legge mosaica e, quindi, prevalentemente giudaizzanti. La comunità credente di Tessalonica era, dunque, insignita del titolo di “ekklesía”, un termine questo che è la traduzione greca di quello ebraico “qâhâl”, che significa assemblea, adunanza, che la qualificava quale nuovo popolo di Israele, succeduto a quello vecchio. L'uso, tuttavia, del termine “ekklesía” assume anche un significato più pregnante. Il termine, infatti, deriva dall'espressione greca “ek kaleo”, che significa “chiamare fuori da” e quindi assume il senso di “convocare, eleggere”, dando un senso di universalità e di elezione universale. Paolo, quindi, superando il ristretto significato dell'appellativo “ekklesía”, riservato prevalentemente alla chiesa madre di Gerusalemme, lo estende anche alle comunità credenti etnocristiane, poiché anche queste sono delle elette e delle convocate a dare lode a Dio Padre in Gesù Cristo. Ma qui Paolo va ben oltre, poiché qualifica l' “ekklesía” quale comunità credente che si trova “™n qeù patrˆ kaˆ kur…J 'Ihsoà Cristù” (en tzeô patrì kaì kirío Iesû Cristô, in Dio Padre e Signore nostro Gesù Cristo), dove quel “™n” (en, in) sta ad indicare uno stato di vita, una condizione esistenziale, che pone la comunità di Tessalonica nel ciclo vitale di “Dio Padre e del Signore Gesù Cristo”. Questo esprime una profonda unione di appartenenza, che si fa vita di comunione intracomunitaria e con Dio Padre e con il Signore Gesù Cristo. Un concetto questo che verrà espresso anche in 1Gv 1,3: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. In altri termini, la comune fede dei credenti crea una comunione di vita tra di loro e, nel contempo, anche con Dio Padre e con Gesù Cristo, rafforzata dal dono dello Spirito Santo.
Qui
Dio è qualificato con il nome di “Padre” con il quale Gesù
stesso si rivolgerà a Dio, ma che condividerà anche con noi: “Io
salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”
(Gv 20,17b). Quanto all’appellativo “Signore”, attribuito a
Gesù Cristo, Paolo riconosce la potenza divina che si è sprigionata
nell'uomo Gesù, riconosciuto quale Cristo, cioè Messia, nell’atto
della sua risurrezione, riconoscendo in lui la sua signoria
universale e, per questo, anche universalmente salvifica. Un termine,
dunque, salvifico e potente in cui è posta la comunità di
Tessalonica.
Abbiamo, infine, qui una formula a due membri: “Dio Padre” e “Signore Gesù Cristo”, che Paolo ha probabilmente mutuato dalle primissime comunità cristiane durante la sua formazione.
Il prescritto si
conclude con la formula di rito, di stampo liturgico, che va ben al
di là del semplice saluto augurale: “c£rij
Øm‹n kaˆ e„r»nh” (cáris
imîn kaì
eiréne, grazia a voi e pace). Il termine “Cáris”
indica, qui, l’amore misericordioso e gratuito di Dio, fonte del
suo perdono e di salvezza; mentre “eiréne” ne esprime la
conseguenza: la riconciliazione tra Dio e gli uomini, che deve
riflettersi nella riconciliazione degli uomini tra di loro. Pace
fatta, dunque, tra Dio e gli uomini in Cristo, quale dono del
Risorto ai credenti (Gv 20,19).
Il
primo rendimento di grazie incorniciato in un contesto
escatologico-apocalittico (1,3-10)
Testo
a lettura facilitata
Il primo rendimento di grazie e le sue motivazioni (1,3-4)
3-
Dobbiamo sempre rendere grazie a Dio a motivo di voi, fratelli, come
è giusto, poiché la vostra fede aumenta oltre misura e sovrabbonda
l'amor di ciascuno di tutti voi verso gli uni e gli altri,
4-
così che noi stessi in voi siamo glorificati nelle chiese di Dio per
la vostra perseveranza e la (vostra) fede in tutte le vostre
persecuzioni e le afflizioni, che sostenete,
Le
sofferenze inflitte dalle persecuzioni lette all'interno di un quadro
escatologico (1,5-10)
5-
prova del giusto giudizio di Dio per essere voi ritenuti degni del
Regno di Dio, per il quale anche soffrite,
6-
anche se (è) giusto presso Dio rendere in cambio afflizione a quelli
che vi opprimono
7- e
a voi che soffrite sollievo con noi, nella rivelazione del Signore
Gesù dal cielo con gli angeli (della) sua potenza
8-
in fuoco di fiamma, che dà vendetta a quelli che non conoscono Dio e
a quelli che non obbediscono al vangelo del Signor nostro Gesù,
9-
costoro pagheranno (la) pena, sventura eterna dal volto del Signore e
dalla gloria della sua potenza,
10-
allorché verrà (per) essere glorificato nei suoi santi ed essere
ammirato in tutti quelli che hanno creduto, poiché fu creduta la
nostra testimonianza in mezzo a voi in quel giorno.
Preghiera
che si accompagna e conclude il primo rendimento d grazie
(1,11-12)
11-
Anche per questo preghiamo sempre per voi, affinché il nostro Dio vi
stimi degni della vocazione e nella (sua) potenza compia (in voi)
ogni desiderio di bontà e l'opera della fede,
12-
affinché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e
voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e d(el ) Signore Gesù
Cristo.
Note
generali
Questo primo capitolo strutturalmente si snoda parallelamente al primo capitolo della 1Ts, ma la prospettiva qui è marcatamente escatologica ed apocalittica e preannuncia in qualche modo quale sarà il tema di questa lettera e lo sfondo su cui si muove.
Il rendimento di grazie si limita alla fede e alla carità vicendevole, entrambe in netto miglioramento rispetto a quelle già lodate nella 1Ts. Si parla infatti di fede che “aumenta oltre misura” e di un amore vicendevole che “sovrabbonda” (1,3). Scompare, invece, il tema della speranza, che, tuttavia, appare una sola volta, in 2,16 nel contesto di una formula di fede: “Pertanto Egli, il Signore nostro Gesù Cristo, e Dio, nostro Padre, che ci ha amati e (ci) ha dato una consolazione eterna e una buona speranza con (la sua) grazia”. Il senso, quindi, non cambia, ma lo spazio ad essa riservato viene ridotto di molto rispetto alla 1Ts, per assegnarlo ad un correttivo, che riguarda i tempi e le modalità che preannunciano l'avvento del Signore, mentre in 1Ts era visto come improvviso e inatteso (1Ts 5,1-3). Diversamente in 1Ts il termine “speranza” compare quattro volte in diversi contesti: la prima unitamente alla fede e alla carità, formando i tre pilastri su cui fonda la vivace vita spirituale della comunità di Tessalonica (1Ts 1,3); la seconda volta è la stessa comunità di Tessalonica che è funge da speranza per Paolo alla venuta del Signore (1Ts 2,16); la terza volta riguarda la risurrezione dei defunti (1Ts 4,13) ed infine, in 1Ts 5,8, riguarda il modo di vivere del credente, che pur legato alle realtà terrene è proiettato nel suo modo di vivere verso le realtà promesse, oggetto di speranza.
Quanto alle persecuzioni e alle afflizioni che queste provocano, la situazione della comunità non è cambiata. Quindi o la 2Ts è stata scritta a breve distanza di tempo dalla prima, ma non se ne capirebbe il motivo, considerato che questa Seconda Lettera riproduce in più parti la Prima, risultandone una sorta di doppione di quella, ma con toni più spiccatamente escatologici ed apocalittici della Prima; o le persecuzioni erano una costante del vivere credente, che in mezzo ad una società completamente pagana, si discostava nettamente ed appariva come una sorta di stonatura e di atto accusatorio nei confronti del modo di vivere pagano, racchiuso nella materialità del suo presente, ripiegato egoisticamente su se stesso e privo di ogni speranza. E quando si parla di persecuzioni non è da intendersi soltanto quelle promulgate dalla legge, ma anche quelle, non meno pesanti, conseguenti agli attriti familiari e relazionali in genere, resi estremamente difficili dal modo contrapposto di vivere e di pensare la vita (Mt 10,34-36; Lc 12,51-53).
Ma sono proprio queste persecuzioni, che introducono al tema escatologico ed apocalittico, che fornisce loro una nuova comprensione: la sofferenza provocata dalle persecuzioni rende degni i credenti, che le sopportano, al Regno di Dio (v.5) e saranno compensate da una grande gioia (v.7); mentre i persecutori subiranno le stesse afflizioni che loro hanno inflitto ai credenti e saranno distrutti dalle fiamme della vendetta divina (vv.8-9).
Le cose, quindi, si rovesceranno completamente: chi ha sofferto qui su questa terra gioirà nella gloria di Dio; chi invece ha procurato sofferenza verrà duramente punito tra le fiamme degli Inferi. Un concetto questo, che ritroviamo parimenti anche in Lc 16,25 nella parabola di Lazzaro e del ricco Epulone (Lc 16,19-31).
Il cap.1 si chiude con il tema della preghiera, prevalentemente legata con quel “anche”, con cui si apre il v.11 (“e„j Ö kaˆ”, eìs ò kaì, per questo anche), al tema escatologico-apocalittico (vv.4-10). Una preghiera che è finalizzata a rafforzare la chiamata alla fede dei Tessalonicesi, affinché siano stimati degni del Signore, lasciando sottinteso, “al momento della sua venuta”. Tutto, quindi è finalizzato alla Parusia, che deve condizionare il modo di vivere del credente nella quotidianità del suo presente, affinché il suo modo di vivere glorifichi il Signore.
E
benché la preghiera riprenda in qualche modo il rendimento di grazie
di apertura lettera (v.3) e lo concluda, tuttavia, manca in questa
2Ts il tema del “fare memoria”, del “ricordare” attorno a cui
gravitava la 1Ts, trasformando il “ricordo” e il “fare memoria”
in un “rendimento di grazie”, che poi si concludeva con una
preghiera celebrativa, così che veniva a crearsi un contesto
liturgico e cultuale, in cui erano inserite l'attività missionaria
di Paolo e la risposta pronta e fervente dei Tessalonicesi.
Commento
ai vv. 1-12
Il
primo rendimento di grazie e le sue motivazioni (1,3-4)
Il rendimento di grazie si apre con un “dobbiamo sempre”, motivandolo con quel “come è giusto”, creando in tal modo una cornice liturgica e celebrativa in cui viene inserito l'oggetto-motivo di tale ringraziamento, che viene definito “come giusto”, riconoscendo in tal modo l'ossequio dovuto a Dio per l'opera che Egli sta compiendo in mezzo ai Tessalonicesi, rinsaldandoli nella fede e nell'amore reciproco. Fede ed amore che sembrano ancor più cresciuti in mezzo alla comunità, rispetto alla 1Ts, poiché la fede aumenta “oltre misura”, mentre l'amore vicendevole “sovrabbonda”, così che il fervore spirituale, che caratterizza questa comunità, diviene motivo di vanto per Paolo, Silvano e Timoteo presso tutte le “chiese di Dio”. Il riferimento qui, probabilmente, sono quelle comunità credenti sparse per la regione della Macedonia e dell'Acaia, che la stessa neonata chiesa di Tessalonica, ad imitazione di Paolo e del Signore (1Ts 1,6a), hanno evangelizzato e fondato (1Ts 1,8-10), divenendo essa stessa modello per tutte le chiese della regione (1Ts 1,7).
Ma
il motivo di tale rendimento di grazie non è soltanto per il
fermento spirituale che anima questa singolare ed esemplare comunità
di Tessalonica, ma anche per un altro elemento di distinzione: “la
(vostra) fede in tutte le vostre persecuzioni e le afflizioni, che
sostenete” (1,4b).
Le
sofferenze inflitte dalle persecuzioni lette all'interno di un quadro
escatologico (1,5-10)
Viene, pertanto, ripreso il tema delle sofferenze causate dalle persecuzioni. Ma mentre in 1Ts sono appena accennate (1Ts 1,6b; 2,14; 3,3-4), quasi impercettibili, qui in 2Ts vengono focalizzate e inquadrate all'interno di una cornice escatologico-apocalittica, fornendone una particolare lettura. Esse vanno comprese nel loro duplice aspetto: da un lato, come una sorta di prova, che viene imposta alla chiesa di Tessalonica per renderla in tal modo degna di quel Regno di Dio, per il quale essa sta soffrendo; ma nel contempo sono una promessa di grande gioia per le sofferenze da questa patite; dall'altro, le sofferenze inflitte alla comunità credente di Tessalonica si trasformeranno in un doloroso giudizio divino di condanna contro coloro che le hanno causate. Sofferenze, dunque di condanna per i persecutori, che hanno un duplice intento: vendicare i perseguitati e giustiziare i persecutori, non solo perché hanno commesso il male contro i credenti, nei quali è sacramentato il Cristo glorioso, che in essi si manifesterà nella sua potenza e gloria (v.10), ma anche e in particolar modo perché non hanno colpevolmente conosciuto Dio, avendo rifiutato di sottomettersi alla Verità del Vangelo (v.8).
Il contesto della punizione è quello caratteristico dell'apocalittica giudaica, che vede il fuoco e le fiamme divine bruciare i peccatori impenitenti nel giorno del Signore, che è giorno dell'ira e della giustizia divina, che si scateneranno contro i nemici di Dio. È questo il giorno, nella prospettiva cristiana, della venuta del Signore, che si manifesterà con gloria e potenza “per essere glorificato nei suoi santi ed essere ammirato in tutti quelli che hanno creduto” (v.10), rivelandosi “nel Signore Gesù dal cielo con gli angeli (della) sua potenza” (v.7b), sottomettendo i suoi nemici. Un quadro escatologico che verrà ripreso e approfondito da Paolo in 1Cor 15,23-28.
Versetti
questi ultimi due, il v.7b e 10, che formano tra loro inclusione per
complementarietà tematica o d'immagine. In 7b viene descritta la
venuta del Signore tra la gloria e la potenza dei suoi angeli; mentre
il v.10 vede questa gloria e potenza rivelarsi nei suoi santi e in
quelli che hanno creduto, resistendo alle persecuzioni e alle
sofferenze che queste provocavano. Una gloria che si trasformerà in
glorificazione dei perseguitati per la loro fede.
Preghiera
che si accompagna e conclude il primo rendimento d grazie
(1,11-12)
I vv.11-12 concludono sia l'iniziale rendimento di grazie (vv.3-4), sia i contenuti della pericope vv.5-10. Si tratta di una preghiera che assume nei suoi sviluppi il senso di una augurale benedizione posta sulla chiesa di Tessalonica, perché possa prosperare sempre più in Dio.
I due vv.11-12 sono composti da un'attestazione iniziale (v.11a), fatta seguire da due frasi finali (vv.11b.12) introdotte da altrettanti “affinché”; la seconda (v.12) dipendente dalla prima ed entrambe conseguenti dal v.11a.
Il v.11a si apre con l'espressione “Anche per questo”, dove il “per questo” si richiama alla pericope immediatamente precedente (vv.5-10), mentre l' “Anche” lascia intendere che al “per questo” va aggiunto un qualcos'altro, cioè l'iniziale rendimento di grazie. l'”Anche per questo”, pertanto, abbraccia l'intero primo capitolo, il cui contenuto costituisce il motivo, che spinge l'autore alla preghiera, caratterizzata da quel “sempre”, che dice la perseveranza e la continuità di questa preghiera, che celebra l'opera di Dio all'interno della comunità credente ed è finalizzata, con quel “per voi”, alla comunità stessa.
L'attore principale è Dio che opera sulla comunità credente di Tessalonica, ed è un Dio qualificato come “nostro”, attestando in tal modo come egli appartenga alla comunità e come questa gli appartenga e dove quel “nostro” dice anche la comune fede, che fa di tutti una comunione di credenti nell'unico e comune Dio.
Il primo intento di questa preghiera è che Dio “vi stimi degni della vocazione”, cioè vi trovi sempre disponibili alla sua iniziale chiamata, così che Egli possa, con la potenza del suo Spirito, portare a compimento ogni desiderio di bene, che Egli fa sorgere nell'animo dei credenti, compiendo in tal modo l'opera della fede, che è la santificazione del credente e la sua salvezza, cioè l'acquisizione del credente nella vita stessa di Dio, che per sua natura è il Santo per eccellenza e Fonte di ogni santità, nonché il Luogo della salvezza, poiché in Lui il credente condivide la sua stessa Vita.
Il
v.12 si apre con un secondo “affinché”, dipendente e conseguente
dal primo “affinché” (v.11b), poiché il realizzare in se stessi
ogni desiderio di bene e portando a compimento l'opera salvifica
della stessa fede, diviene tutto ciò un atto di glorificazione, o
forse è meglio dire di “celebrazione” nella propria vita del
“nome del Signore nostro Gesù in voi”, così che il credente
viene a sua volta glorificato da parte di Dio Padre, nel Signore
Gesù, di cui condivide la sorte di glorificazione “secondo la
grazia del nostro Dio e d(el ) Signore Gesù Cristo”. In altri
termini, “secondo il progetto di salvezza”, dono gratuito di
misericordia divina, che si è attuato nel Signore Gesù a favore di
ogni credente.
I
segni che annunciano la venuta del Signore (2,1-17)
Testo a lettura facilitata
Introduzione al tema (2,1-3a)
1-
Ora vi preghiamo, fratelli, circa la venuta del Signore nostro Gesù
Cristo e della nostra riunione in lui,
2-
di non essere agitati rapidamente dalla mente né essere turbati, né
per mezzo di (qualche) ispirazione, né per mezzo di (qualche)
discorso, né per mezzo di una (qualche) lettera come (se fosse) per
mezzo nostro, quasi che il giorno del Signore sia imminente.
3a-
Né qualcuno vi inganni in nessun modo!
I segni che precedono al venuta del Signore: apostasia e l'uomo dell'iniquità (2,3b-4)
Poiché
prima deve giungere l'apostasia ed essere rivelato l'uomo
dell'iniquità, il figlio della perdizione,
4-
che si contrappone e si mette sopra a tutto ciò che viene detto Dio
o (sia) oggetto di culto, così da porre a sedere se stesso nel
tempio di Dio, proclamando se stesso che è Dio.
Ciò
che ancora trattiene il manifestarsi dell'Iniquo (2,5-7)
5-
Non ricordate che, ancora quando ero presso di voi, vi dicevo queste
cose?
6-
Ed ora sapete ciò che (lo) trattiene per essere egli manifestato
n(el) suo tempo.
7-
Infatti il mistero dell'iniquità è già in azione; soltanto (che)
colui che ora (lo) trattiene sia (tolto) di mezzo.
L'Iniquo
e i suoi inganni (2,8-12)
8- E
allora sarà svelato l'iniquo, che il Signore [Gesù] ucciderà con
il soffio della sua bocca e annienterà con la gloria della sua
venuta;
9-
(lui, l'empio) la cui venuta (avverrà) con la forza di satana, con
ogni miracolo e con segni e prodigi menzogneri,
10-
e con ogni inganno di iniquità per coloro che vanno in rovina,
davanti a coloro che non accolsero l'amore della verità per essere
salvati.
11-
E per questo Dio manda a loro una forza di depravazione perché essi
credano alla menzogna,
12-
affinché siano giudicati tutti quelli che non hanno creduto alla
verità, ma si compiacquero dell'iniquità.
Il
secondo rendimento di grazie (2,13-15)
13-
Ma noi dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli amati
dal Signore, poiché Dio vi ha scelti (quale) primizia per (la)
salvezza, con la santificazione dello Spirito e con la fede nella
verità;
14-
per la quale cosa vi ha [anche] chiamati per mezzo del nostro vangelo
per (l')acquisto (della) gloria del Signore nostro Gesù Cristo.
15-
Pertanto, ora, fratelli, state saldi e tenete ferme le tradizioni,
che avete appreso sia per mezzo della parola sia per mezzo della
nostra lettera.
La risposta all'Iniquo: rimanere saldi nella Tradizione (2,16-17)
16-
Pertanto Egli, il Signore nostro Gesù Cristo, e Dio, nostro Padre,
che ci ha amati e (ci) ha dato una consolazione eterna e una buona
speranza con (la sua) grazia,
17-
consoli i vostri cuori e (vi) consolidi in ogni opera e (in ogni)
parola buona.
Note generali
Il tema dell'escatologia e dell'apocalittica aveva già fatto la sua comparsa in 1Ts, con riguardo al rapporto morti e viventi alla venuta del Signore (1Ts 4,13-18) e al modo di vivere del credente nell'attesa dell'avvento del Signore, la cui parusia sarebbe stata improvvisa e nel momento in cui meno ce se l'aspetti (1Ts 5,1-11). Il tono là era catechetico e parenetico nel contempo, e la questione occupava soltanto una sezione della lettera, 4,13-5,11, mentre questa 2Ts riprende il tema, qui divenuto centrale, occupando pressoché l'intera lettera, e risponde alle preoccupazioni della comunità di Tessalonica circa i tempi della venuta del Signore, ritenuta imminente. Una credenza questa che era alimentata da sedicenti ispirati, da chiacchiere che giravano all'interno della comunità e da qualche lettera fatta passare per quella di Paolo (2,2b). Tutto questo creava, da un lato, dei turbamenti e delle angustie (2,2a); dall'altro, un disimpegno da parte di non pochi membri della comunità, provocando in tal modo agitazioni e confusioni all'interno della chiesa stessa.
L'autore affronterà in due tempi la questione: dapprima, qui in 2,1-17, sfatando l'imminenza della parusia, preannunciando gli eventi che, invece, la precederanno, così che questa non sarà né imminente né, tanto meno, improvvisa. Due in particolar modo i segni che la preannunceranno: le apostasie e la manifestazione dell'uomo Iniquo, che, con miracoli e portenti, ingannerà molti (2,3b). In secondo tempo (3,6-15), richiamando all'ordine (3,12) quei credenti che, sospinti dalla convinzione dell'incombente venuta del Signore, “camminano disordinatamente, non lavorando per niente, ma impicciandosi (di cose altrui)” (3,11). In altri termini vivevano da perdigiorno sulle spalle degli altri, disturbando il quieto e ordinato vivere della comunità credente, già turbata di suo per i motivi esposti al v.2.
Il linguaggio con cui si esprime questo secondo capitolo è caratteristico di quello apocalittico, dal quale mutua soltanto due immagini: l'apostasia e l'Iniquo, che si ritrovano parimenti nelle tre apocalissi sinottiche e nella stessa Apocalisse giovannea.
Quanto
alla macrostruttura del cap.2, propongo la seguente:
Introduzione al tema (2,1-3a);
I segni che precedono al venuta del Signore: apostasia e l'uomo dell'iniquità (2,3b-5);
Ciò che ancora trattiene il manifestarsi dell'Iniquo (2,6-7);
L'Iniquo e i suoi inganni (2,8-12);
Il secondo rendimento di grazie, che mette in rilievo la contrapposizione dei credenti nei confronti dei sedotti e di quelli che non hanno accolto la verità del vangelo (2,13-17).
Commento
ai vv. 2,1-17
Introduzione
al tema (2,1-3a)
Il v.1 funge da introduzione tematica al cap.2, riprendendo in qualche modo i temi enunciati in 1Ts 5,1-3 e in 4,17. Si tratta in buona sostanza dei tempi che riguardano la venuta del Signore e della “nostra riunificazione in lui” al momento del suo ritorno. Questioni queste che non erano presenti soltanto nella chiesa di Tessalonica, ma investivano l'intera chiesa2, cioè la convinzione dell'imminente ritorno del Signore, che poneva così fine ai regni umani per instaurare quello unico di Dio, riaffermando in tal modo la sovranità di Dio su tutti gli uomini e sull'intera creazione, riconducendo il tutto in Dio, così com'era nei primordi dell'umanità. Una simile prospettiva viene elaborata in modo molto dettagliato, quasi filmico, da parte di Paolo in 1Cor 15,23-28.
Queste convinzioni, profondamente radicate nella chiesa del I sec. d.C. e primi decenni del II sec., venivano talvolta sollecitate ancor di più da sedicenti profeti o ispirati, generando discorsi e chiacchiere tra i membri delle comunità credenti, talvolta supportate da lettere o semplici scritti fatti passare come paolini, un fenomeno quest'ultimo che andava diffondendosi sempre più intorno alla fine del I sec., quando la stima e l'autorità di Paolo erano riconosciute in tutta la chiesa. Vi era, quindi, chi, per avvalorare le proprie convinzioni, presentava degli scritti come fossero di Paolo o ritenuti tali presso qualche comunità, diffondendosi, poi, presso le altre.
Un turbarsi e un agitarsi, prosegue l'autore, inutili, “quasi che il giorno del Signore sia imminente”, lasciando trasparire chiaramente come la parusia fosse tutt'altro che imminente. Un'attestazione questa, pronunciata dall'autore di questa 2Ts, certamente un responsabile di comunità, che acquista una particolare valenza per la datazione della stessa Lettera, in genere collocata intorno all'80 d.C., ma che la sfiducia posta sull'imminenza della venuta del Signore, la ricolloca in tempi più recenti, cioè nei primi due o tre decenni del II sec., tempo questo in cui andava ormai diffondendosi la convinzione che la parusia non sarebbe più stata così imminente, anzi, non ci sarebbe stata per niente. Non a caso l'autore della seconda lettera di Pietro, datata intorno al 125 d.C., si vedrà costretto ad intervenire per rettificare il tiro, cercando di tamponare in qualche modo le attestazioni di quei credenti che ormai, avendo perso la fiducia nel ritorno del Signore, si facevano beffe di quelli che, invece, ancora ci credevano (2Pt 3,1-18).
E' significativo rilevare il contrasto di posizioni tra la 2Pt e la 2Ts, lettere che vanno attribuite sicuramente a dei responsabili di comunità e, quindi, a personaggi che, è da presumere, si muovessero in conformità alla Tradizione, che, essi stessi, elaborando nuove linee di pensiero che emergevano dalle comunità, di cui erano responsabili, modificavano incidendo sulla Tradizione stessa, aggiornandola, pur mantenendone fermo l'orientamento. Tradizione, infatti, non significa ingessatura, ma crescita e arricchimento del pensiero cristiano, che man mano il tempo passa si avvicina sempre più a quella Verità tutta intera che il Gesù giovanneo aveva promesso ai suoi (Gv 16,12-13a).
La 2Pt, databile intorno al 125 d.C., insiste sulla venuta imminente del Signore, rintuzzando le pretese di certe malelingue; mentre la 2Ts, presenta uno scenario completamente diverso, insistendo sul contrario: nessuna imminente parusia, stigmatizzando, per contro, coloro che ancora vi credevano. Segno questo che, ormai, anche la chiesa ufficiale aveva accantonato l'idea di un imminente ritorno del Signore, commutando l'attesa con la speranza. Quindi è da presumere che 2Pt e 2Ts siano contemporanee e tutte de cadenti in un periodo di tempo in cui la chiesa stava aggiornando la Tradizione, per cui era comprensibile la convivenza di due posizione contrapposte, entrambe in attesa di definizione; oppure la 2Ts si stava già muovendo secondo una Tradizione già aggiornata e consolidata, cosa questa più credibile, considerato che 2Ts 2,15; 3,6 esorta la chiesa di Tessalonica a muoversi secondo la Tradizione, che sembra smentire l'imminente ritorno del Signore. Se così è, allora, la 2Ts è databile successivamente al 125 d.C.
L'introduzione
termina con un'esortazione che, in questo contesto, è anche un
ammonimento: “Né qualcuno vi inganni in nessun modo!”. Monito
che ritroviamo sostanzialmente identico altre sette volte nel N.T.,
quasi sempre in contesti escatologici ed apocalittici3.
L'autore, quindi, qui si allinea al comune linguaggio proprio di tali
ambienti, facendo seguire, come è di norma in simili contesti,
l'ammonimento su ciò che si deve porre attenzione (vv.2,3b-15) per
non lasciarsi trarre in inganno. Gli eventi su cui è necessario
accentrare la propria attenzione sono qui inclusi dalle due
espressioni che sono tra loro complementari: “Né qualcuno vi
inganni in nessun modo!” (v.3a) e “Pertanto, ora, fratelli, state
saldi e tenete ferme le tradizioni” (v.15a), quasi a dire:
combattete questi inganni con l'insegnamento che avete appreso dalla
Tradizione.
I
segni che precedono la venuta del Signore: apostasia e l'uomo
dell'iniquità (2,3b-4)
I vv.2,3b-4 sono finalizzati a demolire la radicata credenza circa l'improvvisa e imminente venuta del Signore. Lo fa avvertendo che questa venuta sarà preannunciata da due significativi eventi escatologici, posti nello stesso ordine di sequenza con cui erano comunemente creduti nella chiesa del I sec.4: l'apostasia, cioè l'abbandono della fede da parte di credenti, pressati dalle persecuzioni; e la comparsa dell'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione (v.3b). Due elementi che in qualche modo sono tra loro concatenati, poiché l'apostasia è causata dalle persecuzioni e queste sono il frutto dell'iniquità, intesa quale atteggiamento di avversione a Dio.
Tuttavia questi due elementi, scelti dall'autore per rappresentare i segni che preannunciano la fine dei tempi e la venuta del Signore, non sono in realtà gli unici che gli ambienti escatologici hanno prodotto per creare la loro escatologia, ma vi sono anche la sollevazione dei popoli, le guerre, le carestie, i terremoti, grandi sconquassi negli astri e cose simili, che alludono, più che a eventi storicamente circoscrivibili, al generale sovvertimento delle realtà umane e delle loro organizzazioni sociali e politiche in genere, nonché private, come quelle familiari. Tutte cose queste che hanno un loro comune denominatore e a questo sono riconducibili: l'iniquità, che trova la sua personalizzazione nell'uomo iniquo o figlio della perdizione, cioè destinato alla dannazione, privato, quindi, di ogni possibile speranza, a motivo della sua connatura avversione a Dio. Quell'iniquità che è il frutto della ribellione dell'uomo a Dio, che ha come conseguenza la destrutturazione dell'ordine creato e delle leggi che intrinsecamente lo governano, rotte le quali, l'uomo, inteso in tutte le sue estensioni e manifestazioni, e con lui, per un principio di solidarietà che li lega tra loro5, l'intera creazione, si disintegrano, decretando la propria fine (Gen 3,15-24). Non serve che Dio intervenga per punire l'uomo per le sue malefatte, è sufficiente che lo lasci a se stesso. Sarà la sua natura decaduta, produttrice di iniquità, che lo porterà alla propria autodistruzione, per certi aspetti necessaria, perché si instauri nuovamente il Regno di Dio, cioè il potere di Dio che riconduce a Sè tutte le cose, così com'erano nei primordi della creazione, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). E, in primis, quell'umanità che, nonostante tutto, crede ancora in Lui e gli è rimasta fedele (1Cor 15,24-28).
È in questa logica dei grandi schemi che sottendono la storia e il progetto divino della sua salvezza, cioè del recupero in Dio dell'uomo e della creazione, così com'era nei loro primordi, che va letta la dinamica dell'escatologia e dell'apocalittica, che trovano, di volta in volta, un loro riferimento storico, difficilmente individuabile, poiché ogni tempo, ogni contesto, ogni situazione ha il suo uomo dell'iniquità, a cui vengono applicati non caratteri specifici e caratterizzanti quella realtà, ma soltanto degli schemi generici, in cui si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ma questi schemi aiutano a comprendere e a leggere gli eventi che stanno accadendo in quel contesto e in quel momento storico. Sono schemi che fungono da passe-partout e consentono di entrare nel mistero della storia stessa e di scoprire ciò che in essa opera e dove essa sta conducendo l'uomo.
Chi sia quest'uomo dell'iniquità, destinato alla perdizione, anzi ne è figlio (v.8), viene qui descritto sotto due aspetti: il primo riguardante i suoi rapporti con Dio (v.4), e le conseguenze che ne derivano nei suoi rapporti con gli uomini (vv.9-10).
Quanto ai suoi rapporti con Dio, questi son sottesi da una sua connaturata avversione a Dio, che lo porta non solo a ribellarsi a Lui e a tutto ciò che gli si riferisce in qualche modo, come il culto che gli è dovuto, ma anche a prenderne il posto; così che “si contrappone e si mette sopra a tutto ciò che viene detto Dio o (sia) oggetto di culto, così da porre a sedere se stesso nel tempio di Dio, proclamando se stesso che è Dio” (v.4). A ben guardare, altro non è che il ripetersi dello schema proprio della colpa originale e che si perpetua nel tempo in una natura umana decaduta: “Rispose la donna al serpente: <<Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete>>. Ma il serpente disse alla donna: non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male>>. Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi” (Gen 3,2-7a). È il dramma dell'uomo che si mette in concorrenza con Dio, anzi lo vuole surclassare e prenderne il posto, passando da un teocentrismo ad un antropocentrismo, in cui l'uomo è referente di se stesso. Quali siano le conseguenze, ce ne dà testimonianza Gen 3,16-24: sofferenza, dolore e morte.
Esempi
in tal senso se ne trovano lungo la storia: i faraoni, gli imperatori
e i dittatori in genere hanno creato e creano tuttora un culto divino
alla propria persona, associandosi a Dio stesso, pretendendo di
averne i poteri, anzi, sovente, sostituendosi a Dio stesso, cercando
di ricreare una sorta di paradiso terrestre sotto il loro impero, che
in genere si riduce a enormi lager,
dove la dignità umana viene calpestata fino alla distruzione
dell'umanità stessa.
Ciò
che ancora trattiene il manifestarsi dell'Iniquo
(2,5-7)
Con il v.5 l'autore crea uno stacco, spostando la sua attenzione dai due segni, apostasia e uomo iniquo, che precedono e preannunciano la venuta del Signore, ad un qualche insegnamento che egli, in passato, deve aver impartito nel merito, similmente a quanto 1Ts lascia intravvedere in 4,2 e 5,1-2, con riferimento, in quei casi, alla catechesi impartita da Paolo, Silvano e Timoteo in occasione della fondazione della chiesa di Tessalonica. Ma qui, in 2Ts 2,5, il tempo e il contesto dell'insegnamento è ben diverso e l'insegnamento doveva riguardare ciò che impedisce il manifestarsi dell'uomo Iniquo, qui, ora, nel presente. Si tratta di un qualcosa o di un qualcuno, di cui i Tessalonicesi sono al corrente: “Ora sapete ciò che (lo) trattiene per essere egli manifestato n(el) suo tempo” (v.6). Si tratta di “un qualcosa” che impedisce all'Iniquo di manifestarsi, “un qualcosa”, che poi, al v.7b, assume l'aspetto più personale di “un qualcuno”. Il linguaggio qui si fa criptato ed è quello caratteristico apocalittico. Nella stessa Apocalisse di Giovanni si allude a qualcuno o a qualcosa che tiene in catene l'Iniquità o la potenza di un qualche evento infernale, che poi a qualcuno viene dato di liberare (Ap 9,1-5; 20,1-3.7-10).
Non credo che vada cercato un qualcuno in particolare, storicamente definibile, poiché il linguaggio apocalittico, più che svelare i volti della storia tende, invece, a criptarli, cercando di fornire una chiave di lettura della storia e degli eventi che in essa si compiono o, forse, meglio dire che lentamente e gradualmente in essa si svelano. Credo che il tutto, ciò che impedisce (v.6a) o chi impedisce (v.7b), vada ricercato, come insegna l'Apocalisse giovannea, nel progetto di Dio su di una storia, che è già stata scritta su quel rotolo scritto dentro e fuori (Ap 5,1) e consegnato all'Agnello, sgozzato e dritto in piedi (Ap 5,6-7), cioè morto e risorto, divenuto il Signore della storia (Ap 5,9-10), perché ne sveli il senso e il cammino del suo compimento, togliendo con la sua Parola rivelatrice i sigilli, che fino a quel momento hanno coperto il progetto del Padre, disvelatosi nel Figlio, la vera Apocalisse del Padre.
Non vi è, quindi, un Anticristo o un Iniquo o un impedimento specifico, ma ogni epoca storica, ogni contesto storico, ogni tempo ha il suo Anticristo, il suo Iniquo e il suo impedimento, benché l'impedimento o chi lo toglie sia sempre unico, il Padre, che nella sua Provvidenza gestisce gli eventi della storia, conducendola al suo compimento, scandendone i tempi del suo realizzarsi.
Anche,
dunque, per l'Iniquo vi è un suo tempo stabilito, benché i frutti
della sua iniquità siano già operanti qui nella storia, in quanto
inscritti nella stessa natura umana decaduta.
L'Iniquo
e i suoi inganni (2,8-12)
Il v.7 si chiudeva indicando il tempo in cui chi tratteneva l'Iniquo veniva tolto di mezzo, dando quindi spazio al manifestarsi dell'Iniquo, che era in qualche modo presente nel “mistero dell'iniquità già in azione”. Un mistero, che per sua natura, parla di una realtà nascosta nell'iniquità e nel male che essa produce, e che rimanda il credente a quella colpa originale, da cui ogni male ne è disceso (Gen 3,16-24). È sempre, comunque, Dio il padrone della storia, che va considerata una sua creatura, poiché quel “libro, scritto dentro e fuori” è opera sua, all'uomo spetta accoglierla nel suo tempo e viverla conformemente ai tempi in essa scanditi, così che il “ciò che trattiene” o il “chi trattiene” l'Iniquo dicono soltanto come questi non ha un potere assoluto, ma esso è tenuto al guinzaglio e soltanto quando gli è concesso egli potrà manifestarsi. Egli fa parte di quel “mistero”.
Il v.8 riprende le fila interrotte dai vv.5-7 e presenta, ancor prima dell'agire devastante dell'Iniquo sui popoli e in mezzo alle genti (vv.9-12), la sua distruzione da parte di Dio, lanciando in tal modo un messaggio rassicurante al credente, quello di non temere, poiché il potere dell'Iniquo, per quanto distruttivo possa essere, non prevarrà mai sul Padrone della storia e non andrà mai oltre i limiti che gli sono consentiti, poiché “il Signore [Gesù] ucciderà con il soffio della sua bocca e annienterà con la gloria della sua venuta”. Un'immagine che l'autore ha mutuato, quasi certamente, da Is 11,4b: “La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio”; mentre l'annientamento con la sua gloria richiama l'immagine dell'onnipotenza di Dio sul monte Sinai (Es 24,17) e schierato a battaglia contro i suoi nemici (Es 14,4.17). Immagini che lasciano intravvedere l'onnipotenza invincibile di Dio, che sovrasta il male e rassicura il suo fedele. Del resto, non essendo Dio definibile per sua natura, in quanto avvolto nel suo Mistero, non resta che avvicinarsi a Lui in qualche modo attraverso delle immagini, che non lo definiscono, ma lasciano solo intuire o intravvedere. È ciò che ha fatto Gesù allorché annunciava il Regno di Dio, parlando attraverso similitudini, immagini e racconti, poiché si tratta di realtà sconosciute all'uomo e da lui irraggiungibili, poiché esulano dalla sua esperienza e dai suoi mezzi di percezione, atti a cogliere realtà fisiche, ma non spirituali.
La pericope, vv.9-12, presenta, da un lato, l'operato dell'Iniquo, dall'altro il giudizio divino che viene posto sui suoi seguaci, che si lasciarono ingannare perché hanno rifiutato la Luce della Verità.
L'Iniquo viene con la potenza di satana, per indicarne l'origine e l'appartenenza. Egli, pertanto, opera in nome e per conto di satana, beneficiando del suo potere. Una potenza che si esprime attraverso miracoli, segni e prodigi, che sono definiti “menzogneri”, perché usano un potere che è proprio di Dio, ma che, invece, è solo una simulazione, una sua imitazione, per trarre in inganno le genti.
Un'immagine, questa, che non è nuova nell'apocalittica e che ritroviamo molto simile, se non per certi aspetti, sovrapponibile in Mt 24,24 e il suo passo parallelo in Mc 13,22 e, in modo più dettagliato, nella stessa Apocalisse giovannea in 13,11-15: “Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago. Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia, la cui ferita mortale era guarita. Operava grandi prodigi, fino a fare scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le era permesso di compiere in presenza della bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia”.
Questo passo dell'Apocalisse attesta due cose di rilievo: la bestia è simile nell'aspetto all'Agnello, cioè al Cristo risorto, ma ha in realtà la voce del drago. In altri termini questa bestia, che qui in 2Ts assume l'aspetto dell'Iniquo, si presenta come proveniente da Dio, rafforzando l'inganno con prodigi portentosi e tali da trarre in inganno gli uomini, ma in realtà la sua origine, così come la sua potenza, con cui opera miracoli, è satanica e certamente non è da porsi in concorrenza con quella di Dio e, tanto meno, in sua alternativa.
Il
secondo elemento di rilievo è che “le era permesso” e “Le fu
concesso” di compiere tali prodigi e di ingannare, quindi, gli
uomini. Segno evidente che il vero potere non è il suo, ma è di
Dio, che “le concede” di operare portenti per trarre in inganno
quelli che devono essere tratti in inganno e che alla bestia, come
all'Iniquo, soccombono, poiché il loro destino è la rovina eterna.
Essi, infatti, “non accolsero l'amore della verità per essere
salvati”. L'uomo Iniquo, pertanto, diviene elemento discriminante
tra i credenti e quelli che non credono, che dall'Iniquo sono
attratti, perché, privati della Verità del Vangelo e di conseguenza
della stessa Luce del Risorto, e incapaci per questo di distinguere
Dio da satana, il Bene dal male, seguiranno quella “forza di
depravazione”, perché preferiscono la menzogna alla Verità, anzi
“si compiacquero dell'iniquità”. Così che su di loro verrà
posto il giudizio divino di condanna, perché non hanno voluto
credere alla Verità e alla Luce del Vangelo, preferendo l'iniquità
alla Verità. Ed è proprio questo il senso di Gv 3,18-21: “Chi
crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato
condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di
Dio. E
il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini
hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano
malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla
luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità
viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono
state fatte in Dio”.
Il
secondo rendimento di grazie (2,13-15)
Una visione, quella proposta dalla pericope, vv.8-12, decisamente desolante e deprimente, alla quale l'autore contrappone, ora, il suo secondo rendimento di grazie, con cui rivolge la sua attenzione ai credenti, frutto ed oggetto dell'amore misericordioso di Dio, colti qui quale primizia per la salvezza; una primizia che Ef 1,4 vede realizzarsi in Cristo ancor prima della creazione del mondo. Una salvezza di cui l'autore qui attesta la genesi e la dinamica: essa ha origine dell'amore misericordioso di Dio e si attua attraverso la “santificazione”, che avviene per mezzo della potenza santificatrice dello Spirito; santificazione che dice l'assimilazione del credente alla Vita stessa di Dio, che per sua natura è il Santo per eccellenza e Santificatore, Fonte do ogni santità, il quale esorta in Lv 19,2 ogni credente ad essere santo, conformandosi esistenzialmente alla sua volontà. Una santificazione, che, tuttavia, non è automatica e scontata, ma viene attivata e resa possibile per mezzo della fede, cioè per pezzo dell'adesione esistenziale alla Verità, che si origina dal Vangelo, la cui finalità è “(l')acquisto (della) gloria del Signore nostro Gesù Cristo”. In altri termini, l'aderire esistenzialmente all'annuncio del Vangelo, significa accogliere nella propria vita la Verità lì sacramentata, che rende il credente partecipe della “gloria del Signore nostro Gesù Cristo”; gloria che dice figliolanza divina ottenuta da Gesù Cristo attraverso la risurrezione. Egli, infatti, fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,4).
Il v.15 chiude questo secondo rendimento di grazie con un'esortazione a rimanere saldi nelle “Tradizioni”, cioè negli insegnamenti ricevuti dagli “apostoli”, vale a dire dai predicatori inviati, che annunciavano e catechizzavano, fondandola, la comunità e fatti successivamente poi riecheggiare nella voce dei responsabili della chiesa di Tessalonica, che 1Ts 5,12 esortava a rispettare: “Vi preghiamo, fratelli, di rispettare quelli che si affaticano tra voi e sono i vostri capi nel Signore e vi ammoniscono”.
Tradizioni,
cioè insegnamenti, che i Tessalonicesi hanno appreso sia “per
mezzo della parola”, con riferimento non solo ai predicatori del
Vangelo, ma anche ai catechizzatori o da chi si occupava della loro
continua formazione, anche con ammonizioni e richiami; ma sia anche
“per mezzo della nostra lettera”, cioè di questa 2Ts, dove si è
parlato ampiamente degli aspetti escatologici ed apocalittici
riguardanti la venuta del Signore. Va, a mio avviso, escluso ogni
altro riferimento, come ad es. la 1Ts o altre lettere ancora, poiché
qui si parla di “lettera” e non di “lettere”, così come
l'articolo determinativo che precede il termine “lettera” lascia
chiaramente intendere che si tratta di questa lettera e non di altre
o di una qualcun'altra lettera. In tal caso, l'autore avrebbe detto
“come vi ho ho già scritto nella mia precedente lettera” o cose
simili. Comunque avrebbe fatto un riferimento preciso per rimandare i
lettori ad una diversa lettera. Il fatto che non lo precisi lascia
intendere che si tratti di questa lettera.
Rimanere
saldi nella Tradizione (2,16-17)
I vv.16-17 costituiscono una sorta di formula benedizionale, con cui l'autore invoca l'intervento divino sulla chiesa di Tessalonica. La formula, a due membri, compaiono, infatti, i nomi di Gesù Cristo nostro Signore e quello di Dio Padre, è formata da sue passaggi: il v.16 invoca l'intervento dei Due, facendo riferimento al loro amore, che si è rivelato attraverso il manifestarsi di “una consolazione eterna”, con riferimento qui alle sofferenze originate dalle persecuzioni, che avranno come contropartita la condanna dei persecutori e la gioia consolatrice dei perseguitati fedeli e perseveranti nella Verità del Vangelo (1,4-7), che costituisce “la speranza”, la quale, assieme alla provata fede e all'amore vicendevole (1,3) forma il pilastro della fervente vita spirituale di questa comunità. E tutto ciò è frutto della “sua grazia”, cioè del suo amore misericordioso, rivolto indistintamente a tutti gli uomini, ma reso efficace e fruttuoso solo per i credenti, cioè per coloro che hanno deciso di aderire esistenzialmente alla Verità del Vangelo.
Il
secondo passaggio (v.17) di questa formula benedicente è formato
dall'oggetto dell'invocazione, scandito in due parti: la
“consolazione dei vostri cuori”, sapendo il bene che aspetta,
alla venuta del Signore, a chi rimane fedele e perseverante nella
prova; e, conseguentemente, ciò consolidi il credente nel suo
permanere nella Verità del Vangelo, che deve trasparire sia nel modo
di vivere, che nella testimonianza del suo parlare. Parole ed opere,
quindi, da cui deve trasparire sempre la Luce della Verità del
Vangelo, di cui è permeata la vita del credente.
Un duro e doveroso
richiamo (3,1-18)
Testo a lettura facilitata
Versetti conclusivi del cap.2 (vv.1-3)
1-
Per il resto, pregate, fratelli, per noi, affinché la parola del
Signore corra e sia glorificata come (lo è) anche presso di voi,
2- e
affinché veniamo liberati dagli uomini cattivi e perversi. Infatti
non di tutti è la fede.
3-
Ma fedele è il Signore, che vi fortificherà e (vi) proteggerà dal
maligno.
Preambolo all'esortazione imperativa seguente (vv.4-5)
4-
Ma, quanto a voi, siamo persuasi nel Signore che le cose che vi
ordiniamo [anche] (le) fate e le farete.
5-
Ma il Signore diriga i vostri cuori verso l'amore di Dio e verso la
perseveranza di Cristo.
L'esortazione
(vv.6-10)
6-
Vi ordiniamo, pertanto, fratelli, nel nome del Signore [nostro] Gesù
Cristo, di sottrarvi da ogni fratello che cammini in modo
indisciplinato e non secondo la tradizione che hanno ricevuto da noi.
7-
(Voi) stessi, infatti, sapete come bisogna che ci imitiate, poiché
non fummo sregolati in mezzo a voi
8-
né mangiammo pane gratuitamente presso qualcuno, ma con fatica e con
travaglio, lavorando notte e giorno, per non gravare su qualcuno di
voi;
9-
non perché non avessimo autorità, ma affinché dessimo noi stessi
(quale) esempio a voi da imitarci.
10-
E infatti quando eravamo presso di voi, vi ordinammo questo, che se
qualcuno non vuole lavorare neppure mangi.
Il
fatto deplorevole (vv.11-12)
11-
Sentiamo infatti che alcuni tra di voi camminano disordinatamente,
non lavorando per niente, ma impicciandosi (di cose altrui);
12-
a questi tali ordiniamo e (li) esortiamo nel Signore Gesù Cristo,
affinché mangino (il) loro pane, lavorando in pace
Il comportamento da tenere nei confronti di chi sbaglia (vv.13-15)
13-
Ma voi, fratelli, non abbiate negligenza facendo il bene.
14-
Ma se qualcuno non obbedisce alla nostra parola per mezzo della
lettera, annotate costui affinché non vi mescoliate insieme a lui,
affinché si vergogni;
15-
e non trattate(lo) come un nemico, ma ammonite(lo) come un fratello.
Saluti finali (vv.16-18)
16-
E lui, il Signore della pace, vi dia la pace sempre e in ogni modo.
Il Signore (sia) con tutti voi.
17-
Il saluto è di mia mano, di Paolo, questo è il contrassegno in ogni
lettera; così scrivo.
18-
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo (sia) con tutti voi.
Note
generali
Il cap.3, se si escludono i primi tre versetti (vv.1-3), che concludono il cap.2, e gli ultimi tre versetti (vv.16-18) conclusivi dell'intera lettera, è interamente dedicato al richiamo di quei membri della comunità credente di Tessalonica, che, nella convinzione dell'imminente ritorno del Signore, che avrebbe posto fine ai regni umani, instaurando il suo Regno, avevano abbandonato ogni loro impegno personale e sociale e nei confronti degli stessi membri della comunità, di cui erano parte, disperdendo se stessi e campando sulle spalle degli altri. Non è difficile pensare come simili comportamenti indisciplinati e disordinati da parte di un certo consistente numero di credenti, (se così non fosse l'autore non avrebbe speso un intero capitolo sulla questione), creassero confusione e turbamenti all'interno non solo della società civile, ma anche nella stessa chiesa tessalonicese .
L'intervento sulla questione viene fatto dall'autore per gradi, con molta discrezione e attenzione pastorale, cercando di non ferire nessuno nella propria sensibilità, ma nel contempo con la dovuta determinazione, ponendo all'angolo gli irriducibili, salvaguardando, invece, coloro che, nonostante le voci di persone ispirate, di chiacchiere e di qualche lettera, fatta passare per quella di Paolo (2,2), continuavano la loro vita sociale e intracomunitaria con serietà e impegno, cercando di non creare problemi, vivendo con il lavoro e la fatica delle proprie mani e facendo del bene.
La
macrostruttura di questo terzo ed ultimo capitolo, così come di
seguito specificata, rileva la grande sensibilità pastorale e nel
contempo una certa finezza psicologica dell'autore della lettera:
Versetti conclusivi
del cap.2 (vv.1-3);
Preambolo all'esortazione imperativa seguente (vv.4-5);
L'esortazione (vv.6-10);
La denuncia del fatto deplorevole (vv.11-12);
Il comportamento da
tenere nei confronti di chi sbaglia (vv.13-15);
Saluti finali (vv.16-18).
Commento
ai vv.1-18
Versetti
conclusivi del cap.2 (vv.1-3)
La conclusione del cap.2 si prolunga a questi primi tre versetti del cap.3, introdotto dall'espressione avverbiale “TÕ loipÕn” (Tò loipòn, Per il resto), dove quel “Tò loipòn” dice che il tema del cap.2 è concluso e, ora, si passa oltre, traghettando in tal modo il lettore verso un'altra esortazione, che accentra la sua attenzione sull'autore stesso: “pregate, fratelli, per noi”, dove quel “noi” fa riferimento ai mittenti: “Paolo, Silvano e Timoteo” (1,1a). Una preghiera, quindi, che assume un aspetto ecclesiale ed è finalizzata non tanto al “noi”, che qui sono solo strumenti di quella Parola, che deve, grazie a loro, “correre ed essere glorificata”, cioè deve diffondersi ovunque ed essere accolta e onorata nella vita di ogni singolo credente e posta centralmente in ogni comunità ecclesiale, trasformandosi in un atto di culto e di rendimento di grazie, per l'azione salvifica che il Padre opera attraverso la sua Parola in chiunque l'accolga. Un'espressione questa che troviamo molto simile anche in At 6,7; 8,4; 13,49.
Un'accoglienza ed una glorificazione della Parola, che l'autore riconosce essersi compiute nella chiesa di Tessalonica, così osannata in 1Ts con quei tre “rendimenti di grazie, che si erano protratti per ben tre capitoli e qui ripresi, in modo molto più contenuto, in 1,3-4 e 2,13-14.
La seconda finalità di questa domanda di preghiera (v.1a) è introdotta dall'espressione “e affinché” (v.2a), dove quel “e” aggiunge un altro motivo di preghiera, che va a completare il primo, andando alla radice del problema: l'essere “liberati dagli uomini cattivi e perversi”, così che la Parola possa correre liberamente. Il riferimento sono alle continue persecuzioni e ai continui ostacoli frapposti dagli avversari alla diffusione della Parola, con particolare riguardo ai Giudei, presenti con una folta comunità in Tessalonica e che tanti problemi avevano già creato a Paolo e alla stessa comunità di Tessalonica (1Ts 2,14-16)6, nonostante che l'autore in 2Tm 2,9b annoti che “la parola di Dio non è incatenata”, benché egli soffra “fino a portare le catene come un malfattore” (2Tm 2,9a). Un'attestazione che troverà la sua conferma in Fm 1,10: “ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene”, con riferimento a Onesimo, schiavo di Filemone fuggito dal suo padrone e convertito da Paolo durante la sua prigionia.
Il v.2 si chiude attestando “Infatti non di tutti è la fede” quasi a giustificare, da un lato, le continue persecuzioni, che i credenti subiscono a causa della Parola, richiamando alla memoria le ultime parole del Gesù lucano nei confronti dei suoi persecutori: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34a); dall'altro, lasciando trasparire come l'aver accolto la Parola, che ha generato la fede, sia un privilegio, che trova la sua origine nell'elezione che Dio ha posto sul credente, ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4).
Il v.3 conclude il cap.2, contrapponendo alla pervicace incredulità dei persecutori la fedeltà del Signore, che non lascia in balia di se stesso chi ha aderito esistenzialmente alla sua Parola. Due sono gli interventi di questa fedeltà nei confronti dei discepoli: “vi fortificherà”, cioè renderà saldo nella propria fede il credente nei confronti delle persecuzioni; mentre quel “vi proteggerà dal maligno” significa che Dio non consentirà al maligno di prevalere sul discepolo. Solidarietà, dunque, da parte del Signore nei confronti dei suoi discepoli, che sono chiamati a seguire il destino del loro maestro.
Va
sempre detto, comunque, che l'azione protettrice di Dio funziona
nella misura in cui il credente si rende disponibile a tale azione,
lasciandosi condurre dalle ispirazioni e dalle illuminazioni che Dio
non fa mai mancare a nessun uomo, credente o meno che sia, perché
raggiunga il compimento della sua perfezione. Egli, infatti, è un
Padre buono che “che
fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere
sopra i giusti e sopra gli ingiusti”
(Mt 5,45), perché tutti, indistintamente abbiano l'opportunità di
salvarsi, poiché tutti, indistintamente sono figli suoi, sui quali è
impressa la sua immagine.
Preambolo
all'esortazione imperativa seguente (vv.4-5)
I vv.4-5, introdotti dall'espressione “Ma, quanto a voi, siamo persuasi nel Signore” (v.4a), creano uno stacco netto da quanto è preceduto. L'autore focalizza, ora, la sua attenzione sui membri della chiesa di Tessalonica, perché sta per fare un discorso, che riguarda strettamente loro. Il giro che qui egli prende, prima di affrontare la questione che gli sta a cuore, è largo, per non offendere la sensibilità della comunità, la quale cosa denota, oltre che una particolare sensibilità pastorale, anche una fine psicologia. Egli introduce il suo discorso lodando la diligente obbedienza e sottomissione della comunità ai loro responsabili e si ritiene certo che i Tessalonicesi sono dei credenti scrupolosi e attenti e non ha dubbi che essi si attengano alle disposizioni date, non solo per il presente, ma anche per il futuro. Significativo è, infatti, il verbo “fare” posto qui al presente indicativo in stretta connessione al futuro: “fate e farete”, per sottolineare la loro costante obbedienza, che è anche fedeltà alle disposizioni impartite dai loro responsabili.
Un'obbedienza
che non deve essere cieca, ma sostenuta dalla grazia illuminante di
Dio e dalla forza del suo Spirito. Questo il senso del v.5, che nel
fornire le motivazioni teologiche e cristologiche dell'obbedienza,
funge anche da benedizione bene augurante, posta sui membri della
chiesa di Tessalonica: “il Signore diriga i vostri cuori verso
l'amore di Dio e verso la perseveranza di Cristo”. Un'obbedienza,
quindi, sostenuta dall'amore per Dio, che deve configurare sempre il
modo di vivere del credente, nonché rafforzata dalla perseveranza,
sull'esempio dell'obbedienza di Cristo nei confronti del Padre, che
sempre ha anteposto la volontà del Padre alla propria (Lc 22,42).
L'esortazione
(vv.6-10)
La pericope è circoscritta da un'inclusione, data dal verbo “ordinare”, che compare sia al v.6 che al v.10, dando all'intera pericope il senso di una disposizione vincolante. Tutto ciò che in essa si dice, pertanto, va compreso come un comando, che va eseguito accuratamente.
Ma altresì il v.6 forma, a sua volta, un'altra inclusione per identità tematica con i vv.14-15. Il v.6, infatti, esorta i credenti a stare alla larga da quei loro fratelli, che vivono disordinatamente e difformemente alle istruzioni date; parimenti i vv.14-15 esortano i credenti a prendere nota di quei loro fratelli che disobbediscono alle istruzioni impartite dalla presente lettera e di evitarne la compagnia.
La pericope funge da introduzione alla denuncia dello scandaloso comportamento di alcuni credenti in mezzo alla comunità (vv.11-12) e costituisce un'esortazione, scandita in tre parti: la prima (v.6) è una disposizione imperativa, “Vi ordiniamo”. Non si tratta, quindi di una semplice esortazione, ma di una disposizione vincolante; la seconda parte (vv.7-9) presenta il modello di imitazione, su cui i Tessalonicesi devono conformare il proprio modo di vivere. Anche l'esempio che viene proposto non ha solo un valore morale, quello di un buon esempio da imitare, ma precettivo, evidenziato dalle due espressioni: “bisogna che ci imitiate” (v.7a) e “esempio a voi da imitarci” (v.9b); la terza parte (v.10) potremmo considerarla come un versetto di transizione, che, concludendo la pericope, introduce al tema successivo, che in qualche modo già anticipa.
Il v.6 introduce una disposizione generica, che viene data “nel nome del Signore” e, quindi, con l'autorità stessa che proviene da Dio. Tutto ciò che segue, pertanto, va accolta come espressione della sua stessa volontà. Il comando impartito è di tipo preservativo e preventivo: tenersi alla larga dai credenti indisciplinati e che non vivono “secondo la tradizione che hanno ricevuto da noi”. Interessante, da un punto di vista storico, è il termine “tradizione”, poiché rileva come già nel primo secolo la chiesa primitiva avesse elaborato un suo pensiero teologico e cristologico e un modo di vivere la propria fede, che doveva contraddistinguere ogni credente e a cui ogni credente doveva conformarsi. Si tratta qui di una linea di pensiero formata dagli insegnamenti fatti risalire con quel “noi” all'autorità stessa di Paolo. Chi siano questi credenti indisciplinati, di cui 1Ts 5,14 aveva già accennato, rilevando come il problema fosse già presente all'epoca della 1Ts (50/51 d.C.), sono quelli che vivono in modo difforme dagli insegnamenti dati dall'Apostolo.
Anche il v.6, pur non entrando nello specifico della questione, sta preparando il terreno alla denuncia che seguirà ai vv.11-12, definendo questi credenti come persone indisciplinate, poiché non vivono secondo gli insegnamenti impartiti, creando scompiglio all'interno della comunità stessa. Si è qui, tuttavia, ancora sul generico e questi indisciplinati non hanno ancora un volto ed una loro precisa identità, che verrà precisata ai successivi vv.11-12.
Quale, dunque, sia la questione che l'autore vuole affrontare comincia, ora, a delinearsi con i vv.7-9 presentando un modello di vita, che l'autore ha mutuato da 1Ts 2,9, dove si ricorda come Paolo, con la sua autorità di apostolo fondatore della chiesa di Tessalonica, come di altre chiese, pur potendo di diritto farsi mantenere dalla comunità stessa per il suo lavoro apostolico7, ha preferito lavorare per guadagnarsi da vivere per non pesare sulle spalle della comunità stessa.
L'esempio che segue viene in qualche modo adattato e modellato su ciò che l'autore sta per dire ai vv.11-12. Innanzitutto l'esempio, che qui viene portato, assume, con quel “bisogna che ci imitiate” e il successivo “esempio a voi da imitarci”, una valenza prescrittiva e, quindi, vincolante. L'esempio gira su due comportamenti negativi: “non fummo sregolati” e “né mangiammo pane gratuitamente”, ai quali si contrappone quello positivo da imitare: “con fatica e con travaglio, lavorando notte e giorno, per non gravare su qualcuno di voi”. Le espressioni negative qui usate non sono casuali, ma modellate appositamente per essere poi applicate, pari pari, ai vv.11-12; così come l'esempio positivo da imitare farà da sfondo al v.13.
La valenza dell'esempio positivo del v.8 viene qui evidenziato dal v.9a, rilevando come la scelta di lavorare per non pesare sulla comunità fosse stata una libera scelta, rinunciando in tal modo spontaneamente al proprio diritto di apostolo. In realtà tale rinuncia aveva per Paolo come precipuo scopo sia quello di differenziarsi dai filosofi moralisti ambulanti, che in cambio del loro insegnamento si facevano pagare e mantenere dai discepoli, sia per evitare di prestare il fianco ai suoi detrattori, e ciò al fine di non screditare il Vangelo che egli annunciava (1Ts 2,9). Tuttavia qui l'autore riadatta il senso, rimodulandolo al suo intento, quello dell' “esempio da imitare”, senso che non compare originariamente in 1Ts 2,9.
Il
v.10 conclude la pericope vv.6-10 e introduce alla questione
successiva (vv.11-12), così lungamente preparata da ben 10 versetti
(vv.1-10), facendo riferimento ad una istruzione precedentemente
data, i cui toni qui suonano in modo molto duro: “se qualcuno non
vuole lavorare neppure mangi”. Il riferimento è probabilmente a
1Ts 4,11-12, in cui Paolo esortava ad “aspirare a vivere in pace e
occuparsi delle proprie cose e lavorare con le vostre [stesse] mani,
come vi abbiamo ordinato, affinché camminiate in modo decoroso
davanti agli estranei e non abbiate bisogno di nessuno”.
Il
fatto deplorevole (vv.11-12)
Già, dunque, la questione, motivo di questa 2Ts, era stata in qualche modo paventata in 1Ts 4,11-12, benché non sembrava, all'epoca, ancora una cosa così seria. Di nullafacenti e sfaticati, infatti, il mondo è pieno. Ma la situazione doveva essersi aggravata con l'andar del tempo e doveva aver creato scompiglio e turbamento nella comunità credente e tale da spingere l'autore, probabilmente un responsabile, a dover intervenire, questa volta pesantemente, appellandosi all'autorità di Paolo.
Le mosse, ancora una volta, sono prese alla larga e in modo tale da non creare ulteriori disordini all'interno della comunità di Tessalonica, cercando di minimizzare la situazione. Il rimprovero, infatti, viene mosso soltanto ad “alcuni tra di voi”, benché sia da pensare che non fossero soltanto tre o quattro persone, nel qual caso si sarebbero potute tacitare senza particolari problemi. Invece, è da ritenere che una buona parte della chiesa di Tessalonica fosse investita dal fenomeno, così come, probabilmente, altre chiese variamente sparse nell'Asia minore, poiché tutte erano coinvolte nella medesima convinzione: l'avvento del Signore era ritenuto ormai imminente ed avrebbe posto fine a tutte le cose. Valeva, dunque, la pena darsi da fare? Valeva la pena continuare ad intraprendere affari e faticare nelle proprie incombenze quotidiane? Del resto lo stesso Paolo in 1Cor 7,29-31 avvertiva la comunità di non dedicarsi assiduamente alle cose di questo mondo, perché ormai il tempo si era fatto breve; e così similmente in Rm 13,12a avvertiva che “La notte è avanzata, il giorno è vicino”. Questo senso di imminenza della fine aveva ormai pervaso tutti e stentava a morire, anzi si diffondeva sempre più attraverso persone ispirate, voci che si alimentavano all'interno delle comunità e si diffondevano ovunque e, come non bastasse, anche rifacendosi a pseudoscritti paolini, benché l'autore qui, in 2,2, avverta di: ”non essere agitati rapidamente dalla mente né essere turbati, né per mezzo di (qualche) ispirazione, né per mezzo di (qualche) discorso, né per mezzo di una (qualche) lettera come (se fosse) per mezzo nostro, quasi che il giorno del Signore sia imminente”.
I vv.11-12 sono in buona sostanza una rielaborazione aggiornata di 1Ts 4,11-12, sopra citati, e vanno a colpire i fannulloni, che, proprio perché non fanno nulla, tendono a vivere disordinatamente alla giornata, non essendo sorretti né da alcun progetto né da alcuna prospettiva di vita, che li possano guidare ed impegnare, disperdendosi così in chiacchiere e disturbando quelli che, invece, ritengono la vita e il tempo, che è loro concesso, troppo preziosi per poterli dissipare, essendo proprio questo motivo del giudizio divino, alla venuta del Signore, imminente o meno che sia.
Impegnati e vigilanti, dunque, secondo l'esortazione del Gesù matteano in riferimento alle cinque vergini sagge e cinque stolte (Mt 25,1-13), che si concluderà proprio con l'ammonimento: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora”; così, per contro, il racconto del servo fannullone, che si concluderà drammaticamente con una sentenza di condanna, proprio per il suo disimpegno: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 25,14-30).
Un'esortazione
ed un ammonimento, quelli del Gesù matteano, che qui si traducono in
un comando prescrittivo e vincolante, caricato dell'autorità stessa
di quel Signore, di cui si attende la venuta imminente e con cui
anche i credenti dovranno fare i conti: “a questi tali ordiniamo e
(li) esortiamo nel Signore Gesù Cristo, affinché mangino (il) loro
pane, lavorando in pace”.
Il
comportamento da tenere nei confronti di chi sbaglia (vv.13-15)
I vv.13-15 riprendono in buona sostanza il tema del v.6, con cui fanno inclusione per identità tematica. Quanto al v.13, con quel “ma” introduttivo, crea una contrapposizione e una netta separazione tra i credenti negligenti (vv.11-12.14-15) e quelli obbedienti ed operosi nel compiere il bene (v.13); quelli, cioè, che non si sono lasciati traviare né da ispirazioni, né dalle chiacchiere, né, tanto meno, da fuorvianti pseudo lettere attribuite a Paolo (2,2). Questi devono continuare con fermezza, senza mai stancarsi, succeda quel che succeda, ad operare il bene e nel bene, poiché operare il bene e nel bene non è mai tempo perso, né si devierà mai dalla retta via, poiché il bene è sempre e comunque espressione di quel Bene assoluto, che si concretizza, si manifesta e, per così dire, si sacramentalizza nel nostro quotidiano operare il bene nel Bene, rivelandone il volto, divenendo per ciò stesso salvifico, non solo per chi lo opera, ma anche per chi lo riceve.
Al v.13 si contrappone ora il v.14 con un paritetico “ma”, questi sono coloro che, ammoniti dalla presente lettera, preferiscono continuare nella dissipazione quotidiana nell'attesa di una fantasiosa parusia, fomentata e sostenuta da chiacchiere infondate e confutate dalla realtà dei fatti. Costoro con la loro disobbedienza si pongono, ipso facto, fuori dalla comunità credente, invitando i credenti diligenti non solo a prenderne le distanze, ma anche ghettizzarli, facendo pesare su di essi la loro diversità e la loro solitudine spirituale e comunitaria, dando in tal modo a loro la possibilità di ravvedersi e di ritornare sulla retta via.
L'intento di questa ghettizzazione del credente negligente e fannullone certamente non è quello della sua rovina, ma della sua salvezza, per cui questi non va mai trattato alla stregua di un nemico o di un pagano, in altri termini non va considerato uno scomunicato, e quindi come morto per la comunità credente ed espulso dal ciclo della salvezza, ma come un fratello, che va pazientemente ammonito e sollecitato a convertirsi. Un'esortazione questa che richiama da vicino 1Ts 5,14-15, sia pur rimodulata per l'occasione: “Vi esortiamo, fratelli, ammonite gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi, sorreggete coloro che sono deboli, siate magnanimi verso tutti. Guardate affinché qualcuno non renda a qualcun('altro) male per male, ma perseguite sempre il bene verso gli uni e gli altri e verso tutti”.
Una
posizione questa che ben si discosta da Mt 18,15-17, che dopo aver
previsto tre gradi di giudizio intracomunitario nei confronti del
credente impenitente, ne prevede la scomunica: “Se
il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui
solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti
ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia
risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà
neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche
l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano”.
Saluti
finali (vv.16-18)
All'interno di una sorta di cornice liturgica (vv.16b.18), l'autore porge i suoi saluti alla chiesa di Tessalonica. Il v.16 consiste in una invocazione al “Signore della pace”, che viene posta su di una comunità assillata da persecuzioni (1,4-5), da pseudo annunci di imminente fine del mondo (v.2,2) e da gente nulla facente che cerca di campare alle spalle degli altri (3,11-12), in nome di una parusia imminente, che deve porre fine a tutte le cose.
La pace che qui si invoca ha il suo riferimento e il suo fondamento nel “Signore”, definito “della pace”, la cui espressione richiama da vicino quella “pace” donata dal Risorto ai suoi discepoli (Gv 20,19.21.26). Una pace, quindi, che sgorga dalla risurrezione e che attesta l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini in e per Cristo e degli uomini tra di loro. Una pace che dice la pienezza della vita divina dimorante in e tra gli uomini che hanno aderito esistenzialmente all'offerta di pace.
Una pace che qui è qualificata nel suo manifestarsi con due avverbi “sempre” e “in ogni modo”, dove quel “sempre” dice come questa pace sia durevole, proprio perché ha il suo fondamento in Dio stesso; mentre l'espressione “in ogni modo” lascia intendere come questa pace donata debba trasparire dal proprio modo di vivere in ogni circostanza della vita.
Il v.16 termina significativamente con una formula di commiato dal sapore liturgico: “Il Signore sia con tutti voi”, cioè quel “Signore della pace” che dimora sempre in mezzo alla comunità dei credenti, qualificandola come comunità di amore e di pace, in cui opera il Signore della pace, qualifichi sempre questa comunità, così da diventarne propria identità. Un'espressione che richiama da vicino Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
Il v.17 interrompe in qualche modo l'atmosfera liturgica e sacrale dei saluti, introducendo una sorta di attestazione dal sapore giuridico, che ritroviamo simile anche in 1Cor 16,21; Gal 6,11 e Col 4,18, ma qui è decisamente eccessiva, ridondante rispetto alle altre tre qui citate, molto più sobrie, quasi appena accennate: “Il saluto è di mia mano, di Paolo, questo è il contrassegno in ogni lettera; così scrivo”. Questa eccessiva marcatura della propria identità apre al sospetto che questa lettera non sia di Paolo, ma l'autore cerchi in qualche modo, magari con una certa forzatura, di farla passare per una lettera di Paolo; del resto in 2,2 si era denunciata la presenza di qualche pseudo lettera di Paolo, per cui qui si è sentita la necessità di rimarcare pesantemente la propria identità. Tuttavia, pur ammettendo questo, rimane sempre il fatto che il modo di esprimersi e la formula scelta per attestare la propria identità è troppo ampollosa per un personaggio così sobrio come lo era Paolo e un modo di esprimersi che si discosta notevolmente dalle altre simili attestazioni, sopra citate.
La lettera termina con il v.18, che riprende e ricrea in modo più intenso il clima di spiritualità liturgica, che doveva respirarsi all'interno delle prime comunità credenti, dove il termine “grazia” dice tutta la ricchezza della vita divina elargita ai credenti, la cui fonte è il “Signore nostro Gesù Cristo”. Una sorta di formula di fede molto densa di significato. Infatti, con l'attributo “Signore” viene definito il Gesù risorto, di cui si riconosce nella risurrezione la sua signoria universale, che è il fondamento e il preambolo del Regno di Dio in mezzo agli uomini e sulla stessa creazione; mentre con il nome “Gesù” ci si riferisce all'incarnazione e alla configurazione storica del Figlio di Dio, riconosciuto come il “Cristo”, cioè come l'unto di Dio, inviato dal Padre ed uscito da Lui (Gv 8,42; 16,28,30b; 17,8). Unzione determinata dall'infusione dello Spirito Santo, che accompagnerà il Gesù della storia lungo tutto il suo cammino esistenziale con la stessa potenza di Dio, rendendo efficace, quale inviato del Padre, la sua missione di salvezza in mezzo agli uomini.
Questo “Signore”, riferito a “Gesù Cristo” è circoscritto con quel “nostro” ai credenti. Un “nostro” che dice, da un lato, l'appartenenza del Signore alla comunità credente, in cui essa si ritrova, riscoprendo la sua nuova identità; dall'altro, come questa comunità credente appartenga di fatto al Risorto.
1All'interno della chiesa delle origini vi era una corrente giudeocristiana giudaizzante che sosteneva la necessità che i convertiti provenienti dal paganesimo fossero circoncisi e, quindi, sottomessi alla Legge mosaica, legando la salvezza non più a Cristo, ma a Mosè, vanificando in tal modo l'opera salvifica di Cristo stesso (At 15,1). Il pericolo concreto era che il cristianesimo nascente, rifacendosi non più a Cristo, ma a Mosè, venisse fagocitato dal giudaismo. Paolo denuncerà chiaramente, in termini duri e categorici, la questione in Gal 5,4: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia”. Un duro giudizio di condanna per quei Galati che, lasciatisi convincere dai giudeocristiani giudaizzanti, abbandonarono il Vangelo di Paolo per seguire quello dei giudaizzanti (Gal 1,6-7).
2Cfr. in tal senso Rm 13,11-14; 1Cor 7,29-31; 1Ts 3,13; 5,1-6; 2Ts 2,1-2; Fil 4,5; 1Pt 4,7; 2Pt 3,1-18 Gc 5,7-9; Ap 22,20 e gli stessi Sinottici: Mt 24,3.27.36-42 e passi paralleli.
3Cfr. Mt 24,4; Mc 13,5; Lc 21,8; Ef 5,6; Col 2,4.8; 1Gv 3,7
4In tal senso si cfr. Mc 13,9-14 e Mt 24,9-15
5Cfr. Gen 6,5.7.11-13; Rm 8,19-22
6Cfr. pag. 2 del present studio
7In 1Cor Paolo dedicherà l'intero cap.9 a dimostrare il diritto dell'apostolo a farsi mantenere dalla comunità che ha fondato e che accudisce pastoralmente. Diritto a cui lui aveva rinunciato sia per non gravare sulla comunità, sia per non dare adito alle critiche dei suoi avversari.