SECONDA LETTERA AI CORINTI

Traduzione e commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





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Preambolo

Per poter comprendere in tutta la sua profondità anche una sola lettera di Paolo è indispensabile conoscere chi è Paolo, poiché quando egli scrive trasfonde in quella lettera non solo il suo pensiero, ma tutto se stesso, così che non c'è distinzione tra il pensiero di Paolo e i suoi sentimenti, la sua emotività, la sua umoralità, la sua passionalità, la sua veemenza, che rasenta il fanatismo, cioè l'assolutizzazione della sua profonda passione per Cristo, che non conosce ostacoli e sfida ogni pericolo e ogni limite imposto dalla ragionevolezza umana. Le sue lettere, infatti, non sono dei freddi e razionali trattatelli di cristologia o di teologia, ma strumenti attraverso i quali Paolo si rende presente con tutto se stesso presso la comunità, a cui egli indirizza la sua lettera. Le sue lettere pulsano della vita stessa di Paolo, che definire un appassionato del Cristo risorto sarebbe alquanto riduttivo. Lo potremmo definire come un veemente e indomabile fanatico del Cristo risorto, per il quale sopporta ogni sofferenza e peripezia (Rm 8,35-39; 2Cor 11,23-27) e attraverso il quale egli vede e legge la realtà che lo circonda e la vita stessa in tutte le sue espressioni. Tutti i problemi che egli è chiamato ad affrontare all'interno delle comunità da lui fondate sono approcciati e risolti attraverso e nel Cristo risorto. E tutto ciò è possibile perché tra Paolo e Cristo vi è una sovrapposizione di persone, che arriva ad essere una identificazione. Significative e rivelatrici in tal senso sono le sue affermazioni con cui egli definisce se stesso: “Sono stato crocifisso con Cristo: ora non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19b-20a); e, similmente, in modo più lapidario e incisivo: “Per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21a). Qui c'è tutto Paolo.

Di seguito, pertanto, prima di introdurci alla lettura esegetica e al commento della Seconda Lettera ai Corinti, cercherò di tratteggiare sinteticamente la figura di Paolo, la sua personalità, la sua esperienza con il Cristo risorto, la sua strategia missionaria, il suo pensiero, che sottende, qua e là, le sue lettere. Tutti elementi necessari per comprenderle.

Note generali su Paolo

Dopo Gesù, Paolo è l’apostolo che maggiormente ha influenzato il pensiero cristiano; per alcuni è considerato il “fondatore del cristianesimo”, nel senso che il cristianesimo con Paolo uscì dai ristretti confini di Gerusalemme e della Palestina, staccandosi nettamente dal giudaismo ed aprendosi, invece, all’intero mondo dei Gentili, che costituiranno per Paolo un privilegiato terreno di conquista e di lavoro (Gal 2,7-9; Rm 1,5; 15,15-19).

Questa, infatti, è la specifica vocazione di Paolo, che egli stesso evidenzia in Gal 2,7-8: “ma per questo, avendo visto che mi fu affidato il vangelo dell'incirconcisione come Pietro (quello) della circoncisione, colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti”. E sarà proprio su questo terreno dei Gentili che Paolo dovrà scontrarsi con i giudeocristiani, che sostenevano la necessità di sottomettersi alla Legge di Mosè, tramite la circoncisione, per accedere alla salvezza in Cristo.

Un duro scontro questo, che farà soffrire non poco Paolo e che porterà al primo concilio della storia, quello di Gerusalemme nel 49 d.C., ricordato in At.15,1-33 e in Gal.2,1-10.

Egli è l’unico apostolo di cui abbiamo molta documentazione ed è il più commentato e conosciuto autore del N.T. Di lui o della sua scuola di pensiero si hanno complessivamente tredici lettere e numerosi riferimenti autobiografici, nonché ben 20 capitoli, che Luca dedica a Paolo e alla sua attività negli Atti degli Apostoli (capp.8-28). Neppure Pietro e Giacomo, che erano ritenute le colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), ebbero tanta risonanza. Di loro o comunque a loro attribuite ci sono rimaste soltanto due lettere di Pietro e una di Giacomo per complessivi 274 versetti.

Notevole il peso di Paolo e della sua scuola di pensiero, basti pensare che su 7957 versetti, che compongono l'intero Nuovo Testamento canonico, ben 20331 sono di Paolo o di scuola paolina, cioè il 25,55% dell'intero canone neotestamentario; mentre dei 27 libri di cui è composto il N.T. 13, quindi quasi il 50%, sono lettere di Paolo o di scuola paolina. Ma ciò che più lo contraddistingue è la profondità, la potenza e l'originalità di pensiero della sua teologia e della sua cristologia; nonché, da un punto di vista storico, le notizie che, tramite le sue lettere, ci pervengono circa la struttura, la vita e i problemi delle prime comunità credenti, cioè della chiesa nascente. Così che potremmo affermare, senza ombra di dubbio, che senza la persona di Paolo e della sua opera letteraria oggi il cristianesimo non avrebbe raggiunto la profondità del suo pensiero teologico e cristologico e probabilmente sarebbe stato fagocitato dal giudaismo o, quanto meno, avrebbe perso molto della sua originalità.

Una teologia e una cristologia quelle di Paolo del tutto originali e inedite. Basti pensare che, allorché Paolo scrive le sue lettere, tutte tra il 50 e il 60 d.C., i vangeli non erano stati ancora scritti. Il primo, quello di Marco, verrà composto tra il 65 e il 69 d.C., e Paolo, per primo, introdurrà le espressioni “vangelo” e “evangelizzare”, che ritroviamo nelle sue lettere, il primo, per ben 60 volte e 21 volte il secondo. Ed è sempre lui, per primo, a definire la sua predicazione come “il mio vangelo” (Rm. 2,16; 2Tm 2,8). Egli poi introdurrà nuovi termini e nuovi verbi, quindi, un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio per esprimere la novità dell'evento Cristo morto-risorto in quanto tale e in rapporto ai credenti.

Tuttavia le novità che Paolo predica non sono frutto di fantasia, ma si radicano nella fede, che egli ha acquisito e maturato presso le comunità credenti, che ruotavano attorno alle aree di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia, dove rimarrà per una decina d'anni dopo l'evento di Damasco (circa 35 d.C.), prima di intraprendere i suoi viaggi missionari (45-57 d.C.), e delle quali riporta sovente nelle sue lettere formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da queste comunità. Una fede, quindi, non improvvisata o inventata, ma che si radica in quella delle comunità credenti e, quindi, della Tradizione. Lo ricorderà due volte in 1Cor 11,23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore2 quello che a mia volta vi ho trasmesso”; e similmente in 1Cor 15,3: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto”. Ma ciò che Paolo trasmette non è una ripetizione meccanica e pedissequa di formule dottrinali, ma il tutto passa attraverso il potente filtro del suo pensiero innovativo e della sua esperienza del Cristo risorto. Paolo, dunque, riflette su quanto ha ricevuto e lo elabora personalmente, adattandolo alle varie situazioni delle comunità, che gli si presentano di volta in volta.

Le sue lettere, pertanto, scritte tutte tra il 50 e il 60, si presentano come delle risposte scritte a degli interrogativi posti dalle varie comunità o a loro problematiche interne. Lettere, quindi, occasionali. Di conseguenza la sua teologia e cristologia non si presentano come dei trattati dottrinali stesi a tavolino, ma nascono da situazioni contingenti e in risposta ai problemi posti dalle singole comunità.

Il linguaggio dei suoi scritti, pertanto, è caratterizzato dall’immediatezza, dalla spontaneità, dalla vivacità di espressione, che talvolta si carica di sentimenti forti e di emozioni violente, fino a sfociare nell’insulto verso i suoi detrattori. Ma questo modo di procedere pone dei limiti: infatti, non sempre conosciamo le circostanze che hanno prodotto le risposte di Paolo; del resto non era necessario che le precisasse in quanto erano ben conosciute dalle comunità interessate.

La profondità, la ricchezza, la complessità del pensiero di Paolo e il suo lungo periodare non sempre giocano a favore della sua chiarezza e della sua immediata comprensione. Ne dà testimonianza in tal senso l’autore della seconda lettera di Pietro: “… come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt. 3,15-16).

Tuttavia, questa lettera, di autore anonimo, databile tra il 120 e 135 d.C. circa, ci dà delle informazioni interessanti intorno agli scritti paolini e precisamente afferma che:

Ed è proprio per questa complessità di un pensiero innovativo, creativo e dirompente che Paolo trova lungo il suo cammino di evangelizzazione numerosi avversari e detrattori, che formano una sorta di fronte antipaolino, una specie di task-force di contro-evangelizzazione, formata prevalentemente da giudeocristiani giudaizzanti, cioè da cristiani provenienti dal giudaismo, ma che, non avendo ancora compreso la novità dell'evento Cristo, continuavano a praticare la Legge mosaica e a predicare la necessità della circoncisione per poter accedere alla salvezza, subordinando in tal modo la novità dell'evento Cristo a Mosè. Ne troviamo traccia in 2Cor11,13-15.22-23; 12,11; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17-18; Col 2,8.

Questioni introduttive alla biografia paolina

A) Le fonti


Paolo, tra tutti i personaggi che si muovono nel N.T., è quello che storicamente ci offre una maggiore ricchezza di dati sia perché numerosi sono gli agganci storico-geografici che possiamo rilevare dai testi in nostro possesso, sia perché l’attività missionaria di Paolo fu piuttosto lunga e soprattutto straordinariamente densa (45-57 d.C.).

Due sono i pilastri fondamentali, che ci offrono il maggior numero di dati biografici di Paolo: da un lato, le sue Lettere, benché il quadro cronologico che ne risulta sia scarso e frammentario; dall'altro, gli Atti degli Apostoli, l'opera lucana che dedica ben 20 capitoli su 28, di cui e composta, alla figura di Paolo e alle sue imprese missionarie. Luca, tuttavia, per la sua opera usa fonti di seconda e terza mano, per cui non sempre i dati fornitici direttamente da Paolo coincidono esattamente da quelli offertici da Luca. In tal caso, la preferenza va sempre accordata alla testimonianza di Paolo. Vanno poi tenuti presenti gli intenti narrativi di Luca, che nel raccontare gli inizi della storia della chiesa, mostra maggiori interessi per gli aspetti teologici che biografici. In altri termini, Luca è si uno storico come egli reclama di essere nel suo prologo al vangelo (Lc 1,1-4), ma è uno storico interessato.

Tuttavia, da una prudente combinazione di questi Scritti, integrati da altre fonti storiche esterne, possiamo stilare, con discreta certezza, un quadro biografico abbastanza soddisfacente, in particolar modo per quello che va dall'evento di Damasco fino all'arrivo a Roma di Paolo come prigioniero. Rimangono fuori dal quadro biografico il periodo antecedente la sua conversione, al di là di qualche cenno, fornitoci in parte dagli Atti e in parte dallo stesso Paolo, e quello dei due anni successivi al suo arrivo a Roma, di cui si possono fare solo delle ipotesi.

B) I cardini della cronologia paolina

Benché la questione sulla cronologia sia un problema di difficile soluzione per la lacunosità delle fonti, tuttavia vi sono negli scritti di Paolo, in particolare nella Lettera ai Galati 1,11-2,14 e negli Atti degli Apostoli, dei punti di riferimento storici certi, ragionando sui quali si può ottenere, con discreta precisione una soddisfacente cronologia della vita di Paolo.

Primo testo

2Cor. 11,32-33: “A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così fuggii dalle sue mani”.

Il re qui menzionato è Areta IV, monarca del regno dei Nabatei, che governò dal 9 al 39 d.C. e al quale Caligola (37-41 d.C.) affidò il controllo, almeno parziale, della città di Damasco, inglobata nella provincia romana di Siria, per il periodo 37-39 d.C. Pertanto questa fuga di Paolo, calato dalla finestra in una cesta per sfuggire al re Areta, avvenne in questo periodo, probabilmente nel 38 d.C., ossia dopo tre anni dalla conversione, avvenuta intorno al 35 d.C.

Secondo testo

Gal 1,13-2,14 in cui Paolo riporta le tappe fondamentali da prima della sua conversione fino all’anno 49 circa, anno in cui avvenne il primo concilio di Gerusalemme, il primo della storia della chiesa. Dopo la sua conversione, avvenuta nell'anno 35 d.C. e che egli legge alla maniera degli antichi profeti (Gal 1,15-16), mentre era diretto a Damasco, fu folgorato dall'incontro con il Cristo risorto. Rimane presso la comunità credente di Damasco per tre anni, durante i quali, compie, di sua iniziativa, un viaggio missionario in Arabia, facendo poi ritorno a Damasco (Gal 1,17).

Tre anni dopo (qui il dopo va sempre riferito al “dopo l'evento di Damasco”), quindi nel 38 d.C., fa la sua prima visita a Gerusalemme per conoscere i capi della chiesa madre, Pietro e Giacomo e vi rimane quindici giorni (Gal 1,18). Poi riprende la sua attività missionaria, sempre di sua iniziativa nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21)

Quattordici anni dopo l'evento di Damasco (35 d.C.), quindi nel 49 d.C., torna nuovamente a Gerusalemme, assieme a Barnaba e a Tito, per dirimere una questione di vitale importanza, a motivo della quale tutti i responsabili della chiesa di Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni si ritrovarono assieme per prendere una decisione comune. La questione era se i pagani, convertiti alla fede in Cristo, dovessero essere circoncisi e, quindi, sottoposti alla Legge mosaica (Gal 2,1-10).

Terzo testo

At 18,1-2: “Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro”.

Di questo decreto di Claudio (41-54) parla anche Svetonio nella sua opera “Vita dei Cesari” nella parte riferita a Claudio, il quale “Judeos assidue tumultuantes impulsore Chresto Roma expulit3.

La data di questo editto di espulsione è solitamente posta nel 49 d.C.

Quarto testo

At 18,12-17: “Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo…

Lucio Giunio Gallione, fratello di Seneca, era proconsole a Corinto tra il maggio del 51 e il maggio del 52. La data si ricava da un’iscrizione epigrafica trovata a Delfi nel 1905, che riporta il testo di una lettera di Claudio allo stesso Gallione. In questa lettera Claudio menziona di essere stato proclamato imperatore per la 26^ volta. Questa 26^ acclamazione ebbe luogo tra il gennaio e l’agosto del 52. Ora, poiché il proconsolato durava un anno a partire da aprile, il rescritto può essere giunto a Gallione o all’inizio o alla fine del suo proconsolato. Nel primo caso la data è 52-53 nel secondo caso, più probabile, tra il 51 e il 52. È, dunque, in questo periodo, probabilmente agli inizi del 52 che Paolo viene accusato davanti a Gallione.

L'episodio qui riportato concorda con il secondo viaggio missionario di Paolo (49-52 d.C.), che in quell'occasione visitò Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto.

Deduzioni e tentativo di costruire una cronologia

Alla luce di questi quattro punti cronologici di riferimento e con l’aiuto di un certo ragionamento storico, si può tentare di stilare una cronologia paolina di massima. Ogni data qui proposta va, quindi, sempre accompagnata da un ”circa”:


Cenni biografici di Paolo

Sulla base della cronologia qui sopra ipotizzata e con l'aiuto delle due fonti a nostra disposizione, Lettere paoline e Atti degli Apostoli, cercherò di delineare alcuni cenni biografici di massima su Paolo.

Paolo nasce tra il 5 e 10 d.C. a Tarso, capoluogo della Cilicia, posta sul fiume Cidno, che collega il Mediterraneo con l’interno. Tarso è un importante centro commerciale e di cultura greca (At 22,39a).

Egli appartiene alla tribù di Beniamino, da cui uscì il primo re di Israele, Shaul, di cui assume il nome, grecizzato, poi, in Saulos e latinizzato in Paulus (At 13,9a).

Il triplice nome, ebraico, greco e romano stanno ad indicare le tre culture che si incrociano in Paolo, rendendolo un cosmopolita, e che si rifletteranno nelle sue lettere e nel suo annuncio.

La famiglia di Paolo proviene dalla diaspora e il padre, cittadino romano per acquisizione, trasmette al figlio la cittadinanza romana, di cui Paolo si avvarrà davanti al tribuno (At 22,24-28). Viene educato al rigore della Legge ebraica e, ancora adolescente, il padre lo invia a Gerusalemme per una più completa formazione nelle tradizioni dei padri. Suo maestro, qui, sarà, Gamaliele (At 22,3), discepolo di Hillel, capostipite della corrente giudaica più moderata e più aperta, che si contrapponeva a quella più rigorista e tradizionalista di Shammai.

È da pensare, pertanto, che Paolo abbia acquisito da Gamaliele un giudaismo più moderato ed aperto, benché, poi, il suo carattere impulsivo e passionale ne abbia accentuato ed esaltato i toni, divenendo un fariseo intransigente fino a spingersi a perseguitare attivamente i cristiani di Gerusalemme e a “votare la condanna a morte contro di loro”. Questo particolare (At 26,9-10) fa pensare che egli facesse parte del Sinedrio, che solo aveva il potere di deliberare le condanne a morte.

In questo contesto di fanatismo religioso, Paolo presenziò e condivise la lapidazione di Stefano avvenuta, probabilmente tra il 35 e il 36 (At 22,20).

Fu proprio in questo periodo che Paolo, diretto a Damasco per eseguire dei mandati di cattura contro i cristiani, viene folgorato dall’incontro con il Cristo risorto, che lo chiama a diventare “ministro e testimone delle cose che hai visto” (At 26,9-16). Un’esperienza questa che ha radicalmente sconvolto l’esistenza di Paolo e che Luca ricorda nei suoi Atti per ben tre volte (At 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20), benché Paolo non si riferisca spesso a questo episodio e quando lo fa (1Cor.15,5-8 e Gal. 1,12-17) è solo con una pallida allusione, quasi impercettibile.

Paolo visse questa esperienza del Cristo risorto come una chiamata (Gal 1,15-16), che produsse in lui un traumatico e radicale capovolgimento esistenziale, che lo portò ad una successiva maturazione della propria fede, inizialmente, all’interno della comunità credente di Damasco.

Infatti, Paolo inizierà il suo primo viaggio missionario nel 45. Fino ad allora egli rimane sostanzialmente in silenzio all’interno delle comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che diverrà poi, quest’ultima, la sua base logistica, da cui partirà per compiere i suoi viaggi missionari.

All’interno di queste comunità egli acquisirà gli elementi fondamentali della fede, che poi trasmetterà ai pagani. Egli stesso, infatti, in 1Cor 11,23 attesta: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”, dove per “Signore” va inteso la comunità credente nel Signore e che si rifà alla tradizione fatta risalire al Signore stesso; e similmente in 1Cor 15,3 afferma che “Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto”. Le sue stesse lettere, del resto, denunciano la sua dipendenza dalle comunità, che egli ha frequentato durante il decennio di silenzio, che ha preceduto i suoi tre viaggi missionari. In esse, infatti, vi sono riportate formule e professioni di fede, formule kerigmatiche, testi liturgici, inni e parenesi, che Paolo non si è inventato, ma che ha mutuato da queste comunità, dislocate nelle aree di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia.

Dopo l’esperienza di Damasco Paolo si recherà subito in Arabia (Gal 1,17) e nella stessa Damasco annuncerà il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire, calato in una cesta dalle mura della città (2Cor 11,32-33).

Trascorsi tre anni dalla sua conversione, siamo intorno all'anno 38 d.C., Paolo si reca a Gerusalemme, una prima volta, per un incontro con Pietro e Giacomo e qui vi rimane 15 giorni (Gal 1,18-19). E qui vi ritornerà, saltuariamente, a predicare il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire perché gli ebrei lo vogliono uccidere (At 9,28-29). Dovrà fuggire, pertanto a Tarso, dove rimarrà in silenzio per alcuni anni (At 9,30).

Da qui sarà recuperato da Barnaba e condotto nella comunità di Antiochia, che diverrà la sua comunità di riferimento per tutta la sua attività missionaria e dove rimase un anno (At 11,25-26).

Dalla stessa comunità di Antiochia Paolo e Barnaba furono inviati in missione. (At 13,2-4). Siamo nel 45 d.C. Inizia così il primo viaggio missionario di Paolo che durerà fino al 48 d.C. (At 13,1-14,28). I punti toccati dai due furono: Cipro, Attalia, Perge, dove Marco, cugino di Barnaba, lascerà i due (At 13,13), Antiochia di Psidia, Iconio, Listra, Derbe, quindi il ritorno per le stesse località.

Al loro rientro Paolo e Barnaba trovano peggiorate le relazioni tra i giudeocristiani e gli etnococristiani al punto da creare una rilevante crisi all’interno della chiesa primitiva: Paolo e Barnaba non esigevano la sottomissione dei pagani convertiti alla circoncisione e, di conseguenza, alla Legge di Mosè; mentre i giudeocristiani, in particolare il gruppo che faceva a capo a Giacomo, richiedevano la circoncisione.

Il dissidio fu tale che si ritenne necessario un vertice a Gerusalemme tra i vari responsabili della chiesa madre. A tale incontro vennero inviati dalla comunità di Antiochia Paolo e Barnaba. Fu il primo concilio, che si tenne a Gerusalemme nel 49 (At 15,1-33; Gal 2,1-10) che chiarì, in linea di principio, la questione, ma non risolse di fatto il problema, sul quale Paolo tornerà nella sua lettera ai Galati.

Rientrati ad Antiochia, Paolo, ormai abbandonato anche da Barnaba (At 15,37-39), parte con Sila, suo nuovo compagno (At 15,40-41), per il suo secondo viaggio missionario, che durerà dal 49 al 52 (At 15,36-18,22) e risultò importante per la fondazione delle comunità cristiane in Grecia e nella Galazia.

Il percorso di questo viaggio portò Paolo lungo il cammino delle precedenti comunità (At 15,36), che aveva fondato nel primo viaggio (45-48 d.C.). A Listra si unì a lui anche Timoteo che, pur di avere con sé, accettò di farlo circoncidere (At 16,1-3).

Diretto a Troade, per un’improvvisa malattia, Paolo fu costretto a deviare sull’altipiano della Galazia, dove fondò le prime comunità cristiane (Gal 4,13). Proseguì, infine, per Troade da dove toccò Neapolis, Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto, Efeso e ritorno a Cesarea e da qui a Gerusalemme, per relazionare del suo viaggio gli anziani della chiesa madre.

Il terzo viaggio, avvenuto tra il 53 e il 57 (At 18,23-21,15), fu prevalentemente di ricognizione tra le varie comunità fondate e per rinsaldare i rapporti tra loro. Le città presso cui si fermerà più a lungo saranno Efeso e Corinto. Durante questo viaggio Paolo raccoglierà presso tutte le comunità da lui fondate una colletta per i poveri della chiesa di Gerusalemme, alla quale egli attribuisce un valore importante, perché la sua accettazione da parte dei responsabili della chiesa madre di Gerusalemme significava che i cristiani provenienti dal paganesimo erano definitivamente accettati in seno ad essa.

Dopo questo terzo viaggio Paolo viene fatto prigioniero a Cesarea nel 60 e da qui trasferito a Roma, dove rimase per due anni in uno stato di semilibertà. Muore martire sotto Nerone intorno al 67.

Note su alcune particolarità di Paolo

L'evento di Damasco

Un’attenzione particolare va data all’evento di Damasco, meglio conosciuto come la “conversione di Paolo”, per l’importanza fondamentale che questo ha avuto nella sua vita, sulla quale ha inciso profondamente, trasformandola radicalmente e improvvisamente.

Due sono le fonti testimoniali: gli Atti e gli stessi scritti di Paolo.

Gli Atti degli Apostoli ci forniscono tre diverse narrazioni (9,1-30; 22,3-21; 26,9-20) alquanto particolareggiate, dove viene messa in evidenza l’iniziativa di Dio. Sono racconti non sempre tra loro concordanti e dal sapore popolare, costruiti da Luca sulla falsariga delle chiamate bibliche:

Nell’ambito di questa chiamata Luca introduce anche la figura di Anania, che fa da tramite tra Paolo e la comunità credente di Damasco e che, man mano che i racconti procedono, lentamente scema fino a scomparire completamente nel terzo racconto di At 26,9-20. Questi è definito come un discepolo della comunità di Damasco (At 9,10) e “un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei là residenti” (At 22,12).

Quanto agli Scritti di Paolo, questi ricordano l'evento, ma sempre con toni molto sobri, talvolta solo allusivi, e in modo strettamente personale. Dell’evento Paolo non parla mai in modo narrativo, ma mettendo in rilievo gli aspetti di grazia, di dono e di chiamata, che lo ha costituito missionario e apostolo. Il testo più significativo è quello di Gal 1,11-17, in cui Paolo si pone sulla linea delle chiamate profetiche. Egli, infatti, parla di “rivelazione”, di “una sua elezione fin dal seno di sua madre”, di “una chiamata per grazia”, di “una compiacenza di Dio nel rivelargli suo Figlio”. E quando Paolo parla di “compiacenza” allude ad un preciso disegno di Dio. A tutto ciò Paolo lega la sua missione di apostolo dei pagani. Un pensiero e una convinzione questi, che Paolo lascia trasparire chiaramente in apertura della lettera ai Galati, come una sorta di sua carta d'identità, mettendo in rilievo come il suo essere apostolo gli viene direttamente da Cristo e da Dio, suo Padre: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1).

Una maggiore precisazione sull’evento, Paolo la aggiunge in 1Cor 9,1 e 15,8-9, in cui parla rispettivamente di “aver veduto” e di “apparizione”.

Quanto alla sconvolgente rottura con il passato, che tale esperienza ha provocato in lui, ne fa accenno in Fil. 3,7-11, così che tutti i valori del suo passato, in cui ha creduto fermamente, gli sembrano ora spazzatura.

Come, dunque, interpretare l’evento di Damasco? Parlare di semplice conversione è del tutto inadeguato. Qui c’è un’evidente frattura esistenziale tra il prima e il dopo evento, che segnerà non solo la sua intera esistenza, ma tutta la sua teologia, il suo modo di pensare. Non si tratta, dunque, di una lenta e graduale maturazione interiore di certi valori, bensì di una radicale e improvvisa rottura con il suo passato e di un nuovo e improvviso riorientamento esistenziale e modo di pensare.

Paolo e la comunità cristiana primitiva

Dopo la sua esperienza di Damasco, Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che sono nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco, dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia, da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario.

La dipendenza di Paolo da queste comunità si riscontra anche nelle sue lettere, dove riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici, che egli ha ricevuto come eredità di fede dalle comunità stesse (1Cor 11,23; 15,3). Così che si può ben dire che Paolo non fu il fondatore del cristianesimo, bensì il suo instancabile propagatore e il suo potente propulsore, ma sempre in una linea di continuità con la chiesa originale, da cui ha ricevuto la fede e in cui, per circa un decennio (35-45 d.C.), prima dei suoi viaggi missionari (45-62 d.C.), è stato formato.

Il metodo missionario di Paolo

Come sua strategia missionaria, Paolo sceglie sempre delle comunità che non hanno mai sentito parlare di Cristo. Lo attesterà apertamente in Rm 15,20: “Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui”. Il motivo di tale scelta probabilmente è duplice: a) non perdere tempo ad annunciare Cristo là dove è già stato annunciato. Una scelta dettatagli dalla convinzione, molto diffusa nella chiesa del I sec., dell'imminenza della parusia e, pertanto, l'urgenza di diffondere quanto più possibile, prima del ritorno di Cristo, il suo annuncio; b) la novità del “suo vangelo”, inoltre, rischiava di contrastare con le visioni forse meno aperte di altri missionari fondatori, con il rischio di creare turbamento e confusione nelle comunità fondate da altri. Farà tuttavia un'eccezione per la comunità di Roma, che lui non ha fondato, ma alla quale, come vedremo, tiene particolarmente.

Nel suo annuncio Paolo è mosso sempre da una sua personale convinzione circa un piano di salvezza prestabilito da Dio, che vede annunciare la salvezza prima al Giudeo e poi al Greco: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16), seguendo in tal modo la logica della storia della salvezza, secondo la quale Dio ha rivelato se stesso e conclusa la sua Alleanza prima con Israele, mostrando tutta la sua predilezione per questo popolo che si è scelto, costituendolo, dopo la sua liberazione dalla schiavitù egiziana, sua proprietà tra tutti i popoli, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Soltanto a seguito del rifiuto operato da Israele, l'annuncio della salvezza verrà esteso ai pagani, così che il rifiuto di Israele era diventato motivo di salvezza per gli altri (Rm 11,11-12). Una teologia questa che egli svilupperà meglio in Rm 9-11.

Per questo motivo Paolo, nell'annuncio del suo Vangelo, punta sempre sui grandi centri urbani, caratterizzati dalla presenza di ebrei e di sinagoghe, alle quali volge per prime il suo annuncio e, soltanto dopo il loro rifiuto, si rivolge al mondo dei pagani, seguendo così le logiche di ciò che egli riteneva fosse un piano di salvezza prestabilito da Dio.

Le comunità da lui fondate non sono, nel loro nucleo originale, numerose, ma si tratta di poche persone, qualche famiglia, che deve, quasi sempre, abbandonare precipitosamente per le ostilità degli ebrei lì presenti. In genere lascia sul posto o invia successivamente uno o più collaboratori perché completino l’opera da lui iniziata. Poi si incontrerà di tanto in tanto con i suoi collaboratori e, in base alle informazioni ricevute, scrive le lettere.

Paolo non è un pastore d'anime, ma un indomito annunciatore della parola. Rivelativa in tal senso è l'attestazione di 1Cor 1,14-17: “Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo”.

Queste comunità credenti che egli riesce a fondare con la sua predicazione non sono da lui ritenute sua proprietà o sua conquista. Non sono chiese fondate in opposizione ad altre chiese, ma desidera che queste siano legate con la chiesa madre di Gerusalemme, per la quale fa raccogliere una colletta, segno di comunione e di riconoscenza per la fede da essa donata.

La colletta per la chiesa madre di Gerusalemme

È necessario spendere una parola sulla colletta, un gesto di carità verso la chiesa madre di Gerusalemme, nei confronti della quale tutte le comunità credenti sono debitrici per la fede ricevuta. Ma, al di là dell'impegno che egli si è preso personalmente davanti ai responsabili della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,10), per aiutare i poveri di questa chiesa, colpiti da una grave carestia (At 11,28-30), Paolo vede nella colletta uno strumento di solidarietà e di comunione di tutte le comunità credenti con la chiesa madre di Gerusalemme. La colletta, pertanto, diventa per Paolo uno strumento missionario ed ecclesiologico, per legare in un'unica comunione di carità in Cristo tutte le chiese, indipendentemente dalla loro formazione giudeocristiana o etnocristiana.

La sua importanza è rilevata dal fatto che il tema della colletta viene ripreso ripetutamente da Paolo in varie sue lettere: Rm 15,25-28; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10, qualificandola come "servizio", "comunione", "grazia", "atto di culto"5.

Ma perché Paolo mostra un così particolare interesse per la colletta? Quale significato le attribuisce? Essenzialmente un triplice significato:

  1. Essa è un gesto di carità;

  2. E', inoltre, un impegno che egli si era assunto di fronte ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,10) in occasione del Concilio (49 d.C.);

  3. Ma soprattutto per Paolo assume, da un lato, un significato di comunione tra la Chiesa madre di Gerusalemme e le Chiese periferiche da lui fondate, costituite da etnicocristiani, cioè di cristiani provenienti dal paganesimo; dall'altro, ciò che per Paolo è più importante, diventa un riconoscimento ufficiale della Chiesa madre della missione di Paolo presso il mondo pagano.

La motivazione che sottende la colletta è triplice:

  1. Cristologica: Cristo si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (2Cor.8,9);

  2. Ecclesiologico-sociale: non si tratta di rendersi poveri per arricchire gli altri, ma un atto di uguaglianza ed equità (2Cor 8,13);

  3. Teologico-scritturistica: Dio ama chi dona con gioia: “ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno” (2Cor 9,7-9)

Paolo, tuttavia, teme che la colletta, cui lui attribuisce un grande valore e significato, possa anche non essere accolta (Rm 15,30-31). Dietro questo suo timore intuisce che qualcosa possa andare storto: egli non vede chiaro nel suo futuro, per la difficoltà dei rapporti con la Chiesa madre di Gerusalemme, ancora troppo giudeocristiana giudaizzante, cioè legata ancora alla Legge mosaica e alle sue prescrizioni.

Il pensiero di Paolo e il suo Vangelo

Paolo fu certamente un teologo originale, profondo, fuori dagli schemi, ma non fu un pensatore sistematico. Il suo pensiero è occasionale e frammentario, variamente sparso tra le sue lettere, e ciò non permette di organizzarlo compiutamente.

Il nucleo centrale del pensiero di Paolo è il Cristo risorto. E non poteva essere diversamente, considerata l'esperienza da cui egli proviene.

Attorno al Cristo risorto Paolo sviluppa tutta una serie di tematiche ad argomenti prevalentemente contrapposti, sulle quali fonda tutta la vita morale e cristiana: fede e legge, luce e tenebre, carne e spirito, uomo vecchio e uomo nuovo, giustificazione e peccato, vita e morte, risurrezione, battesimo, ecc. Alla base di queste contrapposizioni ci sta probabilmente l'antitesi cristologica e pasquale “morte-vita”, “crocifissione-risurrezione”. Tuttavia, pur nella sua originalità e profondità di pensiero, Paolo si pone sempre nell'ambito dottrinale della Tradizione, che è già proprio del cristianesimo primitivo e che lo stesso Paolo testimonia nelle sue lettere, che riportano inni cristologici e formule di fede, che egli trova già elaborati nelle comunità credenti, che ha frequentato per un decennio dopo l'evento di Damasco. Del resto egli stesso attesta come la sua predicazione sia una sorta di trasmissione di ciò che anch'egli ha ricevuto, ponendosi in tal modo sulla linea della Tradizione cristiana (1Cor 11,23; 15,3).

Il pensiero e il Vangelo di Paolo si potrebbero così sinteticamente riassumere:

Nel suo grande disegno salvifico, Dio offre la sua salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo e per Cristo morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede e il battesimo, morendo con lui al peccato e partecipando, così, alla sua risurrezione. Tuttavia, la salvezza, già presente, non è ancora definitiva finché egli venga. Ma, nel frattempo, colui che vive in Cristo è già stato liberato dal potere del peccato e della Legge e diventa un uomo nuovo, una creatura nuova, per opera dello Spirito Santo. Di conseguenza la condotta del credente deve adeguarsi alla nuova realtà, che è stata posta in lui dal battesimo e per mezzo della fede”.

Le lettere

Il pensiero di Paolo è raccolto ed esposto nel Corpus paulinum, che comprende 14 lettere a cui, idealmente, ne va aggiunta anche qualcun’altra andata perduta e della cui esistenza siamo a conoscenza, perché citata dallo stesso Paolo nelle sue lettere.

Quelle in nostro possesso sono in tutto tredici, alle quali se ne è aggiunta una quattordicesima, la Lettera agli Ebrei, di autore ignoto. Di queste, sette sono attribuite a Paolo, mentre le rimanenti sei sono di scuola paolina.

L’insieme di queste 14 lettere forma il Corpus paulinum, suddiviso in tre aree: le grandi lettere, sono le sette attribuite a Paolo, alle quali alcuni esegeti aggiungono anche la seconda ai Tessalonicesi; le lettere ecclesiologiche ai Colossesi e agli Efesini; le lettere pastorali, 1-2 Timoteo e Tito.

Tutte le lettere attribuite a Paolo sono state scritte tra il 50 e il 60 d.C. e costituiscono la primissima letteratura cristiana e tra queste, prima in senso assoluto, è la Prima ai Tessalonicesi, composta a Corinto nel 50 d.C.

Esse sono state scritte tutte in modo occasionale, in risposta ai problemi sorti, di volta in volta, nelle comunità che Paolo stesso aveva fondato e sono una sorta di prolungamento del dialogo pastorale.

Il linguaggio, pertanto, è spontaneo, immediato, vivace, appassionato e passionale, spesso polemico, sicuramente molto sentito e, per questo, molto avvincente. Certamente il tono non è mai meditativo e i contenuti non sono esposti in modo sistematico, ma buttati giù di getto e risentono molto della occasionalità e della contingenza del momento.

Esse, come già si è sopra accennato, sono caratterizzate da molteplici antitesi, come ad es. Adamo-Cristo; carne-Spirito; fede-opere; sapienza-stoltezza; uomo vecchio-uomo nuovo. All’origine di tutte queste antitesi c’è l’antitesi per eccellenza, quella cristologica e pasquale, da cui tutte le altre derivano: morte-vita. Sono giochi di chiari-scuri finalizzati a mettere meglio in evidenza il tema trattato.

Tutte le lettere di Paolo sono scritte nel greco della koinè e si strutturano essenzialmente in quattro parti: 1) il prescritto, che riporta il mittente, il destinatario e il saluto; 2) rendimento di grazie 3) corpo della lettera 4) conclusione o postscritto, comprendente le ultime raccomandazioni e i saluti finali. Unica eccezione a questo schema viene fatta dalla Lettera ai Galati, nella quale viene saltato il secondo punto: il rendimento di grazie, sia per la foga con cui Paolo si accosta ai Galati in questa occasione, e sia perché, visto il tradimento perpetrato alle sue spalle da queste comunità da lui fondate e particolarmente amate, non c'era proprio niente da rendere grazie.

Corpus paulinum:

Scritti attribuiti a Paolo o Grandi Lettere

Scritti di scuola paolina

Lettere ecclesiologiche

Lettere pastorali

Scritti di autore ignoto


Le lettere, poste sotto il titolo “
Scritti di scuola paolina”, sono considerate come scritti pseudepigrafici, redatti nel contesto della tradizione paolina allo scopo di garantire e consolidare il pensiero di Paolo anche dopo la sua morte.

La pseudepigrafia era un fenomeno molto diffuso nell’antichità e consisteva nel porre dei propri scritti sotto il nome di personaggi importanti per dare valore e credibilità alla propria opera, agganciandola alla tradizione, verso cui si nutriva particolare rispetto.

I parametri per valutare l’autenticità o meno di uno scritto sono, in genere, lo stile, il vocabolario e la coerenza teologica, nonché il contesto a cui fanno riferimento.

Sono Scritti questi tenuti in notevole considerazione presso le comunità cristiane e, trattando tutti gli aspetti e le tematiche della vita cristiana, sono stati sentiti come normativi per il vivere cristiano.

Essi hanno certamente dettato legge a tutta la teologia successiva. Una teologia quella paolina complessa e profonda e, proprio per questo, si poteva prestare ad interpretazioni diverse, talvolta anche contrapposte, come si rileva dalla già citata 2Pt 3,15-16.

Un’ultima questione, posta dal Deissmann6, è la distinzione tra LetteraedEpistola. Secondo il Deissmann la Lettera è uno scritto privato, occasionale, vivace, immediato e mirato, il cui contenuto è prevalentemente comprensibile solo al destinatario. Mentre l' Epistola è una sorta di composizione letteraria, elaborata a tavolino con una esposizione di tipo sistematico e ragionato, rivolta ad una grande cerchia di persone. Un esempio di queste sono le “Lettere a Lucilio” di Seneca.

Le lettere di Paolo si pongono in una via di mezzo: sono sicuramente delle Lettere, ma non vi è esclusa la forma epistolare. Si prenda, ad esempio, la Lettera ai Romani, dove agli aspetti personali, rivolti ai destinatari, come nella sezione parenetica (12,1-15,13), si accompagna la sezione dottrinale (1-8).



COMMENTO ALLA SECONDA LETTERA

AI CORINTI



PARTE INTRODUTTIVA




Panorama storico di Corinto

Corinto fu fondata dai Dori nel IX secolo a.C. e già nell'VIII sec. era un fiorente centro commerciale e industriale, alimentato e giustificato dalla presenza sul territorio di due porti, quello di Cencre e quello di Lecheo, che permettevano il controllo, rispettivamente, dell'Egeo e dello Ionio.

Nel 338 a.C. divenne, ad opera di Filippo II, padre di Alessandro Magno, il centro della Lega panellenica, affidandole in tal modo il ruolo di guida della Grecia. Successivamente, divenuta fulcro di resistenza contro Roma, fu distrutta dal console romano Mummio nel 146 a.C e circa un secolo dopo, ricostruita da Giulio Cesare (44 a.C.), per darla ai suoi veterani, insieme ad una moltitudine di schiavi e liberti egiziani, siriani ed ebrei, divenendo poi, nel 27 a.C., capitale della provincia senatoria dell'Acaia e, al tempo di Paolo (50-55 d.C.), contava circa cinquecentomila abitanti.

Corinto, per quei tempi, era una sorta di metropoli e, come tale, presentava quelle caratteristiche che contraddistinguevano un po' tutte le città portuali: popolazione assai eterogenea, in cui coesistevano tutte le razze e le religioni; numerose attività industriali, commerciali e culturali, accompagnate da un evidente benessere nonché da una spiccata rilassatezza di costumi. Era, infatti, divenuto proverbiale il detto “Vivere alla maniera corinzia”, che significava vivere in modo corrotto e nell'impudicizia. Eloquente ed espressivo, in tal senso, era il verbo “korinqi£somai” (korintziásomai), che significava "darsi all'impudicizia" o “vivere in modo licenzioso”; mentre la "prostituta" era indicata con l'appellativo di "kornqhia kÒrh" (koríntzeia kóre), cioè “ragazza di Corinto”.

Numerose, poi, erano le scuole di filosofia e i predicatori itineranti, accanto ai quali si affiancavano centri di culto religioso. Tra questi esercitavano un indubbio fascino quelli orientali. Erano conosciuti i santuari di Iside, Serapide, Cibele e Afrodite, accanto a templi consacrati a Giove e a diverse altre divinità.

Caratteristica di Corinto, che ci permette anche di comprendere le divisioni all'interno della comunità (1Cor. 1,11-12), era la formazione di piccoli gruppi religiosi (qasoi, tzíasoi), che facevano a capo ad un “protettore”, che qualificava il gruppo.

Vi risiedeva, infine, anche una consistente comunità ebraica, testimoniata da un architrave in pietra con sopra l'iscrizione “Sinagoga degli Ebrei”

La popolazione, di circa cinquecentomila abitanti, eterogenea nelle razze, lo era anche negli strati sociali: oltre due terzi della popolazione era formata da schiavi e povera gente, che cercava di sopravvivere, mentre il rimanente terzo erano artigiani, commercianti, benestanti e ricchi.

Tale stratificazione della popolazione si rispecchiava anche nella comunità fondata da Paolo e si rifletteva inoltre nelle riunioni, in cui si celebrava la Cena del Signore, così che Paolo dovrà intervenire duramente per questo stato di cose, che creavano divisioni e contrapposizioni all'interno della comunità credente oltre che profanare la sacra mensa (1Cor 11,17-22).

Questo, dunque, il contesto sociale, culturale e religioso di Corinto, che si rifletteva anche all'interno della comunità credente. I numerosi quanto variegati temi trattati in questa Lettera danno testimonianza di una comunità vivace, pienamente inserita nel suo tempo, ma non ancora cristianamente matura, frammischiando un vivere licenzioso e paganeggiante con la nuova fede, che ancora non era stata ben compresa e approfondita, così da incidere nella quotidianità della vita.

La fondazione della comunità di Corinto

Paolo fondò la comunità di Corinto al termine del suo secondo viaggio missionario, avvenuto tra il 49-52 d.C. (At. 18,1-17) e più precisamente verso la fine dell'anno 50 d.C.

Dopo aver evangelizzato la Macedonia (Filippi, Tessalonica e Berea), Paolo si recò ad Atene e, dopo il fallimentare tentativo di predicare il Cristo risorto agli ateniesi (At 17,15-34), da lì raggiunse Corinto (At 18,1), dove rimase per un anno e mezzo (At 18,11), tempo, durante il quale, fondò la comunità di Corinto. Qui incontrò Aquila e Priscilla, due coniugi espulsi da Roma con decreto imperiale di Claudio nel 49 d.C. Questi si riveleranno suoi ottimi collaboratori e, stabilitosi nella loro casa, lavorava con loro per mantenersi (At 18,2-3).

Qui, nel frattempo, Paolo si dedicava alla predicazione, che avveniva di sabato nella sinagoga (At 18,4). Ma giunti dalla Macedonia Timoteo e Sila, Paolo si dette interamente alla predicazione (At 18,5) e i frutti non tardarono ad arrivare: molti corinzi, tra i quali Crispo, capo della sinagoga locale, si convertirono al cristianesimo (At 18,8).

Un colpo duro per la comunità ebraica di Corinto, così che i giudei, esasperati dall'efficace e concorrenziale azione missionaria e di proselitismo di Paolo, denunciarono Paolo presso il proconsole romano Gallione, che, però, non ne volle sapere delle loro questioni religiose (At 18,12-16). Questi era fratello di Lucio Anneo Seneca e la sua presenza a Corinto, negli anni 51 e 52 d.C., ci è testimoniata da una iscrizione ritrovata a Delfi nel 1905.

Dopo questo episodio, Paolo rimase a Corinto ancora diverso tempo, poi si imbarcò per la Siria (At 18,18). Giunto ad Efeso, Paolo prese contatto, con successo, con la comunità ebraica (At 18,19-20) e, poi, proseguì per Gerusalemme e, infine, fece ritorno ad Antiochia.

Dopo la sua partenza da Corinto, Paolo intrattiene con la comunità un'intensa attività epistolare, segno della sua vivacità e della sua importanza. Una comunità che, insofferente, difficilmente si lasciava imbrigliare dalle regole imposte dalla nuova fede. Testimonianza del carattere indomito di questa comunità ci viene dalla Prima Lettera di Clemente Romano (95 d.C.), che in qualche modo riprende, circa quarant'anni dopo, le tematiche della paolina Prima Lettera ai Corinti, rielaborandole a modo proprio.


LA LETTERA


Tra gli scritti paolini, autentici o di scuola paolina, ma oserei dire anche tra tutti gli Scritti neotestamentari, questa Seconda Lettera ai Corinti è la più ostica e la più difficile da un punto di vista storico e, ancor prima, letterario. Insomma, un bel guazzabuglio tutto da districare. Sembra quasi essere, più che una vera e propria lettera, che sviluppa in modo logico un suo proprio pensiero tematico, una sorta di collage di vari biglietti o pezzi di lettere, che qualche redattore cercò di imbastire dando loro forma di lettera. Va detto, tuttavia, che questa lettera possiede, comunque, una sua unità tematica e storica, quella della riconciliazione tra Paolo e la comunità di Corinto, i cui eventi si sono sviluppati tutti intorno agli anni 55-56 d.C., quindi, subito dopo la Prima Lettera ai Corinti (53-54 d.C.).

La variegata composizione di questa Seconda Lettera, così come oggi la conosciamo, va fatta risalire, a mio avviso, probabilmente agli inizi del II sec. d.C., epoca questa in cui incominciò a formarsi il canone neotestamentario, così che i vari pezzi che compongono questa Seconda Lettera ai Corinti, affinché non andassero perduti, riferendosi tutti allo stesso problema e scritti tutti da Paolo nello stesso periodo, 55-56 d.C., furono raggruppati, dando loro, per quello che era possibile, una certa sequenza logica e una forma letteraria. Così deve essere nata questa Seconda Lettera ai Corinti, così come oggi ci è pervenuta.

Si tratta certamente di un'ipotesi, ma, considerata la struttura con cui questa lettera si presenta, è difficile pensare diversamente e, tantomeno, che sia stata scritta di getto nel giro di qualche giorno, di prima mano, da Paolo, considerato, poi, che il linguaggio della pericope 6,14-7,1 risente molto, come vedremo, dell'ambiente apocalittico ed escatologico proprio del mondo degli Esseni. Dubbi, quindi, che tale pericope sia di Paolo.

Una lettera che ben differisce dalla Prima ai Corinti (53-54 d.C.), dai toni pacati e da dove traspare un Paolo sicuro di sé e determinato, che sa, con autorità apostolica, indirizzare la sua comunità, rispondendo ai suoi quesiti; mentre da questa Seconda ai Corinti (55-56 d.C.) traspare una situazione letteralmente capovolta: i rapporti tra Paolo e i Corinti sembrano essere gravemente compromessi e il suo stesso ministero di apostolo è messo in discussione, tant'è che i primi sette capitoli sono interamente dedicati alla sua difesa, mentre i capp.10,1-12,21 sono una polemica invettiva contro i suoi detrattori, che non teme definirli ironicamente come dei “super apostoli” (11,5; 12,11) o “falsi apostoli” e “operai fraudolenti” (11,13), che si sono camuffati da apostoli di Cristo, fingendo di esserlo; così come non teme un pesante confronto con loro, esponendosi in prima persona, dimostrando come i titoli che costoro vantavano, egli non solo li possiede tutti, ma ne sopravanza.

Le osservazioni fin qui rilevate trovano il loro riscontro in un'attenta analisi della struttura del testo. I capp.1-7, infatti, pur trattando sostanzialmente dello stesso tema dei capp.10,1-12,21, il ministero di Paolo contestato da sedicenti apostoli, tuttavia usano toni molto diversi tra loro: molto pacato e tranquillo quello dei capp.1-7; agitato da una aggressiva polemica quello dei capp.10,1-12,21 , tanto da far pensare che siano stati scritti in momenti diversi. Ipotesi, questa, che potrebbe essere avvalorata anche dal v.1,24b che in qualche modo contraddice il v.13,5. Nel primo, infatti, si attesta la fermezza della fede dei Corinti: “infatti, quanto a fede state saldi” (1,24b); mentre nel secondo si esorta i Corinti, che cercano una prova della veridicità dell'apostolicità di Paolo, a mettere alla prova la loro fede, che qui sembra, invece, vacillare: “Provate (voi) stessi se siete nella fede, mettete(vi) alla prova (voi) stessi; o non conoscete (voi) stessi che Gesù Cristo è in voi? Se non siete riprovevoli”. Similmente sembra esserci una contraddizione tra 7,16, dove Paolo gioisce per la ritrovata fiducia nei Corinti: “Gioisco perché in tutto posso confidare in voi”; e 12,20, dove esprime tutti i suoi dubbi e timori in essi: “Temo, infatti, che, venuto (tra voi), non vi trovi tali come (vi) voglio; e io, (a mia volta), sia trovato (da) voi quale non (mi) volete; (temo che vi siano presso di voi) contesa, invidia, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini”.

Quanto alla sezione capp.1-7, dedicata alla difesa dell'autorità apostolica di Paolo, si riscontrano due cesure: la prima in 2,13, il cui tema viene ripreso in 7,5, così che la sezione di mezzo 2,14-7,4 appare come una sorta di lunga digressione incentrata sul ministero di Paolo, mentre la sezione 1,1-2,13, che si aggancia con 7,5-16, ha per tema la gioia di Paolo per la sua riconciliazione con i Corinti.

Una seconda cesura compare in 6,13, il cui tema riprende in 7,2. La breve pericope di mezzo, 6,14-7,1, si configura come una sorta di inserto, il cui linguaggio non è paolino, ma si richiama al contesto escatologico e apocalittico proprio del mondo degli Esseni, come vedremo nella sezione dei commenti.

Rimangono, infine, i capp.8-9, che hanno per tema la colletta. Tuttavia, benché i due capitoli siano monotematici, sono tra loro disgiunti, così che il cap.9 non va letto come il seguito del cap.8, poiché il cap.9 si apre come se il cap.8, che per ben 24 versetti ha parlato della colletta, non esistesse: “Quanto al servizio verso i santi, infatti, mi è superfluo lo scrivervi” (9,1).

Vi è, poi, un'incongruenza tra le due pericopi 8,1-5 e 9,2-4, poiché, mentre in 8,1-5 si presentano le chiese della Macedonia come esempio di buona volontà nei confronti della colletta, per la quale si sono offerte volontarie, supplicando lo stesso Paolo e pregando Dio di concedere loro tale grazia, in 9,2-4 risultano essere, invece, le chiese dell'Acaia esempio di generosità per quelle della Macedonia.

Da questa rapida panoramica letteraria, la Seconda Lettera ai Corinti, come già si è detto sopra, risulta essere, più che una vera e propria lettera sulla falsariga della Prima ai Corinti o altre simili lettere, un assemblaggio di più testi imbastiti tra loro, cui è stata data una forma di lettera nel II sec. d.C., per questioni di canone. È, quindi, probabile che una Seconda Lettera ai Corinti, così come la si intende e oggi la conosciamo, non sia mai esistita come lettera, ma ci sia soltanto una raccolta e un collage di biglietti o frammenti di lettere tra loro ricomposti e assemblati assieme, cercando di dare loro una certa logica narrativa, ai quali si è data una forma di lettera. Tuttavia va detto che comunque questi biglietti o frammenti di lettere erano di origine paolina, trattavano uno stesso problema, verificatosi nello stesso arco di tempo, probabilmente intorno al 55-56 d.C. Elementi questi che danno unità tematica e cronologica, ma non strutturale, a questo Scritto, che va sotto il nome di Seconda Lettera ai Corinti.

Tuttavia, se di una vera e propria Seconda Lettera ai Corinti, con tutti i carismi di una vera e propria lettera paolina (prescritto, rendimento di grazie, corpo della lettera e postscritto), si vuol parlare, allora questa va individuata nelle seguenti pericopi e sezioni, come vedremo meglio in un'apposita sezione a questo dedicata: a) Prescritto: 1,1-2; b) Rendimento di grazie: 2,14-17; c) Corpo della lettera: 3,1-6,10; d) Postscritto: 13,11-13. Questa, a mio avviso, doveva essere stata l'originaria Seconda Lettera ai Corinti, che, poi, un redattore anonimo deve aver infarcita di altri testi, riguardanti comunque sempre la medesima questione, i cui accadimenti avvennero nello stesso arco di tempo, tra il 55-56 d.C.

Una lettera, comunque, che lascia trasparire i difficili rapporti tra Paolo e la ancor giovane chiesa di Corinto, che sembrano poi essersi ricomposti non senza un certo travaglio e probabilmente grazie agli uffici di Tito, fedele collaboratore di Paolo e abile mediatore.


La ricostruzione degli eventi e dei testi della canonica Seconda Lettera ai Corinti

Ma cos'era successo? Perché il padre fondatore della comunità credente di Corinto (1Cor 4,15), che inizialmente godeva di stima, rispetto, obbedienza ed era in piena comunione con la sua chiesa, si ritrova ora al di là della barricata, avversato e disconosciuto nella sua apostolicità dalla sua stessa comunità, che ha fondato? Che cosa ha guastato i loro rapporti?

Da una rapida e sintetica carrellata sulla Lettera si intuisce che degli avversari di Paolo, giudeocristiani giudaizzanti, che ricompariranno anche nella più tardiva lettera ai Galati (56-57d.C.), si erano presentati alla comunità di Corinto con varia titolatura ufficiale ed altisonante, lo avevano denigrato, riuscendo ad attrarre la comunità dalla loro parte e rivoltandola contro Paolo. Ma, poi, grazie ai buoni uffici di Tito, abile diplomatico, stretto e fedele collaboratore di Paolo, la comunità era ritornata sulla retta via e i rapporti tra la chiesa di Corinto e Paolo si ricomposero e si rasserenarono al punto tale che Paolo, proprio da Corinto, scriverà la sua ultima e impegnativa lettera, quella ai Romani, tra il 57 e il 58 d.C.

Ma come sono andate le cose? È possibile ricostruire dalla lettera i rapporti tra Paolo e la sua comunità di Corinto e capire cosa è successo? Molti ci hanno provato e io mi accodo a loro senza molte pretese e senza molte speranze, poiché i dati che si hanno tra le mani sono frammentari e non sempre facilmente raggiungibili, dai quali si intuisce più che vedere.

Preambolo

Paolo, durante il suo secondo viaggio missionario (49-52 d.C.), fonda la comunità di Tessalonica, dalla quale deve fuggire repentinamente, dopo circa sei mesi, perché i Giudei gli avevano scatenato contro una persecuzione. Si rifugia dapprima a Berea, da dove, raggiunto dagli stessi Giudei di Tessalonica, dovrà fuggire nuovamente (At 17,10-14), rifugiandosi ad Atene, dove tenta una evangelizzazione, purtroppo fallita (At 17,15-33). Da qui approda a Corinto (At 18,1), dove, trovato finalmente terreno fertile, si ferma un anno e mezzo (At 18,11), durante il quale fonda una comunità credente, tra la fine dell'anno 50 e primi mesi dell'anno 52 d.C. Lascia, quindi, dopo circa diciotto mesi, la neonata comunità di Corinto e prosegue nel suo secondo viaggio, che si concluderà ad Antiochia, sua comunità elettiva e di riferimento, nello stesso anno (At 18,22).

La prima lettera, andata perduta (1Cor 5,9)

In 1Cor 5,9 Paolo cita una sua lettera, andata perduta: “Vi scrissi nella lettera di non mescolarvi insieme con i fornicatori”, precisando di seguito (5,10-13) come questi fornicatori fossero non tanto i pagani, da cui i neocredenti Corinti provenivano, quanto quelli interni alla comunità stessa. Il sollecito a non unirsi ai fornicatori intracomunitari dice due cose importanti: a) nonostante la conversione alla nuova fede, molti nuovi credenti continuavano la precedente vita pagana, come anche traspare un po' ovunque in tutta la canonica Prima ai Corinti. La quale cosa lascia intendere come in queste persone la nuova fede non sia riuscita a scalfire in profondità il loro modo di vivere ancora paganeggiante; b) gli altri credenti accettavano indifferenti la convivenza con questi personaggi, convertiti, ma non praticanti la nuova fede e che vivevano talvolta in modo scandaloso.

Del resto una situazione simile era comprensibile, considerato che colui che si convertiva continuava a vivere in mezzo ad una società pagana, al cui interno intratteneva ancora tutta una serie di precedenti relazioni di lavoro, di conoscenze, di amicizie, di parentado; considerando, inoltre, come i convertiti, erano persone adulte e, quindi, cresciute all'interno di una società che li aveva educati e formati ad un certo modo di vivere e di pensare. Difficile cambiare radicalmente un tale stato di cose nel giro di pochi mesi o di qualche anno, per cui si viveva la nuova fede all'interno di un certo lassismo di vita. Paolo, quindi, in questa prima lettera perduta doveva aver dato alcune istruzioni sul come comportarsi nelle relazioni intracomunitarie con riferimento alle esigenze della nuova fede. Una lettera, quindi, che doveva aver suonato la sveglia ad una comunità dalla fede tiepida e non ancora giunta a piena maturità. Probabilmente un contraccolpo un po' duro e forse inatteso, poiché la nuova fede, che i Corinti avevano abbracciato, aveva le sue imperative esigenze, ma essi ancora forse non se ne rendevano pienamente conto. Abituati com'erano, poi, alla predicazione di nuove filosofie e religioni, quella di Paolo era una in più tra tante e forse non avevano colto in profondità il senso della predicazione di Paolo e del suo Vangelo, tant'è che si è resa necessaria una seconda lettera, quella che canonicamente viene chiamata la Prima Lettera ai Corinti, scritta ad Efeso intorno agli anni 53-54, dove Paolo stava soggiornando durante il suo terzo viaggio missionario (53-57) e dove rimarrà per circa tre anni (At 20,31).

La canonica Prima lettera ai Corinti

Paolo, dunque, si trova ad Efeso dove riceve notizie allarmanti sulla sua comunità di Corinto. Qui è raggiunto “da quelli di Cloe”, una donna questa attiva nel commercio, mentre i “quelli di” erano probabilmente suoi dipendenti o suoi fedelissimi collaboratori. Da questi viene informato delle divisioni all'interno di Corinto (1Cor 1,11); mentre con una lettera, scritta probabilmente da alcuni responsabili della comunità e fattagli pervenire probabilmente dalla stessa “gente di Cloe” o da Apollo (1Cor 16,12), fedele collaboratore di Paolo, coinvolto nelle divisioni (1Cor 1,12; 3,4-5) e fuggito ad Efeso da Paolo, per evitare, verosimilmente, di essere ulteriormente compromesso (1Cor 16,12); o dalla stessa delegazione formata da Stefana, Fortunato ed Acaico (1Cor 16,17-18), gli si chiedeva chiarimenti su alcune situazioni allarmanti venutesi a creare all'interno della comunità (1Cor 7,1).

Tutto, dunque, sembra ancora filare liscio nei rapporti tra Paolo e la comunità di Corinto. Ma le notizie che egli riceve dalla sua comunità non sono molto rassicuranti per comportamenti che sono in netta dissonanza con la nuova fede. Divisioni interne non solo di tipo ideologico-religioso (1Cor 1,11-13), ma anche sociali, che profanavano, queste ultime, il sacro banchetto della Cena dl Signore (1Cor 11,17-34); la pacifica convivenza ed accettazione all'interno della comunità di un tale che conviveva, more uxorio, con la sua matrigna (1Cor 5,1-13); l'esporsi amicante delle donne a capo scoperto durante le assemblee (1Cor 11,1-16); la frequentazione dei banchetti e dei templi pagani da parte di alcuni molto disinvolti, che non si curavano dello scandalo che provocavano nei propri fratelli più deboli nella fede (1Cor 8,1-13); il ricorrere ai tribunali pagani per dirimere le discordie tra credenti (1Cor 6,1-8); la non occasionale frequentazione delle prostitute (1Cor 6,9-20).

Di fronte a simili comportamenti Paolo sfodera la sua autorità apostolica e di padre fondatore (4,15) e picchia molto duro, con toni aspri e drastici, minacciando un suo intervento in presenza presso la stessa comunità se non si fosse messa in riga; “Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?” (1Cor 4,21).

Le conseguenze della Prima lettera ai Corinti e i denigratori di Paolo

Di certo la dura presa di posizione di Paolo nei confronti dei suscettibili e poco remissivi Corinti, che si sentivano dei credenti arrivati e maturi, dotati di conoscenza, cultura e saggezza (1Cor 1,18-31; 2Cor 8,7), ma che ancora non avevano ben metabolizzato la nuova fede, non doveva aver giovato molto ai loro rapporti, creando in tal modo una certa freddezza e incomprensione tra i due. Questo clima di distacco, preambolo ad una vera e propria opposizione critica e di avversione a Paolo, doveva essere stato alimentato anche da gente proveniente dall'esterno della comunità, predicatori giudeocristiani giudaizzanti, che si erano presentati ai Corinti quali apostoli, probabilmente inviati ufficiali della stessa giudaizzante chiesa di Gerusalemme, abili retori, ampiamente titolati, che denigravano Paolo, mettendo in discussione la sua stessa apostolicità, togliendogli in tal modo ogni credibilità, e che Paolo definisce in modo aggressivo come “Super apostoli”, “Falsi apostoli”, “Operai fraudolenti”, che si mascherano da apostoli di Cristo (2Cor 11,5.13; 12,11).

Un rapido quanto deleterio viaggio fuori programma

A tal punto Paolo, saputo della cosa, probabilmente da Timoteo, suo fedelissimo e amatissimo collaboratore, che aveva inviato presso la comunità di Corinto per richiamarla agli insegnamenti già impartiti (1Cor 4,17; 16,10), decide inopinatamente, considerata l'inquietante situazione che si era creata, di andare di persona a Corinto per rimetterla in riga. Viaggio questo che ricorda implicitamente in 2,1 e in 12,14 e 13,1. Un viaggio, il secondo, poiché il primo fu quello della fondazione della comunità, che gli farà toccare con mano la gravità della situazione: la comunità gli si era rivoltata contro al punto tale da essere offeso gravemente in assemblea.

Il ritorno ad Efeso da dove, amareggiato, scrive la lettera “tra molte lacrime”


Paolo lascia così la comunità e se ne torna ad Efeso e qui scrive la terza lettera, quella che qui in 2Cor 2,3-4 definisce come scritta nella sofferenza e tra molte lacrime: “Infatti con molta sofferenza e angustia di cuore vi scrissi tra molte lacrime, non perché siate tristi, ma affinché conosciate quale amore ho in modo assai smisurato per voi” (2,4). Lettera questa che comprende le seguenti sezioni: (6,11-12+7,2-4)+(10,1-12,21), con la quale Paolo difende in modo aggressivo la propria apostolicità contro i suoi denigratori, esibendo la sua titolatura pari, anzi, ben superiore a quella dei sedicenti apostoli di Cristo, ma, in realtà, soltanto degli impostori, richiamando così severamente all'ordine e all'obbedienza i Corinti. E che questa sia la lettera scritta tra molte lacrime, subito dopo essere rientrato ad Efeso, lo si arguisce dai toni polemici usati contro i suoi diffamatori e il trattamento ricevuto in pubblica assemblea. Paolo deve essere rimasto sconvolto dall'incontro con la sua comunità e dal trattamento da questa riservatogli così che, interiormente agitato e ripieno di collera e molto amareggiato, scarica tutta la sua indignazione e la sua aggressività in quella lettera “scritta tra molte lacrime”, perché vede la sua creatura deturpata da pretesi apostoli e teme di perderla (2Cor 11,2).

La lettera viene fatta pervenire alla comunità per mezzo di Tito, suo fedele collaboratore e abile diplomatico con grandi capacità di mediazione. E che sia Tito il latore della lettera scritta tra molte lacrime, lo si arguisce dal fatto che Paolo attenderà notizie da lui e lo cercherà, dapprima a Troade e poi, non trovatolo, in Macedonia (2,12-13). Lettera, questa “tra molte lacrime”, che corrisponde ai capp.10-12 della nostra canonica Seconda lettera ai Corinti.

La Seconda Lettera ai Corinti, quella originaria

Nell'attesa dell'esito della missione di Tito, dunque, Paolo rimane ad Efeso, che, però, è costretto a lasciare da lì a poco tempo per la rivolta degli argentieri (At 19,23-41). Fugge dapprima a Troade dove sperava di trovare Tito, ma non trovatolo, scorato, ripartì per la Macedonia (2,12-13) dove, probabilmente a Filippi, trova finalmente Tito, che gli dà delle ottime notizie: l'offensore è stato punito dalla comunità (2,5-9) e questa si è riconciliata con Paolo (7,6-7).

Paolo, rincuorato, scrive quella che personalmente ritengo l'autentica e originaria Seconda Lettera ai Corinti, che comprende le seguenti pericopi e sezioni: 1,1-2; 2,14-17; 3,1-6,10; 13,11-13. Lo fa da Filippi, dove probabilmente, come si è detto poc'anzi, aveva trovato Tito, latore delle liete notizie da Corinto, e dove Paolo aveva predicato il suo Vangelo agli inizi del suo secondo viaggio missionario (49-52), intorno agli anni 49 o inizi del 50 d.C., fondandovi una comunità, quella, appunto, di Filippi.

I toni di questa Seconda ai Corinti, probabilmente quella originale, intendendo per tale quella qui sopra individuata, sono distesi e la Lettera è una pacata riflessione apologetica sul ministero dell'apostolicità di Paolo.

Tito, quindi, riparte per Corinto con questa Seconda Lettera ai Corinti, formata, come s'è detto sopra, dalle seguenti pericopi e sezioni 1,1-2; 2,14-17; 3,1-6,10; 13,11-13, per preparare la venuta di Paolo e rianimare e riorganizzare la colletta (8,6). Paolo, da lì a poco, tornerà finalmente a Corinto, sarà la sua terza visita, in un clima più sereno e tranquillo di avvenuta riconciliazione, tanto che troverà, proprio qui a Corinto, il tempo e il modo di scrivere l'ultima sua lettera, la stupenda quanto importantissima Lettera ai Romani, capolavoro dottrinale e di pensiero cristiano, con la quale Paolo tocca i vertici della sua maturità spirituale di credente. Siamo qui nell'anno 57 o 58 d.C. Esattamente un anno prima, ma a Filippi, scriveva, tra il 56 e il 57 d.C., la lettera ai Galati, le cui tematiche dottrinali verranno riprese e sviluppate, un anno dopo, nella lettera ai Romani.

Il biglietto delle consolazioni, che accompagna, a mo' di preambolo, l'originaria 2Cor

In aggiunta all'originaria Seconda Lettera ai Corinti, così come da me qui sopra individuata, Paolo deve aver consegnato contemporaneamente a Tito un biglietto accompagnatorio, a mo' di preambolo alla lettera stessa, il quale celebra la gioia di Paolo per la consolazione che Dio gli ha concesso per mezzo di Tito, latore di liete notizie circa la rappacificazione dei rapporti tra la lui e la comunità di Corinto e che Paolo intende condividere con la comunità stessa in una sorta di concelebrazione liturgica di un evento, che Paolo legge come intervento consolatorio e provvidenziale di Dio. Questo biglietto accompagnatorio l'ho denominato “Sezione delle consolazioni”, che comprende le seguenti pericopi e sezioni: 1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11.

Biglietto che preannuncia l'imminente visita di Paolo alla comunità, la terza, quella risolutiva (13,1-10+6,14-7,1)

Paolo, dopo aver scritto la “lettera tra molte lacrime” (10,1-12,21) ed averla consegnata a Tito, suo fedele compagno ed abile negoziatore, con l'implicito incarico di convincere i Corinti a tornare a lui; e dopo aver ricevuto ottime notizie da parte sua sulla situazione della comunità ritornatagli favorevole; nonché dopo aver scritto l'originaria seconda lettera ai Corinti (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13), accompagnata da un biglietto, che è un'esplosione di gioia e di ringraziamento a Dio per le ottime e consolanti notizie ricevute da Tito sui ristabiliti rapporti tra lui e la sua comunità, Paolo si decide finalmente a compiere la terza visita alla comunità, visita che desiderava fare (12,4), ma sulla quale incombevano molte incognite e molti dubbi, che provocavano in lui ansie, titubanze, timori e tormenti interiori, così da doverla rimandare a tempi migliori, se mai ce ne fossero stati (12,19-21). Ora, invece, grazie alle ottime notizie ricevute da Tito, decide di ritornare per la terza volta a Corinto per rimettere le cose a posto e fare piazza pulita di tutti i sobillatori e agitatori, che magari aspiravano, liberatisi di Paolo, di ottenere un posto di riguardo nella comunità.

La sezione della colletta (8-9)

Quanto ai capp.8 e 9, questi, a mio avviso, non appartengono alla canonica Seconda lettera ai Corinti sia perché tematicamente non vi condividono nulla, sia perché il cap.8, più che accorpato in qualche modo alla Lettera, sembra essere giustapposto, cioè aggiunto, ma slegato dal resto della Seconda Lettera. Se fosse appartenuto alla Lettera sarebbe stato in qualche modo agganciato ad essa con la formula di rito, che Paolo ha usato anche nella 1Cor in 16,1 dove introduce il tema della colletta con l'espressione: “Quanto alla colletta” (Perˆ de tÁj loge…aj, Perì dè tês logheías)”. Espressione questa che indica il passaggio ad un altro tema, che viene sommato ad altri ancora, che formano nel loro insieme un'unica lettera sia pur con diverse tematiche, ma tutte letterariamente agganciate tra di loro. In questo caso non vi è accorpamento, ma soltanto giustapposizione, la quale cosa spinge a pensare come il cap.8 non appartenga alla Seconda Lettera ai Corinti.

Quanto al cap.9, questo non forma il seguito del cap.8, benché sia stato scritto, a breve distanza di tempo, successivamente a tale capitolo, per sollecitare la generosità nella colletta, che probabilmente non solo andava a rilento, ma peccava anche di tirchieria (9,5b), fornendo nuove motivazioni. Infatti, il cap.9 si apre affermando che non intende ritornare sulla questione della colletta, ma semplicemente sollecitarne lo svolgimento e rimotivandola nei versetti successivi: “Quanto al servizio verso i santi, infatti, mi è superfluo lo scrivervi” (9,1); in 9,3.5, poi, parla di “fratelli” che ha inviato prima della sua venuta per organizzare la colletta. Questi “fratelli inviati” sono quelli di cui si era già parlato in 8,18: “Con lui (Tito nda) abbiamo inviato il fratello la cui lode (è) nel Vangelo per tutte le chiese”. Va, infine, rilevato come l'apertura dei due capitoli riguardanti la colletta, 8 e 9, si contraddicono, la quale cosa lascia pensare che siano stati scritti in due tempi diversi. La pericope 8,1-5 presenta le chiese della Macedonia come un esempio per quelle dell'Acaia; mentre in 9,2-3 sono quelle dell'Acaia essere un esempio per quelle della Macedonia.

La macrostruttura della Lettera

Strutturalmente la Seconda lettera ai Corinti si divide sostanzialmente in tre blocchi: i capp.1-7, dove Paolo difende il suo ministero di apostolo; i capp.8-9, che hanno per unico tema la colletta e, infine, i capp.10-13, con i quali Paolo difende la sua apostolicità contro sedicenti apostoli di Cristo.

La macrostruttura della lettera, coordinata secondo gli eventi storici

Detta così sembra che la Seconda Lettera ai Corinti non presenti nessun problema strutturale, ma il lettore sa già come questa lettera, in realtà, presenti numerosi e quasi insolubili problemi, in quanto che essa si presenta come una sorta di contenitore in cui il redattore finale vi ha fatto confluire tutta la corrispondenza tra Paolo e la comunità di Corinto, riguardante i rapporti tra i due e che si era sviluppata in più tempi nell'arco degli anni 55-56. Quindi all'esegeta si presenta un duplice problema: in base alla documentazione interna deve ricostruire in qualche modo gli eventi che hanno originato gli scritti e, di conseguenza, dare loro un ordine logico-temporale, cosa di non facile soluzione, poiché i testi così come ci sono presentati dalla canonica Seconda ai Corinti seguono logiche note solo al redattore finale, ma sicuramente senza un filo logico temporale.

Detto ciò, propongo qui di seguito una nuova struttura della Seconda ai Corinti, che segue non logiche letterarie, ma tematiche e temporali, la quale cosa mi ha imposto una radicale manipolazione della struttura della Lettera così come ci è pervenuta. Va da sé che il testo non è stato minimamente toccato ed è stato rispettato nella sua integrità, così come ci è pervenuto canonicamente.

La nuova struttura della Seconda ai Corinti, che qui propongo e che seguirò nella mia esegesi, è la seguente:

  1. Lettera “scritta tra molte lacrime”:

  2. Biglietto accompagnatorio alla originaria Seconda Lettera ai Corinti e suo preambolo: Sezione delle consolazioni:

  1. L'originaria Seconda Lettera ai Corinti:

  1. Biglietto che preannuncia l'imminente visita di Paolo alla comunità, la terza, quella risolutiva (13,1-10+6,14-7,1)


La colletta:

        - primo biglietto: cap.8

Questa proposta di ristrutturazione e ridistribuzione dei testi contenuti nella canonica Seconda ai Corinti, che segue le logiche temporali del susseguirsi degli eventi, a seguito dei quali Paolo produce i testi qui raccolti nella 2Cor, sarà quella che seguirò nei mie commenti esegetico-teologici. In tal senso il lettore, in aggiunta al testo tradotto della canonica 2Cor, così come ci è pervenuta, ne troverà un altro, che porta il titolo di “Ricostruzione strutturale logico-storica della Seconda ai Corinti”, dove il lettore potrà trovare gli stessi identici testi canonici, ma strutturalmente ridistribuiti secondo l'accadere degli eventi, a cui si riferiscono i testi stessi, così come qui sopra esposti. La ridistribuzione dei testi è sempre accompagnata da un mio sintetico commento riguardante il contesto storico in cui questi sono nati e da alcune annotazioni che giustificano una tale scelta.




COMMENTO ESEGETICO-TEOLOGICO

ALLA SECONDA LETTERA AI CORINTI



Avvertenza: il commento non avverrà secondo l'ordine con cui
ci è pervenuta la canonica Seconda lettera ai Corinti,
ma secondo l'ordine dell'accadimento degli eventi,
che hanno generato gli scritti che la compongono,
secondo lo schema qui sopra riportato.
Lo sviluppo storico dei testi
è preceduto da una lettera.





A) La lettera scritta “tra molte lacrime”

[(6,11-13+7,2-4)+(10,1-12,21)]




Il contesto storico: Dopo aver scritto le prime due lettere, quella citata in 1Cor 5,9 e la stessa 1Cor, e a seguito della sobillazione da parte di agitatori giudeocristiani giudaizzanti, provenienti dall'esterno della comunità, (2Cor 11,3-5.13), questa si ribella a Paolo, il quale, lasciata Efeso, dove si trovava e dove rimarrà per circa tre anni (At 20,31), si reca urgentemente a Corinto, presso la sua comunità, nella speranza di chiarire i problemi sorti, ma qui viene insultato gravemente e contestato nella sua autorità apostolica. Torna quindi ad Efeso, dove scrive questa “lettera tra molte lacrime”, che farà recapitare ai Corinti per il tramite di Tito.

Annotazione: La parte introduttiva (6,11-13+7,2-4) aggiunta in apertura della sezione capp.10,1-12,21, considerata dai più come la lettera “scritta tra molte lacrime”, l'ho estrapolate dal suo contesto originario (capp.6.7) e qui ricollocata. Infatti, nel suo contesto originario la pericope 6,11-7,4 non solo non vi si integra, ma non aveva neppure alcun legame logico o di senso con il contesto dei capp.6.7, mentre così ricollocata nel nuovo contesto della “lettera scritta tra molte lacrime” acquista qui tutto il suo significato, integrandosi non solo in ordine al senso, ma anche in ordine alla logica, dando in tal modo completezza alla sezione 10,1-12,21, che, diversamente, risulterebbe monca, cioè senza alcuna introduzione; quanto al cap.6, questo può ben chiudersi in 6,10, mentre la sezione 7,5-16 non è un proseguimento del cap.6 né tantomeno dei vv. 7,1-4, ma va a ricollegarsi e a completare il racconto iniziatosi con 2,12-13 e poi lasciato in sospeso, per l'inserimento della sezione 2,14-6,10, che forma, a mio avviso, l'autentica e originaria Seconda Lettera ai Corinti.

Considerata, del resto, la variegata struttura e la formazione della canonica Seconda ai Corinti, come già sopra detto, non credo, con questa operazione di trasposizione della pericope 6,11-13.7,2-4 a 10,1-12,21, di aver creato una forzatura, ma una risistemazione di quella che poteva essere l'originaria “lettera scritta tra molte lacrime”. Si tratta, ovviamente, di un tentativo e di una proposta.

Un'ultima annotazione va riservata alla sezione 13,1-10 la quale, benché tradizionalmente associata alla lettera scritta “tra molte lacrime”, si presenta, a mio avviso, come un biglietto a se stante che preannuncia la terza visita di Paolo ai Corinti e il programma che egli intende svolgere in essa. Infatti, mentre in 12,14 presenta la sua intenzione di compiere questa terza visita, ma esprime i suoi timori per una possibile reciproca delusione (12,20) e di subire un'ulteriore umiliazione da parte dei Corinti, come era avvenuto nella seconda visita (12,21a), vedendosi costretto ad un richiamo generale contro i loro comportamenti (12,21), al v.13,1 si presenta, invece, un Paolo sicuro di sé e determinato a compiere la terza visita con lo specifico programma di mettere sotto processo i responsabili della ribellione (13,1), mettendovi fine, richiamandosi a quello che aveva già preannunciato in 12,21b: “L'ho preannunciato e lo dichiaro ora” (13,2), dove tra il preannunciare “prima” e il dichiarare “ora” stabilisce due tempi diversi: il “prima” fa riferimento a quanto detto in 12,21b, da dove qui mutua la stessa espressione “hanno peccato prima e tutti gli altri” (12,21b; 13,2b) determinato anche qui a punire senza più alcuna remora o ripensamento quelli che “hanno peccato prima e tutti gli altri”.

Un biglietto questo che va collocato in termini temporali probabilmente subito dopo l'originaria Seconda lettera ai Corinti, chiudendo in tal modo il cerchio della crisi intervenuta tra Paolo e la sua comunità. Io rispetterò nei miei commenti questo ordine.

Preambolo esortativo alla lettera ”scritta tra molte lacrime” (6,11-12+7,2-4)

(6,11-12)

11- La nostra bocca si è aperta a voi, Corinti, il nostro cuore si è dilatato;
12- non vi trovate in un posto angusto in noi, ma vi trovate in un posto angusto nelle vostre viscere;
(7,2-4)
2- Fateci posto (nel vostro cuore), nessuno abbiamo offeso; nessuno abbiamo rovinato; nessuno abbiamo frodato.
3- Non dico (questo) a (vostra) condanna; infatti, (vi) ho (già) detto prima che siete nei nostri cuori, per morire insieme e (per) vivere insieme.
4- Ho molta libertà di parola verso di voi, molto vanto per voi; sono ripieno di consolazione, sovrabbondo di gioia in ogni nostra tribolazione.


Note generali

Le pericopi 6,11-12+7,2-4, entrambe di natura esortativa, si agganciano tra loro non solo con le due espressioni 6,11b e 7,2a, con cui si aprono e tra loro si completano: “il nostro cuore si è dilatato” (6,11b) e “Fateci posto (nel vostro cuore)” (7,2a), ma anche perché entrambe sono saldate tra loro da una sorta di inclusione, che forma delle due pericopi un'unica unità letteraria, qualificata tematicamente dall'onestà intellettuale e morale di Paolo, che si pone di fronte ai Corinti con piena sincerità di cuore, dando in tal modo, in quanto pericopi di preambolo, l'intonazione all'intera lettera “scritta tra molte lacrime”, scritta con il cuore in mano. L'inclusione è data in 6,11a dall'attestazione di Paolo di aver parlato con franchezza e in 7,4a dalla sua dichiarazione di essere franco verso i Corinti e di voler parlare con schiettezza nei loro confronti.

Questa pericope, estrapolata dal suo contesto canonico (capp.6.7) e così qui ricomposta, parla, infatti, di schiettezza, di sincerità di cuore, di franchezza di parola, fungendo in tal modo da preambolo introduttivo alla lettera, quella “scritta tra molte lacrime”, dove Paolo con durezza, aggressività e senza tanti giri di parole espone il suo pensiero sia nei confronti dei Corinti, sfidandoli nella loro arroganza nei suoi confronti (10,2.10-11); sia nei confronti dei sedicenti “apostoli di Cristo” (11,13b), che ironizza definendoli “Super apostoli” (11,5; 12,11), passando poi alle offese nei loro confronti, con “falsi apostoli” e “operai fraudolenti” (11,13a) e non temendo un puntiglioso confronto con loro, che occuperà i capp.11-12. Una lettera in cui troviamo in sintesi tutta la veemenza e la passionalità di Paolo, fanatico di Cristo, per il quale ha messo in gioco tutto se stesso.

Un tema, quello della sincerità, della franchezza e della schiettezza di animo, che io ho definito sopra di grande e profonda onestà intellettuale e morale, che ritroviamo anche in 7,14b e in 1,12-13 e che funge da sottofondo all'intera 2Cor, dove Paolo parla alla sua amatissima comunità, che gli si è rivoltata contro, con sincerità di cuore, ma anche con la giusta severità, poiché per lei si sente madre e padre (1Cor 4,15).

Commento ai vv. 6,11-12+7,2-4

La lettera “scritta tra molte lacrime”, sia pur con questo suo preambolo introduttivo, inizia in modo anomalo rispetto alle lettere che, di consuetudine, Paolo e il mondo antico solevano introdurre, premettendo un prescritto, in cui comparivano i nomi del mittente, del destinatario e i saluti. Ma in realtà, qui, non ci si trova di fronte ad una vera e propria lettera, ma ad una sorta di biglietto, con il quale Paolo intende in qualche modo continuare e completare quanto probabilmente aveva già detto nella sua seconda vista alla comunità, quella fatta d'impulso e d'improvviso, dove è stato accolto malamente ed offeso in pubblica assemblea. Il suo intento, poi, non è quello di comunicare e informare, ma di autodifendersi.

Paolo, quindi, scrive per se stesso, continuando qui con il tono con cui aveva già parlato alla comunità durante la sua seconda visita, quello della schiettezza e della franchezza. I due verbi “¢nšJgen” (anéoghen, si è aperta) e “pepl£tuntai” (peplátintai, si è dilatato), con cui si apre questo preambolo, infatti, sono entrambi posti al perfetto, che indica un'azione originatasi in passato, ma che continua anche nel presente. Vi è, quindi, una continuità logica e temporale tra il primo tempo, quello della seconda visita, e l'adesso, il tempo della lettera “scritta tra molte lacrime”. L'atteggiamento di allora nei confronti della comunità è esattamente identico a quello di adesso, fondato sulla sincerità, la schiettezza e l'onestà di cuore. L'espressione “La nostra bocca si è aperta”, infatti, è un modo di dire per attestare la sincerità e la schiettezza con cui si sono dette e si stanno per dire le cose. Una simile espressione, infatti, la si ritrova anche in Ef 6,19, dove il senso “dell'aprir bocca” è più chiaro ed esplicito: “.... e anche per me, affinché mi sia data una parola in apertura della mia bocca, con libertà di parola (possa far) conoscere il mistero del vangelo”. Ed è sostanzialmente anche l'espressione con cui termina questo preambolo: “Ho molta libertà di parola verso di voi” (7,4a), dove compare, qui come là, il termine “parrhs…a” (parresia), il cui significato è “libertà di parlare, piena facoltà di parlare”, così che il “parrasiast»j” (parrasiastés) significa “il parlatore libero, schietto e franco”.

Ma in Paolo non vi è solo franchezza e schiettezza, che spesso sconfinano nella severità, ma anche un cuore che è “dilatato”. E che cosa significhi questo lo precisa in 6,12a: una incondizionata apertura d'animo, pronto ad accogliere i Corinti ribelli, che non troverebbero in lui un duro, pronto a vendicarsi di loro, ma un ampio spazio accogliente, quello proprio di un padre e di una madre, che li ha generati a Cristo con il Vangelo (1Cor 4,15). Una larghezza di cuore, che Paolo confronta, non senza una larvata polemica, con il viscerale risentimento che, invece, i Corinti, sobillati dagli avversari di Paolo, nutrono nei suoi confronti e di cui sono prigionieri in loro stessi: “vi trovate in un posto angusto nelle vostre viscere” (6,12b).

Da qui l'esortazione, che sconfina in una sorta d'invocazione, che si fonda sullo stesso esempio di Paolo verso i Corinti: “Fateci posto (nel vostro cuore)” (7,2a). Un'esortazione, che, più che un minaccioso comando, suona come un invito a deporre le armi e ad allargare le proprie braccia per un abbraccio di comunione fraterna, sgombera da risentimenti o malevoli interpretazioni o voglia di vendetta o di punizione. Infatti, precisa Paolo: “Non dico (questo) a (vostra) condanna; infatti, (vi) ho (già) detto prima che siete nei nostri cuori, per morire insieme e (per) vivere insieme”. Si tratta, quindi, di una amorosa sollecitazione, finalizzata alla riconciliazione reciproca.

Con 7,4 torna il tema della “parrhs…a” (parresia), della libertà di parola, che Paolo si prende nei confronti dei Corinti, che in qualche modo preannuncia il tenore della lettera “scritta tra molte lacrime”: un franco confronto di Paolo con la sua comunità e con gli stessi suoi avversari, che si svolgerà senza giri di parole, ma facendo prevalere la verità che nasce dalla sincerità di un cuore di padre e di madre, che ama i suoi figli, sia pur redarguendoli con severità, ma sempre nella verità e nella giustizia, perché, come attesta il v.7,4b: “ (ho) molto vanto per voi; sono ripieno di consolazione, sovrabbondo di gioia in ogni nostra tribolazione”. Un padre ed una madre che sono, quindi, pronti a soffrire per questi propri figli discoli e indisciplinati, perché sanno che, comunque, la pasta è buona e promette bene, (7,7), ricompensandoli così con ogni consolazione.

La lettera scritta tra molte lacrime: un'appassionata autodifesa di Paolo (10,1-12,21)

Note generali

In 2,4 Paolo richiamava alla sua comunità una lettera, che egli le scrisse “tra molte lacrime”, non per accusarla o per farla sentire in colpa, ma per farle capire quanto e quale amore avesse nel suo cuore per lei, la quale cosa sarà testimoniata in 11,2.11 e 12,15: “Infatti con molta sofferenza e angustia di cuore vi scrissi tra molte lacrime, non perché siate tristi, ma affinché conosciate quale amore ho in modo assai smisurato per voi”. Una lettera, che non ci è giunta come tale, ma che sembra essere stata accorpata in questa 2Cor e, considerati i toni apologetici e polemici, incentrati sulla persona di Paolo e la sua autorità apostolica, questa lettera sembra essere quella contenuta nell'ampia sezione circoscritta dai vv.10,1-12,21, dove si sente tutta la passionalità di Paolo, la sua sofferenza, la sua tristezza, l'ironia, la polemica, accompagnate anche da un atteggiamento di sfida, che egli tiene nei confronti dei suoi avversari, sia questi intracomunitari che extracomunitari. Sentimenti questi che sono la naturale reazione di un grande amore frustrato dall'amata Corinto, che lo preferisce ad altri, primi venuti (11,4), senza considerare il trasporto apostolico e donativo di Paolo, che di questa comunità si sente padre e madre (1Cor 4,15). La chiesa di Corinto è sua, perché lui l'ha generata con l'annuncio del Vangelo (1Cor 4,15b), per presentarla quale vergine sposa a Cristo (11,2).

Una lettera che scaturisce da un animo profondamente ferito e che in alcuni passaggi, in particolar modo nel cap.10, risulta essere di difficile comprensione sia perché allude vagamente ad eventi di cui solo i Corinti e Paolo erano a conoscenza; sia perché l'animo agitato di Paolo gli ha probabilmente tolto una certa lucidità interiore. La lettera, infatti, è stata scritta subito dopo il suo rientro ad Efeso da Corinto, dove è stato pubblicamente offeso in un'assemblea e screditato nella sua autorità apostolica (10,1.10; 11,6a). Il suo animo, quindi, doveva essere molto turbato, profondamente amareggiato e depresso.

A fianco di questa sezione squisitamente apologetica, così agitata e tutta dedicata ad una aggressiva difesa di Paolo e del suo ministero apostolico, si affiancherà un'altra lettera apologetica, quella che viene considerata l'originaria Seconda lettera ai Corinti (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13), dove con toni pacati e tranquilli Paolo difenderà il suo ministero apostolico, creando un parallelo tra l'antico ministero mosaico e quello di Cristo, che ha sostituito il precedente. Ministero di cui Paolo è stato insignito da Cristo stesso (2Cor 13,10; Gal 1,1.11-16a). Considerati gli opposti toni e le diverse modalità di affrontare uno stesso tema, la difesa del proprio ministero apostolico, è da pensare che le due sezioni siano state scritte in tempi e in situazioni completamente diverse, come il lettore ormai già ben conosce.

Quanto alla struttura di questa lettera scritta “tra molte lacrime” è difficile stabilirne una, poiché questa è una lettera passionale, un travolgente torrente in piena, scritta da un Paolo interiormente esagitato, scarsamente lucido, che cerca, più che convincere e motivare, di dare sfogo alla sua grande amarezza e frustrazione interiore per il tradimento subito dalla sua amatissima comunità di Corinto.

Tuttavia si possono, in linea di massima, definire delle aree tematiche, così che il cap.10 appare come dedicato interamente agli avversai di Paolo, sorti all'interno della stessa comunità. Credenti che si vantavano di “essere di Cristo” (10,7). Un gruppo di persone che, assieme ad altri gruppi, già era comparso in 1Cor 1,12: “Ora dico questo, poiché ciascuno di voi dice: <<Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo”, benché già allora abbia espresso dei dubbi sulla reale esistenza di un simile gruppo, che tuttavia sembra qui ricomparire. Paolo li chiama direttamente in causa (10,7). Questo gruppo sembra essere, comunque, composto da credenti che probabilmente si ritenevano spiritualmente evoluti, superiori a Paolo, forse perché hanno avuto un qualche rapporto diretto con Gesù (Gv 7,35; 12,20-22) o perché discepoli di suoi seguaci e diretti testimoni o perché si ispiravano al suo insegnamento o al suo originale movimento non istituzionalizzato e di libero pensiero, così che ritenevano di poter vantare una qualche posizione di privilegio non solo nei confronti dei neoconvertiti di Corinto, ma anche nei confronti dello stesso Paolo, che denigravano sia per la pochezza del suo aspetto (10,1b.10) che della sua scadente eloquenza (11,6a). Rispetto a questi credenti, che si ritenevano privilegiati (10,12), Paolo doveva essere percepito come un ultimo venuto nei confronti del quale fanno valere la loro titolatura e la loro posizione elitaria (10,12), a sue spese, prima che questi li possa scalzare dalla loro posizione con la sua predicazione e le sue pretese.

Un secondo gruppo di avversari di Paolo compare nei capp.11-12. Si tratta di personaggi che non appartengono alla comunità di Corinto, ma vengono da fuori, come sembra suggerire 11,4a: “Se, infatti, chi viene predica un altro Gesù. Si tratta certamente di giudeocristiani giudaizzanti (11,22), cioè di cristiani provenienti dal giudaismo, ma che ancora convivevano con la Legge mosaica e tutte le sue prescrizioni, subordinando la salvezza portata da Cristo alla sottomissione a Mosè, facendosi circoncidere (At 15,1). Si tratta quasi certamente di predicatori itineranti, che si dichiaravano ministri di Cristo (v.23a), probabilmente provenienti dalla giudaizzante chiesa madre di Gerusalemme, e che qui Paolo definisce ironicamente “Super apostoli”, ma che in realtà sono “falsi apostoli” e “operai fraudolenti” (11,13), perché approfittano della loro posizione per angariare e derubare la comunità di Corinto, campando alle sue spalle (11,20).

Una lettera, questa scritta “tra molte lacrime”, così come del resto l'intera canonica 2Cor, che appare come una sorta di autodifesa di Paolo dai suoi denigratori, ma che in realtà per Paolo è una difesa del suo Vangelo, che gli è stato rivelato da Dio stesso (Gal 1,11-12), di cui egli si sente depositario e responsabile e per questo investito di autorità apostolica da Dio stesso e da Gesù Cristo (Gal 1,1.15-16). Non solo, ma Paolo sente che la sua vita non gli appartiene più e che in lui vive ed opera Cristo stesso al quale si sente crocifisso e partecipe delle sue sofferenze (Gal 2,20). Vi è, quindi, una profonda identificazione tra Paolo e Cristo, tra la sua persona e quella di Cristo, tra il suo annuncio e quello di Cristo. Paolo ha piena coscienza di tutto questo e, di conseguenza, non può permettere che la sua persona e la sua autorità vengano in qualche modo aggredite e denigrate, poiché non è Paolo che viene colpito o la sua dignità di apostolo, ma Cristo stesso e il suo Vangelo, con cui Paolo si identifica.

Va sempre tenuto presente questo quadro generale, che si ritroverà parimenti nella lettera ai Galati (56-57 d.C.), scritta poco tempo dopo questa 2Cor (55-56 d.C.), scritte entrambe da Filippi, e dove si rincontreranno gli stessi giudeocristiani giudaizzanti che, approfittando dell'assenza di Paolo, si introducono nelle comunità della Galazia a predicare un vangelo (Gal 1,6-9) che più che di Cristo è filomosaico, snaturando la freschezza e la novità dell'annuncio del Vangelo, corrompendo l'evento salvifico Gesù e il suo messaggio, proveniente direttamente dal Padre, di cui è rivelazione.

Il commento di questa lettera scritta “tra molte lacrime” (10,1-12,21) verrà fatto, come per gli altri commenti, affrontando capitolo per capitolo, cercando di individuare in ogni capitolo se non la struttura, almeno lo svolgersi logico del pensiero o dell'argomento.


Commento ai capp. 10,1 - 12,21




Difesa dagli avversari interni alla comunità (10,1-18)

Testo a lettura facilitata

Un'esortazione ammonitrice (vv.1-3)

1- (Pertanto), ora, io stesso, Paolo, vi esorto per la mitezza e la bontà di Cristo, (io) che, faccia a faccia in mezzo a voi (sono) misero, ma, assente, sono coraggioso verso di voi, (1Cor 2,1-5)
2- (vi) prego, quando sarò presso (di voi), di non (spingermi) ad essere ardimentoso con quella sicurezza con la quale conto di ardire contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne.
3- Poiché camminiamo ne(lla) carne, ma non militiamo secondo (la) carne;

Le armi di Paolo sono quelle di Dio (vv.4-6)

4- le armi della nostra milizia, infatti, non (sono) carnali, ma potenti per Dio per la distruzione (delle) fortezze, distruggendo (i) ragionamenti
5- e ogni esaltazione che si innalza contro la conoscenza di Dio e riducendo in cattività ogni progetto all'obbedienza di Cristo,
6- ed essendo pronti a punire ogni disobbedienza, allorché sia stata completata la vostra obbedienza.

Paolo e la pretesa dei suoi avversari (v.7)

7- Guardate in faccia le cose. Se qualcuno è persuaso (in) se stesso di essere di Cristo, consideri nuovamente in se stesso, che come egli (è) di Cristo, così anche noi (lo siamo).

L'autorità di Paolo è quella di Dio per la salvezza e non per la rovina (vv.8-11)

8- [E] se, infatti, vantassi qualcosa di più circa la nostra autorità, che il Signore (ci) diede per la vostra edificazione e non per la (vostra) distruzione, non mi vergognerei.
9- (Vi dico questo) affinché non sembri (che io voglia) spaventarvi per mezzo delle lettere.
10- Perché le lettere, dicono, (sono) veementi e autorevoli, ma la presenza del (suo) corpo (è) malaticcia e (la sua) parola disprezzabile.
11- Costui consideri questo, quali siamo con la parola per mezzo delle lettere, quando siamo assnti, tali anche (saremo) con i fatti quando siamo presenti.

Il vanto di Paolo non si fonda su pretese umane, ma su Dio (vv.12-18)

12- Infatti, non osiamo annoverarci o confrontarci con alcuni di quelli che si raccomandano da se stessi, ma essi giudicando se stessi in loro stessi e paragonando se stessi in loro stessi, non comprendono.
13- Ora noi non ci glorieremo per le cose smisurate, ma secondo la misura della regola, la cui misura Dio ci ha attribuito, (quella di) giungere anche fino a voi.
14- Infatti non estendiamo noi stessi oltre il limite, come non giungessimo a voi, infatti siamo giunti anche fino a voi con il vangelo di Cristo,
15- infatti non ci siamo vantati oltre misura con (le) altrui fatiche, ma avendo (la) speranza che, aumentando la vostra fede, tra di voi fossimo magnificati in sovrabbondanza secondo la nostra regola
16- (quella di) evangelizzare al di là di voi, senza vantarci, secondo la regola altrui, per le cose già preparate (da altri).
17- “Colui che si vanta, si vanti nel Signore”.
18- Infatti, non colui che raccomanda se stesso è approvato, ma colui che il Signore raccomanda.

Note generali

Dopo aver riscaldato i cuori e teso paternamente la mano alla sua comunità di Corinto con il preambolo 6,11-12+7,2-4, avvertendo che, comunque, le parlerà liberamente, con franchezza e senza tanti giri di parole (6,11a; 7,4), come possono fare un buon padre ed una buona madre di famiglia nei confronti dei propri figli (1Cor 4,15), verso i quali nutrono un grande amore (11,11), sebbene discoli, Paolo, ora, si rivolge ai Corinti con questo cap.10, con autorevole affetto, sull'esempio della mitezza e della bontà di Cristo, parlando qui, si, alla sua comunità in senso generale, ma con riferimento a due particolari tipi di avversari, che si annidano in essa sobillandola: a) quelli che lo accusano di muoversi con logiche umane (v.2b); b) quelli che, ritenendosi una privilegiata élite di credenti, si vantano di “essere di Cristo” (v.7), denigrando Paolo nella sua persona, accusandolo di essere veemente e autoritario nelle sue lettere, ma, in presenza, malandato di salute e privo di eloquenza (v.10), intaccando così anche la sua autorità apostolica.

Con la prima categoria di avversari, Paolo risponde di militare nella carne, ma non secondo le logiche della carne (v.3), poiché egli usa le irresistibili armi di Dio (vv.4-6). Quanto alla seconda categoria, egli fa presente che se essi si ritengono di Cristo, pure lui lo è (v.7b) e può ben vantarsi, senza alcuna esagerazione in questo, della sua autorità e della sua missione, poiché entrambe gli provengono da Dio (vv.12-18).

Benché in questo cap.10 non esista una precisa struttura letteraria e qui il pensiero di Paolo non brilli particolarmente per chiarezza, tuttavia si può seguirne in qualche modo lo sviluppo logico, che propongo qui di seguito e che ho già anticipato nella sezione del “Testo a lettura facilitata”:

  1. Un'esortazione ammonitrice (vv.1-3);

  2. Le armi di Paolo sono quelle di Dio (vv.4-6);

  3. Paolo e la pretesa dei suoi avversari (v.7);

  4. L'autorità di Paolo è quella di Dio per la salvezza e non per la rovina (vv.8-11);

  5. Il vanto di Paolo non si fonda su pretese umane, ma su Dio (vv.12-18).


Commento al cap.10,1-18

Un'esortazione ammonitrice (vv.1-3)

Benché il testo greco non lo contenga né lo sottintenda, ho aperto il v.1 con un “Pertanto” posto tra parentesi, in quanto si tratta di una mia aggiunta per collegare il cap.10 al preambolo 6,11-12+7,2-4, dandone in tal modo una sequenzialità logica, rendendo l'aggancio tra il preambolo e la lettera più morbido. Infatti, la sezione 10,1-12,21, che forma la lettera scritta “tra molte lacrime”, è stata certamente manipolata nella sua apertura dal redattore della canonica 2Cor per poterla inserire nel suo contesto, per cui si è reso necessario un piccolo intervento letterario, per rendere meno traumatico il suo inizio.

Il v.1 si apre con un Paolo che s'impone in prima persone, dando il senso di una inequivocabile autorità e autorevolezza, che vengono impresse all'intera lettera: “ora, io stesso, Paolo”. L'impatto è duro e Paolo cerca subito di smorzare i toni della sua focosità, provocata dal un profondo senso di frustrazione per le angherie e le villanie subite dalla sua amata comunità durante la sua improvvisata seconda visita. Ad essa si rivolge esortandola “per la mitezza e la bontà di Cristo”, dove quel “per” corrisponde al greco “di¦” (dià) + genitivo, il cui senso è duplice: “per mezzo di”, nel quale caso “la mitezza e la bontà di Cristo” sono lo strumento con cui Paolo si rivolge alla sua comunità, ma che non corrisponde proprio al suo vero stato d'animo, che probabilmente opterebbe per la verga (1Cor 4,21a) per punire la loro disobbedienza (v.6), lasciando in qualche modo intravvedere come i mezzi, che Dio gli ha dato, sono finalizzati a distruggere ogni ribellione (v.4). Ma il “di¦” (dià) + genitivo dice anche un modo di essere e un modo di esprimersi, nel quale caso Paolo nel suo esortare i Corinti si rivolge a loro assumendo in se stesso gli stessi sentimenti che sono propri di Cristo e di cui Paolo si sente rivestito (Gal 2,20), in primis, quelli della “mitezza e della bontà”. È pensabile che Paolo abbia optato per questa seconda soluzione, considerata l'attestazione di amore che egli fa alla sua comunità: “Per che cosa? Perché non vi amo? Dio sa (quanto)!” (11,11).

Ma dopo questo breve intermezzo dai toni smorzati (v.1a), Paolo prosegue con una fine quanto aggressiva ironia, richiamandosi in qualche modo al v.10, dove lo si accusa di essere autoritario nelle lettere, ma di presenza fragile e di poco conto la sua loquela: “(io) che, faccia a faccia in mezzo a voi (sono) misero, ma, assente, sono coraggioso verso di voi” (v.1b) e, quindi, rinfacciando ai Corinti in tal modo le loro stesse accuse e mettendoli in guardia dallo sfidarlo, contando sulla sua debolezza, perché sa anche tirar fuori gli artigli al momento opportuno.

Non va tuttavia escluso che con questa battuta Paolo possa fare riferimento effettivamente ai suoi sentimenti che già aveva espresso in 1Cor 2,1-5, dove egli ricorda il suo stato d'animo nella sua prima venuta presso i Corinti: “Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione” con discorsi non fondati sulla sapienza umana, perché la loro fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2,5). Uno stato d'animo comprensibile, perché Paolo era reduce da un sonoro fallimento nella sua predicazione ad Atene (At 17,19-18,1).

Un'ipotesi questa che, tuttavia, a mio avviso, non va presa in considerazione, poiché il contesto qui è completamente diverso dal primo incontro con i Corinti, quello della fondazione della loro comunità. Lo lascia intendere il v.2 dove Paolo supplica i Corinti a non provocarlo, perché in tal caso saprà mostrare tutta la sua veemente autorità apostolica, lasciando intravvedere sotto la sua modestia una grande forza spirituale e morale insospettabile. Quell'autorità che egli intende usare, ora, contro quei tali che lo accusano di “camminare secondo la carne”. Si tratta di una sorta di ultimatum verso questi tali che lo stanno denigrando, perché nel suo rapportarsi a loro “si mostra misero”, cioè umanamente con fare umile e dimesso e con una loquela certamente non da retore e per niente avvincente (11,6a). Il comportarsi secondo la carne, infatti, qui significa muoversi secondo le fragilità della carne, che in 1Cor 2,1-5 consistevano nella trepidazione, nel timore di non riuscire nella sua predicazione, nell'usare un linguaggio ben lontano da quello che i Corinti erano abituati a sentire dai loro filosofi. Una fragilità della carne, che viene contestata a Paolo e che è qui riassunta nel termine greco “tapeinÕj” (tapeinòs) (v.1), il cui significato è umile, modesto, sottomesso, misero, povero d'aspetto, di poco conto. Una definizione che risuona in qualche modo anche nel suo stesso nome latinizzato “Paulus7, che significa “piccolo, di poco conto”.

Questo, dunque, il rimprovero mosso a Paolo, che predica il “Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23), con un linguaggio povero per evitare che la fede dei Corinti fosse basata più sulla sapienza umana che sulla potenza di Cristo (1Cor 2,5). Paolo, quindi, non usa la ricchezza della sua cultura e del suo sapere per predicare Cristo, ma lo annuncia nella propria fragilità umana, perché sia Cristo ad operare con la sua potenza nei Corinti. Paolo, pertanto, non vuole offuscare la potenza di Cristo con la sua persona e con la sua cultura, quasi che sia lui il fautore della fede dei Corinti (1,24a). Ed è proprio questo mettersi da parte di Paolo per lasciare spazio a Cristo, che alcuni della comunità di Corinto gli contestano, probabilmente i più acculturati, quelli che si sentivano sapienti e che frequentavano le alte scuole di filosofia di Corinto ed erano quindi abituati alla magniloquenza dei loro filosofi, che probabilmente con autorità e forse con arroganza predicavano le loro filosofie, facendosi mantenere dai loro discepoli. Niente di tutto questo era presente in Paolo (11,7), perché non fosse resa vana la croce di Cristo: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1Cor 1,17).

Paolo, pertanto, risponde a questi suoi avversari che egli vive nella carne in quanto essere umano, ma non si muove secondo le logiche della carne, che lo vorrebbero abile retore, propugnatore di nuove filosofie, con una personalità emergente, affascinante, che sappia imporsi, così da conquistare i cuori e le menti dei Corinti. Questa è la logica di chi lo accusa di pochezza umana, abituato a frequentare le scuole di filosofia o dei sapienti del momento, ma non di Paolo, che, invece, affida gli effetti della sua predicazione alla potenza di Dio, che sconfigge ogni mente ed ogni spirito che gli si oppone.

Le armi di Paolo sono quelle di Dio (vv.4-6)

Se per questi suoi avversari ciò che conta è l'apparire umano, altro lo è per Paolo, che esibisce ai suoi avversari quali sono le sue armi con le quali sta combattendo la sua battaglia di conquista: la sua predicazione, che annuncia e rende noto il suo Vangelo, che non ha appreso dagli uomini, ma, come per rivelazione, da Gesù Cristo stesso (Gal 1,11-12). Una parola, quindi, quella di Paolo, ripiena dello Spirito di Dio, che sa conquistare e trasformare i cuori e le menti di chi lo accoglie. Come dire che nella parola, sia pur umile e retoricamente non apprezzabile di Paolo, opera la stessa potenza di Dio, che distrugge le “fortezze”, cioè sistemi di pensiero apparentemente indistruttibili, inconfutabili e inespugnabili e con loro tutti i sofismi che li reggono e che si oppongono all'annuncio del Vangelo di Cristo e all'azione salvifica di Dio.

Un pensiero non nuovo questo e che già era apparso in 1Cor 1,19-21, dove Paolo lancia la sua sfida proprio contro i sofisti Corinti, che si ritenevano sapienti e dotti: “È scritto, infatti: <<Distruggerò la sapienza dei sapienti e l'intelligenza degli intelligenti respingerò>>. Dov'(è il) sapiente? Dove (lo) scriba? Dove (il) disputante di questo secolo? Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del mondo? Poiché, infatti, il mondo, nella sapienza di Dio, non conobbe Dio per mezzo della (propria) sapienza, piacque a Dio, per mezzo della stoltezza della predicazione, salvare coloro che credono”.

In buona sostanza è questa l'arma potente di Paolo: la “stoltezza” e la “pochezza” della sua predicazione, “poiché la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio più forte degli uomini” (1Cor 1,25). Così che questa potenza della “debolezza” di Dio è capace di ridurre in cattività ogni sistema filosofico, cioè renderlo inefficace, poiché di fronte al linguaggio della croce, che sconfigge ogni logica umana, per quanto agguerrita e indistruttibile, non rimane che deporre le armi del ragionamento e contemplare il progetto salvifico di Dio racchiuso in quello che per la mente umana è semplicemente una sconfitta: la croce. In tal modo la mente umana, intellettualmente onesta e che non si oppone ideologicamente a Dio, è ricondotta in cattività, cioè è costretta a capitolare e a riconoscere la Verità che traluce dalla predicazione del Vangelo di Paolo.

Di conseguenza, conclude Paolo, egli si dichiara pronto ad intervenire anche pesantemente nella comunità: “a punire ogni disobbedienza, allorché sia stata completata la vostra obbedienza”, dove per obbedienza o disobbedienza si intende il conformarsi esistenzialmente o meno del credente al Vangelo predicato da Paolo, così che egli, completata la formazione e il rinsavimento dei Corinti, è pronto anche a punirli severamente, una volta cioè raggiunta una piena maturità cristiana, poiché fino ad oggi Paolo considera i Corinti come dei “carnali” e dei “bambini” quanto a fede, non ancora in grado di comprendere pienamente il messaggio di Cristo da lui predicato nel Vangelo (1Cor 3,1-3).

Paolo e la pretesa dei suoi avversari (v.7)

Con il v.7 Paolo apre un altro fronte di suoi avversari interni, quelli che si dichiaravano di appartenere a Cristo. Come già detto sopra (pag.28), erano questi personaggi che dovevano aver avuto un qualche rapporto diretto con Gesù (Gv 7,35; 12,20-22) o con qualche suo discepolo e/o diretto testimone, per cui si sentivano dei privilegiati e degli spiritualmente evoluti, non soltanto nei confronti dei membri della loro comunità, ma anche dello stesso Paolo, che non vantava un gran che di curriculum, essendo stato anche un acerrimo persecutore dei cristiani (Gal 1,13).

A questi tali Paolo si rivolge richiamandoli alla realtà delle cose, di quelle che sono ora: “Guardate in faccia le cose”. Letteralmente l'espressione dice: “Guardate le cose manifeste” o “le cose presenti”, come dire: “Non andate ad aggrapparvi ad un passato che non c'è più, quello del Gesù della storia, e, invece, guardate qui, ora, al presente le cose per quelle che sono, come queste si siano evolute da allora, dopo la morte e la risurrezione di Gesù, che ha assunto una nuova forma di presenza in mezzo ai suoi”. Quali siano queste cose “presenti” o “manifeste” viene subito detto: Paolo invita questi spiritualisti cristiani, che si sentono dei privilegiati, a considerare come la realtà nel presente è Cristo, cui tutti attingono e di cui tutti condividono la stessa vita. Tutti sono di Cristo e tutti gli appartengono in virtù della fede nell'unico e condiviso Vangelo, dove Cristo vive e si comunica indistintamente a tutti nella sua Parola. Di conseguenza, questi “privilegiati” si stanno vantando di nulla, beandosi soltanto delle loro illusioni, di una perfezione spirituale che risiede solo nelle loro fantasie e nel loro orgoglio.

L'autorità di Paolo è quella di Dio per la salvezza e non per la rovina (vv.8-11)

E proprio per guardare in faccia alle cose, Paolo, dopo aver annichilito le pretese di questi tali che si credevano in modo privilegiato ed esclusivo “essere di Cristo”, mentre in realtà tutti i credenti lo sono, mette avanti, ora, il suo “vanto”, quello di essere stato investito della stessa autorità di Cristo da Cristo stesso. Un potere, precisa, che gli è stato dato non per distruggere, per offendere o per spadroneggiare su di loro, ma per elevarli spiritualmente e condurli a Cristo nella pienezza del loro essere credenti. Un potere, quindi, votato al servizio di Dio e dei Corinti, avuto per servire e non per asservire. Di questo Paolo si vanta e di questo suo vanto non si vergogna, poiché tale vanto non ha radici in se stesso o nella sua presunzione, ma in Cristo, così che, concluderà al v.17, se proprio vuoi vantarti, vantati nel Signore.

Quindi l'autorità di Paolo sugli stessi Corinti proviene da Cristo ed egli opera in nome e per conto di Cristo (5,20). Un'autorità che si manifesta nelle lettere con voce tonante, ma che viene percepita dai Corinti come una sorta di angheria spesa a loro danno, per spaventarli e per sottometterli al suo potere. Infatti, a ben guardare, il tono roboante che emanano le lettere hanno come contropartita un “tapeinÒj” (tapeinós), uno che fisicamente è di poco conto, malaticcio e la cui retorica vale ancora meno. Vi è, quindi, un netto squilibrio tra il tono delle lettere e chi le scrive e questo rende Paolo poco accattivante e per niente credibile.

Da qui il disprezzo nei suoi confronti da parte di alcuni Corinti, che si muovono verso di lui con le stesse logiche con le quali essi si muovono nei confronti dei filosofi, nei quali cercano nuove filosofie, rimanendo ammagliati più dalla loro titolatura che dalla loro conoscenza. Per questo Paolo, ora, aggiusta il tiro, rivolgendosi non più ai Corinti in senso generale, ma alla fonte di queste dicerie sul suo conto, che turbano l'intera comunità. Con il v.11, infatti, Paolo restringe il campo delle sue invettive e punta il dito non più contro i Corinti o un particolare gruppo di persone, ma contro un personaggio ben preciso, che Paolo non cita, relegandolo nell'anonimato, ma che, tuttavia, è ben conosciuto dai Corinti. A costui Paolo si rivolge e ribadisce con tono larvatamente minaccioso la sua autorità che è sempre identica a se stessa sia che egli sia presente sia che sia assente, poiché la sua autorità non nasce dal variare delle apparenze e delle situazioni contingenti, ma risiede in lui stesso ed esprime l'autorità stessa di Cristo, di cui è depositario (5,20).

Costui, pertanto, deve riflettere e saper distinguere l'annuncio del Vangelo dalle filosofie, che, come tutti i Corinti, era solito ascoltare; così come deve saper distinguere i vari predicatori di nuove filosofie, che contano su loro stessi e sulla loro retorica, vantandosi di se stessi per meglio vendersi ai Corinti, da Paolo, la cui autorità non proviene da se stesso, dalla sua prestanza fisica e dalla sua abile retorica, ma da Cristo, che si serve proprio della povertà dei suoi annunciatori e dei suoi rappresentanti, perché proprio da questa povertà si manifesti meglio la sua potenza. E in merito, Paolo arriverà a concludere con un significativo paradosso, compiacendosi proprio di ciò che i Corinti detestano, il suo essere un tapeinÒj” (tapeinós): “Perciò mi compiaccio ne(lle) debolezze, ne(gli) oltraggi, ne(lle) necessità, ne(lle) persecuzioni e ne(lle) angustie (sofferte) a motivo di Cristo. Infatti, quando sono debole, allora sono forte” (12,10).

Il vanto di Paolo non si fonda su pretese umane, ma su Dio (vv.12-18)

Con la pericope vv.12-18 Paolo riprende ed approfondisce il tema enunciato al v.8 dove parla del suo vantarsi (kauc»swmai, cauchésomai) dell'autorità di cui è investito e che gli proviene direttamente da Cristo e posta al suo servizio a beneficio dei Corinti e non a loro detrimento.

Una pericope questa (vv.8.12-18) caratterizzata dalla presenza del verbo “kaucîmai” (caucômai, mi vanto) che compare sei volte e si colloca all'interno della più ampia sezione 10,8-12,9, dove il verbo è disseminato, qua e là, per complessive diciassette volte, e ne costituisce il cuore, poiché l'intera sezione gira e si sviluppa attorno a questa pericope, in un confronto, potremmo dire, all'ultimo sangue tra Paolo e i suoi avversari, sia interni (cap.10) che esterni (capp.11-12) alla comunità di Corinto. Un confronto basato proprio sul vantarsi della propria titolatura.

La ripresa e l'approfondimento del v.8 si snoda su due passaggi:

  1. dapprima Paolo prende le distanze sia dai filosofi che popolano Corinto e che per vendere il proprio sapere esaltano lor stessi; sia da quei “Super apostoli”, di cui tratterrà in modo più esplicito nei capp.11 e 12, dove, suo malgrado, dovrà porre sul tavolo le sue credenziali umane e trascendentali in un confronto diretto con loro. Entrambe le categorie vengono squalificate da Paolo, che le definisce come “persone di scarso intelletto” (v.12), perché non ha senso che uno si vanti da se stesso, poiché in tal caso il suo vanto è inficiato alla radice. Nessuno, infatti, può essere teste e garante di se stesso, in particolar modo nelle cose che riguardano Dio e la fede.

  2. In contrapposizione a questi saccenti, venditori di se stessi e di “sapienza” a buon mercato, Paolo contrappone se stesso, perché lui, lo dirà successivamente, in 2,17, scrivendo la Seconda lettera ai Corinti, quella originale e non canonica8: “Non siamo come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio, ma come dalla sincerità, ma come da Dio, davanti a Dio parliamo in Cristo”. E, infatti, egli si muove secondo “la misura della regola”, cioè secondo il piano predisposto per lui da Dio stesso, che vede Paolo investito della missione salvifica rivolta ai pagani e rivestito per questo dell'autorità stessa di Dio (Gal 1,15-17; 2,7-8). All'interno di questo mandato divino, finalizzato alla salvezza dei pagani, di cui Paolo è depositario, vi sono anche i Corinti (v.13), così che l'aver annunciato il Vangelo a loro non fu un'azione arbitraria di Paolo, per cui Paolo si gloria per se stesso, per aver conquistato i Corinti, spinto da suoi progetti personali e prevaricando altri missionari della Parola, ma Paolo si muove nei confronti dei Corinti secondo il prestabilito piano salvifico di Dio, senza con ciò voler invadere il campo altrui (v.15), poiché i Corinti rientravano nel piano salvifico di Dio affidato a Paolo. Di questo Paolo si vanta: non di aver conquistato i Corinti, mettendo in cattiva luce altri e approfittando del loro lavoro, ma di essersi mosso secondo la “misura della regola”, cioè secondo la volontà di Dio. In questo sta il vanto di Paolo. Pertanto, conclude Paolo, se proprio qualcuno vuol vantarsi si vanti nel Signore (v.17)9, poiché il vanto, per essere credibile, deve radicarsi non nel proprio Ego, che cerca la propria autoaffermazione a spese di altri, ma nel Signore, che in Paolo sta realizzando il suo progetto di salvezza destinato anche ai pagani (v.18), tra i quali vi sono anche loro, i Corinti. Pertanto, le autentiche credenziali del vero apostolo non le fornisce l'apostolo stesso a suo favore, ma Dio, di cui l'apostolo è servo ed è chiamato e inviato da Dio stesso e rivestito della sua autorità, che prescinde dalle sue apparenze e dalla sua titolatura. Se quindi, i Corinti cercano l'autenticità dell'apostolicità di Paolo (13,3a) non la devono cercare in lui, ma in Dio.

Contro gli avversari che provengono da fuori della comunità: i super apostoli (capp.11-12)

Testo a lettura facilitata:

la titolatura (11,1-33)

Preambolo al confronto: un'ironica invocazione di tolleranza (vv.1-4)

1- Oh se mi tolleraste un qualche poco di follia; ma, certo, mi tollerate.
2- Vi cerco, infatti, con ardore, con il trasporto ardente di Dio, poiché vi ho uniti ad un unico uomo (come) una vergine casta da presentare a Cristo;
3- ma temo che, come il serpente ingannò Eva con la sua astuzia, così si guastino i vostri pensieri (allontanandosi) dalla (loro) sincerità [e purezza] verso Cristo.
4- Se, infatti, chi viene predica un altro Gesù, che non abbiamo predicato; o ricevete un altro spirito, che non avete ricevuto; o un altro vangelo, che non avete ricevuto, (voi lo) tollerate favorevolmente.

Paolo apre il confronto con i suoi avversari: le sue “colpe” (vv.5-15)

5- Ritengo, infatti, di non essere per niente di meno di (questi) apostoli fuori misura.
6- Ma anche se (sono) inesperto (quanto) alla parola, ma non (quanto) alla conoscenza, ma in tutto avendo(lo) dimostrato in tutte (le occasioni) a voi.
7- O commisi colpa umiliando me stesso, affinché voi foste innalzati, poiché vi abbiamo annunciato gratuitamente il vangelo di Dio?
8- Ho spogliato altre chiese avendo preso un compenso in viveri per il vostro servizio,
9- e trovandomi presente presso di voi e (pur) essendo in uno stato di privazione, non fui di peso a nessuno; infatti alla mia privazione hanno supplito i fratelli venuti dalla Macedonia, e in tutto senza peso per voi ho conservato e conserverò me stesso.
10- La verità di Cristo è in me, che questo vanto non sarà impedito nei miei confronti nelle regioni dell'Acaia.
11- Per che cosa? Perché non vi amo? Dio sa (quanto)!
12- Questo faccio, e farò, per estirpare il pretesto di quelli che vogliono un pretesto, affinché siano trovati come anche noi in ciò che si vantano.
13- Infatti, questi tali (sono) falsi apostoli, operai fraudolenti, che si sono trasformati in apostoli di Cristo.
14- E non (ci) si stupisca! Infatti, lo stesso satana si trasforma in angelo di luce.
15- Pertanto non è gran cosa se anche i suoi ministri si trasformano come ministri di giustizia; la cui fine sarà secondo le loro opere.

La stoltezza del vantarsi secondo la carne (vv.16-21)

16- Dico di nuovo, che nessuno ritenga che io sia uno stolto; se no anche come stolto accettatemi, affinché anch'io mi glori un qualche poco.
17- Dico questo, non secondo il Signore parlo, ma come (chi è) ne(lla) stoltezza, con questo fondamento di vanto (parlo).
18- Poiché molti si vantano secondo la carne, anch'io mi vanterò,
19- Infatti, (voi) sopportate volentieri gli stolti, essendo assennati;
20- infatti sopportate se qualcuno vi sottomette, se qualcuno (vi) divora, se qualcuno s'impadronisce (dei vostri beni), se qualcuno si muove con orgoglio (nei vostri confronti), se qualcuno vi percuote in faccia.
21- (Lo) dico con vergogna, come che noi fossimo stati deboli. Qualora qualcuno ha in questo l'ardire, (lo) dico con stoltezza, anch'io oso.

I crediti vantati da Paolo e dai suoi avversari (vv.22-28)

22- Sono Ebrei? Anch'io (lo sono). Sono Israeliti? Anch'io (lo sono). Sono seme di Abramo? Anch'io (lo sono).
23- Sono ministri di Cristo? Dico vaneggiando, io ben di più: molto di più ne(lle) fatiche, molto di più ne(lle) prigionie, in oltre misura ne(elle) percosse, molte volte ne(i) pericoli di morte,
24- Dai Giudei cinque volte presi quaranta (colpi) meno uno,
25- tre volte fui battuto con la verga, una volta fui lapidato, tre volte naufragai, ho fatto un giorno ed una notte in fondo al mare;
26- molte volte in viaggi, in pericoli di fiumi, in pericoli di ladri, in pericoli da parte dei miei connazionali, in pericoli dai pagani, in pericoli in città, in pericoli nel deserto, in pericoli nel mare, in pericoli nei falsi fratelli,
27- in travaglio e in angustia, spesso in insonnie, in fame e in sete, spesso in digiuni, nel freddo e in nudità;
28- a parte, inoltre, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese.

La forza di Paolo è nella sua debolezza (vv.29-33)

29- Chi è debole e (io) non sia debole? Chi si scandalizza e io non brucio?
30- Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza.
31- Dio e Padre del Signore Gesù Cristo, egli che è benedetto nei secoli, sa che io non mentisco.
32- A Damasco l'etnarca del re Areta sorvegliava la città (dei) Damasceni (per) prendermi,
33- e attraverso una finestra con un cesto fui calato lungo un muro e scampai dalle sue mani.


Note generali

Con il cap.10 Paolo aveva affrontato i suoi avversari sorti all'interno della comunità, che si vantavano di “essere di Cristo”, probabilmente credenti elitari, che in qualche modo si collegavano al Gesù della storia e al suo pensiero storico e accusavano Paolo, da un lato, di “camminare secondo la carne”, cioè mostrandosi fragile nel suo aspetto esteriore, considerata la sua pochezza sia fisica che retorica, di non avere, quindi, quella autorevolezza e quella credibilità che, invece, dovrebbe avere un vero apostolo, un inviato da Dio; dall'altro, all'incirca sulla stessa posizione, altri ancora lo accusavano di avere una voce autoritaria e minacciosa, quasi spaventando le persone, nelle lettere, ma in presenza mostrava tutta la sua debolezza. In entrambi i casi erano il suo aspetto esteriore e la modestia del suo linguaggio, ben lontano dalla retorica e dai sofismi a cui erano abituati i Corinti con i loro filosofi, che venivano criticati in Paolo.

Nei capp.11 e 12 Paolo, invece, affronta altri avversari, che si erano infiltrati nella sua comunità, rivoltandogliela contro. Probabilmente predicatori itineranti, quasi certamente giudeocristiani giudaizzanti, che si vantavano di appartenere al popolo ebraico, il popolo eletto da Dio, discendenza di Abramo, cui erano legate le promesse di salvezza (11,22), e si presentavano con lettere di raccomandazione, che attestavano la loro attendibilità e la loro autorità (3,1); lettere di raccomandazione o credenziali che li collegavano probabilmente alla stessa giudaizzante chiesa madre di Gerusalemme; gente abile, certamente di buona retorica (11,6a), che vantando se stessi (5,12b), approfittavano della loro posizione per angariare e sfruttare la comunità di Corinto (11,20), ritorcendola contro Paolo, che mai si era preoccupato di titolature, di cultura o di abilità. Egli, infatti, venne in mezzo ai Corinti “in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2,3-5)”. Prioritario era per Paolo l'annuncio del Vangelo di Cristo e di un Cristo crocifisso (1Cor 1,17), mettendo sempre davanti a se stesso il suo Vangelo, muovendosi sempre secondo le logiche di Dio, “il quale ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1Cor.1,28-29), arrivando paradossalmente a vantarsi della sua debolezza, poiché da questa traspaia ancor più evidente la potenza di Dio (12,10).

Posizioni e comprensioni della propria missione, quindi, diametralmente opposte e contrapposte tra loro, quella di Paolo e quella dei sedicenti “Super apostoli”, che si dichiaravano probabilmente “apostoli e operai di Cristo”, ma che erano soltanto “falsi apostoli, operai fraudolenti, che si sono trasformati in apostoli di Cristo” (11,13).

Il cap.11 affronterà, pertanto, gli avversari esterni di Paolo sulla questione delle titolature e delle credenziali, aspetti più umani e burocratici riguardanti la missione e l'autorità apostolica; criteri che che questi predicatori itineranti vantavano a proprio favore e contro Paolo; mentre il cap.12 li affronterà sugli aspetti più spirituali, che sconfinavano nel soprannaturale, come le visioni e le rivelazioni (12,1) o segni portentosi e miracolosi legati in qualche modo al proprio essere apostoli (12,12).

Quanto alla struttura del cap.11, questa è difficilmente individuabile, poiché qui Paolo parla a ruota libera, giocando molto sull'ironia. Tuttavia si possono seguire le tappe dello svolgersi logico del suo ragionamento, che qui di seguito propongo e che riprende lo schema della sezione “Testo a lettura facilitata”:

  1. Preambolo al confronto: un'ironica invocazione di tolleranza (vv.1-4);

  2. Paolo apre un ironico confronto con i suoi avversari: le sue “colpe” (vv.5-15);

  3. La stoltezza del vantarsi secondo la carne, una vergogna per i Corinti (vv.16-21);

  4. I crediti vantati da Paolo e dai suoi avversari (vv.22-28);

  5. La forza di Paolo è nella sua debolezza (vv.29-33).


Commento al cap.11,1-33

Preambolo al confronto: un'ironica invocazione di tolleranza (vv.1-4)

Il cap.10 terminava con Paolo che si vantava “secondo la misura della regola” stabilitagli da Dio stesso (10,13), cioè la regola della volontà di Dio entro cui Paolo e la sua missione devono muoversi per realizzare il piano di salvezza di Dio, esteso per suo mezzo a tutte le genti (Gal 1,15-16; 2,2.8-9), così che Paolo non intende vantarsi oltre questa misura, ma preferisce vantarsi non di se stesso e in se stesso come i suoi avversari (10,12), ma “nel Signore”, cioè il vanto che gli viene dal compiere la sua volontà, muovendosi all'interno della sua volontà senza andare oltre a questa, ed essere preferibilmente “raccomandato” da Lui piuttosto che da altri uomini (10,17-18).

Ora Paolo con questo cap.11 e ancor più con il 12 intende scostarsi da questa “misura della regola”, che è anche regola del buon senso e d'intelligenza (10,12), mettendosi sullo stesso piano dei suoi avversari, così molto apprezzati dai Corinti, uscendo, così allo scoperto e mettendo sul tavolo quelle stesse credenziali umane e spirituali che i suoi avversari vantavano, innescando così un confronto vincente nei loro confronti: “io ben di più: molto di più” (10,23) di questi “Super apostoli”.

La pericope in esame, vv.1-5, costituisce un'unità letteraria a se stante, circoscritta da un'inclusione data dal verbo “¢nšcw” (anéco, tollero), che ritroviamo due volte al v.1 e una volta al v.4. Il tono del verbo, che caratterizza questa pericope, è canzonatorio ed ironico, e si ripeterà, sempre con tale senso, anche ai vv.19-20. L'ironia qui è molto sottile e, per questo, ancor più mordace, perché sottende l'intero confronto tra Paolo e i suoi avversari e con questi anche gli stessi Corinti, che si muovono ancora in modo carnale (1Cor 3,1-3) e, quindi, ancora ben lontani dal comprendere il loro nuovo stato di vita e le verità su cui esso poggia.

Una pericope questa importante, perché spiega il motivo che spinge Paolo alla “follia” del confronto su di un piano meramente umano con i suoi avversari a partire da 11,21 fino a tutto i cap.12, benché egli aborrisca tutto questo, ritenendolo una stoltezza.

Il cap.11 si apre con un'invocazione, che Paolo rivolge ai Corinti ed è quella di sopportare la sua follia o stoltezza (¢frosÚnhj, afrosínes), termine che ricorrerà ancora ai vv.17.21, dando il senso all'intero vantarsi di Paolo, che si pone sullo stesso piano dei suoi avversari, ma che nel contempo si riversa, proprio per questo, su di loro e sugli stessi Corinti: sono loro i veri folli e i veri stolti, che poggiano per la loro missioni su sicurezze umane, anziché su Dio, sentendosi più inviati dagli uomini che da Dio.

Ma che cos'è per Paolo la follia o stoltezza? È il muoversi secondo le logiche umane (vv.17-18), quelle stesse logiche con cui si muovono i suoi avversari, sostenuti e seguiti dai Corinti, coinvolti, pertanto, nella medesima stoltezza. Follia e stoltezza perché questo loro modo di vantarsi si pone fuori dalla “misura della regola” stabilita da Dio, secondo il suo piano salvifico, affidato all'uomo, il quale ne approfitta per trarre vantaggi personali: “infatti sopportate se qualcuno vi sottomette, se qualcuno (vi) divora, se qualcuno s'impadronisce (dei vostri beni), se qualcuno si muove con orgoglio (nei vostri confronti), se qualcuno vi percuote in faccia” (v.20), ma ciò che è peggio deformando il Vangelo, predicando un altro Gesù, diverso da quello predicato da Paolo o un altro vangelo, che non hanno ricevuto da lui (v.4). Concetti questi che ritroveremo da lì a poco anche in Gal 1,6-9, dove si presenteranno gli identici problemi dei predicatori giudeocristiani giudaizzanti, che entreranno nelle comunità della Galazia a predicare una salvezza mediata dalla Legge mosaica. Tutto questo per Paolo è “Follia”, poiché l'uomo, cui Dio si è affidato per realizzare il suo piano di salvezza, lo tradisce impossessandosene e rivoltandosi contro di Lui per trarne vantaggi personali. Ed è esattamente ciò che Adamo ed Eva, sospinti dal serpente antico, che qui Paolo raffigura ai suoi avversari (vv.13-15), hanno fatto: Dio aveva affidato loro l'intera sua creazione, dando loro il suo stesso potere su di essa, rivestendoli della sua stessa dignità (Sal 8,4-9) e loro, ritenutisi dio, si sono rivoltati contro Dio per prenderne il posto (Gen 3,5).

Non a caso Paolo citerà al v.3 proprio il dramma dei progenitori di Gen 3,1-7, dramma che si sta riproducendo ora in mezzo agli stessi Corinti. Tutto questo per Paolo è il gioco della follia e della stoltezza, cui Paolo è costretto a partecipare (12,11a), facendosi lui pure stolto e chiedendo ironicamente ai Corinti di tollerarlo in questo, poiché loro sanno sopportare bene chi è stolto essendo loro “assennati” (v.19), così come hanno saputo tollerare molto favorevolmente “chi viene (e) predica un altro Gesù, che non abbiamo predicato; o ricevete un altro spirito, che non avete ricevuto; o un altro vangelo, che non avete ricevuto” (v.4). In altri termini, se i Corinti sopportano gente simile, possono ben sopportare anche lui, che, ora, alla pari di loro, si vanterà come loro.

Il motivo per cui Paolo intende, suo malgrado, partecipare a questo gioco di follia è la gelosia che egli nutre per i suoi Corinti, dei quali è geloso della stessa gelosia di Dio. La ragione di tale gelosia sta nell'aver offerto i Corinti a Cristo, celebrando per mezzo della loro fede e del loro battesimo quel connubio indissolubile, consacrante e santificante, che avviene, similmente, tra una vergine casta e il suo sposo, Cristo (v.2).

Un'immagine, questa del v.2, che Paolo mutua dalle Scritture dove il rapporto tra Israele e Dio è cantato da Is 62,3-5 come quello del giovane sposo con la sua vergine sposa: “Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Ed è proprio per questo stato di cose che Dio si dichiara anche “un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Dt 20,5b), anzi Egli “si chiama Geloso: egli è un Dio Geloso” (Es 34,14b). Ed è di questo tipo di gelosia che Paolo soffre verso i suoi Corinti (v.2) e che lo spinge alla “stoltezza” del confronto umano con i suoi avversari.

Ma dopo questa breve esaltazione mistica, dove si coglie il sentire di Paolo nei confronti della sua comunità, consacrata e santificata nel Signore per mezzo della fede e del battesimo, come una vergine casta con il suo sposo, Paolo torna alla realtà delle cose, denunciando il tradimento dei Corinti nei suoi confronti e ancor prima di Dio; un tradimento che vede operato sullo stesso schema e con la stessa dinamica di quello di Adamo ed Eva, raccontato da Gen 3,1-7, dove con l'astuzia il primordiale serpente, satana, li ingannò, spingendoli a prendere il posto di Dio (Gen 3,4-5). Un'immagine questa che tornerà anche nei vv.13-15, dove viene condannato e bollato come satanico il trasformismo di questi sedicenti apostoli di Cristo, ma che in realtà sono quei satana che stanno insidiando i suoi Corinti, così come il serpente antico ha insidiato i progenitori.

Paolo, quindi, sta illustrando in questa pericope (vv.1-4) le motivazioni della follia che sta per compiere, a cui darà ampio spazio nella sezione 11,21-12,21.

Paolo apre un ironico confronto con i suoi avversari: le sue “colpe” (vv.5-15)

Con questa pericope Paolo apre il confronto con i suoi avversari sul suo metodo missionario, diametralmente opposto e contrapposto al loro: gli avversari puntano sui loro titoli, sulle loro credenziali e sulle loro abilità umane; Paolo punta sulla sua debolezza, perché traspaia da questa la potenza di Cristo (12,9); loro, alla maniera dei filosofi itineranti, si fanno pagare e mantenere dai loro proseliti (v.20; 2,17a); Paolo, per contro, accetta aiuti occasionali di sopravvivenza da altre chiese (vv.8-9) e si mantiene con il lavoro delle proprie mani (1Cor 4,12a; 9,14-15; At 18,3) per non gravare sui Corinti e questo per evitare che il Vangelo di Cristo non venga in qualche modo sminuito o screditato dal suo comportamento (1Cor 9,12). Due comportamenti, quindi, contrapposti: gli avversari antepongono loro stessi a Cristo, sfruttando la loro posizione per affermare se stessi e arricchirsi sulle spalle dei proseliti (v.20); Paolo antepone Cristo a se stesso, vantandosi della sua fragilità umana e dei propri mezzi di sussistenza.

La sfida si sviluppa qui in quattro momenti:

  1. si parte con un'affermazione di principio: Paolo non è inferiore a nessuno dei suoi avversari (v.5);

  2. riconosce che la sua retorica non è eccellente, ma quanto ai contenuti della sua predicazione non è secondo a nessuno (v.6);

  3. fornisce una chiave di lettura del suo metodo missionario, frainteso sia dai suoi avversari che dagli stessi Corinti: il suo presentarsi in modo dimesso e il non aver pesato su di loro in alcun modo non era dovuto alla sua pochezza, ma per favorire l'annuncio del Vangelo e togliere agli avversari ogni pretesto sulla sua persona, che potesse in qualche modo danneggiare Cristo (11,12). Quindi il suo aspetto dimesso, sia nella persona che nella sua loquela, era dettato dall'amore per Cristo e per i Corinti e intende proseguire su questa strada (vv.7-12)

  4. quanto ai suoi avversari, Paolo li demonizza definendoli “falsi apostoli” e “operai fraudolenti”, che si muovono sulle capacità di trasformismo di satana, che hanno fatto proprie, presentandosi quali ministri di giustizia, mentre sono ministri di satana (vv.13-15).

Con il v.5 Paolo apre il confronto con questi “apostoli fuori misura” dove quel “fuori misura” non dice soltanto l'esaltarsi in modo autoreferenziale e sconveniente di questi personaggi (10,12), che si presentano come dei “Super apostoli”, ma, richiamandosi implicitamente al v.10,13, dove egli si gloria soltanto entro la “misura della regola” stabilita da Dio per lui, cioè si gloria nel sapersi muovere entro la volontà di Dio, che gli ha affidato il suo piano di salvezza per i pagani e di non travalicarla mai, accusa questi suoi avversari di essere “apostoli fuori misura”, cioè fuori dalla “misura della regola” che Dio ha stabilito per loro, poiché, approfittando della loro missione e della loro posizione di apostoli, puntano non solo ad affermare se stessi a danno di altri (v.20), ma altresì deformano Gesù e il suo vangelo (v.4). Essi, infatti, sono dei ministri di satana, travestiti da ministri di giustizia (vv.14-15). Quel “fuori misura”, quindi, definisce con drammatica ironia l'identità di questi sedicenti apostoli, che esaltano se stessi in modo autoreferenziale e ricorrendo a mezzi umani a tutto danno di Cristo e del suo Vangelo. Con questi Paolo, lo aveva già detto in 10,12, non vuol avere niente a che fare, anzi è ben superiore a loro.

Dopo questa attestazione di principio, che afferma la sua dignità per niente inferiore a questi sedicenti “super apostoli”, ma vedremo come egli al v.23 si dichiarerà ben superiore ad essi, Paolo passa, ora, a provare la sua dichiarazione, partendo dal suo metodo apostolico, che egli aveva già dettagliatamente illustrato in 1Cor 1,17-2,16, con scarso successo, perché i Corinti non sono ancora spiritualmente maturi, ma ancora legati alle appariscenti cose di questo mondo e incapaci di cogliere il linguaggio di Dio, che esprime la sua potenza nella debolezza di Paolo (12,10; 1Cor 3,1). Paolo, quindi, riconosce di non essere un abile retore (v.6a) e, di conseguenza, di non saper usare un linguaggio affascinante ed attraente, capace di allettare le menti e i cuori dei Corinti, ancora legati alle abilità oratorie dei loro filosofi occasionali, tra i quali probabilmente annoveravano in qualche modo anche Paolo, i quali con sfarzo di linguaggio sapevano vendere il loro sapere a spese dei loro discepoli. Proprio per questo, al fine di non essere confuso con loro, Paolo si rimboccherà le maniche e si manterrà da solo per non gravare sui Corinti, come, invece, facevano i loro filosofi e maestri di sapienza. Lo aveva già detto chiaramente in 1Cor 9,11-12 e qui in 11,12 lo ribadisce più che mai, al fine di evitare di essere confuso con loro.

Il linguaggio di Paolo è povero, scarno, privo di elucubrazioni sapienti, poiché egli non deve vendere un po' di sapienza umana al miglior offerente, ma annunciare la salvezza portata da Cristo e questo crocifisso, uno scandalo per i Giudei ed una stoltezza per i pagani (1Cor 1,23). La sua parola, quindi, è spoglia, perché la retorica e l'eloquenza umane non andassero ad inficiare la Croce di Cristo e la fede dei Corinti non fosse fondata sulla sapienza umana e sulle abilità oratorie di Paolo, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2,5). Per questo egli usa un linguaggio povero e si presenta loro con un aspetto dimesso, “in debolezza e con molto timore e trepidazione” (1Cor 2,3), per lasciar tralucere meglio dalla sua povertà e dalle sue fragilità lo splendore della potenza salvifica di Cristo. Paolo, quindi, annienta se stesso per lasciare spazio a quel Cristo che vive ed opera in lui e al quale è crocifisso, formando un tutt'uno con le sue sofferenze (Gal 2,20).

Ma povertà di parola, ricorda subito Paolo, non significa povertà di contenuti (v.6b). La forma non va confusa con la sostanza, poiché quanto a conoscenza egli non è inferiore a nessuno. Il passato di Paolo, infatti, è quello di un fervente fariseo (Fil 3,5) e, quindi, profondo conoscitore della Legge e dei suoi metodi interpretativi; allevato alla scuola di Gamaliele (At 22,3), uno dei più quotati maestri dell'epoca e quanto a sapere egli era ben superiore a tutti i suoi coetanei. Lo ricorderà questo, qualche tempo più tardi, in Gal 1,14: “superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri”. La cultura di Paolo, poi, è cosmopolita, lo rilevano i suoi tre nomi: Saul, in quanto giudeo; Saulos, in quanto di cultura greco-ellenistica, ed, infine, Paulus, trasposizione latina del greco Saulos, in quanto cittadino romano per nascita e non per acquisizione (At 22,25-28).

Ma il sapere di Paolo, dopo l'incontro con il Risorto, si è circoscritto alla conoscenza di Cristo crocifisso, “potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,24b); l'unica vera sapienza di cui Paolo è ripieno: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2), per il quale ritiene tutto il resto spazzatura: “tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,8). In questa conoscenza, che per Paolo è anche esperienza vivida di Cristo, sulla quale dovrebbe fondarsi la dignità del vero apostolo, egli non è secondo a nessuno e ha avuto modo anche di dimostrarlo ai Corinti, che avrebbero dovuto difenderlo davanti alle offensive pretese dei “Super apostoli” (12,11b), anziché assecondarli e farsene discepoli.

Paolo, dunque, riconosce che nel suo annunciare il Vangelo di Cristo ai Corinti non ha usato un linguaggio forbito e magniloquente come i loro filosofi; e il suo porsi a loro non era ostentato ed appariscente così da essere accattivante. Tutte cose queste cui erano sensibili i Corinti, abituati ai loro filosofi e ai loro retori delle prestigiose scuole di filosofia, di scienza e di conoscenza. Ma il rifiuto di tutto questo da parte sua, egli lo aveva già motivato in 1Cor 2,1-5, così che essi non avrebbero dovuto scandalizzarsi di lui, ma difenderlo di fronte a questi “Super apostoli” (12,11b), che lo accusavano non solo di pochezza sia verbale che di presenza fisica, ma anche del fatto che egli si discostava nettamente dalla loro consuetudine: quella di farsi pagare la prestazione (2,17) e farsi mantenere dai proseliti (v.20). Solo la bassa plebe e gli schiavi, gente di poco conto si affaticava con il lavoro manuale, come faceva Paolo. Anche in questo Paolo veniva criticato dai suoi avversari. E sarà questa l'altra accusa che egli controbatterà con la seguente pericope, vv.7-11.

Il v.7 introduce la nuova accusa mossa a Paolo dai suoi avversari: “O commisi colpa umiliando me stesso, affinché voi foste innalzati, poiché vi abbiamo annunciato gratuitamente il vangelo di Dio?”. L' “umiliare se stesso” riguardava la decisione di Paolo di mantenere se stesso attendendo a lavori manuali (At 18,3), cosa disdicevole per i Corinti e il mondo greco-romano, rinunciando al suo giusto compenso per l'annuncio del Vangelo di Cristo (1Cor 9,11-15), che egli predicava gratuitamente, contrariamente ai suoi avversari, per evitare che il Vangelo di Cristo ne risentisse negativamente dal suo comportamento. La sua “umiliazione”, quindi, era voluta, da un lato, perché il Vangelo di Cristo non subisse un qualche discredito per causa sua; dall'altro, perché i Corinti beneficiassero di tale annuncio senza dissanguarsi dei loro beni, come, invece, stava avvenendo con i suoi avversari (v.20), che definisce in 2,17 “mercanti della Parola” e qui “falsi apostoli” e “operai fraudolenti”.

I vv.8-9 illustrano quali sono le fonti di sostentamento di Paolo: da un lato “i fratelli venuti dalla Macedonia”, il riferimento qui è alle comunità della Tessalonica e di Filippi, che sentendo della missione di Paolo presso i Corinti hanno generosamente e spontaneamente voluto sostenerlo logisticamente. La cosa non è nuova, poiché già in Fil 4,15-16 si ricorda come proprio questa comunità aveva già soccorso Paolo due volte quando si trovava a Tessalonica. Egli definisce questo loro aiuto a suo favore come una “spogliazione” di quelle chiese da parte sua: “Ho spogliato altre chiese avendo preso un compenso in viveri per il vostro servizio”. Una frase sarcastica e dura, poiché, da un lato, accusa i Corinti che il suo mantenimento, secondo le regole dell'epoca, era compito loro e non di altre comunità, denunciando in tal modo la loro spilorceria, poiché hanno beneficiato gratuitamente della sua predicazione; dall'altro, con quel verbo “spogliare” fa in realtà riferimento non tanto alle chiese di Tessalonica e di Filippi, quanto piuttosto ai suoi avversari, che, invece, hanno angariato e spogliato dei loro beni i Corinti (v.20).

Una seconda fonte di sostentamento per Paolo era il suo stesso lavoro manuale (At 18,3), che i Corinti come i suoi avversari disprezzavano, perché ledeva la dignità del predicatore o del maestro o del filosofo, poiché il lavoro manuale era proprio della plebe e degli schiavi.

Di fronte al disprezzo dei suoi avversari nei suoi confronti, assecondato dai Corinti (vv.4b.20a), Paolo non demorde, ma chiama in causa Cristo stesso, quale suo testimone, quel Cristo, che in Gal 2,20 e similmente in Fil 1,21a, attesterà che vive ed opera in lui, mentre per lui vivere è Cristo, al quale è crocifisso, condividendone le sofferenze, poiché ora sta per fare una promessa, quasi un giuramento solenne ai Corinti: “questo vanto non sarà impedito nei miei confronti nelle regioni dell'Acaia” (v.10), espressione quest'ultima che sta per “terre dell'Acaia dove c'è Corinto. In altri termini, egli continuerà, nonostante le offese e le denigrazioni dei suoi avversari nei suoi confronti e il tradimento dei Corinti, a comportarsi in tale modo: mettere da parte se stesso per lasciare spazio a Cristo e al suo Vangelo.

Una simile attestazione fatta ai Corinti, a muso duro, era una chiara sfida alla loro cultura, al loro modo di vedere e di sentire le cose, quasi una sorta di insulto alla loro raffinata sensibilità di uomini di sapere e di conoscenza, amanti della scienza, per questo al v.11 pone retoricamente la domanda: “Per che cosa? Perché non vi amo? Dio sa (quanto)!”. Paolo intende qui togliere ogni fraintendimento: egli non vuole mancare di rispetto ai Corinti e tanto meno offenderli, poiché egli li ama di un amore smisurato e tale che solo Dio può sapere quanto grande è il suo amore per loro, poiché il suo è lo stesso amore che Dio nutre per loro.

Se, dunque, è veramente così, perché Paolo si comporta nei loro confronti in modo cosi dimesso e sciatto, così da andare contro tutte le regole del buon pensare e del buon sentire dell'epoca, irritando la sensibilità dei Corinti e fornendo il fianco ai suoi avversari? Sarà il v.12 a darne la risposta, sia pur in modo contorto e non di immediata comprensione: “Questo faccio, e farò, per estirpare il pretesto di quelli che vogliono un pretesto, affinché siano trovati come anche noi in ciò che si vantano”. In altri termini Paolo attesta di voler continuare a comportarsi in tal modo (“Questo faccio, e farò”): con umiltà di presenza e di linguaggio, senza vantare titoli e senza farsi mantenere dai suoi proseliti e dalle sue comunità, mantenendosi invece con il lavoro delle proprie mani, così tanto disprezzato dai Corinti e dai suoi avversari, per annunciare gratuitamente Cristo, così da “estirpare il pretesto di quelli che vogliono un pretesto, affinché siano trovati come anche noi in ciò che si vantano”, cioè così da togliere a quelli che vogliono essere come Paolo “apostoli di Cristo” e di questo si vantano, ogni motivo per esserlo veramente, poiché il vero “apostolo di Cristo” lavora perché Cristo emerga e lui scompaia e non si serve del suo ruolo di “apostolo” per far emergere se stesso, per affermarsi e farsi mantenere dagli altri. In altri termini Paolo continuerà a comportarsi così perché il suo apostolato non sia confuso con quello dei suoi avversari, creando in tal modo un forte contrasto di metodo e un forte disagio negli stessi Corinti, così da costringerli, loro malgrado, ad una scelta di campo.

Detto questo, che costituisce anche il suo modo di fare apostolato, tutto incentrato su Cristo, rinnegando se stesso per dare spazio soltanto al suo Vangelo, Paolo passa, ora, ad accusare duramente i suoi avversari, denunciando il loro trasformismo, pari a quello di satana.

L'accusa lanciata da Paolo contro i suoi avversari è pesantissima: “sono falsi apostoli”, perché il loro intento non è predicare Cristo, ma sfruttare la loro posizione di apostoli, probabilmente conferita loro dalla stessa giudaizzante chiesa madre di Gerusalemme, per ottenere vantaggi per loro stessi (v.20). Per questo essi si dimostrano anche “operai fraudolenti”, cioè apostoli che con la loro titolatura e la loro retorica alettano ed affascinano i Corinti, annunciando loro un vangelo di Cristo deformato da una lettura giudaica dello stesso, tradendo così l'insegnamento stesso di Cristo e il suo pensiero, subordinando la sua azione salvifica alla Legge mosaica. Erano, probabilmente, dottori della Legge, farisei o scribi, considerata la loro abilità oratoria e la loro preparazione culturale, convertiti al cristianesimo, ma legati ancora alla Legge mosaica, trovando nel cristianesimo una nuova opportunità di affermazione di se stessi e un nuovo modo di arricchirsi, come già era accaduto durante la loro permanenza nel giudaismo10, trasformandosi, ora, in “apostoli di Cristo”.

Ed è proprio su questa loro capacità di trasformismo opportunistico, che Paolo, ora punta il dito, richiamandosi al v.3 e qui completandolo con i vv.14-15. Là ricordava il serpente antico, che sedusse Eva con la sua astuzia, così come, ora qui, questi falsi apostoli ed operai fraudolenti, travestiti da apostoli di Cristo, sull'onda di quel serpente antico, hanno sedotto i Corinti, sobillandoli contro Paolo. Proprio per questa loro capacità di trasformismo opportunistico Paolo li associa a satana, capace di trasformarsi in un angelo di luce pur di sedurre gli uomini, rivoltandoli contro Dio, come avvenuto per i nostri progenitori e qui per i Corinti ad opera di questi “falsi apostoli, operai fraudolenti”, portando allo scoperto la loro vera identità: essi sono “ministri di satana” sotto le mentite spoglie di “ministri di giustizia”.

La stoltezza del vantarsi secondo la carne (vv.16-21)

Già con il v.1 Paolo aveva introdotto il tema della stoltezza alla quale voleva associarsi, invocando per questo la tolleranza dei Corinti nei suoi confronti, della quale si riteneva certo. Ora, Paolo riprende con quel “P£lin” (Pálin, Di nuovo, v.16a) il tema là introdotto e lo approfondisce completandolo con questa pericope, vv.16-21, dove i termini “stolto” e “stoltezza” ricorrono cinque volte. Si tratta di una pericope introduttiva alla posizione che Paolo sta per assumere a partire da 11,22 fino a tutto 12,21, per misurarsi con i suoi avversari. Posizione che egli condanna in se stesso come stolta e dissennata, condannandola implicitamente nei suoi avversari, con i quali sta per gareggiare in stoltezza, e nei Corinti stessi, ammagliati dagli aspetti esteriori vantati dai nuovi venuti.

Che cosa egli intenda per “stoltezza” viene chiarito al v.18: è il vantarsi secondo la carne, cioè secondo le logiche umane, come se l'annunciare il Vangelo e il predicare Cristo fosse un mero esercizio accademico di dialettica oratoria incorniciato nella magniloquenza, cui si associa, ora, anche Paolo, divenendo in tal modo “stolto” come i suoi avversari, che dei loro titoli e di loro stessi, in modo autoreferenziale, si vantano (10,12). Una stoltezza di cui chiede ironicamente ai Corinti tolleranza, della quale si ritiene certo (v.1b), perché loro, in quanto “saggi e assennati”, come loro si ritengono, sapranno sopportare la stoltezza degli stolti e, quindi, anche quella di Paolo.

Il tono che permea l'intera pericope è ironico e nel v.19 sconfina nel sarcastico, definendo “assennati” i Corinti, che tutto sono fuorché assennati, poiché rinnegando il Cristo predicato gratuitamente da Paolo, con modestia di presenza e povertà di linguaggio, affinché la fede dei Corinti non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2,5), rincorrono i fuochi d'artificio dei suoi avversari, che vendono loro un Vangelo e un Cristo deformati dalla Legge mosaica (v.4), mercanteggiando con loro la Parola di Dio (2,17), angariandoli e sfruttandoli in ogni modo (v.20), toccando così il fondo della stupidità.

Tuttavia, al fine di non essere frainteso, Paolo precisa che quanto sta per dire non ha nulla a che vedere con la sua missione, né tantomeno con il Cristo che egli predica, poiché “non secondo il Signore parlo” (v.17a), ma secondo le logiche della carne, cioè del ragionare umano, quello con cui si esprimono i suoi avversari, ammirati dai Corinti, ma che è contrario alle logiche di Dio, che ha preferito usare il linguaggio della croce per confondere i sapienti di questo mondo (1Cor 1,17-25). Paolo, quindi, sta per uscire allo scoperto, presentando un Paolo inedito, ben lontano da quello apparso in 1Cor 2,1-5. Solo di quest'ultimo egli si vanterà (vv.29-30).

Paolo conclude la pericope con un'ultima feroce ironia: “(Lo) dico con vergogna, come che noi fossimo stati deboli” (v.21a). Il senso di questa battuta finale va compreso collegandola al v.20 dove viene presentata la protervia e l'avidità dei suoi avversari, che angariano la comunità credente di Corinto, non solo annunciandole un Cristo e un suo vangelo deformati (v.4), ma depredandola dei suoi beni e imponendole ristrettezze, minacciandole castighi se non si fosse sottomessa a loro, usando nei confronti dei Corinti tutta la loro arroganza, sottomettendoli alle loro pretese. A fronte di tanta arrogante sfacciataggine, Paolo, ironizzando su se stesso, si vergogna della sua debolezza, che lo ha portato, invece, ad amarli, a rispettarli e a servirli con tutto se stesso per amore di Cristo (5,14a), anziché usare gli stessi metodi coercitivi e arroganti usati dai suoi avversari nei confronti degli “assennati” Corinti, che, rimanendone affascinati, li hanno accolti, sopportando le loro angherie e rivoltandosi insensatamente contro Paolo.

Detto ciò, Paolo dà ora il via al confronto con i suoi avversari, uscendo dalle sue vesti di umile servitore di Cristo, pronto a rinnegare se stesso purché Cristo si affermi, così che “se qualcuno ha in questo l'ardire“, quello di vantarsi, si faccia avanti, sembra voler dire, lanciando con questo il suo guanto di sfida ai suoi avversari, poiché, ora, anche lui è pronto al confronto, senza più remore e senza più alcun timore, affrontandoli a muso duro proprio su ciò che loro si vantano (v.21b).

I crediti vantati da Paolo e dai suoi avversari (vv.22-28)

Con questa pericope Paolo affronta i suoi avversari sulla titolatura, di cui essi si vantano, quella di essere ebrei, israeliti e discendenza di Abramo e, quindi, appartenenti ad un popolo privilegiato da Dio, eredi delle sue promesse, circondandosi in tal modo di una sorta di alone di santità, che doveva dare loro credibilità; ma non solo, a tale appartenenza privilegiata essi associavano anche quello di essere “ministri di Cristo” e, quindi, persone che operavano in nome e per conto di Cristo, attribuendosi una particolare autorità. Una titolatura, quindi, altisonante che doveva fornire loro la certificazione di veridicità, circondando le loro persone di sacralità e autorevolezza. Ma sono anche quelle persone con cui Paolo non vorrebbe aver a che fare, perché essi, in modo autoreferenziale, raccomandano se stessi (10,12) e, quindi, la loro raccomandazione è inficiata dal dato personale, poiché “non colui che raccomanda se stesso è approvato, ma colui che il Signore raccomanda” (10,18) e, quindi, “Colui che si vanta, si vanti nel Signore” (10,17) e non in se stesso e di se stesso.

Da questa doppia titolatura si evince come questi suoi avversari fossero predicatori cristiani itineranti, provenienti dal giudaismo e, dalle accuse formulate al v.4, dove Paolo si lamenta per l'accoglienza che i Corinti avevano riservato a questi personaggi, che predicano loro “un altro Gesù, che non abbiamo predicato; o ricevete un altro spirito, che non avete ricevuto; o un altro vangelo, che non avete ricevuto”, quindi, un messaggio cristiano deformato dalla loro particolare comprensione di Cristo e del suo annuncio di salvezza, si deduce che dovevano essere giudeocristiani giudaizzanti, cioè cristiani provenienti dal giudaismo e che ricomprendevano Gesù e il suo messaggio di salvezza filtrandolo attraverso la Legge mosaica e le sue prescrizioni. Sono quegli stessi personaggi di cui Paolo si lamenterà anche nella lettera ai Galati: “Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n'è un altro; soltanto vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo” (Gal 1,5-6), lanciando su questi il suo anatema: “L'abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!” (Gal 1,9).

In quanto “Ebreo, Israelita, figlio di Abramo

I tre titoli, che qui Paolo riporta e che qualificano i Giudei, raccontano in sintesi la loro storia privilegiata. Il titolo di “Ebrei” richiama l'origine degli antenati dei Giudei, riportandoli al periodo della loro oppressione egiziana. Il termine “Ebreo” o “ 'ibrī”, infatti, si trova nell' A.T. in relazione a quei figli di Israele, che si trovavano in Egitto e che il Signore liberò con “mano potente” dalla schiavitù egiziana, facendo di questo un memoriale: “Mosè disse al popolo: "Ricordati di questo giorno, nel quale siete usciti dall'Egitto, dalla condizione servile, perché con mano potente il Signore vi ha fatti uscire di là: non si mangi ciò che è lievitato” (Es 13,3) e che, ai piedi del monte Sinai, Dio consacrò a se stesso dandogli una nuova identità: “voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.” (Es 19,5-6), divenendo così un popolo privilegiato tra molti popoli: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 7,6).

La loro origine, quindi, è santa ed è in qualche modo divina. Essi sono, dunque, nelle grazie di Dio. Questo è il vanto degli avversari di Paolo, ma non solo, essi erano anche “Israeliti”, cioè discendenza di Israele, il nuovo nome che Dio assegnò al loro capostipite Giacobbe, dopo che questi aveva lottato per una notte intera con un angelo di Dio presso il torrente Iabbok: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!” (Gen 32,39).

Essi, dunque, appartenevano anche ad un popolo di invincibili, perché Dio è con loro.

Ma ciò che più sta a cuore a questi suoi avversari giudeocristiani giudaizzanti è l'essere “seme di Abramo”, l'origine originante di Israele, al quale sono legate le promesse (Gen 12,2-3; 22,17; 26,4). Un titolo di cui i Giudei andavano fieri al punto da contrapporlo allo stesso Gesù giovanneo: “Gli risposero: <<Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: “Diventerete liberi?”>> (Gv 8,33); un titolo che il Gesù matteano cercherà di banalizzare, per far comprendere loro come serva ben più di un titolo da far valere davanti a Dio per ottenerne la salvezza: “e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre“ (Mt 3,9).

A questi titoli altisonanti, che ripercorrono la storia dei Giudei e ne delineano l'identità, circoscrivendola all'interno di un alone di santità e di sacralità, sulla quale grava la stessa impronta divina, Paolo contrappone l'identica titolatura, poiché anch'egli, come loro, è ebreo, “circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge (Fil 3,5), anzi, quanto al suo essere fariseo egli surclassava tutti suoi coetanei quanto a zelo: “superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri” (Gal 1,14) e di conseguenza egli è, come loro, a pieno titolo, Israelita e figlio di Abramo e in quanto tale erede anche lui delle promesse, ma attesterà anche come tutta questa titolatura, che richiama la sua storia privilegiata e della quale i suoi avversari si vantano oltre misura, la ritiene spazzatura di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo (Fil 3,8).

In quanto “ministro di Dio

Se quanto a titolatura congenita Paolo è pari ai suoi avversari, non così si può dire per la sua investitura a “ministro di Dio”, in merito alla quale attesta di essere ben superiore a loro: “ io ben di più: molto di più”. In che cosa egli ecceda di gran lunga viene detto ai vv.23-28. Non si tratta di una elencazione di titoli altisonanti, ma di eventi, di condizioni e stati di vita che delineano la vera figura dell'apostolo e ministro di Dio, da cui si evince come questi sia a totale servizio di Dio, così che la propria persona scompare perché emerga Dio con i suoi progetti e le sue esigenze, e in tutto questo non vi sono spazi individuali, da cui trarre dei profitti personali. In questo Paolo è maestro e lo si arguirà da Fil 1,21, dove attesterà: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”, poiché, rimarcherà in Gal 2,20a: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Non vi è, dunque, più distinzione tra Paolo e Cristo, poiché egli è totalmente plagiato da Cristo, anzi ne è un fanatico, così da non saper più distinguere i suoi propri interessi da quelli di Cristo, coincidendo questi perfettamente tra loro. In tutto questo Paolo eccelle nei confronti dei suoi avversari che, invece, cercano se stessi nella loro missione, traendone vantaggi personali (v.20). La posizione, quindi è, tra i due campi avversi, diametralmente opposta e contrapposta: Paolo annienta se stesso per far prevalere Cristo; gli avversari usano Cristo per affermare loro stessi.

Paolo, quindi, non parte enumerando le sue capacità taumaturgiche o i suoi poteri che gli dovevano derivare dal suo stato di apostolo e ministro di Cristo (12,12), fuochi d'artificio per impressionare i Corinti, ma esibendo la sua totale dedizione a lui, poiché è proprio questo atteggiamento che attesta la vera natura di apostolo e ministro di Dio, che serve Dio nei fratelli, attuando il suo progetto di salvezza.

Il v.23 apre rilevando come tutto ciò che egli sta per dire è un'autentica follia, un delirio, la cui causa in 12,11a attribuisce ai Corinti, che avrebbero dovuto difenderlo davanti ai suoi avversari e non assecondarli: “Sono diventato stolto, voi mi avete costretto. Io, infatti, dovevo essere raccomandato da voi”. Ciò premesso, Paolo presenta subito quattro generiche categorie di pericoli, in cui eccelle: fatiche, prigionie, percosse, pericoli di morte, mentre con i vv.24-25 passa all'esemplificazione.

Denuncia subito la pena che probabilmente più gli fu pesante non solo per la quantità dei colpi ricevuti, ma perché inflittagli proprio dai suoi connazionali, per i quali provava un grande dolore per il loro rifiuto di Cristo, loro che avevano ricevuto ogni attenzione da parte di Dio (Rm 9,1-3): “Dai Giudei cinque volte presi quaranta (colpi) meno uno”. Il riferimento qui è a Dt 25,3: “Gli farà dare non più di quaranta colpi, perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi”. Il timore di violare la Legge nella conta dei colpi inferti, fece si che dai quaranta se ne togliesse uno.

Ma non fu più fortunato con i Romani, i quali, benché fosse cittadino romano, a loro insaputa, gli infersero la fustigazione senza processo alcuno (At 16,22-23.37-39); subì inoltre una lapidazione, ricordata in At 14,19 e che gli costò quasi la vita; i continui viaggi per mare lo avevano anche esposto a tre naufragi, per uno dei quali rimase in balia delle onde minacciose per più di un giorno.

Il v.26, nel riferirsi genericamente ai numerosi viaggi apostolici di Paolo, ne tratteggia tutta la pericolosità causata non solo dalle tempeste e dai naufragi, ma anche dalle esondazioni di fiumi o dalla loro stessa irruenza, che rendeva difficile e pericoloso il traghettarli; a fianco a tali iatture naturali si associavano anche quelle causate dai ladri, sempre in agguato per depredare i viandanti. Un esempio in tal senso ne viene dato dalla parabola del buon Samaritano (Lc 10,30-37). Lo stesso Giuseppe Flavio dà una sia pur pallida idea di che cosa fosse il viaggiare per quel tempo (Ant. Giud. 1,244; 14,159).

Viaggi che conducevano Paolo ovunque vi fosse da annunciare il Vangelo di Cristo, sfidando i pericoli disseminati dappertutto e sotto ogni forma, “pericoli da parte dei miei connazionali, in pericoli dai pagani, in pericoli in città, in pericoli nel deserto, in pericoli nel mare, in pericoli nei falsi fratelli” (v.26).

Ma al di là dei pericoli oggettivi, cui Paolo faceva fronte a grave rischio della sua stessa vita, sospinto esclusivamente dall'amore di Cristo (5,14), la sua stessa vita interiore era travagliata da continue ansie ed inquietudini, nonché dalle quotidiane preoccupazioni per tutte le chiese, che egli fondava, vessate da persecuzioni, che potevano scoppiare improvvisamente o sollecitate dai giudei, che non davano tregua né a Paolo, considerato un apostata e in quanto tale passibile di pena di morte, né alle sue comunità, insidiate continuamente anche dai predicatori itineranti giudeocristiani giudaizzanti, che contro-evangelizzavano le chiese fondate da Paolo, non di rado agitate dagli stessi credenti, che ancora non avevano recepito pienamente il messaggio cristiano, conducendo una vita in dissonanza con il Vangelo di Cristo, creando scandali, divisioni e defezioni all'interno delle stesse chiese. A tutto questo travaglio interiore si aggiungevano non di rado notti insonni, digiuni, patimenti per la fame, la sete e il freddo (vv.27-28).

Una vita, quindi, in esatta opposizione e in contrapposizione non solo ai suoi avversari, ma agli stessi Corinti che, invece, apprezzavano il disquisire filosofico nelle scuole e nelle piazze, rincorrendo i maestri di sapienza plurititolati e più in auge del momento, frequentando le scuole di filosofia e di conoscenza esoterica e certamente ben lontani da quella plebaglia, povera e affamata, che campava malamente, lavorando giorno e notte con le proprie mani, guadagnando a malapena di che vivere per se stessi e per la propria famiglia. Categoria di persone cui Paolo in qualche modo era stato associato e che, assurdamente, egli non solo non disdegnava, ma se ne vantava, sbattendo in faccia ai suoi avversari e agli stessi benpensanti Corinti tutta la sua debolezza, l'unico suo vero titolo di cui paradossalmente si gloriava.

La forza di Paolo è nella sua debolezza (vv.29-33)

Paolo, ora, conclude questo suo primo confronto con i suoi avversari con una sua inattesa nuova forma di “debolezza”, che è rilevante nel definire la vera natura dell'apostolo e del ministro di Dio, contrapponendola all'arroganza prevaricante dei suoi avversari (v.20), così stimati dai suoi Corinti: l'empatia, cioè la capacità di entrare in sintonia e di condividere gioie e sofferenze con chi gioisce e con chi soffre, facendosi carico dell'altro, così che Paolo si fa debole con i deboli, fremendo d'ira per chi è scandalizzato (v.29). Una “debolezza” che egli aveva già messo in evidenza in 1Cor 9,22: “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno”. Sullo sfondo, quindi di tale empatia apostolica e ministeriale non ci sta l'intento di aggraziarsi l'altro, per poi sfruttarlo a proprio vantaggio e farne un proprio discepolo su cui contare per i propri bisogni o per abbellirsi di fronte agli altri, quale trofeo di conquista, ma la salvezza dell'altro, così che l'empatia diviene uno strumento di salvezza con cui condividere e comunicare Cristo all'altro, entrando in comunione con lui. Un principio che reitererà, da lì a qualche anno, anche nella Lettera ai Romani, sotto forma di esortazione per l'intera comunità: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15). Un'empatia che non è solo una semplice capacità di entrare in sintonia con l'altro, condividendone emozioni e sentimenti, ma diviene per Paolo uno strumento di donazione di se stesso all'altro, perché l'altro possa per mezzo suo incontrare Cristo ed entrare in comunione con lui.

Un'empatia che Paolo chiama ironicamente “debolezza”, contrapponendola all'atteggiamento dei suoi avversari, che invece angariano, dominandoli e sfruttandoli, i loro proseliti (v.20).

Questa prima parte del confronto con i suoi avversari, con cui Paolo delinea la vera natura e la vera anima dell'apostolato e della ministerialità: il servire Dio con tutto se stesso negli altri, si chiude con una sorta di dossologia, che è nel contempo un chiamare Dio a testimone su quanto egli ha fin qui detto di se stesso, la quale cosa equivale ad un giuramento, ad una sorta di firma di autenticazione divina, tanto incredibili sono le sue avventurose peripezie e le sue grandi sofferenze sopportate per Cristo, come l'aneddoto, tanto drammatico quanto buffo, che gli è occorso agli inizi della sua attività missionaria, immediatamente dopo il suo incontro con il Risorto (Gal 1,15-17). Un episodio ricordato anche da At 9,23-25 e che Paolo inserisce qui, a sorpresa, dopo aver solennemente concluso il suo confronto sulla titolatura con i suoi avversari (v,31), probabilmente per ricordare una volta di più come egli non è un superuomo imbattibile, una sorta di eroe senza paura, che affronta gagliardamente i pericoli, ma un uomo quanto mai fragile, che i pericoli, se può li evita e fugge da questi anche in modo ignominioso; ma anche come, nel contempo, Dio lo accompagni sempre anche in mezzo ai pericoli e lo salva, mettendo in evidenza una sorta di protezione e di elezione divina nei suoi confronti. Una benevolenza che gli è stata dimostrata da Dio anche con visioni ed esperienze mistiche, che egli si appresta, ora, a raccontare nel cap.12.


Testo a lettura facilitata: le esperienze mistiche ed estatiche (12,1-10)

Preambolo introduttivo (v.1)

1- (Se) bisogna vantarsi, (ma) non (c'è) vantaggio (in questo), verrò alle visioni e (alle) rivelazioni del Signore.

Esperienze estatiche (vv.2-5)

2- So che un uomo in Cristo quattordici anni fa, se nel corpo non (lo) so, se fuori dal corpo, non (lo) so, Dio (lo) sa, fu rapito costui fino al terzo cielo.
3- E so che tale uomo, se nel corpo (o) se separatamente dal corpo non (lo) so, Dio (lo) sa,
4- (so) che fu rapito in paradiso e udì parole inesprimibili, che ad un uomo non è lecito dire.
5- Su costui mi vanterò, ma su me stesso non mi vanterò se non delle (mie) debolezze.

Considerare Paolo per quello che è, non per le sue esperienze mistiche (vv.6-7a)

6- Se, infatti, volessi vantarmi, non sarei insensato, poiché direi (la) verità; ma mi trattengo (dal farlo), affinché qualcuno non mi consideri oltre ciò che vede (di) me o [ciò che] sente (dire) da me
7- anche per la grandezza delle rivelazioni.

La grandezza compensata con l'umiltà della debolezza, vera forza di Paolo (vv.7b-10)

Per la quale cosa, affinché non mi inorgoglisca, fu data a me, alla (mia) carne, una spina, un angelo di satana, affinché mi schiaffeggi, affinché non mi inorgoglisca.
8- Per questo per tre volte invocai il Signore, affinché (lo) allontanasse da me.
9- E (mi) disse: <<Ti basta la mia grazia, poiché la mia forza si compie ne(lla) debolezza>>. Pertanto con piacere di più mi vanterò nelle mie debolezze, affinché dimori in me la potenza di Cristo.
10- Perciò mi compiaccio ne(lle) debolezze, ne(gli) oltraggi, ne(lle) necessità, ne(lle) persecuzioni e ne(lle) angustie (sofferte) a motivo di Cristo. Infatti, quando sono debole, allora sono forte.

Note generali

Continua il tema del “vantarsi” (kauc©sqai, kaucâstai), verbo che compare venti volte nella canonica 2Cor, di cui diciassette volte nella sola lettera “scritta tra molte lacrime” (10-12), qui in analisi, dove Paolo innesca un duro quanto aggressivo confronto tra la sua titolatura e quella dei suoi avversari, tra le sue esperienze mistiche ed estatiche e quelle presunte dei suoi avversari. Il verbo compare ancora cinque volte in questi primi dieci versetti del cap.12, dove Paolo continua il suo confronto con i suoi avversari non più sulla titolatura, ma sulle esperienze mistiche ed estatiche, quindi sul tema dei privilegi divini concessi a Paolo, la quale cosa equivale ad un suo diretto riconoscimento da parte di Dio stesso, una sorta di marchio di veridicità apostolica e ministeriale di Paolo.

Se il confronto circa la titolatura sia congenita, circa il suo status di ebreo, sia quella del suo essere apostolo e ministro di Dio è netta, chiara, diretta e aggressiva e tale da non temere i confronti, in questa seconda parte (12,1-10) i toni sono più smorzati, meno aggressivi, e il racconto si fa molto più sfumato, quasi che Paolo si vergognasse di mettere in piazza quegli intimi privilegi di cui Di lo aveva gratificato, così che, quasi a scusarsi con se stesso e con Dio per averli in qualche modo dati in pasto a gente spiritualmente insensibile, banalizzandoli, lancia la sua accusa prima contro se stesso e poi contro i Corinti, che con il loro comportamento lo hanno esposto ai suoi avversari, mentre dovevano prendere le sue difese: “Sono diventato stolto, voi mi avete costretto. Io, infatti, dovevo essere raccomandato da voi” (v.11).

Il pensiero di questa ultima breve sezione sul “vantarsi” di Paolo si snoda su quattro passaggi, che propongo qui di seguito:

  1. Preambolo introduttivo (v.1);

  2. Esperienze estatiche (vv.2-5);

  3. Considerare Paolo per quello che è, non per le sue esperienze mistiche (vv.6-7a);

  4. La grandezza compensata con l'umiltà della debolezza, vera forza di Paolo (vv.7b-10).

Commento ai vv.1-10

Preambolo introduttivo (v.1)

La sezione si apre con l'espressione “Kauc©sqai de‹” (kaukâstai deî, bisogna vantarsi), dove, da un lato, si lascia intendere come il tema del “vantarsi”, iniziatosi con il cap.10, prosegue ancora; mentre, dall'altro, con quel “bisogna” dice lo stato di costrizione, a motivo del quale Paolo è obbligato a misurarsi con i suoi avversari su esperienze, che avrebbe preferito di gran lunga tacere, ma che per la leggerezza dei suoi Corinti, che sono passati dalla parte dei suoi avversari, è costretto a mettere in piazza.

Una presa di posizione obbligata, questa, del tutto insensata, che non porta nessun giovamento a nessuno, così che lo costringerà a riconoscersi “stolto”, addossando la sua stoltezza ai Corinti (v.11a).

Ciò su cui Paolo si confronterà in quest'ultima sezione dedicata al “vantarsi” sono le “visioni”, cioè le sue esperienze mistiche; e le rivelazioni, che lo collocano nell'ambito dell'esperienza propria dell'apocalittica, di cui userà anche il linguaggio, ma come vedremo, ben diverso da quello che userà Giovanni nella sua Apocalisse.

Benché qui i sostantivi, oggetto del “vanto”, siano posti al plurale, “Ñptas…aj kaˆ ¢pokalÚyeij” (optasías kaì apocalípseis, visioni e rivelazioni), tuttavia non si deve pensare che Paolo abbia avuto innumerevoli esperienze mistiche ed estatiche, ma che si tratti, in realtà, di un unico episodio, dove tali esperienze si sono sommate assieme. Lo lascia intendere il suo stesso riferimento temporale: “quattordici anni fa”, facendo riferimento ad un preciso evento storicamente circoscritto.

Due, quindi, le esperienze narrate: le visioni e le rivelazioni “del Signore”. Un genitivo questo che presenta una double face: oggettivo, dove il Signore è l'oggetto delle esperienze mistiche ed estatiche di Paolo; oppure di appartenenza, cioè esperienze che provengono dal Signore, quindi suo dono. Esperienze che non vanno confuse con l'episodio di Damasco, evento che Paolo ha vissuto come una sua personale chiamata e una rivelazione da parte del Signore (Gal 1,15-16a), e, quindi, a se stante, ma ad un diverso contesto, avvenuto “quattordici anni fa”, quindi successivamente all'anno 36 d.C., anno della sua chiamata.

Esperienze estatiche (vv.2-5)

La pericope in esame accenna a delle esperienze mistiche ed estatiche di Paolo, usando una particolare forma letteraria chiamata illeismo11, cioè il raccontarsi in terza persona, che presenta degli indubbi vantaggi, consentendo al narratore di prendere le distanze da se stesso, di estraniarsi in qualche modo dalla sua stessa narrazione e così raccontarsi in modo distaccato e oggettivo, neutralizzando la carica di emozioni e di sentimenti che quel suo raccontarsi porta con sé. Non si tratta, quindi, di una forma di umiltà, ma di una sorta di sdoppiamento di personalità di difesa, che meglio apparirà al v.5, dove Paolo pone un distinguo tra se stesso e quell'uomo di cui ha raccontato poc'anzi, quasi fossero due entità completamente diverse, anzi contrapposte.

Il breve e appena accennato racconto sulle esperienze mistico-estatiche di Paolo è disseminato per ben otto volte dal verbo “sapere”, posto alternativamente al negativo e al positivo: “so”, “non so”, “Dio lo sa”, che dà tutto il senso della aleatorietà, dell'incertezza di tali esperienze, che trascendono il sentire umano e gli sfuggono. La stessa brevità del racconto, così scarna e meramente indicativa da lasciare il lettore con tutta la sua carica di curiosità insoddisfatta e con molti interrogativi, dice tutta la riluttanza di Paolo ad esternare e a condividere esperienze così molto personali e profonde, che in qualche modo ledono e profanano la sua profonda intimità con Dio.

So che un uomo in Cristo”. Il saper di Paolo è qui molto vago e generico. Il termine “uomo” ha qui il suo corrispettivo greco in “¥nqrwpon” (ántzropon), che significa un uomo in senso generale, un uomo qualunque, quasi a voler spogliare quest'uomo di un qualsiasi riferimento, che lo possa in qualche modo coinvolgere. Quest'uomo, tuttavia, non è propriamente un uomo privo di qualsiasi identità, poiché egli “è in Cristo” e questo lo riporta nell'alea del credente, che per sua natura vive e si muove in Cristo e possiede con lui un intimo rapporto di comunione di vita, che farà esclamare Paolo in Gal 2,20a “[...] non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”, così che per tale “uomo in Cristo” il suo vivere è essenzialmente Cristo stesso (Fil 1,21a).

Definita la natura di quest'uomo, che è in Cristo, ora Paolo colloca tale uomo in un periodo di tempo preciso, contestualizzandolo storicamente, dando così forma concreta alla sua testimonianza: “quattordici anni fa”. La datazione di queste esperienze mistico-estatiche va collocata “quattordici anni fa”, facendo partire la conta degli anni a ritroso dalla presente lettera, “scritta tra molte lacrime”, dove si parla delle esperienze estatiche (vv.2-7a). Tale lettera è stata scritta tra il 55-56 così che queste vanno collocate tra il 41-42, anni questi, che fanno parte di quel decennio seguito alla sua chiamata, durante il quale Paolo frequentava le comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, periodo di approfondimento della sua fede, di conoscenza del culto cristiano e di preparazione ai suoi grandi viaggi missionari, svoltisi tutti tra il 45 e il 57.

E qui comincia la grande vaghezza di Paolo (vv.2b-4) che dice, da un lato, la sua grande resistenza a parlare di queste sue esperienze; dall'altro, l'inafferrabilità delle stesse, poiché, come lascerà intendere al v.4b, queste sono “inesprimibili, che ad un uomo non è lecito dire”. Ma è proprio questa vaghezza, questa aleatorietà e inafferrabilità dell'esperienza, che depongono a suo favore, proprio perché l'esperienza di Dio e del suo mondo si sottrae a qualsiasi tipo di linguaggio umano, radicato nelle esperienze umane e da queste generato, ma del tutto inadeguato e incapace di definire quelle di un mondo che gli è totalmente sconosciuto.

Quest'uomo “fu rapito fino al terzo cielo”. Il verbo qui usato per definire il rapimento estatico di Paolo è “¡rp£zw” (arpázo), un verbo che compare in tutto il N.T. quattordici volte e indica sempre un “rapire, uno strappare a viva forza, un portare via” in senso fisico, reale e mai metaforico. Il rapimento al terzo cielo, di cui qui Paolo parla, è pertanto reale e ben si distingue da quello di Giovanni nella sua Apocalisse che parla del suo “rapimento in estasi” o del suo “essere preso dallo Spirito” con l'espressione “™genÒmhn ™n pneÚmati” (eghenómen en pneúmati, fui nello Spirito) in Ap 1,10 e 4,2. Nessun rapimento, quindi, ma solo un ritrovarsi avvolto nello Spirito di Dio dove ebbe luogo la sua esperienza mistica. La differenza sta nel fatto che l'esperienza apocalittica di Giovanni fu mediata da Dio, mentre quella di Paolo fu diretta e personale, egli venne coinvolto con tutto il suo essere, trasportato “al terzo cielo”.

Ma quanti cieli esistono? La Bibbia non ne parla, ma lascia intendere, che vi siano almeno tre tipologie di cieli, legati alla loro funzione propria, e Paolo non può che parlare secondo le sue cognizioni, che sono quelle proprie della sua epoca: vi è un cielo atmosferico, da dove scende la pioggia, la tempesta, la neve e dove si muovono i venti12; quello astronomico, dove risiedono le stelle, il sole e il firmamento in genere13; e, infine, quello proprio di Dio, la sua dimora14, che è anche dimora del mondo spirituale. Paolo “fu rapito” in questo contesto celeste, quello proprio di Dio, che definisce “paradiso”, dove egli fece esperienze, da un lato, “inesprimibili”, per l'inadeguatezza del linguaggio umano nel definire realtà mai sperimentate dall'uomo; dall'altro, proprio per la loro natura santa e sacra non è lecito farvi accedere l'uomo, poiché ciò che Paolo ha vissuto è la realtà che appartiene a Dio e non agli uomini, che non vi hanno accesso.

La testimonianza delle sue esperienze mistico-estatiche si chiude con il v.5, ponendo un distinguo tra se stesso e l'uomo rapito al terzo cielo, creando una sorta di sdoppiamento di personalità, scegliendo per se stesso il vanto non del terzo cielo, ma della sua fragilità umana. Il motivo di tale scelta viene ora illustrato dai vv.6-7a

Considerare Paolo per quello che è, non per le sue esperienze mistiche (vv.6-7a)

Già lo si è detto, Paolo non ama i fuochi d'artificio, anche se è in grado di produrli, come ha saputo dimostrare, aprendo, sia pur con molta riluttanza, un piccolo spiraglio sul suo mondo nascosto in Dio. Ma la sua diretta chiamata da parte di Dio fin dal seno materno, l'incarico della sua missione, che lo porta ad annunciare il Cristo al mondo pagano e le rivelazioni che lo hanno accompagnato (Gal 1,1.11-12.15-16) sono troppo importanti per poter gareggiare su cose di questa portata, dove è messo in gioco lo stesso progetto salvifico di Dio affidato agli uomini. Paolo preferisce presentarsi al mondo pagano così come egli è, in tutta la sua debolezza e povertà umane, pur potendo contare su titolature e privilegi divini. E il motivo, che sottende questa sua decisione tattica, che lo spinge a trattenersi dall'esibire la sua titolatura e i suoi privilegi, già l'aveva evidenziata in 1Cor 2,5: “perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”. Paolo non vuole offuscare l'azione di Dio ponendo se stesso davanti a Lui, come invece fanno i suoi avversari, ma, sentendosi suo umile strumento, lascia parlare ed agire in se stesso Dio, da cui è stato totalmente plagiato al punto di attestare che non è più lui che vive, ma il Cristo, a cui egli è crocifisso, vive ed opera in lui (Gal 2,20), così che il suo stesso vivere è Cristo (Fil 1,21a).

La motivazione della sua scelta si conclude con il v.7a in modo un po' enigmatico: “anche per la grandezza delle rivelazioni”. Espressione questa che, così come collocata, trova difficoltà a collegarsi con il v.6, che ha in se stesso un senso compiuto, così che il v.7a, che quel “kaˆ” (kaì, e, anche) invece lega al v.6, dandone seguito, sembra una sorta di pleonasmo, di difficile collocazione al suo interno, ma nel contempo ha la sua rilevanza, perché funge anche da aggancio alla riflessione successiva (vv.7b-10): infatti, è a motivo della “grandezza delle rivelazioni” che gli è stata data una spina nella carne. Tuttavia, se il v.7a venisse collocato all'inizio del v.6b tutto tornerebbe più comprensibile, poiché “la grandezza delle rivelazioni” diverrebbe il motivo per cui Paolo si trattiene dal vantarsi, evitando in tal modo che la gente lo sopravaluti, oscurando così l'azione potente di Dio, che opera in lui e nella sua parola. Così che si avrà: “ma mi trattengo (dal farlo), affinché, anche per la grandezza delle rivelazioni, qualcuno non mi consideri oltre ciò che vede (di) me o [ciò che] sente (dire) da me”, dove la congiunzione “kaˆ” (kaì) ho preferito tradurla con “anche”, poiché la “grandezza delle rivelazioni” costituisce un'aggiunta, assommandosi assieme ad altri titoli e privilegi (11,22-30; 12,1-4), come anche la sua chiamata diretta da Dio e la sua investitura ad apostolo delle genti (Gal 1,1.11-12.15-16).

La grandezza compensata con l'umiltà della debolezza, vera forza di Paolo (vv.7b-10)

Alla grandezza delle rivelazioni e dei privilegi divini di cui Paolo ha beneficiato, si contrappone, quasi a controbilanciali, “affinché non mi inorgoglisca”, una spina, che, si noti bene, non fu “conficcata nella mia carne”, ma che “fu data a me, alla mia carne: “™dÒqh moi skÒloy tÍ sark…” (edótze moi skólops tê sarki), dove il termine “carne” indica più che il corpo di Paolo, uno stato di vita, quello in cui ogni uomo si trova, quello carnale o corporale. Per Paolo, il termine “s£rx” (sarx, carne) è ciò che si oppone al “pneàma” (pneûma, spirito) e dice due stati di vita che si contrappongono tra loro, così che il termine “carne” non è sinonimo di “corpo”, ma indica il vivere in un certo modo e ha attinenza, quindi, con il vivere e con la vita. Rm 7,5 attesta: “Quando infatti eravamo nella carne”, cioè quando si viveva secondo le logiche della carne; in 1Cor 7,28b si dice, parlando di chi vuole sposarsi: “Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele”, dove per “tribolazioni nella carne” non si intendono sofferenze corporee o fisiche, ma le difficoltà e le sofferenze che nascono dal vivere insieme e dagli oneri derivanti dal matrimonio; così 2Cor 10,3a precisa che “In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne”, intendendo che si vive come esseri umani, ma non secondo le logiche umane; così in Gal 2,20b: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio”, dove “vivere nella carne” si intende “vivere come essere umano” nei limiti e nelle sofferenze imposte dalla vita; similmente in Fil 1,24, parlando del suo desiderio di unirsi a Cristo, ma pensando alle necessità della sua comunità di Filippi, Paolo attesta: “d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne”, cioè che continui a vivere. Quindi la spina che fu data a Paolo, alla sua carne è la sofferenza che ha a che vedere con le sofferenze e i patimenti del suo vivere, della sua stessa vita, che è stata crocifissa con Cristo (Gal 2,20a).

La natura di questa sofferenza, che perseguita e tormenta la sua vita, sembra assumere qui i contorni di contesti a lui avversi, provocati dagli uomini, poiché questa “spina” riveste qui il volto di un essere vivente, quello di “un angelo di satana”, di una persona avversa a Dio e, quindi, anche a Paolo, in cui vive ed opera Dio stesso; un angelo questo che “lo schiaffeggia” di continuo, cioè lo maltratta e lo fa soffrire moltissimo.

Dall'insieme dei tratti che ne scaturiscono, questa spina che lo fa soffrire, questo angelo di satana che lo schiaffeggia senza dargli tregua non sembra essere una specifica persona, ma una categoria di persone che, come l'angelo di satana, suo emissario, sono avverse a Dio e più precisamente i suoi stessi avversari, che proprio qui in 11,14-15 paragona a satana, a suoi ministri; mentre l'essere da loro schiaffeggiato dice le grandi sofferenze che questi gli infliggono quotidianamente e che sommariamente ha elencato in 11,22-28 e che sinteticamente richiama qui in 12,10 e, in qualche modo, anche in Rm 8,35, ma dalle quali è sempre riemerso, probabilmente sempre sostenuto da quella grazia di cui Dio gli ha sempre assicurata (v.9).

Una condizione di vita che certamente gli doveva creare non poche sofferenze e molti dolori, spingendolo così ad invocare ripetutamente il suo Dio “affinché (lo) allontanasse da me”. Una reazione, quella di Paolo, naturale, spontanea, umana e che possiede in se stessa una giusta logica coerente con la missione che Paolo è stato chiamato a compiere, si badi bene, non dai capi della chiesa di Gerusalemme, che non lo vedevano di buon occhio, ma da Dio stesso, per annunciare alle genti un Vangelo, che non ha imparato dagli uomini, ma, per rivelazione, da Dio stesso (Gal 1,1.11-12.15-16a). La giusta coerenza consiste nel fatto che Paolo, il quale, a quanto egli attesta, possiede una sorta di rapporto privilegiato con il suo Dio, che lo guarda con una certa benevolenza, gli chieda di collaborare con lui, per rendergli la missione affidatagli più facile, eliminando dal suo cammino ogni ostacolo, che è, in ultima analisi, un ostacolo al suo stesso progetto di salvezza a lui affidato. Questo il quadro della giusta richiesta, che Paolo ha più volte rivolto al suo Dio.

Ma ben si sa che le logiche di Dio sono ben diverse da quelle degli uomini (Is 55,8-9), proprio per la diversa natura che separa i due, così che la risposta data a Paolo non poteva essere diversa da quella che gli fu data: “E (mi) disse: <<Ti basta la mia grazia, poiché la mia forza si compie ne(lla) debolezza>>”. In altri termini, Dio si muove in mezzo agli uomini secondo le logiche naturali proprie degli uomini, tant'è che Egli stesso ha deciso di incarnarsi e di accasarsi in mezzo agli uomini, divenendo solidale con loro (Gv 1,14), assumendo su di sé una fragile carne di peccato, pur non assoggettandosi al peccato (Eb 4,15b), sottomettendosi anche Lui alla sofferenza e alla morte (Fil 2,6-8),. Lo ha chiaramente dimostrato nel Getsemani, dove suo Figlio gli chiedeva di sottrarlo alla dolorosa morte di croce. La risposta fu quella di inviargli un angelo perché lo confortasse e lo sostenesse, non perché lo liberasse (Lc 22,42-43). E così similmente, Gesù si oppone all'azione violenta di Pietro, che voleva impedirne l'arresto, attestando che se avesse voluto, avrebbe potuto sottrarsi da solo, ma questo si sarebbe discostato dalle logiche e dai progetti di Dio, che ha il suo modo di realizzarli (Mt 26,52-54).

Non è diverso neanche questa volta: “Ti basta la mia grazia”, cioè la forza viva e potente con cui Dio sostiene ed opera nei suoi collaboratori di salvezza, la quale si manifesta in modo eclatante proprio nella fragilità e nella debolezza umana. Già lo aveva fatto capire nella liberazione del suo popolo dalla schiavitù egiziana, servendosi di un Mosè, non quale potente principe d'Egitto, mentre ancora godeva della stima e dei privilegi del faraone, ma di un Mosè decaduto dal suo stato di nobiltà e caduto in disgrazia, perseguitato e condannato a morte per l'uccisione di un egiziano (Es 2,11-12); di un Mosè che non era un abile e irresistibile retore dalla facile loquela, ma balbuziente, tanto da dover affidare il messaggio di liberazione e di rappresentanza a suo fratello Aronne (Es 4,10.14-16). Solo quando Mosè, da potente principe d'Egitto, fu ridotto all'impotenza, ormai dimenticato da tutti, solo allora Dio lo chiamò per farne il suo potente strumento di liberazione del suo popolo, perché proprio dal nulla di Mosè risplendesse ancor più vivida l'azione liberatrice e salvifica di Dio. Ed è proprio con tale logica, con la quale Dio conduce la sua storia di salvezza, che ricorda a Paolo come “la mia forza si compie ne(lla) debolezza” (v.9a).

Ed è in quest'ultima attestazione che Paolo scopre la logica con cui Dio opera nella sua vita e nella storia della salvezza; una logica che l'aiuta a comprendere il senso delle sue sofferenze, che secondo le logiche umane sono il segno della sconfitta, ma nelle logiche di Dio sono il seme da cui germoglia la Vita eterna, scaturita proprio da quel legno di croce che doveva suggellare il fallimento di Dio, mentre proprio da questo scaturì, invece, la sua vittoria, che dopo duemila anni, da quel tragico venerdì dell'anno 30 d.C., continua ancor oggi ad essere celebrata in tutto il mondo, poiché la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini e la sua debolezza più potente della potenza degli uomini (1Cor 1,25).

Ed è in questo contesto di morte, che genera la Vita, che Paolo, passando in rassegna per sommi capi il suo lungo elenco di sofferenze (v.10a), arriva a concludere in modo paradossale e tutto suo: “quando sono debole, allora sono forte” (v.10b), convincendosi come Dio opera potentemente proprio attraverso la sua debolezza.

Arrovellamento e tormento interiori di Paolo (vv.11-21)

Testo a lettura facilitata

Un tardivo rimpianto per essersi vantato (vv.11-12)

11- Sono diventato stolto, voi mi avete costretto. Io, infatti, dovevo essere raccomandato da voi. Infatti, in niente fui inferiore agli apostoli fuori misura, anche se sono un niente.
12- In verità i segni dell'apostolo si sono compiuti in mezzo a voi in tutta pazienza, con segni e prodigi e miracoli.

Un rimuginamento su quanto già detto in 11,7-11 (vv.13-15)

13- Che cos'è, infatti, ciò in cui soggiacete rispetto alle altre chiese, se non che proprio io non vi sono stato di peso? Perdonatemi questo torto!
14- Ecco, per la terza volta sono pronto a venire da voi, e non vi appesantirò; poiché non cerco i vostri (beni), ma voi. Infatti, i figli non devono mettere da parte per i genitori, ma i genitori per i figli,
15- Ed io con piacere spenderò e sperpererò (tutto me stesso) per le vostre anime. Se vi amo in modo sovrabbondante, sarò amato di meno?

Un'ipotesi di astuzia per ingannare i Corinti (vv.16-18)

16- Ma sia (pure) che io non vi abbia aggravato; ma risultando astuto, vi ho presi con inganno.
17- Vi ho tratti in inganno per mezzo di qualcuno di quelli che vi ho inviato?
18- Ho esortato Tito (a venire da voi) e (con lui) ho inviato assieme il fratello. Forse che Tito vi ha ingannati? Non abbiamo camminato con lo stesso spirito? Non sulle stesse orme?

I timori di Paolo per una sua nuova visita (la terza) presso i Corinti (vv.19-21)

19- Da molto tempo (voi) credete che noi vi parliamo in nostra difesa. Parliamo d'innanzi a Dio in Cristo; e tutto, (miei) amati, (è) per la vostra edificazione.
20- Temo, infatti, che, venuto (tra voi), non vi trovi tali come (vi) voglio; e io, (a mia volta), sia trovato (da) voi quale non (mi) volete; (temo che vi siano presso di voi) contesa, invidia, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini,
21- (e) di nuovo venuto (tra di voi) il mio Dio mi umili davanti a voi e io deplori molti di quelli che hanno peccato prima e non si sono convertiti dall'impurità dalla fornicazione e dalla dissolutezza con cui hanno operato.


Note generali

Paolo, ancor prima di arrivare ad un confronto diretto con i suoi avversari, misurandosi con loro sulla stessa titolatura che essi vantavano (11,22-33), anzi, andando anche oltre, avendo tirato fuori dal suo ripostiglio segreto, anche se a malincuore, le sue esperienze mistico-estatiche e il suo personale e privilegiato rapporto con Dio stesso (12,1-10), aveva premesso un lungo preambolo, quasi a giustificare la sua follia, con il quale attestava, dapprima, di non volersi misurare con questi “super apostoli” (10,12), ma che se proprio bisognava vantarsi, questo lo si doveva fare nel Signore, poiché solo lui sa soppesare il vero valore dell'autentico apostolo (10,17-18); poi, invocando tolleranza e comprensione da parte dei Corinti per la follia che stava per fare, accettando la sfida lanciatagli dai suo avversari (12,1.16-18); e, infine, rompendo ogni indugio, accetta la follia del confronto a muso duro e senza più remore e incertezze, rompendo in qualche modo gli argini della prudenza e della sua riservatezza (11,21;12,1).

Ora, dopo il suo sfogo, sia pur esso molto contenuto, in particolar modo nella sezione delle esperienze mistico-estatiche (12,1-10), viene preso come da un senso di rimorso e di ripensamento, quasi che questo raffronto, che lo ha costretto a mettere le sue carte in tavola, comprese quelle che aveva nella manica e che mai avrebbe voluto mostrare, lo abbia in qualche modo banalizzato nella sua missione e nel suo rapporto con Dio, avendo perso la sua verginità originale.

Ed è in questo contesto che va letta e compresa quest'ultima sezione (vv.11-21), che chiude la lettera “scritta tra molte lacrime” (10,1-12,21). Un Paolo che in qualche modo rimpiange quello che ha fatto e cerca di trovare una qualche di giustificazione, vedendosi in questo costretto dalla sconsideratezza dei suoi amatissimi Corinti (11,2.11; 12,15), che anziché difenderlo davanti a questi presuntosi “super apostoli” (12,11b), ma in realtà “falsi apostoli e operai fraudolenti” (11,13), si sono schierati dalla loro parte, accettando la loro dottrina, in netto conflitto con quella ricevuta da Paolo (11,4).

Ma è proprio per questo grande amore che porta ai suoi Corinti e nella speranza di poterli recuperare a sé, ma ancor prima a Cristo e al suo Vangelo, che egli si è esposto in questo modo: “Ed io con piacere spenderò e sperpererò (tutto me stesso) per le vostre anime” (12,15a).

La sezione in esame è caratterizzata da un grande tormento interiore di Paolo, non solo per essersi esposto in questo modo, mettendo se stesso in piazza in un duro quanto inutile confronto con i suoi avversari, quasi che la verità del suo Vangelo dipendesse dalla sua titolatura e dalla sua bravura, ma anche perché non vede chiaro i suoi rapporti e il suo futuro con la sua comunità.

Ho scandito la struttura di questa sezione in quattro parti, seguendo i temi in essa sviluppati:

    1. Un tardivo rimpianto per essersi vantato (vv.11-12);

    2. Un rimuginamento su quanto già detto in 11,7-11 (vv.13-15);

    3. Un'ipotesi di astuzia per ingannare i Corinti (vv.16-18);

    4. I timori di Paolo per una sua nuova visita (la terza) presso i Corinti (vv.19-21).


Commento ai vv.12,11-21

Un tardivo pentimento per essersi vantato (vv.11-12)

Due densissimi versetti che sintetizzano tutto il dramma interiore di Paolo e dei suoi tesi rapporti con la sua comunità di Corinto, sobillata da abili predicatori giudeocristiani giudaizzanti, probabilmente provenienti dalla chiesa madre di Gerusalemme.

Sono quattro i passaggi che lo spiegano:

  1. Sono diventato stolto, voi mi avete costretto” (v.11a): dopo il suo pesante intervento circa la sua titolatura (11,22-33), che ha contrapposto ai “super apostoli”, in realtà “falsi apostoli ed operai fraudolenti”, abili ingannatori e trasformisti nonché ministri di satana (11,5.13.15), arricchita da un accenno ai privilegi divini, quali le sue personali esperienze mistico-estatiche (12,1-7a), mitigate da abbondanti sofferenze (12,7b-10), Paolo, in qualche modo, ora, se ne pente, definendosi “stolto”, rendendosi conto di essere andato oltre quella misura che Dio gli aveva stabilito (10,13-14a), alla pari dei suoi avversari (11,5), uscendo così allo scoperto, rischiando di essere frainteso dalla sua comunità. E, quasi a giustificazione nei confronti della sua comunità, che forse non si aspettava una simile reazione da un Paolo da lei disistimato (10,1.10; 11,6a.7), ma ancor prima per giustificare se stesso nei confronti della sua coscienza, punta il dito contro la sua stessa comunità, causa del suo comportamento, alleviando in qualche modo il suo senso di colpa: “voi mi avete costretto”.

  2. Io, infatti, dovevo essere raccomandato da voi” (v.11b): il motivo di questa accusa lanciata verso la sua comunità, che lo ha costretto ad esporsi personalmente in quel modo lì, in un umiliante confronto con i suoi avversari, che gli ha causato un grave disagio, è dovuto al fatto che proprio loro, i Corinti, dovevano difenderlo dalle accuse dei suoi avversari, mentre hanno abbandonato Paolo alla mercé dei suoi avversari, anzi, schierandosi a loro favore, cosa questa che Paolo ha vissuto come un suo personale tradimento perpetrato dalla sua amata comunità. E i motivi per cui i Corinti dovevano schierarsi a suo favore di certo non mancavano loro e Paolo li enumera qui di seguito ai v.11c e 12: il primo riguardante la persona stessa di Paolo (v.11c); il secondo riguardante segni, prodigi e miracoli, legati allo status di apostolo, con cui Paolo deve aver accompagnato la sua predicazione presso i Corinti.

  3. Infatti, in niente fui inferiore agli apostoli fuori misura, anche se sono un niente” (v.11c): il primo motivo per cui i Corinti dovevano difendere Paolo dai suoi avversari è, come ha saputo dimostrare, che egli non è in niente inferiore a loro e non solo egli è pari loro, ma quanto a titolatura e privilegi divini è ben superiore ad essi, poiché il suo essere “apostolo” e “ministro di Dio”, sono un suo status vitae, che egli ha saputo spendere unicamente per Dio e il suo Cristo, mettendo tutto se stesso a loro servizio e annichilendosi a favore della stessa comunità di Corinto, contrariamente a quanto, invece, hanno fatto i suoi avversari, che approfittando della loro posizione e della loro titolatura hanno angariato in ogni modo la sua comunità (11,20), per la quale “con piacere spenderò e sperpererò (tutto me stesso) per le vostre anime” (v.15a), anche, conclude Paolo, “se sono un niente” (v.11d). Interessante questa battuta finale, che in qualche modo si richiama a 1Cor 15,8-10, perché Paolo con questa rimette a posto la sua coscienza, che in qualche modo lo aveva rimproverato con quel “Sono diventato stolto” (v.11a), anche se aveva cercato di scusarsi con essa attestando di essere stato costretto.

  4. In verità i segni dell'apostolo si sono compiuti in mezzo a voi in tutta pazienza, con segni e prodigi e miracoli” (v.12): il motivo per cui i Corinti avrebbero dovuto prendere le sue difese davanti ai suoi avversari è dato anche dal fatto che “i segni dell'apostolo si sono compiuti in mezzo a voi”. L'espressione “segni dell'apostolo” sembra quasi alludere ad una sorta di credenziale che ogni sedicente apostolo doveva esibire alla comunità per attestare la veridicità della sua apostolicità. Non è la prima volta, infatti, che l'espressione compare e che in particolar modo viene attestato come l'agire degli apostoli e dei predicatori itineranti fosse accompagnato da segni, prodigi e miracoli quasi ad avvallare la veridicità e l'attendibilità del loro annuncio15. Paolo, quindi, sembra alludere con questo versetto alla consuetudine dell'apostolo, che, presentandosi ad una comunità credente, esibiva una sorta di sua carta d'identità apostolica, che consisteva nella sua capacità di compiere “segni, prodigi e miracoli”, termini questi con cui si indicava con “segni” un qualsiasi intervento simbolico e/o sacramentale, che rimandava ad una realtà superiore, come potevano essere gli esorcismi; i prodigi potevano essere una qualsiasi attività dall'apostolo, inerente al suo titolo, che destasse ammirazione nel credente, mentre i miracoli esprimevano la potenza di Dio operante nell'apostolo, come potevano essere le guarigioni. Insomma, una sorta di linguaggio sacramentale che lasciasse trasparire l'operare di Dio in quel apostolo, rendendolo in tal modo credibile. Tutti segni questi che si sono compiuti “in mezzo a voi in tutta pazienza”, cioè segni di cui i Corinti sono stati testimoni e di cui, molto pazientemente, dalla parte di Paolo, vi fu l'insegnamento a saperli leggere ed accoglierli, non sempre facile e immediato, considerata la capacità critica della cultura greca.


Un rimuginamento su quanto già detto in 11,7-11
(vv.13-15)

Con la pericope vv.13-15 Paolo torna nuovamente su di una questione che già aveva affrontato in 11,7-11, ma che doveva essere di particolare rilievo, se non determinante, per i Corinti, che non concepivano come potesse un autentico apostolo, come egli si dichiarava, alla pari di altri apostoli titolati, non pretendere di essere mantenuto e pagato dalla comunità, preferendo, invece, dedicarsi ad un aborrito lavoro manuale, considerato proprio della plebaglia e degli schiavi, screditandolo in tal modo ai loro occhi. Anche per questo la sua stessa apostolicità veniva messa in discussione da parte dei suoi avversari e, di conseguenza, dagli stessi Corinti.

Paolo, quindi, con il v.13 cerca di far comprendere ai Corinti l'assurdità del loro modo di pensare e lo fa rivolgendosi a loro in modo ironico, quasi sarcastico, avendo accolto i suoi avversari, apostoli giudeocristiani giudaizzanti, che li hanno di fatto schiavizzati e angariati, appropriandosi dei loro beni: “sopportate se qualcuno vi sottomette, se qualcuno (vi) divora, se qualcuno s'impadronisce (dei vostri beni), se qualcuno si muove con orgoglio (nei vostri confronti), se qualcuno vi percuote in faccia” (11,20). Un rapporto, quindi, di oppressione se non per certi aspetti anche violento, imponendo ai Corinti delle punizioni fisiche in caso di disobbedienza, cui sembra riferirsi quel “vi percuote in faccia”. Niente di tutto questo da parte di Paolo, che rivolto ai Corinti chiede loro se per questo si sentono sminuiti rispetto alle altre comunità credenti, perché se così fosse, per assurdo, Paolo chiede loro perdono perché li ha trattati bene, spendendosi per loro gratuitamente, mostrandosi in questo debole nei loro confronti (11,21a). Doveva forse violentarli e angariarli come stanno facendo gli altri “super apostoli”? È questo che vogliono?

Fatto toccare con mano l'assurdità del loro modo di pensare e di comportarsi, che li spingono al discepolato di coloro che li maltrattano e li sfruttano schiavizzandoli, mentre rifiutano, scandalizzandosi, chi si offre loro gratuitamente, con tutto il proprio cuore e pronto a sacrificarsi per loro, Paolo, ora, attesta di “essere pronto a venire da voi per la terza volta” (v.14a), ma in realtà molti dubbi lo trattengono ancora, molti timori agitano il suo animo su questa terza visita, così che tanto “pronto” ancora non è (vv.20-21). Deve ancora passare del tempo ed avere maggiori garanzie e rassicurazioni da parte di Tito, suo fedele collaboratore e abile negoziatore. Una terza visita, quindi, che egli sta maturando dentro di sé, ma per la quale non è ancora per niente pronto. Essa, pertanto, ora, è soltanto una mera ipotesi, ma qualora dovesse far loro visita per una terza volta, mettendo così le mani avanti, non si comporterebbe in modo diverso da come si è sempre comportato. Non è lui, quindi, che deve cambiare, ma i Corinti, dei quali egli si sente padre, in quanto che li ha generati a Cristo con l'annuncio del Vangelo (1Cor 4,15). E su questa linea li porta a riflettere come siano proprio i padri che si spendono per i figli e li mantengono gratuitamente e non viceversa. Altro punto di riflessione questo, su cui Paolo si sofferma, cercando di far capire ai Corinti quale tipo di rapporto lo lega a loro: non quello di un sedicente apostolo professionista e super titolato, che pretende di essere pagato e mantenuto da loro, ma un rapporto di amore e di totale dedizione, sospinto dall'amore di Cristo (5,14a). Di conseguenza, conclude Paolo, “Ed io con piacere spenderò e sperpererò (tutto me stesso) per le vostre anime” (v.15a), poiché sono proprio queste ultime, le loro anime, che egli cerca e non i loro beni (v.14a), come invece fanno i “super apostoli”, ma in realtà “falsi apostoli e operai fraudolenti” (11,13a.20).

Ora, Paolo, ha posto sul tavolo tutte le sue carte, mettendo in rilievo il grande amore che lo sospinge verso i Corinti, amore che si fonda su quello stesso di Cristo per loro (5,14). Ma se il suo è un così grande amore, che lo spinge a mettersi a servizio dei Corinti gratuitamente, egli si aspetta che i Corinti facciano altrettanto con lui, poiché l'amore, perché sia costruttivo, non può mai essere a senso unico, se si vuole creare una comunione di vita, per cui si chiede: “sarò amato di meno?” (v.15b), poiché solo in tal modo, in un reciproco compenetrante amore si crea un'osmosi di vite, che si fondono in Cristo.

Un'ipotesi di astuzia per ingannare i Corinti (vv.16-18)

Certo Paolo ha saputo dimostrare bene le sue credenziale e ha fatto un'ottima autodifesa, presentando se stesso come un umile servitore di Cristo e, per causa sua, anche dei Corinti, ai quali si dona gratuitamente, sospinto dall'amore di Cristo. Solo amore, dunque, come quello di un padre per i figli.

Un Paolo, pertanto, molto abile che ha saputo tirar l'acqua al suo mulino. Ma è veramente così? Quanto in questa sua autodifesa gioca l'onestà intellettuale e quanto, invece, l'astuzia? Veramente Paolo in quello che ha detto in sua autodifesa è stato onesto e sincero fino in fondo o, invece, ha giocato con furbizia e scaltrezza vestendo la sua rapacità con un vello di pecora?

Paolo probabilmente risponde qui a delle malevoli insinuazioni dei suoi avversari o degli stessi Corinti, che seminano dubbi sull'onestà e la correttezza della sua autodifesa, finalizzata a far loro abbassare la guardia per poi colpirli alle spalle con inganno, impossessandosi non solo delle loro anime, ma, con queste, anche dei loro beni. Un Paolo, dunque, astuto, scaltro, diabolico, che cerca in tutti i modi di raggirare i Corinti per conquistarli.

Paolo, già ha riconosciuto in 11,6a di non essere un abile retore, e quindi va al sodo, puntando tutto sulla prova dei fatti, poiché “contra factum argomentum non valet”, invitando i Corinti a valutare loro stessi il suo comportamento: egli è stato onesto e corretto nei loro confronti, ma forse qualcuno di quelli che egli ha inviato loro, come Tito, suo fedele compagno e stretto collaboratore presso la comunità di Corinto (8,23) e con lui un altro fratello, ne hanno approfittato, comportandosi in modo disonesto e cercando di ingannare i Corinti? O, invece, Tito ha tenuto nei suoi rapporti con la comunità la stessa linea di condotta di Paolo: “Non abbiamo camminato con lo stesso spirito? Non sulle stesse orme?”. Domande retoriche, la cui risposta è scontata: i Corinti, se sono onesti e corretti, non possono dire nulla né sul comportamento di Paolo né su quello di Tito. Paolo e i suoi collaboratori sono onesti, perché sono autentici servi di Cristo, sospinti tutti dall'amore di Cristo, che si è donato a tutti gratuitamente, chiedendo a tutti solo amore.

I timori di Paolo per una sua nuova visita (la terza) presso i Corinti (vv.19-21)

La lettera “scritta tra molte lacrime” si chiude in modo molto amaro, con note di tristezza, che sfiorano la depressione. Paolo sente pesare su di sé la diffidenza e la sfiducia dei Corinti, che ritengono che quanto egli dice sia solo la presa di posizione di chi cerca di autogiustificarsi in qualche modo, ma per quanto dica non è creduto. Per questo egli chiama a testimonianza della sincerità e della veridicità di quanto egli ha detto su se stesso Dio “in Cristo”, dove quel “in Cristo” può essere riferito sia a Dio, che si è manifestato in Cristo; sia a Paolo stesso, che ha parlato “in Cristo”, cioè con la stessa sincerità e onestà di cuore e di mente di chi vive in Cristo. E quanto Paolo ha fin qui detto e fatto nei confronti dei Corinti non è certo per la sua autodifesa, ma per “l'edificazione” degli stessi Corinti, finalizzata alla costruzione di una comunità in accordo e in comunione con se stessa e con Cristo. Un'attestazione che Paolo rivolge ai Corinti, che definisce, nonostante le divergenze, come “(miei) amati”, poiché Paolo ama con l'amore di Cristo, essendo sospinto dal suo amore ad amare ciò che egli ama (5,14), rilevando, una volta di più, come i suoi rapporti con loro siano improntati su di una relazione filiale (6,13; 12,14b; 1Cor 4,15).

Ancora una volta Paolo mette da parte la propria persona e i propri interessi ed evidenzia qui come la sua autodifesa non era per proteggersi dalle accuse dei Corinti e dei suoi avversari, ma per riconquistare la fiducia dei Corinti verso se stesso, poiché riallacciare i rapporti con Paolo significava riallacciarli con Cristo, ricostituendosi in lui. Solo Cristo importa a Paolo, poiché per lui vivere è Cristo (Fil 1,21a), infatti, non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui (Gal 2,20a). Del resto lo aveva già detto chiaramente in 1Cor 4,3-4 che non gli importava questo gran che essere giudicato dai Corinti, ma per lui ciò che contava era il giudizio di Dio: “A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!

Se il v.19 mette in evidenza il timore di Paolo per la sfiducia dei Corinti nei suoi confronti, sfiducia che vanificherebbe ogni suo sforzo per riconquistarli a Cristo (v.19), i due versetti che seguono, vv.20-21, potremmo definirli come i versetti dei timori dell'incomunicabilità e dell'incomprensione, quali conseguenze della sfiducia, questa volta, reciproca. Una conseguenza che è rilevata da quel “g¦r” (gàr, infatti), posto all'inizio del v.20, che viene legato a quanto detto al v.19, così che i timori di Paolo dipendono tutti da quanto detto al v.19; il timore della sfiducia da parte dei suoi amati Corinti.

Il verbo “foboàmai” (fobûmai, temo) apre, caratterizzandola, la seconda parte di questa breve pericope ed esterna tutti i dubbi e i timori di Paolo circa i suoi rapporti con la sua comunità; timori che qui sembrano produrre una reciproca delusione. Da un lato, infatti, Paolo teme che la sua venuta non trovi i Corinti come lui vorrebbe, cioè a lui aperti e accoglienti nonostante i suoi limiti contestatigli dalla sua comunità; dall'altro, teme che la sua comunità rimanga ferma sulle sue posizioni e si aspetti un Paolo diverso da quello fin qui contestato. Una situazione di reciproca insoddisfazione, quindi, che si radica in sentimenti e atteggiamenti negativi, che si agitano all'interno della comunità: “contesa, invidia, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini”. Sentimenti questi che già avevano portato i Corinti a dividersi in gruppi contrapposti (1Cor 1,11-12), ma che si sono accentuati, traducendosi, poi, in una rivolta contro lo stesso Paolo, per la sobillazione dei suoi avversari, che stavano agitando e intorbidendo le acque della comunità, così che Paolo teme di dover riprenderli nuovamente, come già aveva fatto con la sua prima lettera, per la loro persistenza in comportamenti dissoluti, nettamente in contrasto con le esigenze della nuova vita in Cristo.


B) Biglietto accompagnatorio l'originaria Seconda Lettera ai Corinti e suo preambolo:

Sezione delle consolazioni

(1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11)




Testo a lettura facilitata

Inno alla consolazione di Dio (1,3-7)

3- Benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle compassioni e Dio di ogni consolazione,
4- il quale ci consola in ogni nostra afflizione, per poter noi consolare quelli (che sono) in ogni afflizione per mezzo della consolazione con cui siamo stati consolati noi stessi da Dio;
5- poiché come sovrabbondano le sofferenze di Cristo in noi così per mezzo di Cristo sovrabbonda anche la nostra consolazione.
6- ma sia che (noi) siamo afflitti, (lo siamo) per la vostra consolazione e (per la vostra) salvezza; sia che siamo consolati (lo siamo) per la vostra consolazione, che opera nella perseveranza delle medesime sofferenze, che anche noi soffriamo.
7- La nostra speranza nei vostri riguardi (è) salda, sapendo (noi) che come siete partecipi delle sofferenze, così (lo siete) anche della consolazione.

Primo esempio di consolazione: il grave evento da cui Paolo fu liberato (1,8-11)

8- Infatti, non vogliamo che voi ignorate, fratelli, sulla nostra afflizione accaduta in Asia, che fummo oppressi con eccesso al di sopra de(lla nostra) forza, così da essere incerti su di noi e sul (nostro stesso) vivere.
9- Ma (noi) stessi in (noi) stessi abbiamo avuto la sentenza di morte, affinché non fossimo fidenti in (noi) stessi, ma nel Dio che risuscita i morti;
10- il quale da così grande morte ci ha liberati e (ci) libererà, nel quale abbiamo sperato [che] ancor di più (ci) libererà,
11- coadiuvando anche voi per noi con la preghiera, affinché la grazia per noi (ottenuta) da molte persone, per mezzo di molti ci fu rendimento di grazie per noi.

Secondo esempio di consolazione: Il ritrovamento consolante di Tito con buone notizie (2,12-13+7,5-16)

2,12- (E così, allorché) giunto nella Troade per il vangelo di Cristo, anche se mi si era aperta una porta nel Signore,
13- non ho avuto sollievo per il mio spirito, perché non vi ho trovato Tito, mio fratello, ma salutatili, partii per la Macedonia.
7,5- E infatti, giunti in Macedonia, nessuna quiete ebbe la nostra carne, ma in tutto siamo stati tribolati: da di fuori battaglie, dal di dentro timori.
6- Ma colui che consola i miseri, Dio, consolò noi con la venuta di Tito,
7- ma non solo con la sua venuta, ma anche per la consolazione con la quale fu consolato da voi, annunciandoci il vostro ardente desiderio, il vostro pianto, il vostro zelo per me così da gioire di più.
8- Poiché se anche vi ho rattristati nella lettera, non me ne pento; e se mi pentissi, vedo [infatti] che quella lettera, anche se fino ad ora, vi rattristò,
9- ora gioisco, non perché siete stati rattristati, ma perché siete stati rattristati per il pentimento; siete stati rattristati, infatti, secondo Dio, così che non siete stati danneggiati in niente da noi.
10- Infatti, l'afflizione secondo Dio opera un pentimento per (la) salvezza, che non causa rimpianto; l'afflizione del mondo, invece, produce la morte.
11- Ecco, infatti, questo stesso essere rattristati secondo Dio, quanta sollecitudine ha prodotto in voi, anzi (quanta) giustificazione, anzi (quanto) timore, anzi (quanto) desiderio ardente, anzi (quanto) zelo, anzi (quanta) punizione. In tutto avete mostrato che (voi) stessi siete innocenti (riguardo) al fatto.
12- Pertanto, se anche vi scrissi, non (fu) a motivo di colui che ha offeso, né a motivo di chi fu offeso, ma perché fosse manifesta la vostra sollecitudine, che (avete) per noi presso di voi davanti a Dio.
13- Per questo siamo stati consolati. Ma molto più per la nostra consolazione oltre misura abbiamo gioito per la gioia di Tito, poiché il suo spirito fu sollevato da tutti voi;
14- poiché se mi sono con lui gloriato di un qualcosa per voi, non me ne sono vergognato, ma come vi abbiamo detto tutte le cose in verità, così anche il nostro vanto presso Tito fu verità.
15- E il suo cuore è oltre misura per voi, essendosi ricordato dell'obbedienza di tutti voi, come con timore e tremore lo avete accolto.
16- Gioisco perché in tutto posso confidare in voi.

Vanto nella verità: chiarimenti sulla sua mancata visita promessa in 1Cor 16,5-8 (1,12-2,11)

12- Infatti il nostro vanto è questo: la testimonianza della nostra coscienza, che con (la) sincerità e con (la) schiettezza di Dio e non con (la) sapienza carnale, ma con (la) grazia di Dio, ci siamo comportati nel mondo, ma soprattutto verso di voi.
13- Infatti non vi scriviamo altre cose ma o quelle che leggete o anche comprendete; ma spero che fino alla fine comprenderete,
14- come anche ci avete compresi in parte, che siamo il vostro vanto come anche voi (il) nostro nel giorno del Signore [nostro] Gesù.
15- E con questa convinzione volli prima venire da voi, affinché aveste una seconda grazia,
16- e da voi passare in Macedonia e di nuovo dalla Macedonia venire presso di voi e da voi essere accompagnato in Giudea.
17- Volendo questo, dunque, forse ho usato leggerezza? O quelle cose che voglio (le) voglio secondo la carne, affinché vi sia presso di me il si si e il no no?
18- Ma fedele (è) Dio, poiché la nostra parola che è verso di voi non è si o no.
19- Infatti, il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che (è) in mezzo a voi essendo stato predicato per mezzo nostro, per mezzo di me e di Silvano e di Timoteo, non divenne si e no, ma in lui è divenuto si.
20- Infatti, numerose promesse di Dio in lui (divennero) si. Perciò anche per mezzo di lui (sale) l'Amen a Dio per la (sua) gloria per mezzo nostro.
21- Colui che ci conferma con voi in Cristo e colui che ci ha unti (è) Dio,
22- che anche ci ha segnati con il sigillo e avendoci dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.
23- Io chiamo a testimone sulla mia vita Dio, che per risparmiarvi non venni più a Corinto.
24- Non che siamo padroni della vostra fede, ma (siamo) collaboratori della vostra gioia; infatti, quanto a fede state saldi.

Cap.2

1- Decisi infatti in me stesso questo, di non venire di nuovo presso di voi con tristezza.
2- Se infatti io vi rattristo, vi (è) anche qualcuno che mi rallegra se non colui che è rattristato da me?
3- E proprio questo scrissi, affinché, dopo essere venuto, non abbia tristezza da coloro dai quali bisognava che io fossi rallegrato, persuaso verso tutti voi che la mia gioia è di tutti voi.
4- Infatti con molta sofferenza e angustia di cuore vi scrissi tra molte lacrime, non perché siate tristi, ma affinché conosciate quale amore ho in modo assai smisurato per voi.
5- Ma se qualcuno (mi) ha contristato, non ha rattristato me (soltanto), ma in parte, per non essere di peso (a qualcuno), tutti voi.
6- È sufficiente per quel tale quel castigo che (gli è venuto) dai più,
7- così che, per questo, invece, (è bene che) voi siate benevoli e (gli) siate di conforto, affinché questo tale in qualche modo non sia divorato da un eccessivo dolore.
8- Perciò vi esorto a confermare verso di lui (la) carità;
9- infatti, anche per questo vi ho scritto, affinché conosca la vostra provata virtù, se siete obbedienti in tutte le cose.
10- A chi fate cosa grata, anch'io (la faccio); infatti anch'io ciò che ho gratificato, se qualche cosa ho gratificato, (l'ho fatto) per voi, davanti a Cristo,
11- affinché non siamo ingannati da satana; infatti, non ignoriamo il suo pensiero.


Note generali

Il contesto storico: Paolo, dunque, ha inviato ai Corinti, per il tramite di Tito, suo fedele collaboratore ed abile diplomatico nonché capace mediatore, la sua lettera “scritta tra molte lacrime” (A) (6,11-12+7,2-4+10,1-12,21) e rimane ad Efeso in attesa degli esiti di tale missione. Ma nel frattempo, proprio qui ad Efeso, dove Paolo dimorava e dimorerà per tre anni (At 20,31), è costretto alla fuga per la rivolta degli orafi contro di lui (At 19,23-41)16. Egli, pertanto, si reca dapprima a Troade, dove spera di incontrare Tito, ma non trovatolo, sconfortato, si reca in Macedonia (2,12-13; At 20,1) e lì, probabilmente a Filippi, da dove scrive la Seconda Lettera ai Corinti, quella originaria (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13), incontra Tito, che gli reca liete notizie da Corinto: l'offensore è stato punito dalla comunità e i Corinti sono tornati dalla sua parte (7,6-7). La gioia di Paolo, a ben guardare come si era conclusa la lettera “scritta tra molte lacrime” (12,19-21), doveva essere stata incontenibile, probabilmente pari a quella che egli provò, a suo tempo, per le ottime notizie ricevute da parte di Timoteo (1Ts 3,6) sulla sua neonata comunità di Tessalonica, che aveva dovuto abbandonare repentinamente per una persecuzione scatenatagli contro dai Giudei, e proprio da Corinto scriveva la sua Prima Lettera ai Tessalonicesi (50-51 d.C.), che è un incontenibile inno di rendimento di grazie, che si prolunga per ben tre capitoli (capp.1-3).

Così, qui, similmente, Paolo, ricevute le ottime notizie da Tito, vede trasformarsi la sua profonda ed opprimente amarezza (12,19-21) in una irrefrenabile gioia per la grande consolazione ricevuta, che vuole condividere e celebrare con la sua ritrovata ed amatissima comunità di Corinto (2,4b), così che, nello scrivere la Seconda Lettera ai Corinti (C), quella originaria (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13), la fa accompagnare, quale suo preambolo, da questo biglietto (B) (vv.1,3-11+2,12-13+7,5-16), che è un inno di benedizione a Dio, che celebra la sua misericordia e la sua consolazione (vv.1,3-7), a testimonianza della quale ricorda due episodi: i gravi pericoli di vita in cui era incorso in Asia, probabilmente ad Efeso, e dai quali fu liberato da Dio (vv.1,8-11); e questa stessa circostanza: le liete notizie ricevute da Tito, anche queste fonte di grande gioia e di grande consolazione per Paolo (2,12-13+7,5-16).

Annotazioni: la sezione delimitata dai vv.1,3-11+2,12-13+7,5-16 l'ho definita “delle consolazioni” per il comune tema, che sottende l'intera sezione: Dio sostiene Paolo nelle sue innumerevoli sofferenze, in mezzo alle quali non vengono mai meno la consolazione e l'incoraggiamento divini.

A questa sezione ne ho aggiunta un'altra, delimitata dai vv.1,12-2,11, che nulla ha a che vedere con il tema della consolazione, ma si aggancia tematicamente al v.7,14b, dove Paolo mette in rilievo un altro tema molto importante: la sincerità del suo cuore e del suo vantarsi dei Corinti presso Tito: “vi abbiamo detto tutte le cose in verità, così anche il nostro vanto presso Tito fu verità”. Questo tema, che attesta la sincerità di cuore e di spirito con cui Paolo si apre e parla ai Corinti, si aggancia perfettamente con i vv.1,12-13a, dove si parla anche qui della sincerità di cuore e di coscienza con cui Paolo affronta, come sua autodifesa, la questione del mancato viaggio, che aveva programmato in 1Cor 16,5-8, per la quale cosa venne accusato di non mantenere la parola data e, quindi, di scarsa serietà.

Una sezione quella di 1,12-2,11 che, agganciata al v.7,14b, mette in rilievo un tema che sta particolarmente a cuore a Paolo e che pervade l'intera canonica 2Cor e ne dà il tono: la sincerità di cuore con cui Paolo parla ai Corinti e la sua grande onestà interiore e intellettuale e la sua apertura d'animo nei loro confronti, senza scendere a compromessi, poiché la posta in gioco qui non è se stesso e la sua credibilità o il suo buon nome, ma Cristo stesso e il suo Vangelo, che in Paolo sono radicati e vivono (Gal 2,20).

Che questo sia il biglietto accompagnatorio l'originaria Seconda Lettera ai Corinti (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13), ma da questa distinto, e che segue la lettera “scritta tra molte lacrime”, lo si arguisce non solo dal fatto che Paolo accenna qui a tale lettera con i vv.7,8.12, ma altresì dal fatto che egli allude, con il v.7,5, alle sue grandi sofferenze con cui essa termina (12,19-21) e in genere alle sofferenze che traspaiono da questa; mentre si distingue dall'originaria Seconda Lettera ai Corinti sia perché tale biglietto tematicamente non ha nulla a che vedere con quella; sia perché l'originaria Seconda lettera ai Corinti è letterariamente ben circoscritta così come individuata (1,1-2+2,14-17+3,1-6,10+13,11-13) e non dà spazi letterari o agganci a tale biglietto, che funge come un'entità letteraria a se stante, tematicamente ben definita.

Quanto alla scelta di considerarlo come un biglietto accompagnatorio all'originaria Seconda Lettera ai Corinti, ciò è dovuto al fatto che i contenuti di questo biglietto fungono in qualche modo da preambolo preparatorio alla Lettera, che inserita entro la cornice di questo biglietto diventa più comprensibile e giustificabile. Essa, infatti, è una pacata riflessione sulla ministerialità e apostolicità di Paolo; una pacatezza comprensibile solo all'interno di questo biglietto-preambolo, che celebra l'avvenuta rappacificazione tra Paolo e la sua comunità, il quale, con tale biglietto, sembra volerla in qualche modo coinvolgere in una sorta di concelebrazione liturgica di lode e di ringraziamento a Dio per la ritrovata e ristabilita comunione tra i due.

Quanto alla struttura di questa sezione, che ho denominato “delle consolazioni” (B) e che funge da preambolo accompagnatorio all'originaria “Seconda Lettera ai Corinti” (C) (1,1-2+2,14-17+3,1-6,10+13,11-13), propongo la seguente:

  1. Inno benedicente al Dio che consola (1,3-7);

  2. Primo esempio di consolazione: il grave evento da cui Paolo fu liberato (1,8-11)

  3. Secondo esempio di consolazione: Il consolante ritrovamento di Tito (2,12-13+7,5-16);

  4. Vanto nella verità: chiarimenti sulla sua mancata visita promessa in 1Cor 16,5-8 (1,12- 2,11).


Commento al “biglietto accompagnatorio”: vv. 1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11

Inno alla consolazione di Dio (1,3-7)

Note generali

Tutto il tormento di Paolo, che traspare da 11,4 a motivo del tradimento dei Corinti non solo nei suoi confronti, ma soprattutto di Cristo e del suo Vangelo; nonché per l'incerto futuro, che gli si prospetta dinnanzi (12,19-21), dovuto ai difficili rapporti con la sua comunità; tutta questa sofferenza, che lo sta opprimendo e perseguitando (7,5), svanisce nel nulla dopo l'incontro con Tito, che gli riferisce le ottime notizie da Corinto. Il peso della sofferenza fin qui patita si trasforma in un euforico inno di lode a Dio, qui percepito come la fonte di ogni compassionevole consolazione. Termine quest'ultimo che in varia forma, verbale o sostantivale, compare per ben dieci volte in cinque versetti, caratterizzando non solo l'inno celebrativo, ma l'intero biglietto accompagnatorio, che tale inno apre.

La pericope innica (vv.3-7), che forma da cornice a questo biglietto, che accompagna l'originaria Seconda Lettera ai Corinti, creando il contesto dell'avvenuta rappacificazione tra Paolo e la sua comunità, entro cui va collocata e compresa la Lettera, è scandita in quattro momenti:

  1. l'atto di benedizione che sale da Paolo verso Dio (v.3);

  2. il motivo che spiega il senso di questa benedizione così particolare (v.4);

  3. la giustificazione che fonda il motivo di tale benedizione (v.5);

  4. ed infine, una riflessione sul rapporto sofferenza e consolazione, che caratterizza i rapporti di Paolo e la comunità di Corinto, che su tale sfondo si muovono (v.6-7).

Un inno, quindi, che partendo da una celebrazione di lode e di ringraziamento, tale ha da intendersi quel “benedetto” (v.3), va via via sempre più approfondendosi (vv.4-5) fino a sfociare in una riflessione (vv.6-7), che affonda le sue radici nel tormentato e sofferto vivere quotidiano di un Paolo, che si sente crocifisso con Cristo, vivendo nella propria carne la sua passione e la sua morte (Gal 2,20a). Un inno, quindi, che nasce dalla vita, la quale Paolo ha saputo trasformare in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio nonostante la sua sofferenza, anzi proprio a motivo di questa (12,10); e in questa azione liturgica celebrativa egli cerca, con questo biglietto, di coinvolgere l'intera sua comunità, rendendola partecipe degli eventi che li hanno coinvolti in un'unica sofferenza per Cristo.

Commento ai vv. 1,3-7

L'inno, che celebra la compassione che consola, si apre significativamente con una formula benedicente: “Benedetto” (EÙloghtÕj, Euloghetòs), che caratterizza il linguaggio del pio ebreo, che si rivolge al suo Signore. Un termine questo che ricorre in questa forma complessivamente 68 volte in tutto l'A.T., e solo otto volte nel N.T. Un termine che è a doppio scorrimento: da Dio verso l'uomo, attestando in tale caso tutta la benevolenza, la protezione e la ricchezza di doni spirituali e materiali con cui Dio lo ricolma e in qualche modo lo consacra a Sé, facendone una sorta di sua proprietà (Nm 6,23-27) e, quindi, impegnando Se stesso nei confronti dell'uomo, sul quale Egli ha posto il suo Nome; da qui la gratitudine del credente che, a sua volta, si rivolge al suo Dio benedicendolo, traducendo in tal modo le attenzioni di Dio nei suoi confronti in un'azione di grazie e di lode, che sale verso il suo Signore, trasformando così la propria vita in una liturgia di lode e di ringraziamento. Il benedire, quindi, crea una sorta di flusso vitale che scorre da Dio verso l'uomo e da questi verso il suo Dio e che lega e compenetra i due in una comunione di Vita, che si riflette nel vivere quotidiano dell'uomo, che diventa, a sua volta, un vivere benedicente non solo verso il suo Dio, ma altresì verso gli altri e verso l'intero creato. Per questo egli è chiamato a “benedire e non a maledire” (Rm 12,14).

La benedizione benedicente, che Paolo qui celebra, non riguarda un Dio generico, quasi anonimo, ma circoscritto e identificato in tre distinti modi: egli è il “Padre del Signore nostro Gesù Cristo”, quindi Colui che nella risurrezione ha generato l'uomo Gesù, riconosciuto come il suo Cristo, cioè il suo Unto, che lo rende sua manifestazione e rivelazione in mezzo agli uomini, costituendolo suo Figlio e Signore (Rm 1,4), ricapitolando in Lui tutte le cose (Ef 1,10).

Ma questo Dio, proprio perché è “Padre del Signore nostro Gesù Cristo”, in cui non solo si rivela e si manifesta, ma altresì agisce ed opera, tendendo la mano agli uomini, diviene anche “Padre delle compassioni”, dove quel “Padre” è qui sinonimo di “Fonte”, da cui si generano e sgorgano le compassioni. Sovente l'espressione, scostandosi dal testo greco, che dice; “pat¾r tîn o„ktirmîn” (patèr tôn oiktirmôn, Padre delle compassioni), viene tradotta con “Padre misericordioso”. La differenza è sostanziale, poiché “misericordioso” significa “dal cuore che si muove a pietà”17 e che funge in qualche modo da motore alla compassione: provo pietà, quindi divento solidale; mentre, come nel nostro caso, la “compassione” dice il “cum pati”, il “con-soffrire” con chi soffre e, quindi, il rendersi solidale con la condizione umana, cosa che il Padre ha realizzato nel suo Cristo, che ha assunto una natura umana di peccato, rinunciando alla sua connaturata gloria di Figlio di Dio, in quanto Dio lui stesso (Fil 2,6-8). Paolo, quindi, non definisce qui Dio come “misericordioso”, ma come “Fonte delle compassioni”, cioè un Dio sempre pronto, in ogni circostanza, a condividere nel suo Cristo la sofferenza dell'uomo, in qualunque forma essa si presenti, rendendosi a lui solidale, facendosi a lui vicino, così che egli diviene anche il “Dio di ogni consolazione”, dove quel “ogni” fa di Dio la “Fonte unica” della “consolazione”. Termine questo, che è conseguente al “cum pati”, cioè al “con-soffrire”, poiché se Dio si rende solidale all'uomo nella sua sofferenza, lo diviene anche nella “consolazione”, termine questo che deriva dal latino “cum-solari”, dove il “cum” dice “con, insieme”, mentre il verbo “solari” dice “confortare, consolare, sostenere”, ma altresì “risarcire, ricompensare”. E la consolazione per Paolo si presenta qui in entrambi i sensi, sia come conforto e sostentamento da parte di Dio, che lo spinge in avanti nella sua missione verso il mondo pagano; ma sia anche quale risarcimento, sotto forma di ricompensa per le sue sofferenze sopportate per Cristo, attraverso le liete notizie recategli da Tito. Ed è significativo come entrambi i termini “compassione” e “consolazione” siano caratterizzati dal suffisso “con/m” che dice come l'agire di Paolo non è mai un agire solitario, ma “con” lui si muove, “con-soffrendo” e sostenendo, Dio stesso, cui Paolo innalza questo inno di lode e ringraziamento.

Il dono della consolazione, che nasce dalla solidarietà di Dio con l'uomo e nello specifico con Paolo, come del resto ogni dono di Dio, non è ad usum Delphini, cioè ad esclusivo beneficio di Paolo, ma la consolazione spinge Paolo ad essere, a sua volta, compassionevole, cioè solidale con chi, a pari suo, si trova nella sofferenza a causa di Cristo, così che la consolazione, alimentata dalla carità in vista della speranza (Col 1,4-5), rafforzi i cuori di chi soffre per Cristo, spingendolo oltre l'ostacolo della sofferenza, creandosi in tal modo un ciclo virtuoso, che da Dio, resosi solidale con gli uomini nel suo Cristo, in cui è racchiusa la speranza, fluisca e si renda presente verso e in chi soffre. Chi riceve, quindi, un dono da Dio assume anche su di sé l'impegno e la responsabilità di usare tale dono per il bene degli altri.

L'inno si conclude creando una sorta di connubio inscindibile tra sofferenza e consolazione. Sofferenza, si badi bene, non più di Paolo per Cristo, ma di Cristo in Paolo, che lascia intendere come egli viva la sua vita come una realtà dinamicamente e profondamente associata alla sofferenza del Cristo crocifisso e che lo porterà in Gal 2,20a, lettera quest'ultima scritta subito dopo la Seconda Lettera ai Corinti, ad esclamare: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”, creando in tal modo una sorta di identificazione tra se stesso e Cristo; quel Cristo che non costituisce il senso della sua vita, ma la sostanza e l'essenza stessa del suo stesso vivere (Fil 1,21a). Non c'è più dunque distinzione tra Paolo e Cristo, poiché Paolo non solo è stato permeato da Cristo e intriso di Cristo, ma si è letteralmente liquefatto in lui. La conseguenza di questo è che Paolo è associato ai destini non solo di sofferenza e di morte di Cristo, ma nel contempo anche alle consolazioni, che in qualche modo sono intrinsecamente legate alla sua risurrezione e ne sono una sua pur modesta manifestazione, poiché la croce non è mai disgiunta dalla risurrezione, così come il dono dello Spirito, di cui il credente è rivestito e permeato, è colto da Paolo quale caparra, quale pegno e anticipo della gloria futura, che già vive in lui, benché in modo non ancora pieno e definitivo.

La premessa dei vv.4-5 trova ora qui, ai vv.6-7, la sua pratica applicazione: l'agire di Paolo è l'agire stesso del Cristo crocifisso-morto-risorto ed è all'interno di questa dinamica che Paolo opera per la consolazione e la salvezza degli stessi Corinti, essi stessi associati alla morte e risurrezione di Cristo, che si manifesta nella difficile e sofferta perseveranza nella fede, che esige un nuovo modo di vivere, un nuovo stile di vita, ma che apre anche alla consolazione della speranza, che prospetta loro la gloria futura, cui sono stati chiamati, poiché, come scriverà solo qualche anno più tardi in Rm 8,28-30, “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati”.

Così anche i Corinti, partecipi delle sofferenze di Cristo, sono anche partecipi delle consolazioni che provengono da Cristo, quelle consolazioni che consolano anche Paolo, così che la sua speranza nei loro riguardi (è) salda (v.7a).

Primo esempio di consolazione: il grave evento da cui Paolo fu liberato (1,8-11)

La celebrazione innica di lode e ringraziamento al Dio che consola Paolo in ogni tribolazione, che gli proviene dalle sofferenze della sua difficile missione verso il mondo pagano, spesso incompresa se non rifiutata e sovente intralciata e minacciata dai predicatori itineranti giudeocristiani giudaizzanti, cui alludono qui i vv.4-6 e in 7,5, trova ora la sua esemplificazione nella sezione 1,8-11 e 2,12-13+7,5-16, dove Paolo spiega ai Corinti in che cosa consiste il binomio sofferenza-consolazione, insegnando loro, implicitamente, a leggere gli eventi della storia, dove Dio, ma anche le forze a Lui avverse, operano in continuo contrasto tra loro. Da qui la sofferenza di Paolo, alleviata da un Dio che non consente mai che il suo servo soccomba, ma lo soccorre e lo sostiene nel compimento della sua missione.

Il primo esempio riguarda un evento doloroso che aveva colpito Paolo in Asia, provincia romana per senatoconsulto del 132 a.C. In che cosa esso sia consistito non ci è dato di sapere, ma, certamente noto ai Corinti, sia perché Paolo non si sofferma a descrivere quanto gli era successo, sapendo che lo stesso era conosciuto; sia perché gli stessi Corinti, assieme ad altre comunità, parteciparono a preghiere e suppliche a Dio perché liberasse Paolo da questa afflizione (v.11). Paolo vuole qui ricordare quel evento, noto a loro, ma probabilmente non nella sua gravità e portata, considerato che qui insiste molto su questo aspetto (vv.8-10).

Di quale evento si tratta? Paolo lo definisce “ql…yewj” (tzlípeos), che letteralmente significa “pena, oppressione, calamità, afflizione, affanno”. Si tratta, quindi di un qualche evento doloroso, che lo aveva colpito inaspettatamente e da lui incontrollabile, poiché era di gran lunga superiore alle sue stesse forze, cioè alla sua stessa volontà e alla sua capacità di reazione, e tale che lo stava schiacciando. In altri termini non poteva farci niente ed era di una tale gravità da mettere in discussione la sua stessa vita. Paolo, dunque, era alle corde e doveva sentirsi ormai arrivato al capolinea. Ma non doveva trattarsi di quella situazione accennata nella lettera ai Filippesi, dove egli si trovava in catene per Cristo ed era in attesa di una sentenza, che poteva risolversi in assoluzione o in condanna a morte, poiché da quel contesto non sembra di percepire un Paolo abbattuto, sofferente e afflitto, ma sereno e lucido così da considerare se era meglio per lui vivere o morire, cosa quest'ultima che desiderava ardentemente per riunirsi al suo Signore: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21), anche se, con un certo rammarico, era pronto a rinunciare a quest'ultima ipotesi per il bene della sua amatissima comunità di Filippi (Fil 1,7.13.14.17.21-26).

Non doveva essere neppure il caso della rivolta degli argentieri di Efeso contro di lui, rivolta che, poi, grazie all'intervento del cancelliere della città, si risolse in un nulla di fatto, così che Paolo ebbe anche modo di andarsene da Efeso, senza esserne mai stato direttamente coinvolto (At 19,23-20,1).

Né doveva essere quanto accennava 1Cor 15,32, poiché le belve che Paolo doveva affrontare erano metaforiche e non reali. Infatti, in quanto cittadino romano (At 22,25.27.29) non poteva essere condannato a tale supplizio. Queste belve erano probabilmente gli stessi cittadini di Efeso con i quali doveva essersi scontrato duramente, correndo certamente dei pericoli, come molti ne ha corsi di ben più gravi (11,23-28), tra i quali enumera anche le “molte volte ne(i) pericoli di morte”, ma non in modo così grave da vedere la sua vita compromessa e giunta ormai al termine, senza più alcuna speranza, come in questa occasione qui allusa.

A che cosa, dunque, fa riferimento Paolo con questa “ql…yewj” (tzlípeos), che lo condannava a morte senza più alcuna speranza? Credo che la risposta vada cercata nei vv.9-10, dove si parla di una sentenza di morte: “Ma (noi) stessi in (noi) stessi abbiamo avuto la sentenza di morte”. Ma come si deve intendere questa sentenza di morte? Come una reale sentenza capitale ricevuta da un tribunale penale dell'Asia e quindi un evento giuridico a lui avverso? Ma se così fosse, in quale modo poi è riuscito a scamparla? E in tal caso, perché Paolo non ha fatto valere la sua cittadinanza romana, appellandosi a Cesare, come già altre volte aveva fatto?18 Oppure si tratta di una metaforica “sentenza di morte”, come ad esempio una grave malattia, che lo aveva vitalmente pregiudicato e a fronte della quale la medicina dell'epoca ha dovuto dare forfait, riconoscendo in tal modo che non c'era più niente da fare, così che la malattia, che lo aveva colpito e condannato a morte, viene colta da Paolo come una “sentenza di morte”, che egli portava dentro di sé. Il testo, infatti, parla di una sentenza di morte che che era insita in Paolo: “™n ˜auto‹j” (en eautoîs, in noi stessi). Quel “™n” (en, in), infatti, dice stato stato in luogo: la sentenza di morte era dentro di lui, così che il suo stesso vivere e il suo futuro erano pregiudicati: “così da essere incerti su di noi e sul (nostro stesso) vivere”.

Altre due battute inducono, poi, a pensare che si trattasse di una malattia grave e tale da togliere ogni speranza a Paolo. L'evento grave, così da essere potenzialmente mortale, viene letto da Paolo come una prova cui è stato sottoposto da Dio, perché egli confidasse “nel Dio che risuscita i morti” e non in se stesso. Il riferimento alla “risurrezione dei morti” fa pensare allo ristabilimento in piena salute di un ammalato grave, più che ad uno che ha già avuto emessa su di lui una sentenza di pena capitale. E similmente l'espressione “da così grande morte ci ha liberati” lascia pensare ad una malattia che non aveva lasciato scampo a Paolo e tale da essere definita “grande morte”, qualificazione quest'ultima che non si addice ad una sentenza capitale. Una liberazione che è avvenuta e che che continuerà ad essere tale: “e ci libererà” e proprio perché egli ha sperato nel suo Dio che sa anche far “risorgere i morti”. Il v.10, pertanto, parla di una guarigione ottenuta in modo definitivo e permanente: “ci ha liberati e (ci) libererà”, cioè, continuerà a liberarci.

È, dunque, plausibile che si tratti di una malattia grave, considerato anche lo stato di salute di Paolo, che non doveva essere tra i più floridi e promettenti a motivo delle gravi sofferenze e prove, cui il suo corpo e la sua psiche erano stati duramente e costantemente sottoposti (11,23-28), così da pregiudicare in modo grave il suo stato di salute, che già lo aveva abbandonato in occasione della fondazione delle comunità della Galazia (Gal 4,13).

Una guarigione che Dio gli ha concesso e che per il suo ottenimento sono state coinvolte non solo la stessa comunità di Corinto, ma altre ancora, traducendo in tal modo il suo ristabilimento in una sorta di concelebrazione liturgica di rendimento di lode e di ringraziamento a Dio, che lo consola in ogni tribolazione. In questo frangente con il suo risanamento e la sua definitiva ripresa.

Secondo esempio di consolazione: Il ritrovamento consolante di Tito con buone notizie (2,12-13+7,5-16)

Note generali

Un secondo esempio delle celebrate compassione e consolazione divine viene ora proposto da Paolo alla sua comunità di Corinto, per coinvolgerla celebrativamente nella sua esperienza del Dio che nella sua compassione consola e sostiene i suoi servi fedeli. Un ulteriore esempio di come leggere e vivere la storia in senso teologico, che consente al credente di comprendere quanto gli sta attorno e quanto gli sta accadendo come un imperscrutabile disegno di Dio su di lui, il quale, con la sua paterna e benevola mano, lo sta conducendo verso il suo compimento. Prima era la liberazione dal doloroso evento che aveva minacciato la vita stessa di Paolo in Asia; ora, è il suo lieto e rincuorante incontro con Tito in Macedonia, dopo l'improvvisata e disastrosa seconda visita alla sua comunità di Corinto, che ha causato la lettera scritta “tra molte lacrime”, consegnata a Tito, suo fedele collaboratore e abile diplomatico e mediatore. Racconto quest'ultimo che si snoda nella sezione 2,12-13+7,5-16, ora in analisi.

L'esito di questa lettera scritta “tra molte lacrime” è raccontato in questo secondo episodio, dove Paolo sa leggere la mano di Dio che conduce la sua storia e lo consola, per la sofferenza causatagli dalla sua comunità di Corinto, con le liete notizie che gli provengono proprio dalla sua comunità, che poco prima lo aveva bistrattato e ripudiato. Tutto sembra essersi miracolosamente risolto e appianato.

La sezione che ospita questo secondo racconto di consolazione fornisce anche le motivazioni per cui Paolo scrisse la lettera dalle “molte lacrime” ed elenca i molteplici benefici che questa, unitamente ai buoni uffici di Tito, ha prodotto nel risanamento dei suoi rapporti tra la comunità.

Innanzitutto Paolo scrisse quella lettera non a motivo di chi lo aveva offeso nella sua seconda visita alla comunità (7,12a), né per rattristare i Corinti con le sue severe parole, quasi fossero un suo sfogo personale per il disdicevole comportamento da loro tenuto, ma per indurli alla riflessione e al pentimento (7,8-9), cosa che avvenne (7,10-11). Da qui la consolazione che ha pervaso di gioia l'animo di Paolo, che altresì ha gioito per la consolazione di cui ha beneficiato, ancor prima di lui, lo stesso Tito, risollevato, lui stesso, dalle ristabilite buone relazioni tra la comunità e Paolo e, quindi, per il pieno successo della sua missione (7,13-16).

Già da questa breve sintesi si può intuire la suddivisione strutturale dell'ampia sezione che Paolo dedica alla consolazione ricevuta da Dio per le buone notizie recate da Tito circa la comunità di Corinto, pentitasi e riconciliatasi con lui:

  1. il racconto delle peripezie per la ricerca di Tito e la gioia del suo ritrovamento (2,12-13.7,5-7);

  2. la durezza della lettera scritta tra “le molte lacrime” ha prodotto il pentimento della comunità (7,8-9);

  3. una riflessione sulla conversione della comunità causata dalla lettera (7,10-13a);

  4. Paolo loda la comunità di Corinto per la sua conversione che ha generata la gioia di Paolo e ancor prima quella di Tito (7,1b-16).

Un appunto, da ultimo, va fatto sullo strano sviluppo di questa sezione, che iniziatasi con i vv.2,12-13, si interrompe subito per lasciare spazio ad una lunga “divagazione” che va da 2,14 a 6,10, per poi riprendere con 7,5 fino a tutto 7,16. Un fatto questo che mi ha incuriosito: perché il redattore finale ha operato questo stacco all'interno di questa sezione, 2,12-13+7,5-16, che forma un'unica unità letteraria e tematica, per incunearvi dentro l'altra sezione 2,14-6,10? Non credo che questa sia stata una sua disattenzione. La sezione 2,14-6,10 costituisce, infatti, il corpo dell'originaria 2Cor, che viene incorporato nell'episodio della ricerca di Tito (2,12-13+7,5-7) con tutti i suoi sviluppi e riflessioni conseguenti (7,8-16). Episodio e relativi connessi (2,12-13+7,5-16), che fanno parte, a loro volta, della sezione che ho definito “delle Consolazioni” (1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11), che sto commentando e che ritengo formi il biglietto accompagnatorio all'originaria 2Cor. Ora, se l'originaria 2Cor è stata inerita all'interno di questo “biglietto” è da pensare che il redattore finale abbia voluto evidenziare come questa, pur non facendone parte tematicamente, fosse in qualche modo strettamente legata a questo “biglietto”, che funge da suo contesto, entro il quale va compresa. Infatti, questo “biglietto”, che ho definito “accompagnatorio” all'originaria 2Cor, crea il contesto della rappacificazione tra Paolo e la comunità di Corinto, così che si comprendono anche i toni pacifici, tranquilli e riflessivi dell'originaria 2Cor, altrimenti non comprensibili.

Se così è, questa potrebbe costituire una prova indiziaria che il biglietto, da me definito delle “Consolazioni”, era accompagnatorio dell'originaria 2Cor e ne costituiva il contesto entro cui leggerla e comprenderla.

Commento alla sezione 2,12-13+7,5-16

Il racconto delle peripezie per la ricerca di Tito e la gioia del suo ritrovamento (2,12-13+7,5-7)

Paolo, dopo aver inviato Tito, latore della lettera “scritta tra molte lacrime”, alla sua comunità di Corinto, rimase in attesa di sue nuove ad Efeso, dove dimorava e dimorerà per tre anni. Ma, a seguito della rivolta degli argentieri contro di lui (At 19, 23-41), fu costretto a fuggire da Efeso e si diresse a Troade dove trovò una inaspettata occasione di annuncio del Vangelo. E la sua missione sarebbe stata probabilmente coronata dal successo, perché, a suo dire, “mi si era aperta una porta nel Signore”, cioè gli si era presentata un'occasione favorevole, fors'anche di fondare una nuova comunità credente e probabilmente aveva anche già instaurato dei proficui contatti, poiché li lascia “salutandoli” (2,12). Un comportamento strano e inconsueto per Paolo, che. pur vedendo ottime possibilità di annuncio, non porta a termine il lavoro iniziato su di un terreno fertile.

Il motivo che lo spinse ad abortire il suo improvvisato progetto di evangelizzazione fu il fatto che lì, a Troade, dove sperava di trovarlo, non trovò Tito. Fu questo evento che lo spinse a lasciare incompiuta la sua opera e ad andare oltre, alla ricerca del suo fedele collaboratore (2,13), denunciando in tal modo tutta la sua ansia e le sue insopportabili sofferenza e inquietudine, che lo spingevano alla ricerca di notizie sulla missione di Tito presso la turbolenta e difficile comunità di Corinto. La quale cosa lascia pensare che, da un lato, Paolo si fosse messo in viaggio non solo per fuggire alla rivolta degli argentieri, che peraltro finì in un nulla di fatto (At 19,38-41), ma soprattutto per incontrare da qualche parte Tito; dall'altro, il fatto che si sia soffermato a Troade per l'annuncio del Vangelo, certamente un annuncio non programmato, ma soltanto occasionale, come quello di Atene, dove giunse in fuga dapprima da Tessalonica e poi da Berea, benché anche qui senza successo (At 17,13-33); o allorché, interrotto il suo viaggio verso l'Asia perché ammalatosi, soccorso da alcuni Galati, annunciò il Vangelo e fondò le comunità della Galazia (Gal 4,13), dice tutto il fervente, inquieto e indomabile spirito missionario che agitava interiormente Paolo, che ovunque si trovi e in qualsiasi situazione si trovi, anche se in catene (Fil 1,12-14; Fm 1,10), non perde occasione per annunciare il Vangelo di Cristo a chiunque lo voglia o meno ascoltare. Una frenesia interiore che lo consumava e che era provocata dalla convinzione dell'imminente ritorno del Signore, dal quale aveva ricevuto la missione di annunciarlo alle genti. Era, dunque, immensa la sua missione, mentre il tempo a sua disposizione per compierla, prima dell'avvento del Signore, era poco.

È egli stesso qui, in 7,5, che attesta la sua pesante condizione esistenziale e il suo stato d'animo sempre in continua agitazione per il Vangelo di Cristo: “nessuna quiete ebbe la nostra carne, ma in tutto siamo stati tribolati: da di fuori battaglie, dal di dentro timori”, dove per “nostra carne” ha da intendersi il vivere di Paolo, tribolato sia “dal di fuori”, con riferimento alle situazioni avverse se non drammatiche, che egli deve affrontare quotidianamente con un continuo battagliare; sia “dal di dentro”, con riferimento al suo travaglio interiore, generato da uno stato d'animo, sottoposto a continui stress causati dalla sua missione verso il mondo pagano (11,23-30; Rm 8,35).

Ma, ecco, in mezzo a tutto questo mare tra l'agitato e sovente in tempesta, apparire, come in mezzo all'occhio del ciclone, uno spazio di inattesa calma e serenità, che infondono in Paolo tanta gioia fin quasi all'euforia: non solo, partito da Troade per la Macedonia, dove, probabilmente a Filippi, trova Tito, che gli reca liete notizie (7,6-7), ma anche lo stesso Tito, che probabilmente vedeva la sua missione presso la comunità di Corinto molto difficile se non ardua, è stato rinfrancato e rincuorato dall'accoglienza riservatagli dalla comunità, che Paolo in 7,11 elogia per il suo pentimento e il suo ritorno a Dio, prendendo le distanze dall'offensore e dagli stessi avversari di Paolo: “In tutto avete mostrato che (voi) stessi siete innocenti (riguardo) al fatto” (7,11b).

La durezza della lettera scritta tra “molte lacrime” ha prodotto il pentimento della comunità (7,8-9)

Dopo le liete notizie pervenutegli da Tito e da questi rincuorato, Paolo torna, ora, sulla lettera “scritta tra molte lacrime” [(6,11-12+7,2-4)+(10,1-12,21)]. Una lettera dura e sferzante sia nei confronti dei Corinti, che, abbandonato il Vangelo di Paolo, hanno abbracciato quello dei predicatori giudeocristiani giudaizzanti (11,4), sia nei confronti degli stessi, definiti ironicamente “super apostoli” (11,5; 12,11), “falsi apostoli”, “operai fraudolenti” (11,13) e “ministri di satana” (11,14-15), innescando, controvoglia e suo malgrado, un duro confronto-scontro con questi ultimi (11,22-12,10) e accusando gli stessi Corinti di averlo spinto a tanto (12,11). Insomma Paolo ne ha avuto per tutti, sfogandosi sia per il trattamento ricevuto nella sua improvvisata seconda visita, sia per il tradimento subito dal voltafaccia della sua comunità, che anziché difenderlo dai suoi avversari gli hanno dato corda, anzi sono passati dalla loro parte (12,11).

Ma ora che le acque si sono calmate e i rapporti ristabiliti, Paolo sembra rendersi conto di essere andato giù duro e che la sua comunità, da come gli ha raccontato Tito (7,7.11), è rimasta scossa e si è pentita amaramente per il proprio comportamento. Paolo, tuttavia, benché non sembri retrocedere dai toni usati nella lettera “scritta tra le lacrime” nei confronti dei Corinti, che forse non si aspettavano una simile reazione da Paolo, che consideravano una sorta di pallone gonfiato, che mostra i denti da lontano, ma misero e balbettante in mezzo a loro (2Cor 10,1b; 1Cor 2,1-5), cerca ora di giustificare tali toni, perché quello scritto così duro e sferzante ha prodotto nei Corinti un sincero pentimento, come desiderato da Dio, così che quella lettera, anche se li ha rattristati e scossi, si è rivelata per loro un dono di grazia, che li ha portati alla conversione del cuore, così che Paolo ne gioisce.

Due versetti (7,8-9) che cercano di dare una lettura e una comprensione del tenore della lettera scritta “tra molte lacrime” e che fungono da preambolo alla riflessione che segue e che si svilupperà in due tempi: dapprima una considerazione su ciò che la lettera ha prodotto nei Corinti (7,10-13a); poi, dopo le forti tensioni causate dallo scritto, una lode all'intera comunità per aver fatto fruttare al meglio la dura lettera, producendo frutti di vera conversione (7,13b-16).

Una riflessione sulla conversione della comunità causata dalla lettera (7,10-13a);

Ora Paolo, riprendendo il tema della tristezza e della sofferenza che la lettera scritta “tra molte lacrime” ha causato nei Corinti e che ha prodotto in loro la conversione, ne spiega la dinamica con un confronto che pone un distinguo tra la sofferenza inflitta da Dio e quella inflitta dagli uomini: la prima causa il pentimento ed è finalizzata alla salvezza, cioè al ritorno dell'uomo a Dio, poiché Dio è il Dio della vita e non della morte; mentre la sofferenza provocata dall'uomo, che è intimamente e intrinsecamente segnato dalla morte causatagli dal peccato, provoca la morte di chi è stato inflitto della sofferenza. Paolo, quindi, visti i risultati della sua lettera, ha operato secondo Dio, anzi, Dio ha operato in lui e i Corinti hanno prodotto frutti di conversione, che vengono elencati al v.11: sollecitudine, giustificazione, timore, desiderio ardente, zelo, punizione. Un risveglio e un rimestamento di sentimenti e di emozioni, che hanno scosso e ravvivato gli animi e la fede dei Corinti, riorientandoli verso Paolo e in lui verso Dio stesso, che per mezzo di Paolo ha operato la loro conversione per la loro salvezza. E Paolo li assolve dichiarandoli “innocenti”, cioè non coinvolti volontariamente in quanto è successo presso la comunità, che si è lasciata abbindolare da sedicenti apostoli, ma nient'altro che falsi apostoli e operai fraudolenti, che spacciavano un vangelo giudaizzante come se fosse di Cristo. Il “fatto” di cui si parla riguarda più che un evento specifico l'insieme di quanto è successo: da un lato, le offese arrecate da un singolo personaggio, che non sembra avesse avuto grande seguito; dall'altro, gli avversari di Paolo, i predicatori giudeocristiani giudaizzanti, che hanno creato subbuglio nella comunità, ingannando la ancor fragile fede dei Corinti. Alla fine dei giochi, i Corinti si sono resi conto dell'accecamento spirituale in cui sono incorsi così che, sospinti dalla lettera scritta “tra molte lacrime” e dai buoni uffici di Tito, che hanno smosso in loro sentimenti di conversione, sono ritornati a Paolo e in lui a Dio.

Paolo, dunque, ora rivela il vero motivo per cui scrisse la lettera “tra molte lacrime”: questa, di fatto, aveva lo scopo non tanto di minacciare o di punire chi lo aveva offeso, ma la finalità era ben altra: rianimare i sentimenti di “sollecitudine”, di attenzione e di sensibilità spirituale verso Paolo e verso Dio stesso, inducendoli alla conversione. Per questo, conclude Paolo, “siamo stati consolati”, perché la lettera ha raggiunto lo scopo che egli si era prefissato: non la vendetta sull'offensore o sui Corinti fedifraghi, ma il loro ritorno a Dio.

Era, del resto, ciò che egli si proponeva e auspicava nello scrivere il preambolo alla lettera scritta “tra molte lacrime”: “Fateci posto (nel vostro cuore)” (7,2a), poiché egli nutriva nei loro confronti soltanto sentimenti di perdono e di amore e nessun intento di minaccia e tanto meno di vendetta (7,3).

Paolo loda la comunità di Corinto per la sua conversione (7,13b-16)

Se fino a questo momento Paolo ha gioito per i risultati ottenuti dalla lettera da lui scritta “tra molte lacrime”, accompagnata e favorita dall'abilità diplomatica di Tito, ora, egli passa dalla parte dei Corinti evidenziando e lodando la loro buona volontà e la loro disponibilità, che li ha spinti ad accogliere Tito e con lui la lettera di Paolo nel segno dell'obbedienza, praticata “nel timore e nel tremore”, espressioni queste che l'A.T. usa per descrivere il tipo rapporto che il popolo aveva con Dio19. Paolo, dunque, ha in qualche modo coscienza che in lui opera Dio (Gal 2,20a; Fil 1,21a) e il riconciliarsi con lui significa riconciliarsi anche con Dio. Da qui il linguaggio biblico usato.

Ma la gioia di Paolo nasce non solo per il ritorno dei Corinti a Dio, ma anche perché lui non si è sbagliato su di loro, allorché si vantava di loro con Tito, così che quando questi lo abbandonarono, denunciando tutta la fragilità della loro fede, Paolo non si vergognò delle lodi spese presso Tito a loro favore. Non si era, dunque, sbagliato né aveva mentito a Tito. Ed è proprio qui, al v.7,14 che Paolo introduce un nuovo tema, quello della verità e della sua credibilità e, pertanto, della sua affidabilità: egli ha sempre annunciato le cose nella verità ed ha sempre proclamato la Verità, così che non è stato diverso neanche questa volta con Tito.

Tema, quello della verità e della credibilità di Paolo, che funge da preparazione e da aggancio a quello successivo (1,12-2,11), dove egli cerca di giustificare la sua mancata visita promessa ai Corinti in 1Cor 16,5-8 e per il quale motivo era stato accusato di debolezza e di non saper mantenere la parola data. Una grave accusa per chi si presenta come un fedele e veritiero annunciatore del Vangelo di Cristo. Ed è forse anche per questo che Paolo conclude le sue considerazioni sul tema della compassione e della consolazione divine usate nei suoi confronti con un riconfermato atto di fiducia nei confronti dei Corinti: “Gioisco perché in tutto posso confidare in voi” (7,16). Una sorta di “captatio benevolentiae”, ora che sta per affrontare un'altra delicata questione: quella della sua credibilità e affidabilità, dalla quale dipende l'annuncio del suo Vangelo.

È interessante notare il cambio di persona che Paolo opera qui al v.14, passando dalla prima persona singolare, allorché parla del suo rapporto personale con Tito (7,14a), alla prima persona plurale, allorché parla dell'annuncio del Vangelo, proclamato loro nella Verità e con Verità, in quanto che il suo Vangelo non fu ricevuto o imparato dagli uomini, ma per rivelazione da Cristo stesso (Gal 1,11-12). Dietro questo annuncio, pertanto, non c'è soltanto la persona di Paolo, ma Dio ed anche la chiesa madre di Gerusalemme, presso la quale egli aveva esposto ai suoi responsabili il Vangelo che egli andava predicando ai pagani, per evitare che tra loro ci fossero dei malintesi (Gal 2,1-2) e il tutto si concluse nel pieno accordo e in piena comunione (Gal 2,9). Paolo, pertanto, nell'annunciare il “suo” Vangelo ha con lui Dio e la chiesa madre di Gerusalemme. Non è più lui, quindi, che annuncia, ma il suo annuncio assume l'aspetto dell'ufficialità della chiesa e la sacralità di Dio, dal quale ha ricevuto per rivelazione il suo Vangelo.

Vanto nella verità: chiarimenti sulla mancata visita di Paolo, promessa in 1Cor 16,5-8 (1,12-2,11)

Note generali

Alla sezione, che ho definito delle “consolazioni”, delimitata dai vv.1,3-11+2,12-13+7,5-16, ho agganciato anche questa sezione, vv.1,12-2,11, ora in analisi. Questa sezione, infatti, è tutta incentrata sulla giustificazione per la mancata visita di Paolo alla comunità di Corinto, promessa con 1Cor 16,5-8, a motivo della quale Paolo era stato accusato di essere superficiale, non affidabile e, pertanto, anche non credibile. Un'accusa simile andava a colpire oltre che la persona di Paolo anche la sua predicazione del Vangelo, screditandolo in qualche modo, dando così spazio a quello annunciato dai predicatori giudeocristiani giudaizzanti (11,4), quelli che egli definisce “falsi apostoli, operai fraudolenti”, nonché “ministri di satana” (11,13-5).

La cosa, a motivo delle sue gravi implicanze, non poteva essere sottaciuta da Paolo, per cui egli dedica una sezione di ben 24 versetti a sua difesa, mettendo in rilievo la sua onestà di coscienza, la sua veridicità e la sua affidabilità, motivando la sua mancata visita promessa e chiamando a testimonianza, su quanto detto a sua giustificazione, Dio stesso (1,23).

Tutto, dunque, è incentrato e gira attorno all'attendibilità della parola di Paolo e all'affidabilità della sua persona, da cui dipende anche quella del suo Vangelo. Un tema questo che viene in qualche modo anticipato in chiusura della sezione delle “consolazioni”, in 7,14b, in cui si attesta: “ma come vi abbiamo detto tutte le cose in verità, così anche il nostro vanto presso Tito fu verità”, dove con forza Paolo sottolinea la veridicità di tutto quello che egli ha detto e in questo anche l'annuncio del suo Vangelo; così come il suo vantarsi dei Corinti presso Tito era fondato sulla verità, poiché egli veramente confidava e confida in loro (7,16).

Un'attenzione, ora, va posta sui termini “nostro vanto” e “verità”, presenti in 7,14b e che formano da espressioni-aggancio alla sezione 1,12-2,11, che si apre con 1,12 riprendendoli in modo sostanzialmente identico, dando così continuità e sviluppo tematico a 7,14b. Versetti questi (7,14b e 1,12) tutti incentrati sulla veridicità, attendibilità e affidabilità di Paolo, che formano da premessa e da cornice, entro la quale si colloca e va compresa questa intera sezione 1,12-2,11 in esame.

Questo è, in buona sostanza, il motivo che mi ha spinto a legare questa sezione, 1,12-2,11, benché tematicamente diversa, a quella delle “consolazioni” (1,3-11+2,12-13+7,5-16), diversamente incollocabile, formando assieme alla prima quello che ho definito “Biglietto accompagnatorio l'originaria Seconda Lettera ai Corinti e suo preambolo”. Un “biglietto” che tende ad appianare e a chiarire le cose, preparando così il terreno, sgombro da ogni malinteso e rappacificante, all'originaria Seconda Lettera ai Corinti, che commenteremo dopo questa sezione.

La struttura di questa sezione, 1,12-2,11 va suddivisa in due parti: la prima (1,12-22) costituisce il preambolo, che funge da cornice introduttiva, in cui va posta e compresa la seconda parte (1,23-2,11), quella delle attestazioni, che riguardano sia i motivi della mancata visita promessa in 1Cor 16,1-9 (1,23-2,3); sia i motivi per cui egli ha scritto la “lettera tra molte lacrime” (2,4-11).

In altri termini, poiché Paolo si rende conto che è necessario che i Corinti gli credano su quanto sta per dire a giustificazione sia della sua mancata visita presso di loro, sia dei motivi che lo hanno spinto a scrivere la “lettera tra molte lacrime”, ha voluto dapprima creare un preambolo, che rassicurasse i Corinti non solo sulla veridicità della sua parola, ma anche sulla piena affidabilità della sua persona. Da questi due aspetti dipendevano. Da un lato, la sua credibilità e, quindi, i suoi futuri rapporti con la sua comunità; dall'altro, e ciò è quello che più sta a cuore Paolo, il Vangelo di Cristo da lui annunciato ai Corinti.

Il preambolo, quindi, è finalizzato a creare un contesto rassicurante per i Corinti, predisponendoli in tal modo ad accogliere benevolmente le sue giustificazioni.

Per quanto sopra, propongo la seguente struttura della sezione 1,12-2,11:

Il preambolo alle motivazioni di Paolo (1,12-22)

  1. Schiettezza, sincerità e onestà di coscienza e intellettuale hanno mosso Paolo nel promettere una seconda visita in 1Cor 16, 5-8 (1,12-16);

  2. Fondamento teologico e cristologico della veridicità di Paolo (1,17-22);

Le motivazioni che hanno mosso Paolo nei confronti dei Corinti (1,23-2,11)

  1. il motivo per cui Paolo non è venuto: per non rattristare i Corinti (1,23-2,1-3);

  2. i motivi per cui Paolo scrisse la lettera tra molte lacrime (2,4-11).

Commento alla sezione 1,12-2,11


Il preambolo alle motivazioni di Paolo (1,12-22)

Schiettezza, sincerità e onestà di coscienza e intellettuale hanno mosso Paolo nel promettere una seconda visita in 1Cor 16, 5-8 (1,12-16)

La questione qui in gioco è la credibilità e affidabilità di Paolo, che in 1Cor 16,5-8 aveva promesso ai Corinti di far loro una seconda visita, dopo la prima, quella della fondazione della comunità, così assicurando e, quindi, anche impegnandosi nei loro confronti: “Verrò da voi quando avrò attraversato la Macedonia, poiché la Macedonia (la) attraverserò (soltanto), ma rimarrò, forse, presso di voi o anche passerò l'inverno, affinché mi scortiate voi, dove vado. Poiché, non voglio affatto vedervi di passaggio, spero, infatti, di rimanere presso di voi per un qualche tempo, qualora il Signore (lo) permetterà. Rimarrò ad Efeso fino alla Pentecoste”. Questa la promessa disattesa da Paolo, che ha causato una situazione di diffidenza e di sfiducia nei suoi confronti, mettendo in discussione anche il suo annuncio del Vangelo (1,19-22; 2,17; 4,2). La cosa si aggravò per l'intervento degli avversari Paolo, i predicatori giudeocristiani giudaizzanti, che predicavano un vangelo e un Cristo filtrato attraverso la Legge mosaica, snaturandone e inficiandone in tal modo il messaggio salvifico. Per questo Paolo li chiama “falsi apostoli, operai fraudolenti” (11,13) e “ministri di satana” (11,14-15).

Il v.12 si apre con una vigorosa attestazione: “il nostro vanto è questo”, imprimendo tutta la sua forza a quanto segue. Espressione questa che si richiama in qualche modo a quella del v.7,14b, dove anche lì Paolo si vanta, radicando il suo vanto nella verità e dove attesta di aver sempre parlato con verità e nella verità. Un'attestazione questa che evidenzia come il dire e il proclamare la verità e il comportarsi secondo questa sia per Paolo un fermo punto d'onore nella propria vita, dalla quale egli esclude tentennamenti, sotterfugi, comportamenti ambigui e il parlare in modo equivoco.

E il fatto di cui Paolo qui si vanta e ne va fiero è la stessa testimonianza che gli dà la sua coscienza, quella di essersi sempre comportato con grande correttezza nei confronti dei Corinti, rilevando nel suo comportamento la stessa schiettezza e la stessa sincerità che operano in Dio. In altri termini egli possiede nel suo dire e nel suo fare la stessa trasparenza di Dio, poiché, come avrà modo di dire in Fil 1,21 il suo vivere è Cristo, anzi non è più lui che vive, ma Cristo stesso vive ed opera in lui (Gal 2,20). E già lo aveva fatto intendere nella sua lettera scritta “tra molte lacrime”, come il suo parlare fosse un parlare “d'innanzi a Dio in Cristo” (12,19b). Un parlare, quindi, privo di sotterfugi o ambiguità, poiché di fronte a Dio la menzogna è inutile, come ricorda il Sal 138,12: “nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce”. Di fronte a Dio non ci si può nascondere e non c'è luogo dove sottrarsi a Lui (Sal 138,7-10).

Con questa coscienza Paolo si pone di fronte ai Corinti e parla ed agisce nei loro confronti come di fronte a Dio. Non quindi secondo la “sapienza carnale”, che è altalenante nel suo esprimersi e risente dei limiti e della fragilità dell'uomo, che nel suo dire cerca sempre una via di fuga e un'alternativa, così che, come dirà nella pericope seguente: il suo parlare è “si e no”, che molto assomiglia agli oracoli della Pizia di Delflo20. Paolo, invece, è mosso e sostenuto dalla grazia di Dio, che gli dà la forza della Verità in ogni circostanza, sia nei confronti del mondo che degli stessi Corinti.

Paolo, dunque, è una persona integra che si muove con le logiche di Dio e ne dà prova testimoniale con la sua stessa lettera, che ha scritto tra “molte lacrime”: “Infatti non vi scriviamo altre cose ma o quelle che leggete o anche comprendete; ma spero che fino alla fine comprenderete”. In altri termini, quello che egli là aveva scritto è quello che essi hanno letto e hanno anche compreso e non ci sono doppi sensi tali da fraintendere il suo pensiero. Anzi, si augura che essi abbiano capito tutto quanto bene fino in fondo. Pertanto se c'è una qualche oscurità nel suo dire e tale da fraintendere, questa è dovuta ai Corinti, non certo a lui. Anzi, egli, come Dio, è sempre fedele a se stesso (1,18). Su questa questione egli dedicherà la pericope immediatamente successiva 1,17-24.

Paolo è quello che è: trasparente e coerente con se stesso, anche se non sempre di facile comprensione, come attesterà 2Pt 3,15-16. Anche se i Corinti non lo hanno conosciuto pienamente e non lo hanno del tutto compreso per quello che egli è realmente, tuttavia, si augura Paolo, nel giorno della venuta del Signore, che essi comprendano chi era veramente lui e si glorino di averlo incontrato e conosciuto, accogliendo il suo Vangelo; così come Paolo avrà modo di gloriarsi di loro davanti al Signore, in una reciproca fiducia e comunione di vita. In altri termini, egli sottopone se stesso e i Corinti al giudizio finale del Signore nel giorno della sua venuta.

Sono, dunque, questi i sentimenti di Paolo nei confronti dei Corinti, che lo hanno spinto in 1Cor 16,5-8, a promettere una sua seconda visita, quella successiva alla fondazione della comunità, per dare loro la possibilità di “una seconda grazia”, cioè di un secondo dono divino, tale era da lui concepita la sua presenza in mezzo ai Corinti; convinzione questa che sottende la coscienza che Paolo aveva di se stesso, quella che in lui opera e agisce Dio stesso, così che il suo recarsi per una seconda volta presso i Corinti era per Paolo un'ulteriore benedizione divina per loro. Sulla base di questa coscienza egli fonda la sua rettitudine, che associa a quella di Dio (1,12.18).

Se con il v.15 Paolo spiega il senso della sua seconda visita, con il v.16 riprende sinteticamente non solo quanto aveva già detto in 1Cor 16,5-8, ma anche quanto, in modo più dettagliato, aveva prospettato in 1Cor 16,1-4, riguardo alla colletta, e che qui allude con quel “venire presso di voi e da voi essere accompagnato in Giudea”.

Fondamento teologico e cristologico della veridicità di Paolo (1,17-22)

Paolo ha messo sul tavolo tutte le sue carte e ha parlato apertamente con sincerità di cuore ai Corinti, come se egli fosse davanti a Dio (12,19), nel dire il suo grande desiderio di andarli a trovare una seconda volta e lì rimanere per qualche tempo, così che essi avessero modo di conoscerlo meglio e viceversa, e da lui ricevessero altri doni spirituali, quelli che egli definisce “una seconda grazia”, così che in questa convivenza si alimentasse la comunione tra loro e reciprocamente potessero vantarsi, l'uno dell'altro, nella parusia del Signore, tempo questo in cui tutte le cose sarebbero state poste alla luce del giudizio divino. Questo era il suo progetto originario (1Cor 16,5-8) nel quale era anche compresa la raccolta della colletta, che gli stessi Corinti, accompagnati da Paolo, dovevano consegnare alla chiesa madre di Gerusalemme (1Cor 16,1-4; 2Cor 2,16b).

Questo, dunque, era il proponimento di Paolo, anticipato ai Corinti in 1Cor 16,1-9. Un proposito esposto in modo concreto e dettagliato nelle sue linee generali, che lasciano intravvedere come questo fosse stato soppesato attentamente e non improvvisato in qualche modo, come egli fosse un abbindolatore, illudendoli. E proprio su questa sua concreta intenzione ben definita, elaborata nella sincerità del suo cuore, che Paolo apre, ora, la questione, che coinvolge non soltanto la sua persona, ma anche l'annuncio del Vangelo: forse che si è comportato da persona avventata, che non sa soppesare bene le cose? Oppure, alla maniera umana, come un abile imbonitore, per risvegliare l'attenzione dei suoi ascoltatori su di sé, dice cose allettanti, che poi non sa se saprà mantenerle? Questo il senso del v.17. Paolo non è né uno avventato, che promette senza soppesare se può mantenere la sua promessa; né tantomeno si muove “secondo la carne”, cioè alla maniera umana, parlando a vanvera, cercando di barcamenarsi alla meno peggio, formulando promesse equivoche, che si muovono tra “il si e il no”.

Egli, infatti, similmente a Dio, che per sua natura è fedele alla sua Parola rivelata e ai suoi progetti salvifici, che Paolo stesso ha annunciato ai Corinti, non ha che una parola, quella che ha annunciato con il suo Vangelo e quella che ha promesso ai Corinti in 1Cor 16,1-9.

Ora Paolo, proprio su questa sua fedeltà alla parola annunciata (il suo Vangelo) e data (la promessa), si richiama alla fedeltà di Dio (v.18a), cristologicamente provata (vv.19-22), a difesa del suo Vangelo, che si è manifestato ai Corinti per il tramite della sua parola, quella parola la cui attendibilità è stata messa in discussione, perché, secondo i Corinti, egli non sa mantenere le promesse fatte in 1Cor 16,1-9.

Ma in questa difesa del suo Vangelo egli difende anche se stesso, poiché proprio a questa fedeltà di Dio egli si ispira ed ha conformato la sua vita, così che nel suo parlare si riflette la schiettezza e la sincerità di Dio stesso (v.12). Pertanto, la sua parola, libera dalla “sapienza carnale” (v.12), non si muove sul “si e no” (v.18b), cioè non si muove sull'equivocità, né è incerta o ambigua, ma, similmente alla fedeltà di Dio, essa è coerente con se stessa e quello che dice è quello che i Corinti possono intendere, senza fraintendimenti.

Una fedeltà, quella di Dio, che si è manifestata nel suo Cristo, quel Cristo che si è impiantato in mezzo ai Corinti e vive in loro e in mezzo a loro grazie all'annuncio “di me e di Silvano e di Timoteo” (v.19). L'annuncio della Parola, dunque, storicamente attestato dai tre nomi, che fungono da testimoni veritieri della Parola, ha generato ai Corinti Cristo stesso, divenuto il “Si” del Padre in mezzo a loro, poiché in lui si sono realizzate tutte le promesse di Dio, che si sono tradotte in una liturgia di lode e di ringraziamento al Padre, quale risposta della comunità credente, che riconosce e celebra con quel suo “Amen”, che in ebraico significa “Si”, “è così”, “certamente”, “veramente”, la fedeltà di Dio attuatasi e manifestatasi nel suo Cristo, che così viene glorificato dall'assemblea celebrante (v.20), sulla quale si riversa l'unzione dello Spirito, che ha un triplice effetto: quello di creare una comunione di vita non solo tra Paolo e i Corinti, in virtù della comune fede e del comune battesimo, ma altresì tra loro e Dio stesso in e per mezzo del suo Cristo; uno Spirito che caratterizza i rapporti dei credenti ponendoli sotto la su egida; uno Spirito che, proprio perché permea la vita dei credenti, ricollocandoli in Dio, diviene caparra, cioè, già fin d'ora, anticipo e pegno di Vita eterna, che è la Vita stessa di Dio.

Le motivazioni che hanno mosso Paolo nei confronti dei Corinti (1,23-2,11)

Il motivo per cui Paolo ha mancato la promessa di 1Cor 16,1-9: per non rattristare i Corinti (1,23-2,3)

Ora che Paolo, a sostegno e a garanzia della sua veridicità, ha completato la cornice teologica e cristologica entro cui porre la sua parola, chiama a testimone d'eccezione Dio stesso e lo fa perché ora sta per dire il motivo per cui ha dovuto rinunciare al suo originario progetto di 1Cor 16,1-9. Un'attestazione questa che è determinante per il suo futuro e quello del suo Vangelo: “Io chiamo a testimone sulla mia vita Dio, che per risparmiarvi non venni più a Corinto” (v.23). Il motivo, dunque, per cui ha dovuto “tradire” la sua promessa fatta in 1Cor 16,1-9 è “per risparmiarvi”. Una dichiarazione da cui traspare tutta la forza della sua autorità apostolica, ma che nel contempo possiede in se stessa anche una velata minaccia di rimprovero e di presa di provvedimenti nei confronti dei Corinti.

Paolo si rende conto di questo e con il v.24 crea subito una battuta d'arresto alla sua implicita minaccia, per non aggravare la sua posizione nei confronti dei Corinti, e cerca di attutirne l'impatto, precisando che non intende con questo spadroneggiare su di loro, come invece fanno i “falsi apostoli” (11,20), cui loro hanno accordato fiducia (11,4), poiché la loro fede, anche se non sempre seguita da adeguati comportamenti, non è in pericolo, anzi riconosce la loro fermezza nel Vangelo loro annunciato, per cui il suo duro intervento non è finalizzato a punirli e a umiliarli, ma ad aiutarli nei loro problemi, definendosi non un padrone autoritario, ma un collaboratore della loro gioia.

Terminata la breve precisazione, la cui finalità era quella di togliere ogni possibile malinteso, Paolo, ora, riprende con 2,1 il v.1,23, dove, non va dimenticato, ha posto la veridicità di quanto sta dicendo a sua giustificazione circa la mancata visita promessa in 1Cor 16,1-9, sotto la testimonianza di Dio stesso; e così anche tutto quello che sta per dire ora in 2,1-11. Una pericope quest'ultima il cui intento è quello, da un lato, di meglio specificare il motivo della sua mancata visita (2,1-3); dall'altro, attestare i motivi per cui ha scritto loro la “lettera tra molte lacrime” (2,4-11).

Paolo riprende, quindi, il v.1,23, dove ha attestato di aver mancato alla visita promessa in 1Cor 16,1-9 per “risparmiare” ai Corinti le sue invettive per il loro comportamento, sviluppando, ora, un breve ragionamento: infatti se lui fosse venuto da loro, secondo la promessa fatta, avrebbe recato loro soltanto dei dispiaceri, così che da loro non si sarebbe più potuto aspettare nessuna consolazione o soddisfazione apostolica, in quanto che avrebbe creato con i suoi rimproveri e le sue minacce un ambiente a lui avverso, per cui “proprio per questo scrissi” (2,3a), cioè, proprio per evitare una sua presenza sgradevole e spiacevole per tutti, sia per se stesso che per i Corinti, come già si era verificato nella sua seconda visita improvvisata, ha preferito inviare al suo posto Tito con la sua missiva, quella scritta “tra molte lacrime”, rimandando la promessa fatta con 1Cor 16,1-9 a tempi migliori, quelli di una ritrovata rappacificazione e comunione di vita; tempi che sarebbero venuti dopo la lettera “scritta tra molte lacrime”, accompagnata dai buoni uffici di Tito, abile diplomatico e mediatore.

I motivi per cui Paolo scrisse la lettera tra molte lacrime (2,4-11)

Dopo aver motivato la sua mancata visita promessa in 1Cor 16,1-9, in sostituzione della quale ha preferito, invece, scrivere ai Corinti, facendo pervenire lo scritto per il tramite di Tito, ora Paolo torna su questa lettera, illustrando ai Corinti sia il suo stato d'animo con il quale egli la scrisse; sia i motivi che lo hanno spinto a scriverla.

La lettera non nacque da uno scatto d'ira, dopo essere tornato ad Efeso dalla sua inopinata seconda visita, dove volarono parole pesanti da parte di qualcuno contro Paolo (7,12) e dove egli trovò una comunità a lui rivoltatasi contro, sobillata dai suoi avversari (11,4.13-15), ma, al contrario, essa nacque in un contesto di grande sofferenza e di grande dolore per Paolo, rattristato fino alle lacrime, che furono abbondanti e persistenti (2,4a). Non fu, dunque, una semplice lacrimuccia di una commozione momentanea, come sembra poter comprendere dall'espressione “tra molte lacrime”, sgorgate da un animo turbato da “molta sofferenza e angustia di cuore”. Uno stato d'animo comprensibile se si pensa che Paolo si sente per questa comunità, da lui generata in Cristo con l'annuncio del suo Vangelo, come un padre (1Cor 4,15).

Dopo aver descritto il contesto psicologico in cui egli scrisse loro, tornando al suo recente passato, Paolo si rende conto che questa sua esternazione può aver causato qualche turbamento nei suoi lettori. Chiarisce, pertanto, come egli ha rivelato il suo doloroso stato d'animo non per rattristarli o farli sentire in colpa, la quale cosa sarebbe stata una sorta di vendetta postuma, ma solo per testimoniare tutto il suo grande amore per loro. Ed è proprio questo che lo ha fatto soffrire per il loro comportamento (2,4b).

Ed è così che, ora, dalle considerazioni generali si passa al caso particolare, quello dell'offensore (7,12), probabilmente un giudeocristiano giudaizzante, che in pubblica assemblea doveva essersi rivolto a Paolo in modo disdicevole e offensivo, contestandogli la sua autorità apostolica e il suo stesso Vangelo. Paolo non vuole che l'episodio, così grave, sia sottaciuto, perché non si pensi che l'offesa arrecata a lui sia o diventi soltanto una questione privata tra i due. Egli è il padre fondatore della comunità (1Cor 4,15), rivestito dell'autorità apostolica da Dio stesso (1,1a), e le ingiurie rivoltegli contro non colpiscono soltanto la sua persona, ma in lui l'intera comunità ed offendono Dio stesso.

Dal v.5, che funge da preambolo alla pericope vv.6-8, Paolo passa ora ad incentrare la sua attenzione sul caso dell'offensore. Lo fa in modo soft, senza alzare i toni o aizzare contro di lui l'intera comunità. Il suo richiamo, per contro, ha uno scopo preciso: quello di non infierire contro di lui, causandogli dolore e sofferenza, ma usando nei suoi confronti il giudizio della carità (v.8), il cui intento è quello non di condannare e punire, ma di recuperare chi ha sbagliato, cercando il suo bene e quello della sua salvezza. Da qui il sollecito ad essere “benevoli e (gli) siate di conforto, affinché questo tale in qualche modo non sia divorato da un eccessivo dolore” (v.6).

Il v.5, che introduce la questione, lascia intravvedere come già nei primissimi tempi del cristianesimo, le comunità fossero ben strutturate al proprio interno, sull'esempio e sullo schema della sinagoga ebraica21, e avessero un consiglio di governo, che doveva fungere anche da consiglio giudicante. Si parla, infatti di “castigo” che gli è venuto dai “più”. I termini richiamano da vicino l'organizzazione della comunità di Qumran, dove si parla di cause introdotte “davanti ai molti” (Regola 6,1), e per “molti” (in ebr. rabbîm) si intendono i membri a pieno diritto della comunità, ma in senso tecnico, l'espressione definisce il consiglio della comunità con potere direttivo, di sorveglianza e giudiziario22. Lo stesso Paolo in 1Cor 5,3-5.12-13 incita i Corinti a costituirsi in consiglio giudicante per dare, insieme a Paolo, esecuzione alla sentenza che egli già ha emessa, quella di estromettere dalla comunità l'incestuoso. Ma anche Mt 18,15-17 dà testimonianza di regole interne alle prime comunità credenti, che prevedono tre gradi di giudizio: quello personale, quello testimoniale e quello dell'assemblea, dove per “assemblea” ha da intendersi il consiglio della comunità.

L'invito dei vv.7-8 è pressante e più che un semplice desiderio di Paolo sembra essere una sua precisa disposizione, per mettere all prova l'obbedienza dei Corinti e la loro sottomissione a Paolo (v.9), così che la loro magnanimità nei confronti di chi ha sbagliato meriti la magnanimità dello stesso Paolo nei loro confronti, poiché alla pari di quello, anche loro hanno sbagliato nell'abbandonare il Vangelo di Cristo e nel tradire Paolo per seguire i suoi avversari (v.10). Il perdono, dunque, e non la vendetta deve prevalere nel castigo per non fare il gioco stesso di satana, che cerca di dividere e di contrapporre tra loro i credenti. Infatti, conclude Paolo, “non ignoriamo il suo pensiero” (v.11).



C) L'originaria seconda Lettera ai Corinti,
una pacata difesa di Paolo
del proprio ministero

(1,1-2+2,14-6,10+13,11-13)





Note generali

Tutte le lettere attribuite a Paolo23, fatta eccezione per quella ai Galati, sono caratterizzate dal rendimento di grazie, che segue immediatamente dopo il prescritto. Tuttavia la canonica 2Cor presenta un'eccezione, facendo seguire al prescritto (1,1-2) una sorta di inno alla misericordia e alla consolazione divine (1,3-7), che non è propriamente un ringraziamento, benché si cerchi di forzare facendolo rientrare nella categoria dei ringraziamenti. Non compare mai, infatti, il verbo “EÙcaristî” (Eucaristô, rendo grazie) o “EÙcaristoàmen” (Eucaristûmen, rendiamo grazie) o l'espressione “Tù de qeù c£rij” (Tô de tzeô cáris, siano rese grazie a Dio). Quest'ultima espressione, invece, nel senso di rendimento di grazie, compare soltanto in 2,14, posta in apertura della pericope 2,14-17, che funge anche da introduzione tematica all'intera sezione 3,1-6,10. Questa ampia sezione è riconosciuta come l'originaria Seconda Lettera ai Corinti, per la sua unità tematica e la pacatezza di toni che la caratterizza.

Va da sé, dunque, che il “rendimento di grazie” (2,14-17) si lega naturalmente al corpo dell'intera lettera, di cui, come appena detto, anticipa i temi; così come va da sé che il “rendimento di grazie” vada legato, secondo le logiche paoline, al prescritto (1,1-2), così come il postscritto (13,11-13) va a chiudere la lettera.

Pertanto, come il lettore avrà già notato, l'originaria Seconda Lettera ai Corinti va circoscritta secondo questo schema, che qui di seguito propongo e sul quale svilupperò il mio commento:

a) Prescritto: 1,1-2;

b) Rendimento di grazie: 2,14-17;

    c) Corpo della lettera: 3,1-6,10;

d) Postscritto: 13,11-13

Questa, dunque, è, a mio avviso, l'originaria Seconda Lettera ai Corinti, che un anonimo redattore finale, probabilmente agli inizi del II sec. d.C.24, ha scomposto inserendola all'interno dei numerosi altri scritti riguardanti lo stesso tema: i problemi relazionali tra Paolo e la sua comunità di Corinto, le loro cause, la loro ricomposizione, sottesi tutti da un comune denominatore: l'autodifesa di Paolo e del suo Vangelo nei confronti dei suoi avversari, i predicatori giudeocristiani giudaizzanti, che avevano sobillato contro di lui la sua comunità, denigrando la sua persona e la sua stessa predicazione.

Questa Seconda Lettera ai Corinti, così come individuata, va posta, in termini temporali e di sviluppo logico-tematico, subito dopo quello che ho definito il suo “biglietto accompagnatorio” (1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11), con il quale Paolo aveva dato sfogo alla sua grande gioia per il ritrovato consenso presso la sua comunità e la ristabilita comunione con essa; biglietto con il quale egli rivela anche sia il motivo della sua mancata visita promessa in 1Cor 16,1-9, inviando in sua sostituzione, per il tramite di Tito, la lettera “scritta tra molte lacrime” [(6,11-12+7,2-4)+(10,1-12,21)]; sia il suo stato d'animo, con il quale essa era stata scritta. Paolo, quindi, con tale “biglietto accompagnatorio” si era creato un contesto a lui favorevole, affrontando, così, con più pacatezza ciò che gli stava più a cuore: la questione del suo ministero di apostolo, contestatogli sotto la spinta dei giudeocristiani giudaizzanti e che, di primo impulso, aveva difeso con veemenza e in modo polemico con la “lettera scritta tra molte lacrime”, finalizzata a rintuzzare le pretese dei sedicenti apostoli di Cristo, sviluppando un serrato confronto tra se stesso e costoro, tra la loro pretesa titolatura e la propria, ben più consistente e significativa.

Commento all'originaria Seconda Lettera ai Corinti (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13)

Il prescritto (1,1-2)

Testo a lettura facilitata

Mittente (v.1a)

1a- Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timoteo

Destinatario (v.1b)

1b- alla chiesa di Dio che è in Corinto con tutti i santi, che sono nell'intera Acaia,

Saluti (v.2)

2- grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e (dal) Signore Gesù Cristo.

Note generali

Anticamente, nel mondo greco-romano, le lettere seguivano un preciso schema: il prescritto in cui compariva il nome del mittente e quello del destinatario, accompagnati dai saluti iniziali. Un esempio in tal senso lo si trova in At 23,26: “Claudio Lisia all'eccellentissimo governatore Felice, salute” e in At 15,23: “E consegnarono loro la seguente lettera: "Gli apostoli e gli anziani ai fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono dai pagani, salute!”. Seguiva, poi, il corpo della lettera, che si chiudeva con un postscritto, che conteneva le ultime raccomandazioni e i saluti finali.

Raramente e quasi mai i mittenti erano più di uno, mentre sovente, ma non sempre25, Paolo accompagna al suo nome quello di altri suoi collaboratori26 o, in senso più generico, quello collettivo di “fratelli”27, dando in tal modo al suo scritto un senso di ecclesialità.

Ma se nell'antichità il prescritto si riduceva, come nell'esempio sopra riportato, all'essenzialità del nome del mittente e di quello del destinatario accompagnati da uno scarno saluto, qui in Paolo e in genere nelle lettere di scuola paolina, il mittente si arricchisce di titoli e di locuzioni, la cui finalità è quella di mettere in evidenza le sue credenziali, che sono quelle di apostolo nonché l'origine della sua apostolicità; mentre il destinatario viene definito non solo nella sua nuova identità e la sua nuova natura spirituale di credente, che informa la sua stessa natura umana, rigenerata in virtù della fede e del battesimo, ma anche la profondità del senso del suo essere credente.

Interessante è porre a confronto tra loro i due prescritti, quello della 1Cor e quello della 2Cor, dove si notano delle significative variazioni. In 1Cor Paolo fa seguire il suo nome dalla locuzione: “chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”, dove si mette in rilievo come il suo essere apostolo nasce da una chiamata, che ha la sua origine in Dio stesso ed è legata in qualche modo alla sua storia personale, come rileverà in Gal 1,15; mentre nella locuzione di 2Cor, che accompagna il nome di Paolo, scompaiono i termini della chiamata e della sua storia personale, per dare spazio a quello di un'attestazione, che è più categorica e imperativa ed ha i toni dell'ufficialità. Paolo qui non è più un chiamato, ma è “apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”. Il motivo di questa apparentemente lieve differenza, ma sostanziale, va ricercata nel senso e negli intenti dell'originaria 2Cor, che sono quelli della difesa della sua apostolicità, messa in discussione dai suoi avversari e dagli stessi Corinti, da questi sobillati. Per cui fin da subito Paolo mette in chiaro la sua identità di apostolo, che gli proviene direttamente da Dio: “Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”.

Anche il tono con cui Paolo si rivolge ai destinatari cambia notevolmente tra la 1^ e la 2^ Cor, dove Paolo sviluppa, in 1Cor, una sorta di riflessione e di approfondimento cristologico sulla natura del loro essere Chiesa di Dio, quasi a voler fare un ripasso o un prolungamento della catechesi di recente impartita: “alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro”. Uno sviluppo di pensiero che mette in rilievo due aspetti, che formeranno il leitmotiv dell'intera 1Cor, che si scaglia contro le divisioni interne alla comunità e ai comportamenti che offendono la santità del suo nuovo stato di vita: la santità e l'unità comunionale della comunità nell'unica fede nell'unico Cristo; mentre qui in 2Cor i toni sono molto più smorzati e compassati e risento dell'ufficialità della Lettera: “alla chiesa di Dio che è in Corinto e a tutti i santi dell'intera Acaia:”. La 2Cor, infatti, sia pur con toni smorzati e tranquilli, è un'autodifesa dell'apostolicità di Paolo e del suo Vangelo e una riflessione sulla sua natura, per cui Paolo si rivolge ai suoi interlocutori con la titolatura ufficiale: alla “Chiesa di Dio” e ai “santi”. Questo essi sono e, di conseguenza, si comportino di fronte all'autorità apostolica di un Paolo, che è “apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”.

Quanto ai saluti, questi vengono ripresi, pari pari, senza alcuna variazione, quasi che Paolo voglia tendere, là come qui, la sua mano ai Corinti, rappacificandosi con loro.

Commento al prescritto (1,1-2)

Similmente a 1Cor, Paolo si presenta qui, in apertura della 2Cor, con la sua titolatura che suona come una sfida verso i suoi avversari e gli stessi Corinti, poiché questa 2Cor è dedicata quasi interamente all'autodifesa di quel titolo che gli veniva contestato da questi e al quale era legato l'annuncio del suo Vangelo.

Egli non è “apostolo” perché inviato dai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme con deleghe particolari e da questa dipendente, come, invece lo erano i suoi avversari (2Cor 3,1), che tale titolatura facevano valere per imporsi ai Corinti e quale attestazione di veridicità del vangelo che essi andavano predicando, ma che Paolo disdegna, perché il vangelo da loro annunziato così come il messaggio salvifico predicato da Gesù erano passati attraverso il filtro della Legge mosaica e a questa subordinati (At 15,1).

Egli, pur rispettoso dei responsabili della chiesa madre di Gerusalemme e dei suoi stessi membri (Gal 1,18-19; 2,1-2), si è sempre mosso in modo indipendente da questa (Gal 1,15-17) e, se ne ricorreva il caso, si opponeva anche agli stessi responsabili (Gal 2,11-14) o ai suoi emissari (At 15,1-2). Il motivo di questa sua indipendenza lo lascia intuire qui: egli è “apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio”. Anzi, nella lettera ai Galati egli sarà molto più esplicito: “apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio” (Gal 1,1). Il suo mandato, quindi, lo aveva ricevuto non dai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme, bensì da Dio stesso, dal quale egli aveva ricevuto, come per rivelazione, il Vangelo di Cristo, che nessuno gli aveva annunciato e nel quale nessuno lo aveva ammaestrato. La fonte del suo Vangelo è Cristo stesso: “Vi rendo, pertanto, noto, fratelli, che il vangelo che fu annunziato da me non è secondo l'uomo; né, infatti, io l'ho ricevuto da un uomo né fui ammaestrato, ma per mezzo di una rivelazione di Gesù Cristo ” (Gal 1,11-12).

A pieno titolo, quindi, Paolo può dichiararsi “apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio” e nessuno glielo può contestare e tanto meno revocare, poiché la sua provenienza è divina e l'autorità che da Paolo promana è quella stessa di Cristo, che in lui vive ed opera e al quale è stato associato nelle sue sofferenze (Gal 2,20a). Paolo, quindi, pur muovendosi all'interno della chiesa in modo rispettoso sia nei confronti delle sue autorità che dei suoi membri, si muove al di sopra di questi.

A fianco di Paolo, quale suo co-mittente, compare il nome di Timoteo, qui definito con l'appellativo di “fratello”, con il quale nella chiesa dei primi tempi si designavano i credenti, in quanto accomunati da un'unica fede nell'unico Padre e nel suo unigenito Figlio Gesù Cristo, in cui per fede e per battesimo erano inseriti e tra loro in comunione.

Timoteo, dunque, un personaggio che probabilmente Paolo ha generato nella fede (1Tm 1,2) e che tratta con l'affettuosità di un padre verso il proprio figlio, di cui si preoccupa per la sua salute precaria e gli suggerisce una diversa dieta: “Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di un po' di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni” (1Tm 5,23).

Timoteo nacque da padre greco e madre giudea, che gli insegnò le Sacre Scritture (2Tm 1,5; 3,15a). Paolo lo prese con sé nei suoi viaggi missionari, durante i quali egli si convertì al cristianesimo. Paolo lo definirà in Rm 16,21 “mio collaboratore”, mentre in 1Cor 4,17 lo chiamerà “mio figlio diletto e fedele nel Signore” e così in 1Tm 1,2 “Timoteo, mio vero figlio nella fede” e in 2Tm 1,2 “al diletto figlio Timoteo” e similmente in 1Tm 1,18 “figlio mio Timoteo”, mentre qui in 1,1 lo chiama “fratello” come in 1Ts 3,2. Da questi appellativi, di cui Timoteo è insignito da Paolo, si può pensare che tra i due corresse un particolare legame di affetto e di grande e reciproca stima (2Tm 1,4), cose queste che non erano facili da ottenere da Paolo, molto esigente e duro con i suoi collaboratori.

Destinatari di questa originaria 2Cor è la “chiesa di Dio” che si trova in Corinto. Il titolo è ufficiale e dà un tono di ufficialità alla lettera, in cui è impressa l'autorità apostolica di Paolo. Con la chiesa di Corinto vengono associati anche “tutti i santi, che sono nell'intera Acaia”, dei quali la chiesa di Corinto, era a capo, benché non si abbiano notizie di comunità credenti sparse in questa regione, posta a nord del Peloponneso. Questa, conquistata nel 146 a.C. da Roma, fu costituita da Augusto provincia romana e governata dal Senato romano per mezzo di un propretore, che aveva sede in Corinto, capoluogo della regione.

Il coinvolgimento, oltre Corinto, anche dei “santi che sono nell'intera Acaia” lascia pensare che i problemi che Paolo aveva riscontrato in Corinto fossero diffusi in realtà in tutta la regione.

Paolo definisce i credenti “i santi”, un appellativo che ritroviamo sovente nelle lettere paoline28 e qualifica il credente come colui che è rivestito della santità di Dio, a lui consacrato per mezzo della fede e del battesimo e ne condivide la Vita. Con tale appellativo, pertanto, Paolo definisce la nuova natura che è stata generata e impiantata dalla fede e dal battesimo nel credente e attesta la sua appartenenza a Dio.

Alla chiesa di Corinto e a tutti i santi viene rivolto il saluto iniziale: “grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e (dal) Signore Gesù Cristo”. Una formula di saluto molto densa, poiché Paolo augura “grazia e pace” alla chiesa di Corinto, dove per grazia si intende la pienezza di vita di Dio che è stata trasfusa nei Corinti e nei suoi santi ed ha come primo frutto di vita la pace, cioè la riconciliazione dell'umanità credente con Dio, dal quale promana ogni bene spirituale per mezzo del “Signore Gesù Cristo”. Una sintetica formula di fede, quest'ultima, dove nell'uomo Gesù, si riconosce il Cristo di Dio, cioè l'Unto del Padre per mezzo del suo Spirito, divenuto con la sua risurrezione “nostro Signore”, con cui si riconosce nel Risorto la sua signoria su tutte le cose e sull'intera umanità (Mt 28,18; Gv 17,2); mentre con quel “nostro” attesta l'appartenenza del credente al Risorto e la sua signoria su di lui.

Il rendimento di grazie (2,14-17)

Testo a lettura facilitata

Il rendimento di grazie e il suo motivo (v.14)

14- (Siano rese) grazie a Dio, che sempre ci fa trionfare in Cristo e il profumo della sua conoscenza manifesta per mezzo nostro in ogni luogo;

Approfondimento della sua motivazione, che si fa giudizio di condanna (vv.15-16)

15- poiché per Dio siamo soave odore di Cristo tra quelli che sono salvati e tra quelli che sono perduti,
16- per questi fetore da(lla) morte per (la) morte; per quelli fragranza da(lla) vita per (la) vita. E chi (è mai) idoneo per queste cose?

L'oggetto di condanna, che distingue Paolo dagli altri (v.17)

17- Infatti, non siamo come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio, ma come dalla sincerità, ma come da Dio, davanti a Dio parliamo in Cristo.


Note generali

L'originaria Seconda Lettera ai Corinti segue immediatamente quello che ho definito il suo “biglietto accompagnatorio” (1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11), con il quale Paolo celebra, assieme alla sua ritrovata comunione con la sua comunità di Corinto, grazie alla lettera “scritta tra molte lacrime”, accompagnata dai buoni uffici di Tito, la misericordia divina, fonte di ogni sua consolazione, e con il quale attesta altresì la sua veridicità e, quindi, la sua affidabilità a tutto favore della sua persona, ma ancor prima del suo Vangelo. Un “biglietto accompagnatorio” che funge, quindi, da preambolo e da battistrada rappacificante a questa originaria Seconda Lettera ai Corinti, in quanto che tende ad appianare le asperità che erano sorte tra Paolo e la sua comunità, consentendo in tal modo a Paolo di presentare, ora, in tutta tranquillità e senza ormai più la focosità e la vis polemica che aveva agitato la lettera “scritta tra molte lacrime”, il senso del suo ministero apostolico e in particolar modo della sua apostolicità, motivandola teologicamente e cristologicamente.

Da qui questo “rendimento di grazie” un po' particolare, perché, a differenza degli altri “rendimenti di grazie” che celebrano le virtù della comunità, cui è indirizzata la lettera e i particolari legami che la uniscono a Paolo, questo rendimento di grazie ha per oggetto due aspetti che riguardano la sola persona di Paolo e che nel contempo fungono da preambolo tematico a questa originaria Seconda Lettera ai Corinti: da un lato, Paolo, quasi in continuità con il “biglietto accompagnatorio”, celebra in la sua affermazione apostolica (v.14a), nonostante le molteplici avversità che gli si contrappongono e che sovente sembrano sommergerlo; dall'altro, presenta il suo ministero come azione di diffusione della conoscenza di Cristo e della sua Parola salvifica (v.14b). A fronte di questi due aspetti, che non va dimenticato, costituiscono l'oggetto del contendere tra Paolo e i suoi avversari e in buona parte della sua stessa comunità, Paolo sottolinea una duplice reazione: chi lo accoglie benevolmente e chi, invece, lo rifiuta, creando in tal modo una discriminazione tra i “buoni” e i “cattivi”, sui quali egli pone il giudizio di salvezza o di condanna (vv.15-16). Una sorta di regolamento di conti, che apparirà più chiaro e diretto nel biglietto (13,1-10+6,14-7,1) che seguirà questa originaria Seconda Lettera ai Corinti, con il quale preannuncia la sua imminente terza visita con la quale intende far piazza pulita (13,1-3)

A conclusione di questo singolare “rendimento di grazie” non manca la stoccata finale contro i suoi avversari, dai quali egli si distacca perché, non approfittando del suo ministero, non si fa mantenere né remunerare per il suo impegno apostolico a differenza di quelli (v.17), che definisce mercanti della parola di Dio.

Pur nella sua brevità, ho assegnato a questa pericope, per una sua migliore comprensione, la seguente struttura:

  1. Il rendimento di grazie e il suo motivo (v.14);

  2. Approfondimento della sua motivazione, che si fa giudizio di condanna (vv.15-16);

  3. L'oggetto di condanna, che distingue Paolo dagli altri (v.17)

Commento ai vv. 2,14-17

Il rendimento di grazie e il suo motivo (v.14)

Il v.14 apre il rendimento di grazie che introduce questa originaria Seconda Lettera ai Corinti, preannunciandone in qualche modo il tema. Si tratta di un rendimento di grazie che si discosta dalla solita formula “eÙcaristî” (eucaristô, rendo grazie) o “Eùcaristoàmen” (eucaristûmen, rendiamo grazie) dal sapore liturgico. Qui Paolo usa una formula che si riscontra soltanto cinque volte in tutte le sue lettere29: “c£rij de tù qeù” (cáris de tô tzeó, grazie a Dio), che ha toni meno sacrali, meno intensi della precedente formula.

L'oggetto del suo personale ringraziamento riguarda il suo “trionfo” apostolico e il “profumo” dell'annuncio del suo Vangelo. Due termini questi che, associati ai toni giustizialisti dei vv.15-16, richiamano da vicino le parate trionfalistiche del vincitore, che passava tra due ali di folla osannante, preceduto da schiavi che spargevano sul suo cammino profumi, mentre numerosi prigionieri in catene, scelti dai campi di battaglia, precedevano il vincitore e al termine della parata venivano giustiziati.

L'accostamento tra le due figure dell'antico vincitore e di Paolo evidenzia lo stato di euforia di Paolo dopo l'incontro con Tito e gli fa comprendere come, nonostante le sue apparenti sconfitte, Dio sia sempre con lui e lo sorregga nella sua missione e volga sempre al meglio le cose. Paolo, infatti, non sta portando avanti una sua personale missione, ma è l'inviato speciale non della chiesa madre di Gerusalemme, ma di Dio, che lo ha costituito suo apostolo, rivelandogli il suo stesso Vangelo (Gal 1,1.11-12; 2Cor 1,1a). Ora, Paolo ha la prova provata di quanto Dio gli aveva fatto capire in 12,9a: “Ti basta la mia grazia, poiché la mia forza si compie ne(lla) debolezza”. Così che Paolo chioserà: “Pertanto con piacere di più mi vanterò nelle mie debolezze, affinché dimori in me la potenza di Cristo” (12,9b), concludendo parossisticamente in 12,10b: “Infatti, quando sono debole, allora sono forte”. Da qui il suo personale rendimento di grazie testimoniato davanti alla sua ritrovata comunità di Corinto.

Approfondimento della sua motivazione, che si fa giudizio di condanna (vv.15-16)

Ora Paolo riprende il termine “profumo”, riferito al suo Vangelo, che è conoscenza di Cristo e sapienza di Dio, il quale, accolto dai credenti, trasforma gli stessi in “soave odore”, richiamandosi con questa espressione ai sacrifici graditi a Dio30, che, grazie al suo ministero, egli offre a Dio, celebrandolo nella sua misericordia e attuando la sua salvezza. Un profumo che viene sparso ovunque parimenti sia tra i salvati che tra i perduti e che ricorda il Padre celeste di Mt 5,45, il quale con uguale amore “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”; così come i diversi terreni di Mc 4,3-9, sui quali la Parola viene egualmente seminata. Dio, infatti, ricorda Gv 3,16-18, “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio”.

Una Parola, dunque, annunciata ovunque e a chiunque, perché tutti abbiano la possibilità di salvarsi. Una Parola, tuttavia, che, interpellando l'ascoltatore, attende da lui la sua risposta esistenziale, in base alla quale egli deciderà del suo destino eterno. Una Parola, quindi, che possiede in se stessa un potere discriminante (Mt 12,30; Lc 11,23), dividendo l'umanità in “buoni” e “cattivi”, in “pecore” o in “capri” (Mt 25,32-33), dove salvezza o dannazione non è determinata da Dio, ma dalla risposta esistenziale che l'uomo dà a Dio, che nel suo Cristo e nella sua Parola, gli ha teso e continuamente gli tende la mano, indicandogli in essa la via del suo ritorno in seno al Padre (Gv 14,6), da cui è drammaticamente fuoriuscito (Gen 3,16-24).

Per questo quel “profumo”, che è la conoscenza di Cristo disvelata nella sua Parola, si trasformerà in “fetore da(lla) morte per (la) morte” per quelli che l'hanno ripudiato; mentre per coloro che l'hanno accolto diviene “fragranza da(lla) vita per (la) vita”, che è Vita eterna, Vita stessa di Dio (Gv 3,19-21).

Grande, dunque, è la responsabilità dell'apostolo, poiché dalla sua predicazione, accolta o rifiutata, dipende la salvezza o la perdizione eterna delle genti. Da qui l'interrogativo di Paolo, che è velatamente polemico, così come meglio apparirà al v.17: “E chi (è mai) idoneo per queste cose?” (v.16b). A Paolo, infatti, veniva contestato dai suoi avversari di non saper parlare; di avere una misera e insignificante presenza fisica; di essere forte con le lettere, ma debole in presenza; di sporcarsi le mani lavorando come gli schiavi, anziché farsi mantenere e compensare dalla comunità e, a differenza loro, non aveva alcun mandato e non vantava nessun titolo. Insomma, nel suo insieme, Paolo era del tutto inadeguato a fare il “mestiere” dell'apostolo e del predicatore. E Paolo con il v.17a rincara polemicamente le accuse contro di lui, attestando: “Infatti, non siamo come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio”, cioè approfittano della loro missione e della loro titolatura e della loro posizione di apostoli per far soldi a tutto loro vantaggio, imponendosi, angariandola, alla comunità (11,20).

Certo, conclude Paolo, egli non è come questa gentaglia, che non ha avuto remore nel definirli “falsi apostoli e operai fraudolenti” nonché “ministri di satana” (11,13-15), ai quali egli contrappone la linearità, la semplicità, la correttezza e la trasparenza del suo comportamento e della sua predicazione, dei quali egli attesta la loro origine con quella doppia particella “™k” (ek, da), che dice la provenienza del suo annuncio, che proviene da Dio stesso ed è annunciato in tutta sincerità, poiché il suo annuncio si compie alla presenza di Dio stesso: “ma come dalla sincerità, ma come da Dio, davanti a Dio parliamo in Cristo”.

Non ci sono, dunque, doppiezze in Paolo, che non persegue fini secondari per arricchirsi, facendosi mantenere dalla comunità, angariandola, facendo pesare la sua autorità apostolica, che, invece, deve essere servizio salvifico di Dio alla comunità. Egli è da Dio e parla come chi è davanti a Dio stesso, che gli dà testimonianza della sua correttezza e della sua apostolicità.

Corpo della lettera (3,1-6,10)

Note generali

Subito dopo il rendimento di grazie (2,14-17), Paolo, come di consueto, fa seguire il corpo della lettera, quella che è ritenuta l'autentica ed originaria Seconda Lettera ai Corinti. Una lettera complessa e molto elaborata, dove non sempre sono chiari i diversi passaggi da un argomento ad un altro né le logiche che sottendono questi passaggi, ma che dà nel suo insieme un quadro esaustivo circa il ministero apostolico di Paolo, dove l'operare di Paolo e di Dio si confondono, creando in tal modo un'identità tra i due agire: l'agire di Paolo è quello di Dio, che opera in Paolo e Paolo agisce davanti a Dio, che in lui si riflette, divenendo “soave odore” per quelli che si salvano; o “fetore di morte” per quelli che si perdono (2,15-16).

Benché non sia facile individuare lo schema di questa lettera e le logiche con cui si muove, tuttavia ho cercato di individuare i diversi passaggi tematici, che tendono a mettere in luce il senso dell'apostolato di Paolo e, di conseguenza, dell'apostolicità in quanto tale.

Propongo, dunque, di seguito la macrostruttura della Lettera, commentandola, non per singoli capitoli, ma per singoli temi, che lentamente prendono forma e consistenza man mano che la lettera procede, quasi per associazione di idee, che avvengono o per agganci a parole o frasi, o per agganci tematici, che vengono ripresi e approfonditi o più semplicemente perché ne richiamano altri.

Pertanto si avrà:

  1. La comunità di Corinto, vera attestazione dell'autentica apostolicità di Paolo (vv.3,1-4);

  2. La comunità di Corinto, opera di Dio e non di Paolo, reso suo ministro da Dio (vv.3,5-6);

  3. Il confronto tra i due ministeri, quello dell'A.T. e quello del N.T. (vv.3,7-11);

  4. La diversità tra i due ministeri: velato quello dell'A.T.; svelato in Cristo quello del N.T. (vv.3,12-18);

  5. La fedeltà e correttezza di Paolo al ministero ricevuto (vv.4,1-2);

  6. Lo splendore del Vangelo di Paolo è velato per coloro che si perdono (vv.4,3-6);

  7. Il ministero della diffusione dello splendore del Vangelo è affidato alla fragilità umana (vv.4,7-12);

  8. Fede e speranza sono a fondamento del ministero di Paolo (vv.4,13-16);

  9. Le motivazioni della speranza di Paolo che sottendono e sorreggono il suo ministero (4,17-5,5);

  10. Desiderio di Paolo: essere gradito al Signore e unirsi a lui per sempre (vv.5,6-11);

  11. Ciò che muove Paolo: l'amore di Cristo morto-risorto (vv.5,12-15);

  12. Cristo morto-risorto, causa e motivo di nuove relazioni in un nuovo stato di vita (vv.5,16-17);

  13. Origine e senso del ministero di Paolo (vv.5,18-21);

  14. Paolo, multiforme ministro di Dio in ogni circostanza (6,1-10).

L'originaria Seconda Lettera ai Corinti è suddivisa in sei blocchi tematici, che sondano sotto vari aspetti l'apostolicità di Paolo, così che si avrà:

Primo blocco (a,b): la comunità di Corinto è la testimone prima dell'apostolicità di Paolo, per mezzo della quale opera Dio stesso;

Secondo blocco (c,d): a beneficio dei Corinti e in particolar modo di quella particolare categoria di predicatori giudeocristiani giudaizzanti, originatasi probabilmente da sacerdoti o leviti veterotestamentari, senza escludere scribi e farisei, convertitisi al cristianesimo, ma che ancora non accettavano un ruolo diverso da quello con cui si sentivano ancora investiti o partecipi per classe, Paolo pone a confronto i due ministeri sacerdotali, quello veterotestamentario e quello neotestamentario: il primo ha per fondamento la Legge mosaica, portatrice in se stessa di condanna e di morte, perché legata alla fragilità delle opere umane; il secondo ha per fondamento Cristo, generatore di vita per fede, che apre allo Spirito, che dà Vita.

Terzo blocco (e,f,g): riguarda lo specifico del ministero di cui Paolo è investito, che lo spinge all'annuncio di un Vangelo, che non è capito ed è rifiutato da coloro che sono chiusi mentalmente e spiritualmente all'annuncio di realtà che non sono umane, ma divine. Realtà sublimi queste, ministero e annuncio, che sono affidate alla fragilità umana, di cui Paolo è accusato dai suoi avversari. Ma questa è la logica di Dio, che si serve della fragilità dell'uomo, perché da questa traspaia ancor più la sua potenza salvifica (12,9-10).

Quarto blocco (h,i,j): presentato, dunque, il suo ministero dell'annuncio del Vangelo, Paolo, ora, si addentra su ciò che lo sorregge e lo sostanzia: la fede e la speranza lo sospingono ad annunciare, in una prospettiva escatologica e celebrativa, il Vangelo, che gli è stato affidato, perché la diffusione della Parola abbracci tutti gli uomini, affinché questi riconoscano il vero Dio e gli rendano gloria (h:4,13-16).

Ed è così che fede e speranza aprono Paolo ad una nuova visione e comprensione della vita e delle sue dinamiche e, in particolar modo del suo ministero: le sofferenze patite ora per Cristo e il peso di morte che grava su ogni uomo, in particolar modo sull'apostolo, che soffre nel suo ministero a causa di Cristo, hanno come contropartita un'altra realtà gloriosa, che è in gestazione nei cieli. Tali sofferenze piene di morte, in realtà contengono in loro stesse una promessa di Vita eterna (i: 4,17-5,5).

Ed è sull'onda di questa nuova visione e comprensione, che gli viene dalla fede e dalla speranza nel Cristo morto-risorto, che Paolo si sente sostenuto e rincuorato e quanto mai più determinato a vivere il suo ministero in e per Cristo. Egli comprende che il tempo presente è il tempo della sofferenza e della fede, illuminate dalla speranza, che lo spingono ad un impegno sempre maggiore per essere nel giudizio finale anche gradito al suo Cristo ed unirsi definitivamente a Lui. Ed è con questa coscienza, quella del giudizio divino, che incombe su tutti gli uomini, che egli annuncia il Vangelo di Cristo alle genti per attrarle a Dio. E Dio è testimone di ciò che muove Paolo nel suo ministero, così come egli spera lo siano anche i Corinti (j: 5,6-11).

Quinto blocco (k,l): dalla fede e dalla speranza, che spingono Paolo a vivere il suo ministero in prospettiva escatologica, vivendo non più per questo mondo, ma per il cielo a cui anela per unirsi definitivamente a Cristo, Paolo passa ora a considerare anche un altro aspetto, che lo muove e lo sorregge nel suo ministero: l'amore di Cristo per tutti gli uomini, che vive ed opera in Paolo e lo sospinge a compiere ogni pazzia pur di annunciare il Vangelo di Cristo alle genti, perché queste credano nel Cristo morto-risorto e non vivano più rinchiuse nel loro mondo corrotto, ma entrino nel nuovo mondo, che la morte-risurrezione hanno generato (k: 5,12-15) e nel quale sono chiamate ad entrare, conformandosi alle nuove realtà spirituali che l'annuncio del Vangelo accolto e il battesimo hanno generato in loro (l: vv.5,16-17).

Sesto blocco (m,n): Le nuove realtà inaugurate dalla morte-risurrezione di Cristo e offerte nuovamente agli uomini, hanno decretato la fine dell'inimicizia tra Dio e gli uomini, aprendo così al tempo della riconciliazione tra loro, che si attua nell'annuncio accolto del Vangelo e affidando questo ministero di riconciliazione agli apostoli e nella fattispecie a Paolo, divenuto ambasciatore di Dio in mezzo agli uomini, sollecitando le genti a riconciliarsi con Dio (m: vv.5,18-21). Da qui l'esortazione a lasciarsi riconciliare con Dio, riconciliandosi con Paolo, che di Dio è l'ambasciatore, che tale è sempre rimasto, fedele al suo ministero, in ogni circostanza, favorevole o avversa che fosse (n: 6,1-10).

Commento al corpo della lettera (3,1-6,10)


Cap.3

La comunità di Corinto, vera attestazione dell'autentica apostolicità di Paolo (vv.3,1-3)

Testo a lettura facilitata (3,1-4)

Paolo non abbisogna di raccomandazioni (3,1)

1- Incominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione, presso di voi o da voi?

La vera lettera di raccomandazione è la stessa comunità di Corinto (3,2-4)

2- La nostra lettera siete voi, scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini,
3- essendo manifesto che siete lettera di Cristo, che è stata somministrata da noi, scritta non con inchiostro, ma con (lo) Spirito (del) Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori di carne.

Questa è la certezza di Paolo che lo rassicura davanti a Dio (3,4)

4- Ora, tale fiducia abbiamo per mezzo di Cristo presso Dio

Commento ai vv. 3,1-4

Il v.1 apre il corpo di questa originaria Seconda Lettera ai Corinti con un tono di sfida e di spavalderia, che si muove su di uno sfondo polemico. Il tema riguarda la raccomandazione colta sotto un duplice aspetto: quello dell'autoreferenzialità (v.1a) e quello della referenzialità attinta da da altri (v.1b).

Quanto al primo aspetto (v.1a), Paolo insinua che qualcuno pensa che egli cerchi di vendere al meglio se stesso. Il riferimento qui è probabilmente la precedente pericope, 2,14-17, dove egli si presentava come il trionfatore, quale profumo della conoscenza di Cristo, che egli diffonde in mezzo a tutti gli uomini e di certo di non essere come quei mercanti della Parola di Dio, che, approfittando del loro ruolo, traggono benefici personali ed economici.

Su tutto questo egli pone una domanda retorica: “Incominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi?”. La risposta che la domanda suggerisce è chiaramente negativa, come negativa in modo più diretto sarà la risposta in 5,12, dove Paolo spiega che il suo non è un raccomandarsi, ma un fornire ai Corinti le motivazioni per difenderlo davanti ai suoi avversari. Una domanda che ricomparirà ancora, quasi a voler esorcizzare chi pensa che egli si autoraccomandi, come fanno, invece, i suoi avversari giudeocristiani giudaizzanti (10,12). Paolo, infatti, sa bene che l'unica raccomandazione che conti è quella che gli viene dal Signore (10,18). E se proprio qualcuno lo dovesse raccomandare, questi avrebbero dovuto essere proprio i Corinti stessi, anziché lasciarsi abbindolare dai suoi avversari (11,12b).

Anzi Paolo rifugge le autoreferenzialità, dichiarandosi più volte stolto (5,13a;11,1.16,21; 12,11a), allorché si era visto costretto a presentare le sue credenziali in un serrato confronto con i suoi avversari (11,22-12,9), riversando la causa della sua stoltezza sugli stessi Corinti (12,11a), che proprio per la loro pochezza, lo hanno costretto a questo disagevole confronto.

No, Paolo non cerca di autoraccomandarsi.

Ma neppure ricorre ad espedienti, in uso a quei tempi, ma non sconosciuti ai nostri, che formavano titoli di garanzia, come l'essere accompagnati da lettere (v.1b) di presentazione o di vera e propria raccomandazione31 “da voi o presso di voi”. In altri termini, Paolo non ha bisogno né che i Corinti attestino la sua affidabilità, né che altri lo raccomandino presso di loro.

Paolo è alieno da tutti questi giochi di raccomandazioni o presentazioni, cui ricorrono i suoi avversari. Egli, infatti, è un battitore libero, al di sopra delle istituzioni ecclesiastiche (Gal 1,15-17), benché le rispetti (Gal 2,1-2), perché ha coscienza di essere “apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio” (1,1) o, come meglio specificherà da lì ad un anno circa, rivolgendosi ai Galati (56-57 d.C.), “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). In altri termini, egli non è stato costituito apostolo dalla chiesa madre di Gerusalemme o da qualche altra comunità credente, ma da Dio stesso. Il suo Vangelo, poi, non lo ha appreso dalle comunità credenti e nessuno glielo ha insegnato, ma lo ha ricevuto, come per rivelazione, direttamente da Gesù Cristo (Gal 1,11-12), di cui egli è discepolo nonché suo apostolo e questo per volontà di Dio.

Paolo, quindi, non ha bisogno né di autoraccomandazioni, né, tantomeno, di lettere di accompagnamento o di presentazione, perché la vera lettera che attesta l'autenticità della sua apostolicità è l'esistenza stessa della comunità corintea, da lui fondata e per la quale egli si sente padre, avendola generata per mezzo del Vangelo (1Cor 4,15). Una comunità, quella presente in Corinto, in quanto capoluogo dell'Acaia e in quanto città metropolita, ricco e variegato porto di mare, da dove le idee arrivavano, ma anche partivano, diffondendo costantemente conoscenze, conosciuta da tutti come comunità credente e impegnata, quasi certamente, in un efficace proselitismo, considerato che nello scrivere questa 2Cor Paolo si rivolge non soltanto alla comunità corintea, ma altresì ai santi che sono in Acaia (1,1b).

Una comunità credente che non è nata dal nulla, ma che ha avuto in Paolo il suo padre fondatore e questo è noto a tutti. La migliore testimonianza, dunque, dell'apostolicità di Paolo è l'esistenza stessa della comunità, che è autentica lettera di raccomandazione scritta da Paolo, non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, di cui la comunità è rivestita e permeata, nonché costituita in virtù del Vangelo accolto (1Cor 4,15), da cui è stata generata e unita al Cristo morto-risorto nel battesimo, come ricorderà da lì a due anni circa in Rm 6,3-8 (57-58 d.C.).

Se lo strumento con cui la comunità è stata “scritta”, cioè generata e fondata, è lo Spirito di Dio, il dove è stata impressa la scrittura non furono “tavole di pietra, ma su tavole di cuori di carne”. Paolo qui opera un salto di logica, poiché sulla pietra non si scriveva con l'inchiostro, ma si incideva con uno stilo di ferro o con uno scalpello. Quindi per seguire la logica dell'inchiostro, si doveva parlare dei preziosi “fogli di papiro” e non di “tavole di pietra”. Ma a Paolo non serviva una logica, ma un'immagine biblica, che richiamasse, da un lato, la Legge incisa sulla pietra dal dito di Dio (Es 31,18); dall'altro, richiamasse il cuore di pietra sostituito da quello di carne, dove dimorerà Dio con il suo Spirito, annunciato da Ez 11,19; 36,26. Immagini queste che costituiscono il preambolo al v.6 dove si parla di “lettera che uccide” e dello “Spirito che vivifica”, i due parametri fondamentali che distinguono e separano nettamente tra loro, quasi contrapponendoli, il A.T. e il N.T., che costituiscono l'alveo caratterizzante del ministero veterotestamentario e neotestamentario.

Paolo conclude questa breve introduzione, che vede la comunità di Corinto, suo malgrado, testimone e attestatrice dell'apostolicità di Paolo, autentica lettera scritta da Paolo nello e con lo Spirito, la quale dà garanzia del suo ministero, con una sorta di scongiuro: “Ora, tale fiducia abbiamo per mezzo di Cristo presso Dio” (v.4). In altri termini, egli si augura, fidando in Cristo, che veramente la comunità di Corinto sia per lui un'autentica attestazione della sua apostolicità, posta a garanzia del suo ministero.

La comunità di Corinto, opera di Dio e non di Paolo, reso suo ministro da Dio (vv.3,5-6)

Testo

5- Non che siamo capaci a pensare qualcosa come da noi stessi, ma la nostra capacità (viene) da Dio,
6- il quale ci ha anche resi ministri idonei (del) Nuovo Testamento, non (della) lettera, ma (dello) Spirito; poiché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica.

Commento ai vv. 3, 5-6

Ancora una volta i vv.3,1-3 mettono in rilievo l'intraprendenza e la bravura di Paolo nel saper annunciare, fondare e costituire in comunità i credenti, creando ancora una volta di più, suo malgrado, una sorta di autoreferenzialità, quella che egli continua ad esorcizzare, ma che continuamente, in modo diretto o indiretto, torna sempre a galla. Paolo se ne rende conto ed è con questi vv.3,5-6 che cerca di distogliere l'attenzione su di sé per rivolgerla a Dio.

Il v.5 è scandito in due momenti: il primo tende ad annichilire Paolo, mettendo in ombra le sue capacità e la sua vitalità e forza spirituali, dichiarandosi incapace di tutto; il secondo momento indica ai Corinti la vera fonte da cui egli attinge, senza la quale egli è un nulla: Dio. È Lui il suo ispiratore, colui che lo illumina, lo conduce e gli dà la forza, sostenendolo nel suo ministero. Non Paolo, dunque, ma Dio è il fautore di tutto, anche del suo ministero, cioè del suo rendersi servizio a Dio finalizzato a costituire comunità credenti in mezzo alle genti (Rm 1,5).

Un ministero, quello di Paolo, che Dio “ha reso idoneo”, cioè adatto alle esigenze di un Testamento Nuovo, di un'Alleanza Nuova, fondata non più sul Tempio, i sacrifici, le regole e le osservanze della Legge, poiché la “lettera uccide” in quanto che essa impone modalità di esecuzione per accedere a Dio e riconciliarsi con Lui, che il credente non è in grado di osservare a motivo della sua connaturata fragilità, traducendosi in tal modo in condanna per lui (Rm 7,7b-11). Un tema questo che verrà ripreso ed approfondito da Paolo in Rm 7,1-25, cui si contrapporrà il Rm 8,1-4, dove si attesta che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito”.

Ciò, quindi, che caratterizza l'A.T. è la Legge, mentre ciò che caratterizza il N.T. è lo Spirito, il cui ministero trova il suo radicamento in quello stesso di Cristo, che con la sua morte ha distrutto la Legge e le sue pretese (Ef 2,15); mentre con la sua risurrezione, avvenuta per opera dello Spirito Santo (Rm 1,4), ha inaugurato i tempi nuovi dello Spirito, che rende l'uomo nuovamente immagine di Dio e a Lui somigliante. La Legge, pertanto, non è più affidata alla buona volontà dell'uomo, congenitamente incapace di realizzarla in se stesso a motivo della sua connaturata fragilità causatagli dalla colpa originale, ma è riscritta nel suo cuore per mezzo dello Spirito, che lo ricolloca fin d'ora nel mondo di Dio, da cui era drammaticamente fuoriuscito, realizzando in tal modo i tempi dello Spirito, profetizzati da Ez 36,25-27: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi”, dove per “cuore di pietra” si intende un cuore sordo e insensibile alle esigenze di Dio e al suo progetto salvifico; mentre per “cuore di carne” si intende un cuore sensibile alla volontà di Dio, cui l'uomo fin dalle sue origini era sensibile, in quanto, ancora incandescente di Dio, era sua immagine e sua somiglianza. Ma ciò che ha reso l'uomo immagine e somiglianza di Dio fu quel alito di vita che Dio insufflò in lui, così che divenne essere vivente (Gen 2,7), partecipe cioè della Vita stessa di Dio in lui insufflata; così come ora Dio, ponendo fine al vecchio mondo con la morte del suo Cristo, ha inaugurato con la sua risurrezione i tempi dello Spirito, ricostituendo l'uomo a sua immagine e a sua somiglianza. Una nuova creazione, dunque, caratterizzata dall'essenza stessa di Dio, lo Spirito, così com'era nei primordi dell'umanità, cui il credente, ora, vi può nuovamente accedere non per merito delle sue opere, considerato che queste, a motivo della sua fragilità, lo rendono incapace di accedere a Dio, ma per grazia, che si attua in lui per la sola fede, cioè per il suo consenso, quello di aderire esistenzialmente al progetto salvifico ideato dal Padre e attuato in Cristo Gesù, divenuto per il credente Via, Verità e Vita che lo riconduce in seno al Padre (Gv 14,6).

È in questo nuovo contesto, in questa nuova creazione caratterizzata dallo Spirito, che si inserisce il nuovo ministero, che non è più un servizio alla Legge, ma un servizio allo Spirito e nello Spirito, dove, per sola grazia e per sola fede, Dio riaccoglie in se stesso l'uomo, reintegrandolo in Sè e rendendolo partecipe nuovamente della sua Vita, che è Vita nello Spirito. Questo è il senso del nuovo ministero finalizzato a riconciliare l'uomo con Dio attraverso l'annuncio accolto del Vangelo, Via che riconduce al Padre, e che Paolo meglio preciserà in 5,18-21

Il confronto tra i due ministeri, quello dell'A.T. e quello del N.T. (vv.3,7-11)

Testo

7- Ma se il ministero della morte, impresso in lettere di pietra, divenne (motivo) di gloria, così che i figli di Israele non potevano tenere gli occhi fissi sul volto di Mosè per la gloria del suo volto, che si annullò,
8- come non sarà ben di più in gloria il ministero dello Spirito?
9- Se, infatti, (per) il ministero della condanna (vi fu) gloria, ben di più sopravanza (in) gloria il ministero della giustizia.
10- E, infatti, ciò che è stato glorificato non è stato glorificato in questa parte, a motivo della gloria immensa.
11- Se, infatti, ciò che si annulla, (è passato) attraverso (la) gloria, ben di più ciò che permane (sarà) nella gloria.

Commento ai vv. 3,7-11

Il v.6 stigmatizza, dunque, la Legge, ma promuove lo Spirito. Legge e Spirito qualificano, pertanto, due tempi della salvezza, di pari importanza, in quanto entrambi facenti parte dell'unico progetto salvifico di Dio finalizzato a recuperare l'uomo a Sè. Un progetto scandito in due tempi: il primo rivolto a rendere sensibile l'uomo alle esigenze di Dio (la Legge), ma nel contempo facendogli toccare con mano la sua congenita incapacità di un suo ritorno a Lui per la sua connaturata fragilità, causatagli dalla colpa originale, ma promettendogli, per mezzo della voce dei profeti, il compimento della sua salvezza, che si realizzerà nei tempi messianici, i tempi dello Spirito (Gl 3,1-5). Il secondo tempo è quello proprio di Dio, quello della promessa compiuta (1,20), quello della sua misericordia, della sua grazia e del suo perdono incondizionato, al di là dei meriti dell'uomo, purché questi creda in Lui e nel Figlio suo Gesù Cristo, che Egli ci ha mandato e donato (Gv 3,16-18), sua rivelazione, sua manifestazione, sua azione salvifica, sua mano tesa all'umanità, così che Rm 8,1 esclamerà che “Non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù”, tutto è incondizionatamente perdonato.

Entrambi i tempi ebbero un loro proprio ministero, cioè un servizio divino all'uomo attuato per mezzo di uomini (Eb 5,1), ma la cui valenza salvifica fu sostanzialmente diversa: il primo tempo era caratterizzato dalla Legge, che ha messo in luce la peccaminosità dell'uomo e l'impossibilità di salvarsi per mezzo delle sue opere; il secondo tempo era ed è caratterizzato dallo Spirito, che dona la Vita indipendentemente dalle opere dell'uomo e dai suoi meriti. È il tempo della misericordia che si fa giustificazione verso l'uomo, peccatore per sua natura.

Su questi due tempi Paolo sviluppa, ora, un confronto a beneficio sia dei Corinti che, in particolar modo, di quei predicatori giudeocristiani ancora giudaizzanti, i quali, nonostante il loro essere acceduti ai tempi dello Spirito, erano ancora strettamente legati a quelli della Legge.

Il confronto si svilupperà in due momenti: il primo riguarda la sostanza stessa del ministero legato alla Legge, effimero per sua natura, come effimera fu la gloria di Dio che traluceva da Mosè; permanente, invece, quello legato allo Spirito (vv.7-11), poiché esso si radica nel Risorto e ne è sua emanazione (Mt 28,18-20; Gv 20,21); mentre il secondo confronto (vv.12-18) riguarda la diversa modalità di espressione e di comprensione delle realtà salvifiche tra i due ministeri: ancora velate e quindi criptate quello legato alla Legge, che con le sue regole diceva cosa fare, ma non dava spazio alla comprensione e al senso del comandamento, così che questo, alla fine dei giochi, venne anche deformato e tradito nella sua sostanza (Mt 15,3.6b.8-9; Mc 7,6-9); svelato e liberante quello legato allo Spirito, che trova la sua pienezza e la sua comprensione in Gesù (Gal 2,4-5; 5,1-4; Mt 5,21-45).

Si apre, ora, con la pericope vv.7-11, il confronto tra i due ministeri, colti nella loro essenza: il ministero veterotestamentario viene definito “ministero della morte, impresso in lettere di pietra” (v.7) nonché “ministero della condanna” (v.9). Due definizioni che si integrano e si completano tra loro: “morte” e “condanna”, perché la Volontà di Dio, manifestatasi nella Legge mosaica, la cui eternità, inalienabilità e indiscutibilità viene qui simboleggiata dall'espressione “lettere di pietra”, che dice nel contempo anche l'assenza della misericordia e del perdono e la durezza, invece, del giudizio divino, diviene impraticabile per l'uomo a motivo della sua connaturata fragilità causatagli dalla colpa originale, così che la Legge, che doveva essere fonte di salvezza per l'uomo divenne causa di condanna e di morte e lo stato di peccato e di peccaminosità in cui vive l'uomo venne messo in luce dalla Legge, così che con la Legge prende vita il peccato. Concetti questi che Paolo riprenderà in Rm 7,7-11.

Per contro il ministero neotestamentario si contrappone al veterotestaamentario in quanto è ministero dello Spirito (v.8), che dà la Vita divina per mezzo della giustificazione (v.9b), cioè per mezzo del perdono incondizionato elargito all'uomo da parte di Dio nel suo Cristo. E Gv 3,16-17 riprenderà e attesterà proprio questo passaggio: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. Questa è la “giustificazione”: un dono di amore e di misericordia da parte del Padre, che storicamente ha assunto il volto di Gesù, la mano tesa del Padre verso l'uomo; un Gesù che indica in se stesso la Via del ritorno al Padre, da cui l'uomo era drammaticamente fuoriuscito nei suoi primordi (Gen 3,16-24).

Entrambi i ministeri, attesta Paolo, sono circonfusi della stessa gloria divina, poiché entrambi hanno avuto la medesima fonte che li ha generati, Dio. Ma mentre la gloria divina in Mosè fu effimera, cioè destinata a scomparire, perché legata alla promessa di Vita eterna condizionata dall'osservanza della Legge, destinata a mettere in luce la peccaminosità dell'uomo nonché la sua fragilità, quella manifestatasi in Cristo (Gv 1,14) è diventata stabile per sempre, poiché la promessa di Vita eterna si è compiuta pienamente e definitivamente in lui, splendore eterno della gloria del Padre (Eb 1,3a).

Ed è proprio la differenza della natura dei tempi, che determina anche la diversa natura dei ministeri, che li esprime: l'A.T. era il tempo della promessa e della speranza messianica, dove l'antico Mosè, circonfuso della gloria di Dio, fu chiamato a traghettare il popolo di Dio dalla schiavitù alla libertà in una nuova Terra Promessa; il N.T. è il tempo della promessa compiuta e dei tempi messianici compiuti, dove un secondo Mosè, di cui il primo Mosè fu figura e preannuncio, non più circonfuso della gloria di Dio come il primo, bensì egli stesso gloria eterna del Padre, fu inviato dallo Stesso non per traghettare l'uomo verso una Terra Promessa, ma per ricollocarlo definitivamente in quella Terra Promessa che è lo stesso Padre, la cui gloria risplende nel Figlio.

Se tale è la diversità della natura dei due ministeri, di morte e condanna il primo; di giustificazione e di Vita eterna il secondo, anche il loro modo di esprimersi è sostanzialmente diverso. E sarà questo il tema della pericope vv.12-18, che esalterà il tempo dello Spirito, poiché questo è il tempo in cui Egli rivelerà la Verità tutta intera (Gv 16,13a).

La diversità tra i due ministeri: velato quello dell'A.T.; svelato in Cristo quello del N.T. (vv.3,12-18)


Testo

12- Avendo, dunque, una tale speranza, possediamo molta libertà di parola
13- e non come Mosè (che) poneva un velo sul suo volto perché i figli di Israele non tenessero gli occhi fissi sulla fine di ciò che si annulla.
14- Ma (in realtà) furono oscurate le loro menti. Infatti fino al giorno d'oggi quel velo rimane non scoperto sulla lettura dell'Antico Testamento, poiché in Cristo si annulla.
15- Ma fino ad oggi, allorché si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore:
16- ma allorché (il loro cuore) si convertisse al Signore, il velo verrà tolto.
17- Ma il Signore è lo Spirito; ma dove (c'è) lo Spirito del Signore, (là c'è la) libertà.
18- Ma noi tutti, a volto scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati (nella) stessa immagine, da gloria in gloria, come dal Signore (che è) Spirito.

Commento ai vv. 3,12-18

Definita la natura di entrambi i ministeri (vv.7-11), Paolo passa, ora, ad illustrarne le diverse e contrapposte conseguenze: da un lato, la gloria della Verità nascosta dal velo mosaico, che impedisce di cogliere il senso dell'A.T. nonché la novità dell'evento Cristo; dall'altro, la Verità, invece, disvelata e rivelata al credente da Cristo e in Cristo, in cui ogni promessa si è compiuta, fornendo nel contempo la chiave di lettura e di comprensione del tempo veterotestamentario nonché della temporaneità e dell'inefficacia del ministero veterotestamentario (Eb 10,1.4.11), istituito in previsione di quello definitivo. E proprio perché definitivo e compiuto, la gloria divina che in esso si riflette è duratura e per questo maggiore.

Ci si trova di fronte ad una pericope molto densa ed elaborata, che non si limita a rilevare le contrapposte conseguenze dei due ministeri, ma, nel contempo, lancia una pesante accusa non solo contro il Giudaismo, che non ha saputo leggere nella venuta del Cristo il messia atteso, quello che avrebbe inaugurato i vaticinati gli attesi tempi messianici, quelli dello Spirito, tema questo che Paolo affronterà in Rm 9-11, ma altresì contro quei giudeocristiani giudaizzanti che, nonostante avessero abbracciato il Vangelo di Cristo, legati ed offuscati ancora dal mosaismo, non seppero cogliere la novità portata da Cristo, cercando, invece, di ricondurlo nell'alveo della loro Legge mosaica, vanificandone in tal modo la potenza salvifica. Paolo in Gal 5,1.4, cogliendo il grave pericolo insito nella circoncisione, che ricolloca il credente nella Legge mosaica, attesterà con categorici termini dottrinali che chi si fa circoncidere, cioè chi abbraccia la Legge mosaica cercando in essa la propria giustificazione, è decaduto dalla grazia e non ha più nulla a che vedere con Cristo. Una sorta di pesantissimo anatema, che equivale ad una scomunica.

Una pericope questa molto accurata, la cui importanza viene rilevata dalla sua stessa costruzione in parallelismi concentrici in D) (v.15), dove in qualche modo viene spiegata e dogmatizzata l'incapacità del Giudaismo di comprendere il senso delle Scritture, perché la loro mente è oscurata dalla lettera, cui si sentono vincolati e della quale non riescono a comprendere il significato: “Ma fino ad oggi, allorché si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore” (v.15).

La struttura a parallelismi concentrici, pertanto, si svolge nel seguente modo, dove i versetti posti in parallelo tra loro si contrappongono completandosi a vicenda:

A/A1 (vv.12/18): si parte con un'attestazione di principio: il ministero neotestamentario può parlare e testimoniare le nuove realtà portate da Cristo con libertà di parola, con franchezza (v.12), perché nel credente e nel ministero neotestamentario si riflette la gloria duratura della luce dello Spirito, che li assimila al Signore (v.18);

B/B1 (vv.13/17) : il tempo di Mosè è caratterizzato dal velo che nasconde la gloria di Dio, il velo delle parole, che non lasciano ancora tralucere la gloria definitiva del progetto salvifico pensato dal Padre, vincolando, pertanto, Israele alla lettera, che nasconde il vero senso delle Scritture (v.13) e che lo ha reso incapace di cogliere avvento e l'evento Cristo, nonostante la voce dei profeti cercassero di spiegare il senso della Legge; per contro, il tempo dello Spirito è caratterizzato dallo Spirito del Risorto, che illumina il senso delle Scritture, liberandole dalla schiavitù della lettera che uccide (v.17). Per questo Paolo in Gal 5,1 esorterà la comunità a rimanere liberi e non lasciarsi imporre il giogo delle Legge, che avrebbe avuto conseguenze catastrofiche sulla nuova fede (Gal 5,2-4): “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”.

C/C1 (vv.14/16): il velo mosaico della parola, cui Israele è vincolato e che segue ciecamente senza comprenderne il vero significato né il suo autentico senso, rimarrà sempre per lui incomprensibile, poiché l'autentica chiave di lettura è quel Cristo (v.14), che esso rifiuta (Gv 1,11); per contro, qualora Israele si convertisse e accettasse il Cristo, subito gli si aprirebbe la comprensione delle Scritture e il senso delle parole, rimasto criptato nonostante i profeti (v.16).

D) (v.15): il v.15, collocandosi centralmente nella pericope vv.12-18, è ritenuto, secondo le logiche della retorica ebraica, il più importante e verso il quale convergono e prendono senso gli altri versetti: “Ma fino ad oggi, allorché si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore”, dove l'espressione “Ma fino ad oggi” rileva il vero problema, che Paolo si trova ad affrontare e a combattere su più fronti e che ha causato anche il primo concilio o sinodo della storia, quello di Gerusalemme nel 49 d.C. (At 15,1-41; Gal 2,1-10), tutto incentrato sulla necessità della circoncisione per gli etnocristiani. La quale cosa significava che la salvezza apportata da Cristo acquistava la sua efficacia soltanto se ci si sottometteva alla Legge mosaica, annullando, pertanto, l'evento salvifico Cristo, quale autentica forza primaria di salvezza.

Con questa pericope Paolo attesta, da un lato, la superiorità del ministero neotestamentario su quello veterotestamentario, decretando l'incapacità di Israele, fintantoché rimane vincolato alla Legge mosaica, di poter accedere ad una piena comprensione dell'evento Cristo (v.15), squalificando, pertanto, i suoi avversari giudeocristiani giudaizzanti, presentandosi in tal modo ai Corinti come l'autentico apostolo di Cristo e del Vangelo da lui predicato. Una implicita attestazione della veridicità della sua parola e dell'affidabilità, pertanto, della sua stessa persona, che viene, sempre in via implicita, contrapposta a quella dei suoi avversari giudaizzanti, qui esorcizzati.

Cap. 4

La fedeltà e correttezza di Paolo al ministero ricevuto (vv.4,1-2)

Testo

1- Per questo, avendo questo ministero, quando fummo oggetto di misericordia, non veniamo meno,
2- ma abbiamo ricusato le cose occulte della vergogna, non aggirandoci ne(lla) malizia, né falsificando la parola di Dio, ma con la manifestazione della verità, presentando noi stessi ad ogni coscienza di uomini di fronte a Dio.

Commento ai vv.4,1-2

È proprio il caso di dire che Paolo nei primi sei versetti del cap.4 non le manda dire da nessuno, ma le canta di persona ai suoi avversari non esclusi quei Corinti che, tradendo la sua fiducia, si erano associati ai suoi avversari o comunque si erano ribellati a lui nella speranza, una volta liberatisi di Paolo, di prenderne il posto alla la guida della comunità.

Inutile dire che qui i toni sono decisamente polemici, in quanto che Paolo, contrapponendo alle accuse dei suoi avversari la sua rettitudine morale e la sua onestà mentale, chiamando a testimone Dio, rimanda le stesse accuse ai suoi avversari. Un botta e risposta, dunque, che assomiglia molto ad un battibecco a distanza.

Paolo apre il confronto con il v.1, richiamandosi con quel “Per questo” iniziale, alla sezione 3,1-18, dove si attesta la superiorità del suo ministero legato allo Spirito del Risorto, la cui gloria è duratura e definitiva, e non a quello di Mosè, irradiato da una gloria divina effimera e coperta dal velo della parola, che la rendeva irraggiungibile nel suo autentico senso e significato; e attesta nel contempo che egli, non certo per suoi meriti, ma per la misericordia di Dio, fu scelto fin dal seno materno, dirà in Gal 1,15, e fu insignito da Dio stesso di questo nuovo ministero, che gli consente di parlare schiettamente, con fermezza e senza remore o titubanze e senza giri di parole in mezzo all'assemblea con autorità (3,12). Il termine greco “parrhs…v” (paressía, con libertà di parola”), infatti, è mutuato dal linguaggio politico ed indica la libertà di parola che il cittadino greco godeva in seno alle assemblee politiche della sua città. Ed è proprio in virtù di tale ministero assegnatogli da Dio che egli non si scoraggia e fa fronte ad ogni difficoltà, quali esse siano; difficoltà che egli, poi, elencherà ai vv.8-12; difficoltà cariche di sofferenza e di pericoli di morte, ma mai schiaccianti e da cui egli sempre riemerge vincitore in virtù di quel Cristo morto-risorto, a cui è associato nella sua sofferenza e nella sua morte (Gal 2,20a), che sono, però, promesse e preambolo di risurrezione.

Il v.2 contiene il riferimento a tre accuse che i suoi avversari probabilmente gli avevano mosso contro: di intrallazzare nascostamente in modo vergognoso, di muoversi in modo subdolo e di manipolare la parola di Dio per ingannare gli ascoltatori e poterne trarre dei vantaggi personali, accusa quest'ultima, cui aveva già controbattuto in 2,17, affermando di non essere “come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio, ma come dalla sincerità, ma come da Dio, davanti a Dio parliamo in Cristo”, affermazione quest'ultima che viene ripresa, qui, al v.2b: “ma con la manifestazione della verità, presentando noi stessi ad ogni coscienza di uomini di fronte a Dio”, ricusando e respingendo in tal modo quanto gli viene mosso contro, poiché tutto questo non rientra nel suo modus operandi, che, invece, opera nella luce della verità del Vangelo, senza doppiezza di linguaggio e con sincerità di parola, rivolgendosi alla coscienza degli uomini di fronte a Dio, la quale cosa equivale a richiamare gli uomini ad una onestà di coscienza nei suoi confronti, chiamando nel contempo Dio a testimonianza della sua rettitudine sia nell'operare che nell'annunciare il suo Vangelo.

Paolo, dunque, si muove con libertà e con franchezza alla luce della Verità davanti a Dio, che gli è testimone, esattamente il contrario delle accuse mossegli dai suoi avversari, che rispedisce a loro.

Lo splendore del Vangelo di Paolo è velato per coloro che si perdono (vv.3-6)

Testo a lettura facilitata

3- Ma se anche è velato il nostro Vangelo, è velato in quelli che si perdono,
4- nei quali il dio di questo secolo accecò i pensieri degli increduli, perché non brillasse (per loro) lo splendore del Vangelo della gloria di Gesù Cristo, che è immagine di Dio.
5- Infatti (noi) non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore; ma noi stessi (siamo) vostri servi a causa di Gesù.
6- Poiché Dio, che disse “Dalle tenebre splenda la luce”, Egli splendette nei nostri cuori per (lo) splendore della conoscenza della gloria di Dio (che risplende) nel volto di [Gesù] Cristo.

Commento ai vv. 4,3-6

Una pericope questa densa e complessa: essa è composta da un'attestazione iniziale (v.3), seguita dai vv.4-6 disposti a parallelismi concentrici in B) (v.5) e il cui linguaggio richiama la prima creazione e quella dell'uomo, immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), riportandoli ai loro primordi, allorché splendeva la Luce divina e tutto era avvolto in essa (Gen 1,3) e tutto era ancora incandescente di Dio, che riconosceva Se stesso nello splendore primordiale (Gen 1,31); quella stessa Luce che ora risplende in Paolo e nel suo Vangelo, ma che non è percepita dai suoi avversari e da quelli che si perdono per la loro cecità spirituale.

La pericope in analisi si apre con il v.3, che probabilmente riporta un'accusa che gli avversari di Paolo gli hanno rivolto, quella di predicare un Vangelo spesso incomprensibile. Un'accusa che non va subito esorcizzata, poiché la complessità del linguaggio paolino e la profondità del suo pensiero rendevano spesso il suo messaggio oscuro. Una testimonianza in tal senso ce la fornisce 2Pt 3,16, che attesta: “così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina”. Un'accusa che, comunque, Paolo, alla pari di 2Pt 3,16, rispedisce al mittente, tacciandolo di cecità spirituale, che lo condanna alla perdizione eterna.

La pericope che segue (vv.4-6) è scandita in parallelismi concentrici, dove A/A1 (vv.4/6) si contrappongono tra loro completandosi a vicenda: da un lato (v.4, A), si hanno coloro le cui menti e i cui spiriti furono accecati, perché, perché avendo deciso la loro vita per il decaduto mondo adamitico, destinato a perire, non possono accedere nella nuova creazione inaugurata da Cristo, l'uomo nuovo, ricreato ad immagine e somiglianza di Dio, e annunciata nel Vangelo di Paolo; dall'altro (v.6/A1), lo splendore di questa nuova creazione, che è stata inserita nei cuori di chi, invece, ha saputo accogliere nella propria vita lo splendore della conoscenza di Cristo, che traluce dal Vangelo di Paolo, venendo così rigenerati alla nuova Vita (1Pt 1,23).

Di mezzo, v.5/B), l'attestazione principale, la più importante secondo le logiche della retorica ebraica, che qualifica Paolo come il vero apostolo inviato da Dio e, quindi, che si pone al suo servizio servendo gli stessi Corinti e che spiega nel contempo i vv.4.6: “Infatti (noi) non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore; ma noi stessi (siamo) vostri servi a causa di Gesù”.

Il v.4 riprendendo il v.3b ne dà la spiegazione: coloro che si perdono sono quelli che sono stati accecati dal “dio di questo secolo”, che ha oscurato loro lo splendore del Vangelo di Cristo, immagine del Padre; uno splendore che il v.6 precisa essere quello della conoscenza del Vangelo di Cristo. Compare per la prima ed unica volta in tutto il N.T. l'espressione “dio di questo secolo” quasi ci fossero due divinità contrapposte: quella del Bene e quella del Male. Giovanni parlerà, similmente, di “principe di questo mondo”32. Una visione questa che richiama da vicino lo gnosticismo, un movimento filosofico-religioso spontaneo, diffusosi in Egitto e in Palestina dal primo al quarto secolo d.C. e che predicava la salvezza attraverso la conoscenza. Sua caratteristica era una visione cosmologica dualista, in cui il mondo spirituale si contrappone a quello materiale, cattivo per sua natura33. È quindi molto probabile che qui Paolo non abbia usato casualmente questa espressione quella dello “splendore della conoscenza della gloria di Dio (che risplende) nel volto di [Gesù] Cristo” (v.6b), che spiega a sua volta il senso dell'altra attestazione: “splendore del Vangelo della gloria di Gesù Cristo, che è immagine di Dio” (v.4b), che, non a caso, viene contrapposto all'oscuramento della mente degli increduli, incapaci di cogliere la Luce vera, quella che venne e viene continuamente nel mondo nella Parola.

L'accostamento, infatti, delle espressioni “dio di questo mondo” con “splendore della conoscenza” cui fa riscontro le “tenebre delle menti”, lasciano in qualche modo intuire che Paolo qui abbia voluto richiamarsi espressamente allo gnosticismo, non è chiaro se perché i suoi avversari e/o i suoi interlocutori opponessero a Paolo una diversa visione del Cristo, rifacendosi allo gnosticismo o se, invece, Paolo, come farà Giovanni con il suo Vangelo, usi qui un linguaggio gnostico per meglio mettere in rilievo il Mistero di Dio, che fa risplendere la sua gloria nel Vangelo del suo Cristo, irraggiungibile qualora ci si precluda all'ascolto del Vangelo.

Il linguaggio gnostico, è inutile dirlo, è molto efficace per penetrare ed esprimere il Mistero34, benché la sua dottrina, espressa con tale linguaggio, sia deviante.

Il fatto, poi, che il “dio di questo secolo” accechi i “pensieri degli increduli” va colto nel suo giusto senso. Non si tratta di un essere maligno che offusca le menti degli uomini, povere vittime incolpevoli di satana, ma sono questi, a motivo della loro pervicace incredulità, che si mettono nella condizione di non comprendere e, quindi, di non accogliere l'evento Cristo e la sua Parola. Chi rimane accecato, infatti, non sono tutti gli uomini in senso generale, ma solo gli “increduli”, i quali, proprio a motivo della loro incredulità, hanno già fatto una loro scelta di vita contraria a Dio, respingendo la mano tesa del Padre nel suo Figlio, che Egli ha inviato non per giudicare e condannare gli uomini, ma perché questi, credendo in lui, si salvino. Va da sé che chi rifiuta questo invito si autocondanna per il rifiuto opposto alla proposta di salvezza del Padre, manifestatasi nel suo Cristo. (Gv 3,16-18), che qui Paolo definisce “immagine di Dio”, rigenerata nello Spirito (Rm 1,4). Altrove, in Eb 1,3a, Gesù viene definito con un linguaggio simile a questo di Paolo, quale irradiazione della gloria del Padre e impronta della sua sostanza, definendone in tal modo anche la natura divina.

Entrambe le citazioni spingono il lettore a cogliere nell'uomo Gesù, morto-risorto, la nuova creazione in cui l'uomo è stato ricreato a immagine di Dio e dove il primordiale splendore della Vita stessa di Dio, insufflata nell'uomo (Gen 2,7), è tornato a rifulgere nella nuova creatura e in e con lui nella creazione intera, a lui accomunata per un principio di solidarietà, che associa inscindibilmente la creazione all'uomo e viceversa35.

Il tema dello splendore, che torna a rifulgere nell'uomo come nella creazione, viene ripreso e precisato da Paolo al v.6, dove egli si richiama liberamente a Gen 1,3, il primo atto della creazione, che risuona infrangendo il silenzio primordiale in cui era avvolto Dio: “Sia la luce!”. La Luce divina, che esprime la natura stessa di Dio (1Gv 1,5b), costituisce il contesto primordiale che avvolge e permea la prima creazione. Quella Luce primordiale, che ha la sua sorgente nella stessa Parola del Padre “che disse”, torna, ora, a splendere nuovamente nel cuore dell'uomo illuminato dalla conoscenza della gloria di Dio per mezzo di quella stessa Parola primordiale, che ha assunto storicamente il volto di Gesù, che qui Paolo (Gv 1,1-2.14), contrapponendolo al volto velato di Mosè, che non lasciava in tal modo trasparire la gloria di Dio, definisce come, invece, irradiato dalla gloria duratura ed eterna del Padre.

La Parola del Padre, quindi, che storicamente ha assunto il volto di Gesù, ricostituisce quel contesto di Luce divina della prima creazione e nella quale viene, ora, ricollocata la seconda creazione, rigenerata dalla Parola (1Pt 1,23) e la cui potenza ed efficacia viene ricordata da Eb 4,12.

Ed ora Paolo, dopo aver presentata l'onnipotenza della Parola del Padre, che fin da principio ha generato la Luce, in cui fu collocata l'intera prima creazione, rendendola incandescente della stessa gloria di Dio, quella Parola che continua ancora a generare la Luce nella predicazione di Paolo, dove viene ricollocato l'uomo nuovo rigenerato dalla Parola accolta, ora Paolo spiega con il v.5 il perché di questa nuova creazione, dove anche i Corinti sono entrati per aver accolto la predicazione di Paolo: “Infatti (noi) predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore”. In altri termini, la predicazione di Paolo è efficace, potente e rigeneratrice di Vita proprio perché egli non annuncia se stesso, come invece fanno i suoi avversari, che raccomandano loro stessi (10,12), ma Cristo Signore, la Parola eterna del Padre, che dopo aver generato la primordiale Luce della prima creazione, genera nuovamente quella nuova Luce dove viene ricollocato l'uomo rigenerato dalla potenza dello Spirito, che anima la Parola e che tutto permea e assimila a Dio, rigenerando l'uomo nuovamente a immagine di Dio.

Paolo, ora, definisce il suo ministero come un servizio alla Parola rigeneratrice, che storicamente si chiama Gesù e di cui egli è servo e, per questo egli si fa anche servo e non padrone dei Corinti, come, invece, fanno i suoi avversari che predicano se stessi e angariano con prepotenza i Corinti (10,12; 11,20).

La fragilità di Paolo esalta la potenza di Dio, generatrice di nuova vita (vv.7-12)


Testo a lettura facilitata

Nella fragilità di Paolo si manifesta la potenza di Dio (v.7)

7- Ora abbiamo questo tesoro in vasi di terracotta, affinché la grandezza della potenza sia di Dio e non da noi.

La fragilità di Paolo riproduce e manifesta in Paolo quella stessa di Gesù (vv.8-11)

8- In ogni cosa maltrattati, ma non angustiati; siamo in difficoltà, ma non imbarazzati,
9- perseguitati, ma non abbandonati; abbattuti, ma non perduti;
10- portando sempre in giro nel (nostro) corpo lo stato di morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia resa manifesta nel nostro corpo.
11- Sempre, infatti, noi, i viventi, siamo consegnati alla morte a causa di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale.

La morte è per la vita (v.12)

12- Così che la morte opera in noi, ma la vita (opera) in voi.

Commento ai vv. 4,7-12

Dopo che Paolo ha contemplato la potenza e la gloria della Parola del Vangelo da lui annunciato con la sua predicazione, Parola che, se accolta, rigenera il credente facendolo nuovamente immagine di Dio, nuova creatura in Cristo, irradiandolo della stessa gloria di Dio e a Lui nuovamente associato, così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità, facendone in tal modo una sorta di seconda creazione, Paolo, ora, fa una battuta di arresto, sottoponendo ai Corinti una riflessione: tanta potenza creativa e rigenerante è riposta nella sua fragilità, così tanto contestata dai suoi avversari e disprezzata dagli stessi Corinti, ma quanto mai apprezzata da Dio, che proprio in questa fragilità fa trasparire evidente la sua onnipotenza divina.

Paolo evidenzia qui il metodo operativo di Dio, che opera la sua storia della salvezza nella e con la fragilità umana, perché meglio traspaia la sua onnipotenza. È Lui, quindi, che porta avanti il suo progetto di salvezza per mezzo dell'uomo, ma non grazie all'uomo, alla sua bravura, alla sua intelligenza, alla sua astuzia e ai suoi mezzi operativi ed organizzativi. Una logica che traspare nel momento in cui Dio decide di liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana, scegliendosi il balbuziente Mosè (Es 4,10), decaduto dalla grazie del faraone, sul quale pendeva una sua sentenza di morte (Es 2,15). Una logica che viene cantata dal Sal 8,3: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.

Il v.7 funge da introduzione tematica all'intera pericope vv.7-12. L'immagine del vaso di terracotta è biblica ed è propria del linguaggio sapienziale e profetico36, così come se ne conosce anche la fragilità (Bar 6,15). E Paolo sembra volersi soffermare su quest'ultimo aspetto, attestando come proprio dalla fragilità del suo vaso, cioè del suo corpo e di se stesso, traspare “la grandezza della potenza di Dio”. Un pensiero non nuovo questo e che Paolo aveva già anticipato nella sua lettera scritta “tra molte lacrime” (10-12) dove, lamentandosi per le eccessive prove, Dio gli aveva risposto: “Ti basta la mia grazia, poiché la mia forza si compie ne(lla) debolezza” (12,9). E Paolo chioserà la sentenza di Dio: “Pertanto con piacere di più mi vanterò nelle mie debolezze, affinché dimori in me la potenza di Cristo”, così che, dopo aver enumerato tutte le sue sofferenze patite per Cristo (12,10a), concluderà, non senza una punta di stravaganza: “Infatti, quando sono debole, allora sono forte” (12,10b). Un paradosso che sembra quasi una velata invocazione a Dio, affinché lo renda ancora più debole, perché brilli maggiormente in lui la sua potenza.

Diversamente da 10,12a, dove si limitava ad enumerare le sue sofferenze per Cristo, quasi vantandosene, qui in 4,8-9 Paolo sembra prendere coscienza del senso di quel “ti basta la mia grazia” (12,9). Infatti ad ogni enunciazione di sofferenza sopportata per Cristo egli contrappone, ora, quasi puntigliosamente, un “ma non”, che toglie alla sofferenza la sua prepotenza, che non riesce a sconfiggere Paolo. Per cui egli soffre ogni tipo di sofferenza, ma non le soccombe mai, quasi come un pezzo di legno che, pur sconquassato da un mare in tempesta, non affonda mai.

Ma se il non affondare in mezzo a questo mare tempestoso di sofferenze è frutto della grazia di Dio che lo sostiene, Paolo comprende, ora, anche di essere stato assimilato alle sofferenze e alla morte di Cristo così da diventarne con la sua sofferta esistenza testimone vivente, anzi è Cristo stesso che in lui vive la propria sofferenza e la propria morte. Un concetto quest'ultimo che qui si ripete con le stesse parole due volte ai vv.10b e 11b quasi a volerlo rimarcare più a se stesso che ai Corinti e che meglio elaborerà in Gal 2,20, dove attesterà che non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui. Ma quello che vive in lui non è un Cristo glorioso, ma crocifisso, anzi lui è stato crocifisso con Cristo e porta impresse nel suo corpo le stigmate di Cristo (Gal 6,17). Non vi è più, dunque, distinzione tra Paolo e Cristo, tra la croce di Paolo e quella di Cristo, poiché Paolo è ora assimilato a Cristo crocifisso ed entrambi si compenetrano osmoticamente nello stesso destino di sofferenza e di morte, che è nel contempo un preambolo ed una promessa di risurrezione e di vita. Anzi una morte che paradossalmente genera la vita, quella nuova vita che sgorga dalle rovine adamitiche, ormai distrutte dalla morte di Cristo, che vive ora in Paolo, ma che sono rigenerate dalla risurrezione, da cui sgorga una nuova creazione, inaugurando i tempi escatologici, quelli messianici, i tempi dello Spirito così che, concludendo questa sua riflessione con il v.12 attesta: “la morte opera in noi, ma la vita (opera) in voi”. Una vita, dunque, che è stata generata dalla sofferenza e dalla morte di Cristo, che vive ora nella carne di Paolo e si esprime nella sua debolezza, inaccettabile e derisa dai suoi avversari e detestata dai Corinti, raffinati cultori della filosofia, della retorica e del bel vivere.

Il v.12 si può considerare come una sorta di versetto di transizione, perché, da un lato, conclude la riflessione sulla debolezza di Paolo, in cui si riflette e vive la morte di Cristo (v.12a); dall'altro preannuncia come da questa morte, che vive e si esprime nella sua debolezza, è sgorgata la vita che vive nei Corinti (v.12b). Si tratta, quindi, di una sorta di versetto di passaggio, che concludendo una riflessione introduce il lettore ad altre conseguenti considerazioni, quelle sulla nuova vita. Tema quest'ultimo che sarà trattato, ora, dalla sezione 4,13-5,5

Le motivazioni che spingono Paolo a credere nella forza della sua debolezza (vv.4,13-5,5)


Testo a lettura facilitata


Paolo intende proseguire la sua riflessione, sgradita ai suoi interlocutori (v.4,13)

13- Ora, avendo lo stesso spirito della fede, secondo quanto è scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo, perciò anche parliamo,

Ciò che sostiene Paolo nella sua sofferenza è la prospettiva di una vita nuova in Cristo con i Corinti (vv.4,14-15)

14- sapendo che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e (ci) porrà accanto (a lui) con voi.
15- Infatti, tutte le cose (sono) per voi, affinché, sovrabbondando la grazia per mezzo dei più, faccia sovrabbondare il rendimento di grazie per la gloria di Dio.

Paolo riprende il tema della sofferenza colta in prospettiva della vita futura con Cristo (vv.4,16-18)

16- Perciò non veniamo meno, ma se anche il nostro uomo esteriore si distrugge, l'uomo interiore, però, si rinnova di giorno in giorno.
17- Infatti al momento, il leggero peso della nostra tribolazione ci procura in modo smisurato una pienezza eterna di gloria,
18- non contemplando noi le cose visibili, ma quelle invisibili, poiché le cose visibili (sono) fugaci, quelle che non si vedono (sono) eterne.

Ripresa, approfondimento e sviluppo del v.16: tenda terrena e edificio celeste (vv.5,1-5)

5,1- Sappiamo, infatti, che qualora la nostra casa terrestre, (che è una) tenda, sia stata distrutta, abbiamo nei cieli un edificio da Dio, una casa eterna non fatta da mano d'uomo.
2- E infatti in questa (tenda) gemiamo, desiderando ardentemente di vestire al di sopra (di questa tenda) la nostra abitazione, che (è) dal cielo,
3- giacché appunto saremo trovati anche spogliati, (ma) non nudi.
4- E infatti essendo (noi) nella tenda, gemiamo essendo oppressi, per la quale cosa non vogliamo essere spogliati, ma sopravvestiti, affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita.
5- Chi ci ha predisposti proprio per questo (è) Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito.


Commento ai vv. 4,13-5,5

Paolo intende proseguire la sua riflessione, sgradita ai suoi interlocutori (v.4,13)

La sezione in esame si apre con il v.13, che, con un giro di parole non molto chiaro, attesta che Paolo crede fermamente in quello che ha detto fino adesso circa la forza della sua debolezza e che, pertanto, continuerà a parlare della questione, non più, ora, dal versante della debolezza, ma delle conseguenze e delle contropartite che questa sua debolezza, in cui opera la potenza salvifica di Dio, produce. E per dare forza alla sua determinazione a continuare la sua riflessione, che non sembra molto gradita ai Corinti e ai suoi avversari, ricorre ad una citazione scritturistica mutuata dalla LXX (Settanta): “Ho creduto, perciò ho parlato” (Sal 115,10a), così che, continua Paolo, anch'io credo in quello che ho detto fino adesso, quindi continuo a parlare, proprio perché ci credo.

Un'annotazione va fatta sulla scelta del Sal 115,10, che non sembra essere casuale, poiché il versetto è stato estrapolato da un contesto (Sal 115,1-19) dove si parla di un uomo in pericolo di morte, il quale si è rivolto al Signore, che lo ha ascoltato liberandolo dalle sue angosce, per questo egli eleva il calice della salvezza per rendere grazie al suo Signore, che lo sostiene e lo ha restituito alla vita. Un contesto che riflette in qualche modo la condizione esistenziale di Paolo e in cui egli vede se stesso. Un contesto dove si parla di una condizione esistenziale di morte che, per l'intervento di Dio, è stata trasformata in un nuovo stato di vita. Tema questo che formerà l'oggetto delle riflessioni di Paolo, che vede le sofferenze del momento presente trasformarsi in vita nuova per i Corinti e promessa di eternità con il Signore per se stesso con loro.

Ciò che sostiene Paolo nella sua sofferenza è la prospettiva di una vita nuova in Cristo con i Corinti (vv.4,14-15)

Paolo lo ha appena detto: egli crede per questo parla. La sua parola, quindi, è fondata sulla fede, poiché, dirà in 5,7, finché siamo in questa condizione esistenziale “camminiamo per fede, non per visione”. E la fede introduce alla speranza, che illumina la vita presente aprendola ad un futuro di eternità e di luce, sostenendo il credente nel suo peregrinare terreno. Ed è proprio ciò che Paolo attesta qui al v.14, che si apre con un “sapendo” (e„dÒtej, eidótes). Un sapere che gli viene dalla fede, la quale, dopo aver fatto comprendere a Paolo che egli è stato associato alla croce di Cristo (Gal 2,20a) e che porta impresse nel suo corpo le stigmate di Gesù (Gal 6,17), gli fa ora comprendere come egli sarà associato anche alla sua risurrezione. Un concetto questo che egli riprenderà e svilupperà, uno o due anni dopo questa lettera seconda ai Corinti, in Rm 6,4-11. Una sofferenza e una morte, quindi, in vista di una risurrezione, che introduce il credente nell'eternità di Dio, che è pienezza di Vita eterna. Anche questo è un concetto che Paolo riprenderà in Rm 8,18-23, approfondendolo e allargandolo all'intera creazione, coinvolta, suo malgrado, nei destini di sofferenza e di morte dell'uomo, così come nella sua risurrezione, per un principio di solidarietà, che lega inscindibilmente entrambi.

Ma un legame inscindibile lega anche le fatiche e le speranze dell'apostolo ai suoi figli spirituali, i Corinti, che Paolo vede associati con lui a Cristo per la medesima fede e la medesima vita in Cristo, che in lui li mette tutti in comunione l'uno all'altro così da essere uno nell'unico Cristo. È questa la ricompensa spirituale dell'apostolo: il vedere le sue fatiche e le sue sofferenze apostoliche giungere a compimento, avendo ricondotti gli uomini che hanno creduto, accogliendo la sua predicazione, in seno al Padre. Una predicazione che già fin d'ora ha dato al credente ogni ricchezza spirituale, perché fin d'ora, in virtù della fede e del battesimo, egli è stato cristificato e per questo inserito nella Vita stessa di Dio, così che egli, insieme alla comunità credente, possa celebrare con la propria vita, così trasformata in una liturgia di lode e di ringraziamento, il proprio rendimento di grazie a Dio, che nel suo Cristo gli ha teso la mano, indicandogli la strada del suo ritorno al Padre, dal quale era drammaticamente fuoriuscito nei primordi dell'umanità (Gen 3,16-23).

Paolo riprende il tema della sofferenza colta in prospettiva della vita futura con Cristo (vv.4,16-18)

Dopo aver parlato delle sue sofferenze apostoliche in 4,8-12, affinché risplenda la vita di Dio nei Corinti, generati alla Vita dalle sue sofferenze, dove opera la potenza salvifica di Dio; e dopo aver acceso una luce di speranza sul suo con-soffrire e sul suo con-morire con Cristo, perché vede in questo anche il suo con-risorgere a nuova vita con lui (4,14-15), Paolo, ora, sviluppa una nuova comprensione della sua sofferenza apostolica, vedendo in questo suo soffrire un lento e graduale morire, un lento e graduale disfarsi della sua corporeità, che egli percepisce come una lenta e graduale evoluzione verso la pienezza della Vita in Cristo e, in e con lui, in Dio, proprio perché questa sua evoluzione di disfacimento mortale viene associato alla passione e morte di un Cristo che è anche risorto.

Tutto questo soffrire e tutto questo morire non gli provocano abbattimento e non lo aprono ad un deprimente pessimismo sulla sua missione e sulla sua vita, che ha fatto invece esclamare Qo 1,2b: “vanità delle vanità, tutto è vanità”; ma al contrario egli è rafforzato da una nuova visione del suo vivere e del suo morire nel Cristo morto-risorto, del quale ha compreso di essere a lui associato nel suo soffrire e nel suo morire , così che mentre il suo “uomo esteriore”, cioè la sua esistenza corporale, si va degradando e distruggendo per Cristo, generando in questo nuovi credenti a Dio, il suo “uomo interiore”, cioè il suo spirito e la sua vita spirituale, viene quotidianamente rigenerato in Dio e sempre più viene associato e reso partecipe della sua Vita. Per tutto questo, conclude Paolo, “non veniamo meno”, cioè “non ci scoraggiamo” di fronte alle sofferenze e ai pericoli di morte, che egli deve affrontare quotidianamente per Cristo, così che questa sua tribolazione apostolica per Cristo diviene soltanto un “leggero peso”, la cui sopportazione ha come contropartita “una smisurata pienezza eterna di gloria”.

Anche quest'ultimo pensiero verrà ripreso da Paolo in Rm 8,18, che attesterà, similmente a 4,17: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi”, sottolineando il profondo divario tra la pochezza della sofferenza presente e l'immensità della gloria futura, cui è destinato il credente in Cristo e che farà esclamare a San Francesco: “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena m’è diletto”.

Paolo si rende conto delle difficoltà che la sua riflessione deve aver prodotto nei suoi Corinti, circa la forza della sua debolezza, in cui opera la potenza di Cristo, nonché la sublimità della visione escatologica con cui egli ha saputo leggere e ricomprendere, alla luce della risurrezione di Cristo, le sue sofferenze apostoliche, che lo vedono assimilato ai patimenti e alla morte di Cristo in una prospettiva di gloria futura, che egli spera di condividere con i suoi Corinti.

Tutto questo doveva risultare ostico ai Corinti, abituati a ben diversi sofismi, adornati dalla retorica dei più quotati filosofi, che approdavano nei loro porti e nelle numerose scuole di pensiero, che popolavano la loro metropoli. Per questo ed anche nella prospettiva di quanto sta per dire nella successiva pericope 5,1-5, che tali riflessioni riprende ed approfondisce, ritiene opportuno fare una precisazione con il v.18: “non contemplando noi le cose visibili, ma quelle invisibili, poiché le cose visibili (sono) fugaci, quelle che non si vedono (sono) eterne”. In altri termini, Paolo ricorda ai Corinti che quanto egli ha fin qui detto e quanto sta ancora per dire non nasce da una qualche strana elucubrazione mentale, bensì da una comprensione e da una contemplazione delle cose “invisibili”, cioè quelle spirituali, alle quali Paolo ha votato tutta la sua vita e sulla logica delle quali egli ragiona e si muove. L'importanza di queste rispetto a quelle materiali è data dalla loro stessa natura spirituale, che le sottrae alla caducità, cui, invece, sono soggette quelle materiali, che per loro natura sono effimere. Le cose spirituali, infatti, fanno parte delle realtà del nuovo mondo, che la risurrezione di Cristo ha inaugurato e sono caratterizzate dallo Spirito, che per sua natura sfugge al divenire delle cose e alla loro caducità, tant'è che lo stesso Gesù giovanneo, rivolto a Nicodemo pone una netta distinzione tra lo Spirito e la carne, che rende le due realtà irriducibili l'una all'altra: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,6), così che l'autore di Col 3,1-2 sollecita la sua comunità a vivere secondo le logiche dello Spirito: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”.

Ripresa, approfondimento e sviluppo del v.4,16: tenda terrena e edificio celeste (vv.5,1-5)


Note generali

Il confronto tra l' “uomo esteriore” e “quello interiore”, dove, il disfacimento del primo va a tutto benefico del secondo (4,16), produce anche delle aspettative completamente diverse. La precarietà e la transitorietà dell'uomo esteriore, infatti, si riflettono in egual modo anche sul suo dimorare qui sulla terra; un dimorare che ha per abitazione una tenda, simbolo qui della provvisorietà e della temporaneità del suo dimorare, poiché tutte le cose di questo mondo passano, in quanto soggette al divenire, generato dalla spazio-temporalità in cui esse sono collocate e di cui, per natura, in quanto generate in essa, fanno parte.

La precarietà della tenda, che viene costruita dalle mani di un uomo, che per sua natura è un essere precario e, pertanto, incapace di generare e di costruire cose durature, viene, per contro, posta a confronto con la stabilità e la solidità di una “casa”, di un “edificio”, la cui solidità e stabilità sono sancite dal fatto che questo edificio è stato costruito dalle mani di Dio, il quale, per la sua natura spirituale e, quindi, incorruttibile, in quanto sottratta alla spazio-temporalità, garantisce l'eternità di questa dimora celeste, che è la stessa dimora divina.

Da questo confronto, tra il precario e lo stabile, tra il transitorio e l'eterno, sgorga impellente il desiderio dell'effimero uomo esteriore di rivestirsi di indistruttibilità e di perennità, sancendo in tal modo la sua durevolezza, che sconfina nell'eternità stessa di Dio, che è Vita eterna. Un desiderio di eternità, che, attesta Paolo, è stato inserito da Dio stesso nell'uomo esteriore, che “ci ha predisposti proprio per questo”, dandoci la caparra dello Spirito, che ci fa pregustare fin d'ora la sua eternità (5,6), a cui l'uomo è destinato, in quanto creato da Dio a sua immagine e a sua somiglianza (Gen 1,26-27), ed associato alla sua Vita con l'inalazione del suo alito, che lo ha reso un essere vivente (Gen 2,7), lasciando in lui l'impronta della sua eternità divina, verso la quale è sospinto ed aspira. L'uomo, infatti, non era nato per morire.

Commento ai vv.5,1-5

Il v.5,1, similmente a 4,14, si apre all'insegna di quel “Sappiamo”, che lega la riflessione di Paolo al “sapere” della fede e non certo a rivelazioni particolari, poiché, attesterà subito in 5,7 finché si è qui, su questa terra, si cammina per fede e non per visione. Tutta la riflessione di Paolo, quindi, è generata e radicata nella fede, che Eb 11,1 definisce quale “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”.

Il v.5,1, parallelamente al v.4,16, che poneva a confronto l'uomo esteriore con quello interiore, apre, ora, un nuovo confronto tra due diverse tipologie di dimore, che sono strettamente legate alle due precedenti tipologie di uomini: una tenda, segno della precarietà della vita dell'uomo esteriore; e una casa, che è un edificio che porta in se stesso l'impronta e il sigillo della durevolezza dell'eternità di Dio, destino dell'uomo interiore. Tenda terrestre e edificio celeste, che Paolo si affretta a precisare subito che non è stato, quest'ultimo, a differenza della tenda, costruito dall'uomo, per sua natura fragile e soggetto alla precarietà propria della temporalità, in cui vive ed è in essa radicato, ma da Dio stesso, che ha impresso in esso il segno della sua eternità.

Precarietà e durevolezza, temporalità ed eternità sono questi i due poli entro i quali l'uomo esteriore si muove ed è agitato da quello interiore, che lo sospinge verso la durevolezza definitiva dell'eternità, che si manifesta nell'uomo esteriore nel suo forte attaccamento alla vita. Si crea in tal modo una forte tensione esistenziale, che fa “gemere” l'uomo esteriore, che vorrebbe rivestire, già fin d'ora, di eternità il suo status quo. Un “gemere” che Paolo riprenderà e approfondirà in Rm 8,22-23, dove creazione e uomo, vincolati tra loro in uno stesso destino, metteranno in rilievo le forti tensioni che si agitano in entrambi, generate da una natura caduca, che aspira all'eternità, di cui erano rivestiti entrambi nei loro primordi.

Il verbo “vestire al di sopra” o “sopravestire” (™pendÚsasqai, ependísastai), è usato al v.5,2 apparentemente in modo improprio da Paolo, poiché un edificio di una certa natura (mattoni e calce) non può rivestirne un altro di diversa natura (fatta di fragile e inconsistente tessuto), ma semplicemente lo sostituisce. Tuttavia con questo apparente paradosso Paolo vuole, da un lato, anticipare il tema del v.5,4, dove si parlerà di spogliazione e di sopravestitura e dove ne verrà spiegato il senso; dall'altro, dire che la tenda del corpo effimero dell'uomo esteriore verrà “sopravestita”, cioè assorbita e assimilata, ma non distrutta o sostituita, dall'edificio celeste, divenendo così essa stessa edificio celeste, cioè trasformata in edificio celeste, la quale cosa significa spiritualizzata, così come fu nei primordi dell'umanità, allorché l'uomo, formato dalla creta, simbolo della sua fragilità, venne inalato dallo Spirito di Dio, divenendo essere vivente, cioè partecipe della Vita stessa di Dio (Gen 2,7), il quale così lo ha fatto sua immagine e sua somiglianza (Gen 1,26-27), creando in tal modo, sia pur a livello creaturale, un altro Se stesso.

In altri termini, al di là della metafora del v.5,2, Paolo attesta con il v.5,4, che riprende, dandone sviluppo, il v.5,2, quanto è constatabile in ogni uomo: la sua inappagabile e inestinguibile sete di vita perenne, duratura, inalienabile, eterna. Ma questo suo innato desiderio di eternità è contraddetto dalla sua condizione esistenziale fuggevole, oppressa dalla sofferenza, dal dolore e, per quanto si cerchi di esorcizzarla, dalla morte, cui è destinato fin dal suo concepimento, così che il suo vivere altro non è che un lento, graduale e inarrestabile morire quotidiano. Questo è quanto è attestato da Gen 3,16-23, che cerca di darsi una ragione dello stato di sofferenza e di morte in cui l'uomo, decaduto, è precipitato e da cui cerca inutilmente di uscirne. Un gemito che l'autore del Qoelet sintetizza amaramente e in modo sconsolato in quel ritornello ossessivo, che commenta la condizione di vita dell'uomo e delle cose entro le quali egli si muove: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”, che trova la sua eco nel Sal 89,10, che gli fa da verso: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo”.

Quanta amarezza e quanta sconsolata impotenza attestano queste due brevi citazioni scritturistiche, che contrastano con l'innato desiderio di eternità dell'uomo, che si può raggiungere soltanto attraverso “l'assorbimento” da parte della Vita di questo uomo esteriore. Un assorbimento che significa non dissoluzione del corpo e ricreazione di un altro corpo, ma sua trasformazione per mezzo della potenza dello Spirito. Si tratta, in buona sostanza di un processo inverso a quanto è avvenuto nel Paradiso Terrestre, dove l'uomo, a motivo della sua ribellione a Dio, è stato da Dio stesso destituito dal suo stato di grazia, che lo aveva assimilato a Lui, rendendolo partecipe della sua stessa Vita, così che egli si ritrovò “nudo”, cioè “despiritualizzato”, spogliato di quel Alito di Vita divina primordiale che lo aveva trasformato a sua immagine e a sua somiglianza37. Un tema questo che Paolo aveva già ampiamente trattato in 1Cor 15,35-54, dove approfondisce il concetto di “trasformazione”, quale passaggio da una realtà decaduta e corrotta ad un'altra, rispiritualizzata, dove la Vita ha preso il sopravvento sulla morte, ritornando così l'uomo e con lui l'intera creazione in seno a Dio, così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità, allorché tutto era ancora incandescente di Dio, il quale si riconosceva sia nella creazione che nell'uomo, sua immagine e a Lui somigliante (Gen 1,31).

Un desiderio di eternità e di pienezza di vita che agita l'uomo e che gli nasce dentro dal suo prendere coscienza di essere effimero e fuggevole, quale ombra che passa e soffio che si agita inutilmente (Sal 38,7a). Ma questo tormento interiore, che si chiama condizione umana, attesta Paolo, è Dio stesso che lo ha impresso nell'uomo, perché non dimentichi mai quel è il suo destino finale: il suo ritorno in seno a Dio, dal quale era drammaticamente fuoriuscito nei primordi della creazione e dell'umanità. E quale segno di Vita gli ha elargito il suo Spirito, che non solo gli indica la Via del ritorno al Padre (Gv 16,13), ma diviene anche caparra, cioè anticipo di Vita eterna, che impegna Dio a riaccogliere l'uomo decaduto in Se stesso.

Di mezzo ai vv.5,2.4, che si riprendono e si completano a vicenda, Paolo pone di mezzo il v.5,3, che costituisce una sorta di pausa, che tende a ricondurre alla realtà presente la visione di fede enunciata nei vv.5,2.4: “giacché appunto saremo trovati anche spogliati, (ma) non nudi”. Una battuta d'arresto, questa, inattesa e di non semplice soluzione. Il verbo qui è al futuro, posto al passivo teologico o divino (eØreqhsÒmeqa, euretzesómetza, saremo trovati), dove il soggetto dell'azione del “trovare” è Dio; mentre il tempo verbale, posto al futuro, dà all'azione di Dio un senso escatologico. In quel tempo, dice Paolo, “saremo trovati spogliati”, cioè privi della gloria di Dio (Rm 3,23b), ancora racchiusi nel nostro corpo decaduto, l'uomo esteriore, la tenda; ma “non nudi”, cioè non ancora privati di questo nostro corpo e, quindi, ancora vivi. Paolo, infatti, alla pari dei credenti del I sec. era convinto dell'imminente venuta del Signore e con lui della fine di questo mondo con la successiva instaurazione del Regno di Dio (1Cor 7,29-31). Quest'ultimo concetto Paolo lo aveva già elaborato in 1Cor 15,51-53, dove attesta che non tutti moriremo, ma che al suono della tromba i morti risorgeranno, mentre noi, che ancora siamo in vita, saremo trasformati in un batter d'occhio.

Il v.5,3 rende pertanto edotti i Corinti che quello che Paolo sta dicendo circa la trasformazione di questo nostro corpo mortale da decaduto a glorificato, aprendoci in tal modo le porte all'eternità di Dio, non è una realtà fantastica, ma sta per accadere e ciò lo aveva già ricordato in 1Cor 7,29: “il tempo ormai si è fatto breve”, mentre in Rm 13,12a riprenderà nuovamente questo concetto di imminenza, divenuta quasi incombente, della venuta del Signore: “La notte è avanzata, il giorno è vicino”.

La coscienza della condizione della vita presente (5,6-11)

Testo a lettura facilitata

Il desiderio di Paolo: essere gradito al Signore ed essere unito per sempre a lui (5,6-9)

6- Siamo, pertanto, sempre coraggiosi sapendo anche che, risiedendo nel corpo, siamo esuli dal Signore;
7- camminiamo, infatti, per fede, non per visione.
8- Ma siamo coraggiosi e vogliamo piuttosto essere esuli dal corpo e stare con il Signore.
9- Perciò aspiriamo, sia che restiamo sia che ce ne andiamo fuori (dal corpo), di essere a Lui graditi.

L'essere gradito al Signore passa attraverso il vaglio del giudizio personale (5,10)

10- Infatti bisogna che tutti noi siamo manifestati davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno porti quelle cose che ha fatto per mezzo del corpo, sia (cosa) buona sia (cosa) malvagia.

Nella coscienza che sarà giudicato, Paolo attesta la sua onesta e correttezza (5,11)

11- Consci, pertanto, del timore del Signore, cerchiamo di persuadere gli uomini, ma siamo manifesti a Dio; ma spero anche di essere manifesto nelle vostre coscienze.

Commento ai vv.5, 6-11

La pericope 5,6-11 conclude l'ampia sezione 4,1-5,5, con cui Paolo ha portato a giustificazione di se stesso la sua correttezza e la sua onestà nel suo modo di operare e di annunciare il Vangelo senza secondi fini, a differenza dei suoi avversari giudeocristiani giudaizzanti (4,1-7), ben riconoscendo le sue fragilità e le avversità in cui ha dovuto operare, dalle quali, pur rimanendone costantemente vittima, grazie alla potenza di Dio, che opera in lui, non fu mai da queste sopraffatto (4,8-11).

Ma egli va ben oltre a tutto questo, comprendendo come proprio grazie a queste sue fragilità e a queste sue sofferenze, che gli sono inflitte nel corpo e nello spirito, egli è stato in qualche modo assimilato al Cristo crocifisso.

Una situazione di sofferenza questa che non lo abbatte, poiché egli ritiene ben poca cosa questa sua sofferenza rispetto alla gloria che lo attende, poiché se egli è stato assimilato ai patimenti e alla morte di Cristo, che vivono in lui (Gal 2,20) e di cui porta impresse nel suo corpo le stigmate (Gal 6,17), egli aspira anche ad unirsi a lui anche nella gloria della sua risurrezione.

Il suo vivere, il suo operare, la sua stessa missione trovano, pertanto, la loro forza e il loro fondamento in queste cose invisibili, ma non per questo meno reali, alle quali accede con la sola fede (4,12-5,5.7).

Di fronte a questo scenario escatologico di immensa gloria, che Paolo si prospetta e in cui spera, qualsiasi sofferenza, che non può di certo reggere il confronto con tale gloria, gli pare insignificante e tutto, quindi, gli risulta sopportabile in vista della gloria futura, a cui si sente destinato.

Da questa visione fondata sulla fede egli trae non solo il suo coraggio, ma altresì la sua correttezza e la sua onestà morale e intellettuale, anche se questa gli è causa di avversità. Un coraggio che gli viene anche dalla coscienza che questa sofferenza gli viene provocata dal fatto che egli si trova in questa condizione umana di fragilità e di precarietà, esule, a motivo della sua corporeità decaduta, lontano dal Signore, nel senso che la sua corporeità gli impedisce di essere già pienamente con e nel Signore, che, invece, è già nella gloria, a cui Paolo aspira. Ed è proprio a motivo di questa sua aspirazione, che egli non teme di “essere esule dal corpo”, cioè non teme anche di morire pur di stare con il Signore. Una forza, precisa in 5,7, che egli trae dalla sola fede e non da una qualche privilegiata visione. Una precisazione che egli si sente di dover fare, dopo che nella lettera scritta tra “molte lacrime” aveva attestato in 12,1 di essere pronto a parlare anche delle sue visioni e, quindi, di uno stato privilegiato rispetto a qualsiasi altro credente. Mentre con l'attestazione di 5,7 riporta tutto nell'alveo della normalità esistenziale del credente. Infatti con tale versetto egli intende dire che finché si è qui prigionieri in questo corpo, corrotto e degradato a causa del peccato, si può camminare solo per fede e non per visione, poiché è proprio questa corporeità decaduta, che ci impedisce di avere una piena visione di quella gloria che ci aspetta nel Signore, ma di cui la fede ci dà la piena certezza.

Ma Paolo sa bene anche che la gloria che lui si aspetta non è un fatto automatico, che gli viene di diritto, ma deve passare prima attraverso il filtro del giudizio del Signore, dove tutti dovranno porre davanti alla sua maestà gloriosa il bene e il male, che ognuno ha compiuto nella sua vita (5,9-10), Paolo compreso. Anch'egli deve passare attraverso il vaglio del giudizio divino, per questo non gli sono sufficienti le sofferenze patite per Cristo e per il suo Vangelo, ma è necessario che queste siano state spese con purezza d'animo, che si esprime nella sincerità, nell'onestà e nella correttezza delle sue azione e del suo modo di condurre la missione. E sarà proprio lì che si vedrà se egli ha vissuto nella menzogna, cercando di raccomandare se stesso, come invece stanno facendo i suoi avversari (10,18).

La menzione del tribunale di Dio davanti al quale tutti dovranno comparire (5,10), serve a Paolo a rafforzare e a rendere più credibile la sua testimonianza circa la sua sincerità di cuore, la sua correttezza e la sua onestà, così che conclude che, proprio in virtù del fatto che egli è cosciente di dover affrontare il giudizio divino, cerca con tale motivazione di persuadere chiunque della sua rettitudine e della sua correttezza di vita, nonché della sua semplicità di cuore, che gli impedisce di muoversi con doppiezza di linguaggio o di intenti, rimestando nella malizia o tra le cose obbrobriose, cercando di falsificare la Parola di Dio per ottenere l'assenso dei Corinti e compiacere loro, cercando di ricavarne dei vantaggi personali (4,2). Sulla questione egli chiama in modo indiretto la testimonianza di Dio con l'attestazione che la sua sincerità di cuore è ben nota a Dio, così, come egli spera, lo sia nel segreto della coscienza dei Corinti, chiamandoli in tal modo a riflettere sulla sua rettitudine morale senza ombre.

Ciò che muove Paolo: l'amore di Cristo morto-risorto (vv.5,12-17)

Testo a lettura facilitata

La rettitudine di Paolo dà motivo ai Corinti di difenderlo dai suoi avversari (vv.12-13)

12- Non ci raccomandiamo nuovamente a voi, ma vi diamo motivo di vanto verso di noi, affinché abbiate (di che rispondere) verso quelli che si vantano ne(ll')aspetto e non nel cuore.
13- Infatti se fummo usciti fuori di testa, (questo lo fu) per Dio; se fummo saggi, (questo lo fu) per voi.

La forza che sostiene e muove Paolo: l'amore di Cristo, che ha dato la sua vita per tutti (vv.5,14-15)

14- Infatti, l'amore di Cristo ci sospinge, avendo creduto questo, che uno è morto per tutti, allora tutti sono morti;
15- e (Cristo) morì per tutti, affinché i viventi non vivano più per loro stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.

Cristo morto-risorto, causa e motivo di nuove relazioni in un nuovo stato di vita (vv.5,16-17)

16- Così che noi, da ora, (non) conosciamo (più) nessuno secondo la carne; se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ma ora non più (così lo) conosciamo.
17- Così se uno è in Cristo, (è) nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco (ne) sono nate di nuove.

Commento ai vv. 5,12-17

La rettitudine di Paolo dà motivo di vanto ai Corinti e di difesa dai suoi avversari (vv.12-13)

A motivo della la lunga sezione 4,1-5,11, spesa per attestare la sua correttezza e la sua onestà morale e intellettuale, che lo spingono a parlare e a comportarsi secondo Verità, e a motivo con cui conclude la sua difesa con il v.5,11, dove attesta che è proprio il giudizio di Dio che lo attende, che lo spinge a comportarsi correttamente e onestamente, con sincerità di cuore, senza doppiezza alcuna, sperando con questa attestazione, che chiama in causa Dio stesso, di convincere gli uomini e in particolar modo i Corinti della sua attendibilità e affidabilità; è dunque a motivo di tutto questo che Paolo si rende conto che quanto ha fin qui detto appare come una sua nuova autodifesa, che va ad aggiungersi alla sua lunga lettera scritta “tra molte lacrime” (10-12), che qui viene richiamata ai vv.5,12-13, con i quali cerca di giustificare quanto là aveva scritto, avendo messo in mostra sfacciatamente le sue credenziali di apostolo (11,22-12,10), facendosi in tal modo anche lui una sorta di “superapostolo” nei confronti dei suoi avversari e di fronte ai Corinti.

Per questo, perché i Corinti non si facciano un'idea sbagliata su di lui, assimilandolo ai suoi avversari, egli cerca di spiegare qui come con questa sua autodifesa, là come qua, ha voluto soltanto fornire ai Corinti motivo e argomentazione di vanto per loro, da opporre alle basse insinuazioni denigratorie dei suoi avversari nei suoi confronti, cosa che essi già avrebbero dovuto fare a suo tempo, ma che non avevano fatto (12,11b), forse perché ancora non conoscevano bene Paolo circa la sua vera identità di ebreo e che cosa questa significasse; circa le sue sofferenze patite in quanto apostolo e ministro di Cristo e le visioni celesti, di cui egli aveva beneficiato (11,22-12,10).

Per questo egli sta parlando ai Corinti di se stesso, delle sue peripezie e sofferenze apostoliche, delle sue esperienze mistiche, della sua investitura di apostolo e della stessa predicazione del Vangelo, che egli ha appreso come per rivelazione direttamente da Dio stesso e da nessun altro (Gal 1,11-12), ne parla non per vantarsi davanti ai suoi avversari o agli stessi Corinti, ma soltanto perché, da un lato, essi imparassero ad apprezzarlo nella sua più autentica identità, che egli preferisce tenere nascosta, per non ledere in qualche modo il Vangelo, anziché sbandierarla come facevano i suoi avversari; dall'altro, perché avessero argomentazioni sufficienti da opporre ai suoi avversari, evitando così di essere abbindolati da vuote titolature, che nulla hanno a che vedere con la Verità di cui l'apostolo è portatore (5,12).

Anzi è proprio a motivo della sua ritrosia all'ostentazione di se stesso, che lo aveva spinto più volte a dichiararsi “stolto” nella sua lettera scritta “tra molte lacrime” (11,1a; 16-17.21b; 12,11a), che egli richiama qui in 5,13, cercando di giustificare ora quella sua ostentazione di se stesso davanti ai suoi avversari e ai Corinti. Quel suo vantarsi, infatti, non lo fece per se stesso, ma per Dio, affinché la predicazione del suo Vangelo non venisse sminuita per la pochezza dei suoi avversari e dei Corinti. Una stoltezza, la cui causa e colpa aveva a quel tempo addebitato agli stessi Corinti, i quali, anziché difenderlo, contrabbattendo alle accuse denigratorie dei suoi avversari, li avevano seguiti (12,11).

Un tema quello della “raccomandazione”, che sembra stare particolarmente a cuore a Paolo, considerato che il termine ricorre nella canonica 2Cor ben sette volte38, costituendo in tal modo il leit-motiv che sottendeva il conflitto tra lui e i suoi avversari, che amavano presentarsi ai Corinti e alle comunità credenti in genere in modo vistoso, con titolature altisonanti e lettere di raccomandazione e di presentazione, assegnate loro o dalla chiesa madre di Gerusalemme, dalla quale probabilmente provenivano, o da altre comunità che avevano conquistato con le loro abili quanto dotte argomentazioni, supportate da una buona retorica. Su tale questione, infatti, Paolo insisterà non poco, poiché tali titolature e lettere di raccomandazione gli venivano contrapposte dai suoi avversari, denigrandolo per la sua scadente presenza fisica, la sua incerta salute, il suo povero eloquio, l'assenza di retorica e di argomentazioni, poco se non per niente allettanti e che egli stesso, del resto, aveva già riconosciuto in 1Cor 2,1-4a.

Paolo, quindi, rifugge, aborrendole, dalle sue titolature e dalle raccomandazioni, perché offuscano il suo Vangelo. Ma se così è, che cosa spinge, allora, Paolo a dedicare l'intera sua esistenza così tribolata da mille avversità che portano con sé, non di rado, anche pericoli di morte (11,22-28)? Che cosa sostiene, dunque, Paolo nelle sue avversità e nel suo rinunciare ad ogni suo legittimo sostentamento in quanto apostolo, preferendo lavorare per guadagnarsi da vivere, non disdegnando attività manuali proprie degli schiavi pur di non compromettere in qualche modo il Vangelo di Cristo? (11,7-8). Saranno i vv.5,14-17 a darne la risposta.

La forza che sostiene e muove Paolo: l'amore di Cristo, che ha dato la sua vita per tutti (vv.5,14-15)

La motivazione che sostiene Paolo nelle sue prove a causa della sua missione è essenzialmente cristologica: l'amore di Cristo, la cui espressione massima egli vede nella donazione estrema di se stesso perché tutti, associati per mezzo della fede e del battesimo alla sua morte, possano essere associati anche alla sua vita nuova, generata dallo e nello Spirito, così che anche chi è stato associato alla sua morte e alla sua vita, possa riprodurre continuamente nella propria vita il proprio morire a se stessi per poter vivere per Cristo e in Cristo per Dio. Una vita che diviene nella sua dinamica essenzialmente pasquale: un continuo passaggio da morte a vita.

È questo tipo di visione e di comprensione dell'amore di Cristo per l'umanità, che “sospinge” Paolo, sostenendolo nella sua missione e divenendone motore, che anima l'intera sua vita.

Significativa in tal senso è l'espressione “uno è morto per tutti, allora tutti sono morti”, la quale cosa significa che Gesù incarnandosi non ha assunto su di sé soltanto una carne umana decaduta in quanto corrotta dal peccato (Fil 2,6-7), ma in questa ha assunto su di sé l'intera umanità e insieme ad essa, per un principio di solidarietà che le lega inscindibilmente, anche l'intera creazione, portandole sulla sua croce e ponendo fine in esse alla vecchia e decaduta creazione adamitica (Rm 6,6-9), ricostituendole, poi, rigenerate nello Spirito, così come lo furono nei loro primordi, nuove creature in Cristo e in lui, riconsegnate al Padre, dal quale fuoriuscirono drammaticamente (Gen 3,16-24).

Un passaggio, questo di Paolo, che viene ricordato anche da Gv 12,32: “E io, quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”, precisando subito dopo in 12,33, “Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire”, cioè morte di croce. Ma il doppio senso che Giovanni sovente attribuisce alle sue parole e al suo fraseggiare, il verbo “elevare” (Øywqî, ipsotzô, sarò elevato) non dice soltanto essere innalzato sulla croce, bensì anche “elevato” dalla morte e “innalzato” verso quel Padre da cui proveniva (Gv 16,28), alludendo implicitamente anche alla risurrezione. Morte e risurrezione in Gesù sono due inscindibili facce dell'unica moneta, con cui Gesù ha acquistato la nostra salvezza e il nostro ricollocamento in seno al Padre.

Ma l'amore di Cristo, che si dona totalmente a tutti per riscattarli dalla loro morte spirituale, restituendo a tutti la vita in Cristo e in lui indicando la Via del ritorno al Padre, diviene per Paolo un esempio sui cui egli ha riparametrato completamente la sua vita, divenuta servizio e dono di salvezza per l'intero mondo pagano e per gli stessi Corinti. Un pensiero, questo, che egli svilupperà dapprima in Gal 2,20, attestando: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”; mentre in Rm 6,3-8 svilupperà la riflessione sul con-morire, con-risorgere e con-vivere con Cristo, camminando in novità di vita.

Un senso sacrificale e redentivo della propria vita che viene così trasformata in un atto di culto spirituale a Dio e che Paolo svilupperà in Rm 12,1: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale

Cristo morto-risorto, causa e motivo di nuove relazioni in un nuovo stato di vita (vv.5,16-17)

Paolo attestava al v.5,15 che Cristo è morto perché “i viventi”, cioè i credenti, non vivano più per se stessi, secondo gli schemi dell'uomo vecchio, che si muove nelle logiche della carne, ma vivano per Cristo, che Paolo definisce come “morto e risorto”. Una morte, che è rinnegamento e rinuncia al vecchio modo di vivere, per poter incominciare a vivere secondo le logiche dell'uomo nuovo, che sono quelle dello Spirito. Vi è in tutto questo un riorientamento esistenziale, che si radica ed è causato dalla potente dinamica che si genera dal binomio morte-risurrezione, morte-vita nuova, che ha provocato di fatto la morte del vecchio mondo adamitico, distrutto nella morte di Cristo sulla croce, e rigenerato quale nuova creazione nello Spirito mediante la sua risurrezione, così che Paolo attesterà, parafrasando Is 43,19a, “le cose vecchie sono passate, ecco (ne) sono nate di nuove”.

I radicali cambiamenti preannunciati ai vv.5,14-15 producono all'interno del credente, l'uomo nuovo rigenerato secondo lo Spirito e in esso vivente, un altrettanto radicale cambiamento nei suoi rapporti con se stesso e con gli altri, così da avere una nuova percezione e una nuova comprensione delle realtà esistenti e delle loro dinamiche, scoprendone il nuovo senso e dandone una nuova lettura alla luce dello Spirito, “Così che noi, da ora, (non) conosciamo (più) nessuno secondo la carne; se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ma ora non più (così lo) conosciamo” (5,16).

Un versetto quest'ultimo che crea con quel “¢pÕ toà nàn” (apó tû nîn, da ora) una netta spaccatura temporale tra il prima e il dopo Cristo, tra il Cristo carnale e il Cristo risorto, ma evidenzia ancor più un nuovo inizio: “da ora”, così che le cose passate non contano più, perché ne sono nate di nuove (Is 43,18-19a; Ap 21,5a.6a). Ed è in tal senso che Paolo pone uno stacco netto tra ciò che era prima dell'incontro con il Risorto e ciò che è adesso, dopo che lo ha conosciuto, così che “da ora, (non) conosciamo (più) nessuno secondo la carne”, dove il verbo “conoscere” significa “intrattenere rapporti e comprendere le cose” secondo le logiche umane. Il suo incontro con il Risorto, infatti, lo ha completamente stravolto, cancellando radicalmente il suo passato, posto sotto il segno della Legge e della circoncisione, inaugurando, per contro, un tempo completamente nuovo, posto sotto il segno dello Spirito, che spinge il credente a cogliere e a comprendere le cose dalla prospettiva di Dio e non più secondo le logiche umane.

Ma l'incontro con il Risorto ha posto anche uno stacco netto tra il Gesù storico e il Cristo risorto, così che Paolo, quand'anche l'avesse storicamente conosciuto, ora non lo conosce più in tale modo, dando qui l'idea di un netto distacco dal Gesù storico, quasi a prenderne le distanze e volerlo in qualche modo disconoscere nella sua carnalità. Va qui compreso bene quello che Paolo intende dire. Di certo egli non intende negarne la realtà storica, che attesterà, invece, chiaramente in Gal 4,4-5 e nell'inno cristologico di Fil 2,6-8. Quel suo “disconoscere” il Gesù della storia non è finalizzato tanto a svalutarne l'incarnazione e tanto meno negarla, quanto, invece, a sottolinearne il nuovo stato di esistenza, verso il quale era indirizzata la sua stessa incarnazione, rigenerata nella risurrezione dalla potenza dello Spirito, dando inizio ad una nuova creazione e ad una nuova era, che in qualche modo vengono alluse da quel “¢pÕ toà nàn” (apó tû nîn, da ora)”, che taglia in due il prima dal dopo, dove il “dopo” dice l'inizio di tempi nuovi, posti sotto l'egida dello Spirito.

Ma al di là di questo, non va escluso il fatto che Paolo con quel “ma ora non più (così lo) conosciamo” intenda a rivolgersi in qualche modo anche a quei discepoli, che negando o sottovalutando l'importanza della risurrezione, non consideravano Gesù come il Figlio di Dio, ma come un profeta di eccezionali doti, che incarnava lo spirito profetico che fu già di Adamo e Mosè e hanno voluto seguirne le orme, i suoi insegnamenti, vivendo nella povertà e imitandone lo stile di vita, legati ad un passato che ora non c'è più, disconoscendo o non comprendendo così la nuova realtà che era venuta a crearsi con la risurrezione di Gesù, “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,4). Contro questi tali e contro queste tendenze, Paolo attesta che egli non tiene più in nessun conto di quanto c'era prima, sia per quanto riguarda gli uomini che per quanto riguarda il Gesù della storia, poiché con la sua risurrezione è venuta a instaurarsi una nuova realtà, per cui “da ora” tutto è cambiato, anche il rapporto con Gesù, che non esiste più nel suo stato preesistente, ma nel suo nuovo stato glorioso e con tale stato Paolo, ora, intrattiene i suoi rapporti ed è chiamato a conformarsi a lui non tanto nella sua condizione storica, quanto in quella nuova, rigenerata e generata dallo Spirito, nella cui realtà ora il Risorto si trova e nella quale l'intera umanità credente già si trova ed è chiamata a conformarsi esistenzialmente ad essa fin d'ora, poiché “le cose vecchie sono passate, ecco (ne) sono nate di nuove” (v.17b).

Origine e senso del ministero di Paolo (vv.5,18-21)

Testo a lettura facilitata

Il ministero di Paolo proviene da Dio e fa parte del suo progetto di salvezza (v.5,18)

18- Ma tutte le cose (provengono) da Dio, che ci riconciliò con Lui per mezzo di Cristo e ci ha dato il ministero della riconciliazione,

Battuta d'arresto che spiega in cosa consiste il piano salvifico di Dio (v.5,19)

19- in tal modo che era Dio che riconciliò il mondo con se stesso in Cristo, non mettendo loro in conto le loro iniquità e stabilendo in noi la parola della riconciliazione.

Ripresa e completamento del v.5,18, dove si attesta il senso del ministero di Paolo (5,20)

20- A causa di Cristo, dunque, siamo ambasciatori, come (se) Dio esortasse per mezzo di noi; per Cristo (vi) supplichiamo: riconciliate(vi) con Dio.

Ripresa e completamento del v.5,19, dove si attesta la dinamica del progetto di salvezza in Cristo (v.5,21)

21-Colui che non conobbe peccato (Dio) fece peccato a favore di noi, affinché diventassimo giustizia di Dio in lui.


Note generali

Dopo aver creato la cornice della novità del Cristo risorto, causa ed origine di una nuova creazione e di tempi nuovi (“da ora” 5,16a), dove tutto è stato rigenerato dalla potenza dello Spirito e tutto è stato posto sotto la sua egida (5,14-17), così che se uno è in Cristo è divenuto con lui una nuova creatura, effetto questo della riconciliazione tra Dio e gli uomini in Cristo, Paolo, ora, colloca all'interno di questo nuovo contesto, generato da Dio nel suo Cristo per mezzo della potenza dello Spirito, il suo ministero, spiegandone cristologicamente il senso e la dinamica. Lo fa attraverso una pericope il cui sviluppo si muove a singhiozzo, poiché è fatta di attestazioni, di battute d'arresto, di riprese finalizzate a completare le attestazioni, ma che nel contempo forma anche da preambolo alla sezione 6,1-10, la parte conclusiva di questa originaria Seconda Lettera ai Corinti (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13).

Per una migliore comprensione della dinamica di questa pericope, propongo il seguente il seguente schema:

  1. Enunciazione: il ministero di Paolo proviene da Dio e fa parte del suo progetto di salvezza (v.5,18);

  2. Battuta d'arresto che spiega in cosa consiste il piano salvifico di Dio (v.5,19);

  3. Ripresa e completamento del v.5,18, dove si attesta il senso del ministero di Paolo, formando nel contempo da preambolo tematico alla sezione conclusiva 6,1-10 (5,20);

  4. Ripresa e completamento del v.5,19, dove si attesta la dinamica del progetto di salvezza in Cristo (v.5,21)


Commento ai vv. 5,18-21

Il v.5,18 si apre richiamando qui implicitamente il primo versetto della Genesi, forse non a caso, considerato che fin qui Paolo ha parlato di nuova creazione e dell'essere nuove creature, una novità entro cui egli colloca il suo ministero: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). “In principio Dio”, dunque, da cui tutto discende, compreso il ministero di Paolo, che attesta come: “tutte le cose (provengono) da Dio” (5,18a).

La seconda parte del v.5,18 attesta come la nuova creazione e l'essere nuove creature in Cristo sia l'effetto primario della riconciliazione che il Padre ha attuato tra Sè è l'uomo e in lui e con lui, per un principio di solidarietà che lega in modo inscindibile i due, con la stessa creazione. In questo processo di riconciliazione Cristo è divenuto il sacramento visibile dell'incontro e della riconciliazione tra Dio e gli uomini, di cui Paolo attesta di esserne stato investito da Dio stesso, poiché è proprio da Lui che tutte le cose provengono. Il ministero di Paolo, dunque, è inserito in questo processo di rigenerazione e di ricostituzione dell'uomo in Dio, generato dalla volontà del Padre, attuatosi in Cristo per mezzo della potenza dello Spirito e proseguito storicamente attraverso uno specifico ministero, quello della riconciliazione, che consente in tal modo di raggiungere ogni uomo di ogni epoca e di ogni latitudine, coinvolgendolo in questa dinamica di salvezza.

Ma cosa significa e in che cosa consiste per Paolo il ministero della riconciliazione, di cui egli si dice investito da Dio? Saranno i vv.5,19-20, i quali, riprendendo il v.5,18b, ne faranno l'esegesi.

Il v.5,18b è scandito in due parti: la prima riguarda l'attestazione dell'avvenuta riconciliazione per opera del Padre che l'ha attuata in Cristo; la seconda parte riguarda l'attestazione di Paolo di aver ricevuto il ministero di questa riconciliazione

Va subito detto che la riconciliazione non significa soltanto perdono dei peccati, che è già stato comunque elargito da Dio nel suo Cristo incarnato-morto-risorto (Rm 5,6.8), indipendentemente dall'uomo, incapace di chiederlo, ma altresì ricostituzione dell'uomo e della creazione in Dio, in cui già furono collocati nei loro primordi, all'interno di quella Luce primordiale (Gen 1,3), che era la Luce della stessa Vita divina, in cui creazione ed uomo erano conglobati e assimilati e della quale partecipavano e nei quali Dio si rifletteva e si riconosceva (Gen 1,31). Ed è all'interno di questo grande quadro di riconciliazione, che è rigenerazione e ricollocamento della creazione e dell'uomo nella Vita divina, che Paolo colloca il suo “ministero di riconciliazione”, che, si badi bene, non è il sacramento della nostra confessione o riconciliazione, questa continua assoluzione dei peccati, che già ci sono stati perdonati tutti nel Cristo morto-risorto, per cui il sacerdote diviene solo un amministratore di un perdono che già ci è stato dato, ma per Paolo il ministero della riconciliazione è il ministero della parola: “stabilendo in noi la parola della riconciliazione”, cioè l'annuncio del Vangelo, la cui accoglienza nella propria vita rigenera automaticamente il credente, ricollocandolo in Dio. Gli farà da eco in tal senso 1Pt 1,22-23: Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna”. Si parla, infatti, di “santificazione delle proprie anime con l'obbedienza alla verità”, dove per santificazione si intende l'assimilazione e partecipazione del credente alla Vita stessa di Dio, che avviene per mezzo dell'obbedienza alla Verità, cioè conformandosi esistenzialmente a quella Verità, che è il Vangelo predicato, che possiede in se stesso una grande potenza rigenerativa, che si attesta e si sacramentalizza nell'amore reciproco. È esattamente questo che Paolo intende per “ministero della riconciliazione” e non certo l'assoluzione dei peccati, che già ci sono stati tutti perdonati. Egli stesso, del resto, dichiarerà come la sua missione e il suo ministero non è quello di somministrare sacramenti, ma “la predicazione della Parola”: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo” (1Cor 1,17a).

Autore e motore di questo grande processo di riconciliazione (5,19), che è rigenerazione dell'uomo in Dio mediante la sua adesione esistenziale al Verità rivelata dal Vangelo predicato e reso ancor prima manifesto in Cristo, Via,Verità e Vita (Gv 14.6), è Dio stesso, il quale ha deciso per la sua infinità magnanimità di non mettere in conto agli uomini la loro iniquità e questo non solo a motivo del suo amore infinito per l'uomo, creato a sua immagine e somiglianza, ma anche per la connaturata incapacità dell'uomo di ritrovare la strada del suo ritorno a Dio. In altri termini, l'uomo da solo non sarebbe mai stato in grado di ritornare in seno a Dio e di colmare in qualche modo l'enorme se non infinito deficit che lo separava da Lui, relegandolo definitivamente alla sua triste condizione esistenziale di essere decaduto e destinato alla morte.

Come ciò sia stato possibile lo dice il v.5,21: “Colui che non conobbe peccato (Dio) fece peccato a favore di noi, affinché diventassimo giustizia di Dio in lui”. In altri termini, Dio ha reso suo Figlio, “peccato” a favore di noi che siamo peccatori, cioè generatori di peccato e viventi nel peccato, affinché da peccatori diventassimo giustificati e nuovamente giusti in e davanti a Dio.

Ma che cosa significa tutto questo gioco di parole? Significa che il Padre ha decretato l'incarnazione di suo Figlio, che, incarnandosi, ha assunto su di sé la decaduta natura umana, l'ha portata sulla croce, dove, morendo, l'ha distrutta e in lui è morta l'intera umanità e l'intera creazione decadute, ponendovi in tal modo fine. In tal senso il Gesù giovanneo in 12,32 attesterà: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Su quella croce, dunque, non c'è salito solo l'uomo Gesù, ma con lui l'intera umanità e, per un principio di solidarietà, anche l'intera creazione, entrambe decadute. In tal senso lo attesterà anche Paolo in Rm 6,6: “Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato”.

La distruzione del corpo del peccato se, da un lato, decreta la fine della vecchia umanità adamitica, quello che Paolo chiama l'uomo vecchio, dall'altro, ha creato la condizione per il nascere di un'altra nuova umanità, generata dalla stessa risurrezione di Gesù, il quale ci aveva in qualche modo già introiettati e assimilati a lui nella sua morte fisica sulla croce (Gv 12,32; Rm 6,6), associandoci in tal modo anche alla sua risurrezione, poiché morte e risurrezione sono le due inscindibili facce di un unico atto salvifico, così che Paolo attesterà in Rm 6,8.11 “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui […] Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”, prospettando in tal modo il secondo atto della salvezza: la giustificazione in Cristo dell'intera umanità decaduta, ricostituita in Dio per mezzo di Cristo con la potenza dello Spirito Santo, che è quel Alito primordiale di Vita divina, che Dio inalò in Adamo, rendendolo essere vivente (Gen 2,7), sua immagine e somiglianza, partecipe della sua stessa Vita.

Paolo, conscio di tutto questo processo di salvezza nato dal Padre e operato nel suo Cristo con la potenza dello Spirito, processo che egli definisce di “riconciliazione”; conscio, altresì, che questo processo di salvezza o di riconciliazione può attuarsi soltanto con l'adesione esistenziale al Vangelo di Verità di ogni singolo uomo; consocio, infine, di essere stato investito da Dio stesso del “ministero della riconciliazione”, che è predicazione del Vangelo, conscio di tutto questo, Paolo esorta i Corinti con l'autorità apostolica e ministeriale che gli viene da Dio stesso, sapendo che Dio stesso opera ed esorta ogni uomo in lui, essendone egli ambasciatore (5,20): “per Cristo (vi) supplichiamo: riconciliate(vi) con Dio”. In altri termini qui Paolo invita caldamente i Corinti a non dare più ascolto ai superapostoli, che sono dei falsi operai fraudolenti e di non accogliere quel loro vangelo inficiato dalla Legge mosaica, ma di dare ascolto a lui, ministro della riconciliazione: “riconciliatevi con Dio”, cioè abbandonate quel falso vangelo ed abbracciate, conformandovi esistenzialmente ad esso, quello che lui ha predicato. Un Vangelo che gli proviene direttamente da Gesù Cristo stesso (Gal 1,11-12).

Paolo, multiforme ministro della riconciliazione divina in ogni circostanza (6,1-10)

Testo a lettura facilitata

Ripresa di 5,20 rafforzato da una citazione scritturistica (6,1-2)

6,1- Ora, cooperando (con Dio) vi esortiamo anche affinché non riceviate invano la grazia di Dio;
2- dice, infatti: “Al tempo opportuno gradito ti ho ascoltato e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” (Is 49,8a). Ecco, ora, il tempo opportuno bene accetto; ecco, ora, il giorno della salvezza.

Paolo, impeccabile modello di ministro della riconciliazione (6,3)

3- Non dando (noi) a nessuno nessuna offesa, affinché il (nostro) ministero non sia biasimato,

Le circostanze sfavorevoli in cui egli opera con il suo ministero (6,4-5)

4- ma in ogni cosa presentando (noi) stessi come ministri di Dio, con molta pazienza ne(lle) sofferenze, ne(lle) angustie, ne(lle) ristrettezze,
5- nelle battiture, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle insonnie, nei digiuni,

Le modalità con cui Paolo svolge il suo ministero in ogni contesto (6,6-7a)

6- con purità, con saggezza, con magnanimità, con dolcezza, con spirito santo, con amore sincero,
7a- con parola di verità, con potenza di Dio;

I molteplici e contrastanti contesti in cui Paolo opera come ministro (6,7b-10)

7b- per mezzo delle armi della giustizia da destra e da sinistra,
8- per mezzo della gloria e del disprezzo, per mezzo dell'ingiuria e del buon augurio; (ritenuti) come ciarlatani e (invece siamo) veritieri,
9- come sconosciuti e (invece) conosciuti; come coloro che sono morti, ed ecco, viviamo; come puniti e non moribondi,
10- come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma rendendo ricchi molti, come coloro che non hanno niente e, invece, possediamo tutto.

Commento ai vv. 6,1-10

Ripresa di 5,20 rafforzato da una citazione scritturistica (6,1-2)

I vv.6,1-2 riprendono e portano a conclusione la sferzante esortazione, che si radica nella coscienza di Paolo, quella di essere ministro e ambasciatore di Cristo: “per Cristo (vi) supplichiamo: riconciliate(vi) con Dio”. Un'esortazione che qui viene rafforzata da un richiamo scritturistico, tratto dalla LXX e mutuato da Is 49,8a , dove si parla di “tempo opportuno” e di “giorno della salvezza”. Un tempo, dunque, finalizzato alla salvezza, che Paolo vede realizzarsi qui, ora: “Ecco, ora”, spingendo in tal modo i Corinti ad una scelta radicale tra lui e i suoi avversari giudaizzanti, tra il suo Vangelo, appreso per visione da Cristo stesso (Gal 1,11-12), e il loro vangelo, inficiato dal mosaismo. Un Vangelo, che egli predica in qualità di ministro della riconciliazione, prolungando in tal modo questo tempo della salvezza, iniziatosi in e con Cristo e che interpella in ogni istante, personalmente, ogni uomo, spingendolo, suo malgrado, ad operare una continua scelta esistenziale.

Paolo, impeccabile modello di ministro (6,3)

Un ministero che Paolo sa non di non essersi dato da solo, né di averlo ricevuto da una qualche autorità ecclesiastica, ma direttamente da Dio (1,1; Gal 1,1.15) e che concepisce come un servizio esclusivo a Cristo e al suo Vangelo, che pone sempre davanti a tutto e al di sopra di tutto e per il quale egli, quale buon servitore di Cristo e del suo Vangelo, sacrifica se stesso, le proprie esigenze, anche quelle più legittime, quali l'avere una donna che lo accudisca (1Cor 9,5) o l'essere mantenuto dalla comunità alla quale annuncia il Vangelo (1Cor 9,4.12a.13-14). Ma a tutto questo Paolo ha rinunciato per non creare intralci al Vangelo o in qualche modo adombrarlo (1Cor 9,12b.15). Ed è proprio per questo che egli mantiene anche un rapporto corretto con i credenti, senza sfruttarli o angariarli, senza in alcun modo offenderli, poiché essi sono il terreno sul quale egli è chiamato da Dio a seminare la Parola del suo Cristo. Comportamenti strafottenti e soverchianti che, invece, approfittando della loro posizione e della loro titolatura, tengono i suoi avversari nei confronti dei Corinti (11,20) e che egli definisce falsi apostoli e operai fraudolenti (11,13). Un male che doveva essere diffuso all'epoca, se anche l'autore di 1Pt 5,2-3 è costretto intervenire in tal senso.

Niente di tutto questo da parte di Paolo, che si sente padre e madre nei confronti dei Corinti (1Cor 4,15), anzi, egli, si è fatto libero da tutto e da tutti proprio per servire in libertà, cioè con onestà e correttezza Cristo nel suo Vangelo, nella coscienza che servendo i Corinti egli sta servendo Cristo e in lui Dio stesso. (1Cor 9,19).

Le circostanze sfavorevoli in cui egli opera con il suo ministero (6,4-5)

Ed è proprio questa continua difesa di se stesso e del suo ministero di riconciliazione, che in qualche modo richiama qui quanto già detto, in modo molto più polemico e di sfida, nella sua lettera scritta “tra molte lacrime”, là dove attesta: “Sono ministri di Cristo? Dico vaneggiando, io ben di più” (11,23a), facendo seguire a questa spavalda attestazione, a mo' di dimostrazione, tutte le sofferenze e le peripezie che l'esercizio del suo ministero gli aveva procurato e continua a procurargli. Un elenco lungo ben sei interminabili versetti (11,23b-28).

Paolo riprende, ora, quella pericope e con toni molto più pacati e riflessivi fa una sorta di auto analisi introspettiva, di esame di coscienza riguardante lo svolgersi del suo ministero non solo a completamento di quanto già aveva detto in 11,23-28, ma altresì a conferma di quanto ha dichiarato qui sopra, al v. 6,3, dove egli attesta di non aver mai arrecato offesa alcuna a nessuno, affermando implicitamente la sua massima correttezza nello svolgere il suo ministero. E lo fa prendendo in esame tre aspetti dello svolgersi del suo ministero: le circostanze sfavorevoli in cui egli opera il suo ministero (6,4-5); le modalità con cui egli lo svolge (6,6-7) e, infine, i molteplici e contrastanti contesti in cui egli opera come ministro (6,8-10).

Il primo gruppo (6,4-5) si richiama qui a quel elenco di 11,23b-28, in modo molto più soft e molto più sintetico, quasi a non voler mettersi nuovamente in mostra od offendere il senso estetico dei Corinti (6,4-5), incentrando, invece, la loro attenzione su quel doppio comune denominatore che associa tutte le sofferenze patite per Cristo e il suo Vangelo: il presentare con coraggio e fermezza la sua identità, non da tutti accettata e da molti contestata, di “ministro di Dio”, con tutta quella carica di autorità ed autorevolezza che a questa titolatura si accompagnava; il secondo aspetto, la forza che lo ha sorretto in tutte queste tribolazioni, causategli dall'esercizio del suo ministero: la pazienza con cui esercita il suo ministero, che, come dice la derivazione del termine stesso, da patior, porta con se una connaturata nota di sofferenza e di resilienza nel contempo (Rm 5,3). Il verbo, infatti, significa “tollerare, sopportare, resistere, patire, subire”; mentre il termine “resilienza”, termine tecnico che indica la capacità di un determinato materiale di assorbire un urto senza rompersi, mutuato dalla psicologia, dice la capacità di una persona di saper resistere agli shock e di saperne assorbire i colpi, uscendone rafforzata psicologicamente e moralmente.

Una pazienza, la cui fecondità, Paolo avrà modo di elogiare in Rm 5,3, attestando che egli si vanta delle sofferenze, perché da queste, sopportate, viene generata la pazienza e da questa si genera, a sua volta, una “provata virtù”, cioè una grande forza psicologica, morale e spirituale, che rende forte e perseverante il credente nel suo difficile cammino di fede e di fedeltà a Cristo e al suo Vangelo.

Le modalità con cui egli opera il suo ministero in ogni contesto (6,6-7a)

Il secondo elenco di titoli descrive sinteticamente le modalità con cui egli svolge il suo ministero. Ma più che questo egli sembra voler qui elencare quelle virtù che dovrebbero guidare gli autentici apostoli e ministri di Cristo. Una sorta di vademecum, di parametro di raffronto, che egli fornisce ai Corinti, perché sappiano, con questo, valutare il comportamento dei suoi avversari e riconoscere il vero apostolo, totalmente votato a Cristo e che sa mettere il Vangelo di Cristo al di sopra di ogni proprio personale interesse ed esigenza, annunciandolo senza alcuna doppiezza di linguaggio e di intenti, cioè con purezza d'animo e somministrando la Parola con magnanimità e senza risparmio di energie, amando i suoi interlocutori con lo stesso amore con cui Cristo ama ogni uomo. Un amore che è delineato dalla totale apertura di sé all'altro; dalla totale donazione di sé all'altro, fino all'abnegazione di se stessi, per fare spazio in sé ad una piena accoglienza dell'altro.

I molteplici e contrastanti contesti in cui Paolo opera come ministro (6,7b-10)

Il terzo elenco delinea i diversi contesti in cui Paolo svolge il suo ministero; contesti che sono caratterizzati da situazioni contrastanti e contrapposte per indicare la pluralità e la totalità delle situazioni in cui egli viene a trovarsi, ma a causa delle quali egli non soccombe mai. Uno stato di cose che già in qualche modo aveva accennato in 4,8-9 con quel persistente “ma non” che si contrapponeva vincente a situazioni difficili, gravose e pericolose che travolgevano Paolo, “ma non” lo affondavano mai.

Un ministero che egli svolge “per mezzo delle armi della giustizia da destra e da sinistra”. L'espressione è metaforica, dove “da destra e da sinistra” fa riferimento all'armamento militare dell'epoca, che vedeva il soldato combattente tenere con la sinistra l'arma difensiva dello scudo e con la destra l'arma offensiva della spada. Immagini militari che richiamano il combattimento che il credente e, qui, in particolar modo l'apostolo, devono affrontare quotidianamente per resistere o vincere tutti quegli ostacoli che si frappongono sul loro cammino di fede in e verso Cristo. Immagini che ricorrono anche in 1Ts 5,8 e in Ef 6,14.17, dove la spada simboleggia nel linguaggio biblico neotestamentario la Parola di Dio39, mentre la corazza come lo scudo, armi difensive, la fede. Immagini queste che probabilmente sono state mutuate Sap 5,17-19, dove vengono riferite a Dio e alla sua giustizia. Armi che qui Paolo legge come “della giustizia”, cioè quelle armi di cui è rivestito il credente e in particolar modo deve indossare l'apostolo, quali la fede e la Parola di Dio, con le quali è chiamato a testimoniare e a diffondere la “giustizia divina”, che è offerta di salvezza per tutti.

Un ministero quello di Paolo, come quello di molti altri apostoli e predicatori del vangelo, che subiva degli alti e bassi, vivendo momenti di successo e di fallimenti, di gloria e di disprezzo, dove ingiuria ed elogio si alternavano a seconda delle situazioni. Situazioni che vanno a colpire personalmente Paolo, considerato un ciarlatano, come nel caso in cui tentò di predicare il Risorto ad Atene (At 17,16-34), ma la cosa finì in un sonoro fallimento, deriso e compatito da tutti (At 17,18a.32). Situazioni contrastanti che lo vedono come soccombente, mentre egli è il vincitore; apostolo sconosciuto o non riconosciuto presso gli uomini, ma ben conosciuto presso Dio, di cui è apostolo, ministro e suo ambasciatore; un ministero che gli ha procurato non pochi problemi di fustigazioni, di imprigionamenti, di condanne, ma mai perduto; dato ormai per spacciato, ma in realtà egli continua a sopravvivere ad ogni avversità; sempre lieto pur nell'afflizione; ritenuto come un povero straccione fanatico dalla presenza meschina, ma che ha sempre reso spiritualmente ricco chi ha saputo ascoltarlo; come un nullatenente, mentre, possedendo Cristo e il suo Vangelo, possedeva tutto.

Un ministero disseminato da tante sofferenze e da numerosi pericoli estremi, ma ripieno della luce di Dio, che è brillata fino a noi con le sue Lettere, meraviglioso e stupendo dono di Dio alla sua Chiesa.

Postscritto 13,11-13

Testo

11- Quanto al resto, fratelli, state allegri, correggete(vi), confortate(vi), pensate allo stesso modo, vivete in pace, e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi.
12- Salutate(vi) gli uni e gli altri con (il) bacio santo. Vi salutano tutti i santi.
13- La grazia del Signore Gesù Cristo e l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo (sia) con tutti voi.


Note generali

Al termine di questa originaria seconda lettera ai Corinti, come in tutte le sue lettere, Paolo conclude con un postscritto, con il quale ammannisce le ultime raccomandazioni, porge i suoi saluti, ai quali associa anche quelli dei “santi”, cioè dei credenti facenti parte della comunità da cui egli scrive la lettera, in questo caso quella di Filippi. Un segno questo di fratellanza e di comunione in Cristo. Il tutto si conclude con una sorta di benedizione, a tre membri, in cui compare il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e dove forte è l'intonazione liturgica e cultuale.

Un postscritto che da 13,11-13 ho qui ricollocato soltanto perché con 6,10 sembra terminare l'originaria 2Cor e, quindi, necessariamente la fine della lettera richiede, come ogni lettera, il suo postscritto, che il redattore finale della canonica 2Cor deve, sua volta, aver prelevato dall'originaria 2Cor e posto a conclusione della sua rielaborazione finale, quella di una lettera composta da più scritti, prodottisi tutti tra il 55 e il 56 d.C. e riguardanti il medesimo tema: i problemi insorti tra la comunità di Corinto e Paolo.

Un postscritto, come vedremo subito, che lascia perplessi per i suoi contenuti e per il suo aggancio alla lettera, che sembra tronco e posticcio, la quale cosa fa sorgere dei dubbi anche sull'originalità del poscritto stesso.

Si presenta, infatti, in modo stereotipato nella sua formulazione, così da potersi adattare a qualsiasi lettera neotestamentaria, mancando qui di un qualsivoglia aggancio personalizzante con la lettera fin qui scritta, così che sembra di poter dire che questo postscritto sia stato composto o rielaborato e riadattato dal redattore finale di questa canonica 2Cor, mentre quello originario sia andato perduto.

Tutto il suo modo di fraseggiare, infatti, è generico. Si pensi al v.13,11 che qui, in questa seconda lettera ai Corinti, sia essa canonica che originaria, stona con quel suo “state allegri”, quasi a dire di continuare ad essere lieti, mentre ben si sa dagli scritti e dai toni duri e minacciosi che Paolo usa nei confronti della comunità, che tanta letizia e tanta allegria non c'erano in essa, con la quale stava per rompere e che solo grazie alle abilità diplomatiche di Tito, capace mediatore, ciò non è accaduto. Così il preoccuparsi in questa situazione disgraziata, in cui si stava per consumare un'apostasia, di esortare a correggersi e a confortarsi vicendevolmente, esortazione che non ha senso perché dagli scritti paolini riguardanti questa comunità non sembra che ci siano persecuzioni in atto o situazioni tali da doversi sorreggere e confortarsi reciprocamente. L'unico riferimento che potrebbe agganciarsi alla comunità corintea è quel “pensate allo stesso modo e vivete in pace” con allusione alle divisioni interne alla comunità affrontate con 1Cor, anche se una simile esortazione potrebbe adattarsi bene a qualsiasi altra comunità, dove sicuramente ci sono sempre problemi nei rapporti tra i diversi membri che la compongono.

Quel concludere, poi, in modo così sacrale, celebrativo e cultuale con formule così solenni, dall'intonazione liturgica (13,11b.13) non sembra adattarsi bene ad una lettera che si qualifica esclusivamente come una raccolta di scritti a difesa personale e del proprio ministero apostolico contro avversari giudaizzanti e nei confronti di una comunità, che stava per consumare la propria apostasia, rigettando Paolo e il suo Vangelo a favore di predicatori giudaizzanti.

Va detto, infine, come questo postscritto non sembra una conclusione che in qualche modo si agganci alla lettera, ma dà l'idea di essere appiccicato lì per concludere la lettera, ma nulla ha a che vedere con essa, come qui sopra argomentato.

Per questo insieme di motivi non sembra che questo postscritto possa dirsi di Paolo, anche se il redattore finale sembra conoscerne bene il linguaggio. Ma qualora lo fosse, è difficile in questo insieme di scritti saper dove collocarlo, poiché non c'è nessuno scritto, qui raccolto nella canonica 2Cor, cui associarlo. Il miglior candidato ad accoglierlo è probabilmente quello che ho definito come il “Biglietto accompagnatorio l'originaria Seconda Lettera ai Corinti e suo preambolo”, che costituisce anche la Sezione delle consolazioni (1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11).

Pur nella sua brevità, questo poscritto è scandito in tre parti, riprendendo lo schema caratteristico dei postscritti: a) Ultime raccomandazioni (13,11); b) i saluti (13,12) e in genere la bene augurante formula di benedizione finale (13,13).

Commento ai vv. 13,11-13

Il v.11 si apre con una formula quasi di rito, che ritroviamo identica in Fil 3,1 e 4,8: “LoipÒn, ¢delfo…” (Loipón, adelfoí, quanto al resto, fratelli), dove con quel “quanto al resto” si intende tutto ciò che non è stato trattato nella lettera presente, tracciando su questo “resto” le linee generali di comportamento: essere sempre lieti nel Signore, confortarsi vicendevolmente nelle avversità, che di certo non mancavano a motivo della nuova fede; l'esortazione all'unità nel modo di pensare e di comprendere le cose, evitando inutili discussioni e divisioni, creando malumori all'interno della comunità.

L'elenco viene qui concluso con una promessa dai toni liturgici: “e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi”, dove la congiunzione “e” (kaˆ, kaì), agganciandosi a quanto precede, vede nella formula benedicente la ricompensa di un comportamento cristianamente assennato, cioè conforme a quanto esortato.

Interessanti sono qui gli appellativi attribuiti a Dio, quale “Dio dell'amore e della pace”, due parametri su cui la comunità è invitata a misurarsi e a costruire la propria unità, dove l'amore che l'amalgama favorisce una comunione di vita non soltanto tra i membri, ma in e con questi anche con Dio, che nell'amore garantisce la sua presenza benedicente e le donerà la sua pace, che è riconciliazione dell'uomo con se stesso e con Dio.

L'uso del verbo al futuro dice la ricompensa che accompagnerà sempre la comunità, se così si comporta, secondo l'esortazione qui impartita.

Dalle ultime raccomandazioni del v.11 si passa ora con il v.12 ad esortare al reciproco saluto con il bacio santo, in uso presso le liturgie cristiane. Un'espressione quest'ultima che si ritrova quattro volte in altrettante lettere di Paolo (Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26) e una quinta volta in 1Pt 5,14 con la variante “bacio della carità”. Espressioni queste che si riferiscono all'uso liturgico all'interno delle comunità cristiane ed era espressione di comunione e di carità tra i suoi membri.

Segue la annotazione generica, quasi di prassi, dei saluti da parte di tutti i santi: “Vi salutano tutti i santi”, cioè dei membri della comunità credente da dove Paolo stava scrivendo questa 2Cor, quella di Filippi. Un appellativo quello di “santi” che veniva assegnato a tutti i credenti in quanto che, a motivo della loro fede e del battesimo, sono stati resi partecipi della Vita di Dio, che è il Santo per eccellenza e fonte di ogni santità. Con il termine santo, pertanto, veniva evidenziata la figliolanza divina e l'apparenza alla famiglia di Dio. L'autore di Ef 2,19 ricorderà proprio questo aspetto, per indicare l'intima comunione del credente con Dio: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”; mentre Gv 1,12-13 attesterà la dinamica di questa santità, colta come generazione divina: “A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

Il postscritto termina con un saluto ed un augurio benedicente, che costituisce una delle più antiche formule di fede a tre membri, la più completa e che denota una nuova comprensione di Dio rispetto a quella di Israele. Un Dio che qui è Padre, Figlio e Spirito Santo (v.13), sul quale fonda la fede della comunità credente.

Ogni membro trinitario è portatore di un suo dono specifico alla comunità: il Figlio, qui colto nella sua Signoria post pasquale e riconosciuto quale Cristo, cioè l'Unto di Dio, nella persona del Figlio Incarnato, Gesù, è portatore della “grazia”, quale dono della Vita stessa di Dio in lui offerta all'intera umanità, cui aderisce e partecipa per fede e per battesimo; tutto ciò è atto misericordioso, che si fa dono di amore di Dio, con cui nel N.T. si allude al Padre, il quale ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la Vita eterna, che è Vita stessa di Dio (Gv 3,16), consentendo all'intera umanità e alla stessa creazione di entrare nuovamente in quel ciclo vitale di comunione divina, sancito dallo Spirito di Dio e significata in quella Luce divina primordiale (Gen 1.3), in cui erano state collocate nei loro primordi.


D) Biglietto che preannuncia l'imminente visita di Paolo alla comunità,

la terza, quella risolutiva (13,1-10+6,14-7,1)



Testo a lettura facilitata

I progetti di Paolo per la sua terza visita (13,1-2)

13,1- Questa (è) la terza volta che vengo da voi. Sulla bocca di due testimoni, anche tre, sarà stabilita ogni cosa.

2- (L')ho preannunciato e (lo) dichiaro (ora), come (quando ero) presente la seconda e assente ora, a coloro che hanno peccato prima e a tutti gli altri, che, allorché verrò, non userò riguardo (a nessuno),

La forza e l'autorità di Paolo fonda sul Cristo morto e risorto (13,3-4)

3- poiché cercate una prova che in me parla Cristo, che non è debole verso di voi, ma è potente in voi.
4- E infatti fu crocifisso a causa della (sua) debolezza, ma vive a causa della potenza di Dio. Infatti anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui a causa della potenza di Dio per voi.

Paolo invita i Corinti a provare, invece, la loro fede (13,5-6)

5- Provate (voi) stessi se siete nella fede, mettete(vi) alla prova (voi) stessi; o non conoscete (voi) stessi che Gesù Cristo è in voi? Se non siete riprovevoli.
6- Ma spero che (voi) riconosciate che noi non siamo riprovevoli.

Paolo prega per i Corinti e non per se stesso (13,7-10)

7- Rivolgiamo una preghiera a Dio affinché voi non facciate alcun male, non affinché noi appariamo buoni, ma affinché voi facciate il bene (e) noi come fossimo riprovevoli.
8- Infatti non possiamo (fare) qualcosa contro la verità, ma a favore della verità.
9- Ci rallegriamo, infatti, quando noi siamo deboli, ma voi siete forti; preghiamo anche per questo, la vostra perfezione.
10- Per questo (vi) scrivo, assente, queste cose, affinché, presente, non (vi) tratti duramente secondo l'autorità, che il Signore mi ha dato per l'edificazione e non per la distruzione.

Conclusione esortativa (6,14-7,1)

6,14- Non siate di quelli che si uniscono con un altro giogo con gli infedeli; quale comunanza (c'è), infatti, tra la giustizia e l'iniquità; o quale comunione tra luce e tenebre?
15- Quale accordo tra Cristo e Beliar; o quale compartecipazione tra un fedele e un infedele?
16- Quale conformità (tra il) tempio di Dio con (quello degli) idoli? Noi siamo il tempio d(el) Dio vivente, così come disse Dio:
“abiterò tra di loro e camminerò (tra di loro) e sarò il loro Dio e loro saranno il mio popolo.
17- Perciò uscite di mezzo a loro e separate(vi da loro), dice il Signore, e non toccate (l')impuro e io vi accoglierò
18- e sarò per voi un Padre e voi sarete per me dei figli e delle figlie, dice il Signore onnipotente”.

7,1- Avendo, pertanto, queste promesse, (miei) amati, purifichiamoci dal sudiciume (della) carne e (dello) spirito, compiendo la (nostra) santificazione nel timore di Dio.


Note generali

Contesto storico

Paolo, dopo aver scritto la “lettera tra molte lacrime” (10,1-12,21) ed averla consegnata a Tito, suo fedele compagno ed abile negoziatore, con l'implicito incarico di convincere i Corinti a tornare a lui; e dopo aver ricevuto ottime notizie da parte sua sulla situazione della comunità, ritornatagli favorevole; nonché dopo aver scritto l'originaria seconda lettera ai Corinti (1,1-2+2,14-6,10+13,11-13), accompagnata da un biglietto (1,3-11+2,12-13+7,5-16+1,12-2,11), che è un'esplosione di gioia e di ringraziamento a Dio per le ottime e consolanti notizie ricevute da Tito sui ristabiliti rapporti tra lui e la sua comunità, Paolo si decide finalmente a compiere la terza visita alla comunità, visita che desiderava fare (12,4), ma sulla quale incombevano molte incognite e molti dubbi, che provocavano in lui ansie, titubanze, timori e tormenti interiori, così da doverla rimandare a tempi migliori, se mai ce ne fossero stati (12,19-21). Ora, invece, grazie alle ottime notizie ricevute da Tito, ripresi coraggio e fiducia, decide di ritornare per la terza volta a Corinto, per rimettere le cose a posto e fare piazza pulita di tutti i sobillatori e agitatori, che magari aspiravano, liberatisi di Paolo, di ottenere un posto di riguardo nella comunità e sostituirlo nella guida.

Annotazioni

La sezione 13,1-10, benché tradizionalmente associata alla lettera scritta “tra molte lacrime”, si presenta, a mio avviso, come un'unità letteraria a se stante. Vi è, infatti, un inizio tematico ben definito (13,1-2) e un finale, che lo riprende, tirandone le conclusioni (13,10). L'intera sezione, poi, è tematicamente coerente con la conclusione.

Si tratta, quindi, di un biglietto a se stante, che preannuncia la terza visita di Paolo ai Corinti e il programma che egli intende svolgere in essa. Infatti, mentre in 12,14 presenta la sua intenzione di compiere questa terza visita, ma esprime i suoi timori per una possibile reciproca delusione (12,20) e di subire un'ulteriore umiliazione da parte dei Corinti, come già era avvenuto nella seconda visita (12,21a), vedendosi costretto ad un richiamo generale contro i loro comportamenti (12,21), qui, al v.13,1 appare, invece, un Paolo risoluto, sicuro di sé e determinato a compiere la terza visita con lo specifico programma di mettere sotto processo i responsabili della ribellione (13,1), mettendovi fine, richiamandosi a quello che aveva già preannunciato in 12,21b: “L'ho preannunciato e lo dichiaro ora” (13,2), dove tra il preannunciare “prima” e il dichiarare “ora” stabilisce due tempi diversi: il “prima” fa riferimento a quanto detto in 12,21b, da dove qui mutua la stessa espressione “hanno peccato prima e tutti gli altri” (12,21b; 13,2b), determinato anche qui a punire senza più alcuna remora o ripensamento quelli che “hanno peccato prima e tutti gli altri”.

Un biglietto questo che va collocato in termini temporali probabilmente subito dopo l'originaria Seconda lettera ai Corinti, chiudendo in tal modo il cerchio della crisi intervenuta tra Paolo e la sua comunità.

A questo biglietto ho aggiunto, a mo' di conclusione esortativa, che ne rafforza il senso, anche la pericope 6,14-7,1, estrapolandola dalla sua sede originaria canonica, posta tra i capp.6.7 e facente parte della più ampia sezione 6,11-7,4, che, a sua volta, non si integrava con il contesto dei capp.6.7. La sezione 6,11-7,4, infatti, è composta da due parti: la prima, formata dai vv.6,11-13+7,2-4, costituisce un'esortazione rivolta ai Corinti perché aprano il loro cuore a Paolo, che a sua volta lo dilata a loro e li accoglie con grande amore, funge da introduzione esortativa alla lettera “scritta tra molte lacrime”. Questa prima parte, infatti, forma un blocco unico, poiché 6,11-13 si aggancia con 7,2-4 sia letterariamente che tematicamente; mentre la seconda parte, formata dai vv.6,14-7,1 è incuneata nella prima parte, ma non lega in alcun modo con questa né letterariamente né tematicamente. Questa seconda parte, tuttavia, funge bene da conclusione esortativa al biglietto, che preannuncia la terza visita di Paolo, così che questo biglietto risulta composto dai vv.13,1-10+6,14-7,1.


Commento ai vv.13,1-10+6,14-7,1

I progetti di Paolo per la sua terza visita (13,1-2)

Tutte le titubanze e le remore presenti in 12,14 e in 12,20-21, riguardanti le intenzioni di Paolo per una sua terza visita presso i Corinti, così come il suo linguaggio mite e incerto, quasi remissivo di quei versetti, qui in 13,1-2 sono completamente scomparsi. L'arditezza e la determinazione aggressiva con cui si apre questo biglietto, che preannuncia non tanto l'intenzione di venire per la terza volta, come in 12,14, in cui si dichiara “pronto a venire da voi”, quanto la decisione, divenuta ormai un dato di fatto (“Questa è la terza volta che vengo da voi”), dicono che qui siamo in un contesto completamente diverso, dove si presenta un Paolo determinato a fare chiarezza e pulizia generale su base testimoniale, richiamandosi qui liberamente all'autorità di Dt 19,15: “Sulla bocca di due testimoni, anche tre, sarà stabilita ogni cosa.”.

Se, dunque, qui si parla di testimoni e di una volontà determinata a rimettere le cose a posto senza guarda in faccia nessuno, si parla da parte di Paolo di aprire un'inchiesta su quanto è accaduto e di instaurare anche un tribunale interno alla comunità per rilevare obiettivamente le colpe e punire, probabilmente con una scomunica o con pubblica ammenda seguita da un periodo penitenziale pubblico, i colpevoli, restituendo in tal modo alla comunità quella tranquillità e serenità di cui abbisogna per vivere pacificamente la propria fede.

Il tono di 13,2 si fa minaccioso rivolgendosi “a coloro che hanno peccato prima e a tutti gli altri”, mettendoli in guardia fin d'ora, richiamandosi qui probabilmente a quanto aveva già detto in 12,20: “temo che vi siano presso di voi contesa, invidia, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini”.

Questi, dunque, i programmi, tutt'altro che pacifici e accomodanti di Paolo, per la sua terza visita presso la comunità.

La forza e l'autorità di Paolo fonda sul Cristo morto e risorto (13,3-4)

La fermezza e l'autorevolezza con cui Paolo decreta i contenuti della sua terza visita nella comunità di Corinto, prospettandovi un duro intervento, probabilmente ha fatto sorgere dei dubbi o delle critiche sulla sua autorità, con cui si pone nei confronti della comunità; o più semplicemente e verosimilmente, chi si sentiva coinvolto nelle minacce di Paolo deve aver cominciato a porre in dubbio la sua autorità, chiedendo da dove questa gli venisse o con quale diritto egli decidesse della sorte di alcuni membri della comunità. Chi, dunque, gli dà tanta autorità? Quale prova egli porta del suo essere apostolo e ministro di Cristo, come egli sostiene di essere? Interrogativi che probabilmente non erano sorti soltanto in questa occasione, ma ancor prima, allorché gli avversari di Paolo fomentavano la comunità, mettendo in dubbio la sua autorità, a riprova della quale essi chiedevano titoli, lettere di presentazione o di raccomandazioni, insomma, delle prove che attestassero quello che egli andava vantando: di essere apostolo di Cristo e suo ministro.

Da qui i vv.13,3-4, che denunciano l'atteggiamento dei Corinti, che cercavano di capire se veramente Paolo fosse apostolo e ministro di Cristo e ne esercitasse effettivamente l'autorità, chiedendone una prova, un'attestazione di quanto egli andava affermando e pretendendo.

La prova che Paolo offre loro è cristologica e si regge sul contrastante binomio debolezza-forza di Cristo, che nella sua crocifissione mostrò tutta la sua debolezza, ma nella risurrezione manifestò la potenza di Dio. Ed è proprio questa debolezza-potenza che ha operato in Cristo, che, ora, opera in Paolo, che come Cristo mostra tutta la fragilità della sua persona, quella stessa fragilità che i suoi avversari e gli stessi Corinti gli hanno contestato, quale prova contro il suo essere apostolo; ma nel contempo la sua è una fragilità dalla quale non solo non è mai stato travolto (4,8-11; 6,9), ma proprio in essa opera la potenza di Cristo (12,9-10), al quale è stato crocifisso e vive nel contempo la potenza della sua risurrezione. Ed è proprio questo Cristo debole e forte nel contempo verso di loro e in mezzo a loro, che essi sperimenteranno ora in Paolo.


Paolo invita i Corinti a provare, invece, la loro fede (13,5-6)

Se con i vv.13,3-4 Paolo ha dimostrato cristologicamente la sua autorità apostolica, che esercita nel suo ministero in nome e per conto di Cristo, di cui egli è ambasciatore (5,20), ora, egli passa al contrattacco e chiede ai Corinti di farsi loro un'esame di coscienza, per accertare se ancora hanno fede, se ancora credono in quel Cristo che vive in mezzo a loro, proprio a motivo della loro fede e del loro battesimo, o se, invece, proprio in questo sono diventati riprovevoli, scoprendo così che, in realtà, questa loro fede che gli era stata elargita con la predicazione del suo Vangelo è andata perduta a causa dei suo avversari giudaizzanti. Tuttavia, Paolo spera che essi riconoscano in lui il Cristo debole-forte, crocifisso-risorto, che vive nella sua debolezza a cui non soccombe mai e riconoscano che egli non mente e che non gli si può imputare nulla in tal senso.

Paolo prega per i Corinti e non per se stesso (13,7-10)

Ed è proprio per questo, perché i Corinti rientrino in loro stessi e ritornino saggi, ricostituendo i loro rapporti con Paolo e in e con Paolo anche in e con Cristo, che egli prega per loro. Una preghiera che punta ad ottenere non tanto che i Corinti si convincano della rettitudine e della sincerità di Paolo, ma affinché si sappiano riscattare da quel male profondo in cui sono caduti, lasciando il Vangelo di Paolo per quello dei giudaizzanti. Non gli importa neanche che lo ritengano contestabile e riprovevole, a dimostrazione di quanto Paolo tenga alla salute e alla salvezza spirituale dei suoi Corinti, pronto per loro anche a sacrificare se stesso, purché essi ritornino al suo Vangelo e a Cristo.

Paolo, infatti, ha sempre operato a favore della Verità del Vangelo e non contro di essa, e a riprova di ciò attesta che non gli importa niente della sua debolezza o se anche lo rifiutano, purché Cristo continui a vivere in loro, aderendo essi al suo Vangelo, giungendo così alla perfezione cristiana, alla piena maturità in Cristo.

Il v.10 si auspica che queste sue parole facciano riflettere e ritornare in loro stessi i Corinti, così che, quando arriverà, non abbia a mettere in atto quelle minacce che ha paventato in apertura di questo biglietto (13,1-2), poiché il suo ministero apostolico, insignitogli da Cristo stesso, gli è stato dato per edificare e non per distruggere, per salvare e non per condannare, nel rispetto della logica della storia della salvezza, per cui “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,17-18). E su questa logica si muove anche Paolo.

Conclusione esortativa (6,14-7,1)

Ed è da questo suo grande desiderio, che i Corinti ritornino a Cristo in purezza e sincerità di cuore, che sgorga questa sua esortazione finale: “Non siate di quelli che si uniscono con un altro giogo con gli infedeli”. L'esortazione viene qui mutuata da Dt 22,10, dove si proibisce di mettere sotto lo stesso giogo un un bue e un asino, due animali di due razze diverse. La metafora è evidente: i Corinti, già richiamati in 12,20b per il loro comportamento disdicevole, devono evitare, diremmo noi, di stare con un piede su due staffe, poiché non c'è nessuna comunanza tra loro e gli infedeli.

Il senso di questo divieto di comunanza viene ora meglio dettagliato da cinque binomi, che mettono in rilievo l'incompatibilità di convivenza tra ciò che i Corinti sono adesso e ciò che erano; tra il mondo dello Spirito, in cui ora vivono, e quello della carne, da dove provengono.

Si tratta di un'associazione di termini tra loro contrapposti da dove rileva l'incompatibilità tra “giustizia e iniquità”, “luce e tenebre”, “Cristo e Beliar”, “fedele e infedele”, “tempio di Dio e tempio degli idoli”. Al centro di questi cinque binomi, in cui riecheggia il linguaggio caratteristico di Qumran, ci sta quello di “Cristo e Beliar”, dove convergono e si originano i contrapposti e che costituiscono i punti di riferimento e di scelta che i Corinti hanno davanti: Cristo, cui Paolo associa la giustizia, la luce, la fedeltà e il tempio di Dio; Beliar, dall'ebraico “beliyyaʻal”, che letteralmente significa “ciò che non vale niente o che non ha valore” e, quindi, una contrapposizione tra Cristo e il nulla, cui fanno, invece, riferimento l'iniquità, le tenebre, l'infedeltà e il luogo dove si adora il nulla (1Cor 8,4): il tempio degli idoli.

Ogni binomio, poi, è accompagnato da termini che sono sinonimi, ma che approfondiscono le varie sfaccettature di quel “giogo”, di quello stare con un piede su due staffe, che i Corinti devono evitare, tracciando così il percorso di un cammino che dalla “comunanza” porta, poi, alla “comunione”; la comunione crea l' “accordo”, cioè il consenso; questo spinge alla “compartecipazione”, cioè alla condivisione, che a sua volta, con l'andar del tempo, crea “conformità” del proprio vivere con ciò che è contrario o favorevole a Cristo o a Beliar. Non si può più, quindi, servire due padroni, perché o si odierà l'uno e si amerà l'altro, o si preferirà l'uno e si disprezzerà l'altro: non si può servire Dio e mammona contemporaneamente (Mt 6,24; Lc 16,13), serve una scelta esistenziale radicale, tenendo presente che chi non è con Cristo è contro di lui (Mt 12,30; Lc 11,23).

Una mescolanza di vita divenuta ormai incompatibile con il nuovo stato di vita, cui sono stati generati i Corinti in virtù della loro fede e del loro battesimo, con i quali sono stati cristificati, cioè profondamente associati a Cristo, in modo quasi osmotico, così che Paolo esclamerà in Gal 2,20a: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.

L'elenco termina significativamente con il richiamo al tempio, che funge da parola aggancio alla citazione scritturistica seguente, circoscritta dai vv.16b-18. In realtà una miscellanea di riferimenti scritturistici, più o meno liberamente riportati da Paolo40, che definiscono la nuova condizione esistenziale dei Corinti e della loro comunità credente, di cui sono pietre vive; pietre che unite alla Pietra angolare, che è Cristo, formano il nuovo tempio di Dio, dove Egli dimora in mezzo agli uomini, trasformando la loro vita in un atto di culto, di lode e di ringraziamento a Dio (Rm 12,1). Un'immagine questa che richiama da vicino 1Pt 2,4.5: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo”.

Vi è, quindi, una netta e sostanziale incompatibilità tra loro, i fedeli, divenuti Tempio vivo di Dio, in cui si celebra cultualmente la loro vita, e gli infedeli, frequentatori dei templi degli idoli, adoratori del nulla (1Cor 8,4). Un'immagine quest'ultima che si richiama in qualche modo all'abitudine di alcuni Corinti, quella di frequentare liberamente le mense dei templi pagani e di consumarne le carni sacrificate agli idoli, dando grave scandalo per i più deboli nella fede. Benché questa consuetudine non offenda la fede, tuttavia un simile comportamento è reso incompatibile con il nuovo stato di vita, così che Paolo richiamerà duramente questi fedeli così disinvolti nel loro comportamento: ”Che cosa dunque intendo dire? Che la carne immolata agli idoli è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa? No, ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demoni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni” (1Cor 10,19-21). Questione questa, che Paolo aveva già ampiamente trattato in 1Cor 8,1-10,33.

Vi è, quindi, una sostanziale incompatibilità tra il prima e il dopo, tale da non poter permettere neppure una sorta di comunanza e, tantomeno, di convivenza, sia pur queste occasionali o di convenienza sociale, poiché il credente è divenuto tutt'altra realtà nuova in Cristo e si posiziona in una dimensione diametralmente opposta a quella di origine, con la quale nulla ha più da condividere.

Una posizione che Paolo supporta con prova scritturistica, che è scandita in tre momenti, che si sviluppano secondo una logica progressiva: dapprima (v.6,16b) vi è l'attestazione di una profonda condivisione comunionale, quasi osmotica, tra la vita del credente e quella di Dio, espressa dai verbi abitare con loro, camminare con loro; poi dal verbo essere, che qui dice l'appartenenza dell'uno all'altro e viceversa, quasi a farne “una carne sola”, in cui riecheggia il tema, caro ai profeti41, quello dello sposalizio tra Jhwh e Israele; da questa appartenenza a Dio ne consegue la separazione da tutto ciò che non appartiene a Dio e gli è contrario (6,17). Una separazione che dice consacrazione e riecheggia in se stessa, ancor prima, una elezione, sottesa dall'amore e dalla fedeltà di Dio verso il suo popolo: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli, siete infatti il più piccolo di tutti i popoli, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri” (Dt 7,6-8a); per giungere, infine (6,18) all'attestazione di paternità e figliolanza che lega il credente a Dio, da cui è stato in qualche modo generato per mezzo dello Spirito e in cui Dio riconosce nuovamente la sua primordiale immagine e la sua somiglianza e che richiama da vicino Gv 1,12-13: “A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

Va rilevato, infine, come tutti i verbi dei vv.16b.18 sono posti al futuro indicativo, per indicare come il nuovo stato di vita, che si esprime nella comunione di vita con Dio e nel rapporto filiale con Lui, sarà duraturo, benché non ancora in modo definitivo, ma lo è alle condizioni stabilite dal v.17, qui posto centralmente tra i vv.16b.18, per indicarne l'importanza, la conditio sine qua non, e dove i verbi sono tutti al presente indicativo, per dire come la scelta di separarsi dalla vita precedente, tralasciando ogni impurità ed ogni promiscuità con questa, deve essere operata subito, qui e ora. Un versetto il 17 che in qualche modo si richiama a 1Cor 5,9 “Vi ho scritto nella lettera precedente di non mescolarvi con gli impudichi”.

Il v.7,1 porta a conclusione questa esortazione finale (6,14-18), traendone le conclusioni: “Avendo, pertanto, queste promesse, (miei) amati, purifichiamoci dal sudiciume (della) carne e (dello) spirito, compiendo la (nostra) santificazione nel timore di Dio”.

Benché le realtà delineate dalle citazioni della pericope vv.16b-18 siano spiritualmente esistenti, tuttavia, il credente vive ancora provvisoriamente in esse e costituiscono per lui solo una promessa, che si attua soltanto nella definitiva eternità di Dio. Esse, tuttavia, sono per lui la sua guida esistenziale, che lo spingono a conformarsi esistenzialmente ad esse, così che la promessa delle realtà future possa irrevocabilmente trasformarsi in realtà definitive. In tal senso Eb 4,1 avverte: “Dobbiamo dunque temere che, mentre ancora rimane in vigore la promessa di entrare nel suo riposo, qualcuno di voi ne sia giudicato escluso”. E il motivo di tale esclusione è la fede venuta meno (Eb 3,19; 4,2).

Nessuno, quindi, può dirsi definitivamente salvo finché non lo è per davvero, anche se è da tener presente che la partita della nostra salvezza ce la giochiamo qui, ora, e non nell'aldilà, dove i giochi sono già fatti e dove vengono consolidati definitivamente i risultati di tale partita.

Per questo Paolo, rivolgendosi amorevolmente ai suoi Corinti, con quel “¢gaphto…” (agapetoí, miei amati) molto intenso, quasi viscerale, li esorta già fin d'ora a purificarsi dal sudiciume della carne e dello spirito, dove “carne e spirito” non vanno qui compresi in termini di contrapposizione, ma di complementarietà della persona umana, colta nella sua totalità. Una purificazione, quindi, che deve coinvolgere interamente e totalmente ogni singolo credente, ad ogni livello, non soltanto astenendosi dalle impurità della frequentazione delle mense dei templi pagani o dal continuare a vivere alla maniera pagana in mezzo a fornicazioni, adulteri o incesti, ma altresì va purificata anche la mente, che deve trovare la sua rigenerazione e la sua riconfigurazione nel Risorto, che deve diventare la nuova forma mentis del credente, che consente di vedere le cose dalla prospettiva di Dio e non più degli idoli, generati dalle fantasie corrotte dell'uomo decaduto.

Una purificazione, che, in altri termini, significa spogliarsi dell'uomo vecchio, per poter accedere alla vita nuova nello Spirito, inaugurata dal Risorto (Rm 6,3-8). In tal modo “compiendo la (nostra) santificazione nel timore di Dio”, dove per “santificazione” ha da intendersi quel processo di assimilazione del credente alla Vita stessa di Dio, che è il Santo per eccellenza e fonte di ogni santità e che avviene nella misura in cui il credente si spoglia esistenzialmente dell'uomo vecchio.

Purificazione e santificazione costituiscono anche queste un binomio, che va letto alla luce della Pasqua, dove la morte all'uomo vecchio funge da preambolo all'essere nuova creatura in Cristo. Purificazione-santificazione, pertanto, formano il binomio che scandiscono il vivere credente, coinvolgendolo nella dinamica pasquale di morte-vita, trasformandolo in un vivere pasquale, dove la morte all'uomo vecchio si rinnova quotidianamente per lasciare spazio alla vita nuova in Cristo. Realtà queste che formano il dinamismo del vivere credente nell'attesa della venuta del suo Signore.


E)   LA COLLETTA
      (Capp. 8-9)

   



Note generali

Il contesto storico

Nell'ambito del suo secondo viaggio a Gerusalemme (Gal 2,1)42, in occasione di quello che viene definito come il primo concilio della storia della chiesa, quello di Gerusalemme nel 49 d.C., dove venne dibattuta la questione della circoncisione da imporre o meno anche agli etnocristiani (Gal 2,1-10; At 15,1), Paolo attesta in Gal 2,10 che i responsabili della chiesa madre di Gerusalemme non gli imposero nessun obbligo di circoncisione, ma “Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare”. Quindi una semplice quanto comprensibile richiesta di aiuto, motivata da una grave carestia che aveva colpito duramente e ripetutamente, tra il 46 e il 48 d.C., diverse parti dell'impero ai tempi dell'imperatore Claudio (41-54 d.C.) e di cui fa cenno anche At 11,27-30.

Una semplice richiesta di aiuto, dunque, che probabilmente veniva rivolta anche a tutti i credenti in grado di dare un contributo per i poveri delle chiese di Gerusalemme e della Palestina in genere. Ma per Paolo divenne motivo di un gravoso impegno che durò circa un decennio43 (49-60 d.C.), considerato che ne parla ancora in Rm 15,25-28.31, lettera questa che fu l'ultima da lui scritta intorno all'anno 58 d.C. da Corinto, dove si trovava dopo la pesante crisi che aveva investito i suoi rapporti con questa comunità.

Una semplice raccolta di fondi per un aiuto concreto ai poveri della chiesa di Gerusalemme, dunque, ma che Paolo enfatizzò in modo incredibile e divenne per lui una sorta di ossessione, parlandone più volte in diverse sue lettere (Rm 15,25-28.31; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10), creandovi attorno un contesto di sacralità e di santità, così che questa colletta divenne una “comunione” di beni, di credenti e di chiese (Rm 15,26); un “servizio” ai santi della chiesa madre di Gerusalemme, dalla quale defluì la fede e la salvezza per tutti (Rm 15,25.31; 2Cor 8,20; 9,1.12.13); “atto di benevolenza; o dono di grazia; o grazia di Dio” (1Cor 16,3; 2Cor 8,1.6.7.19); “offerta” (2Cor 9,5); “colletta” (1Cor 16,1); “abbondanza” (2Cor 8,20); “ministero di questa liturgia” (2Cor 9,12).

Non mancano, poi, riferimenti cristologici, posti a fondamento di questa colletta, come in 2Cor 8,9: “conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, allorché divenne povero per voi pur essendo ricco, affinché voi diventaste ricchi per la sua povertà”; o aspetti ecclesiologico-sociali come in 2Cor 8,13-15: “Infatti, non (si tratta che il) sollievo (vada) ad altri, (mentre) a voi (la) tribolazione, ma di uguaglianza; al momento presente la vostra abbondanza (è) la loro penuria, affinché la loro abbondanza diventi (la) vostra penuria, di modo che vi sia eguaglianza, come sta scritto: “Chi molto (aveva) non sovrabbondò, e chi (aveva) poco non venne meno”; o aspetti teologico-scritturistici come in 2Cor 9,7-9: “Ciascuno tiri fuori come il cuore (gli suggerisce), non con tristezza o con costrizione; Dio, infatti, ama il donatore lieto. Dio può sovrabbondare ogni grazia su di voi, affinché, avendo sempre in ogni cosa il sufficiente, abbondiate in ogni opera buona, come sta scritto: “Sparse, diede ai poveri, la sua giustizia rimane in eterno”.

Ma per quale motivo Paolo ha ingigantito così enormemente una semplice richiesta di aiuti da parte dei responsabili della chiesa di Gerusalemme, dandole una esagerata ridondanza, sicuramente inattesa anche da parte degli stessi richiedenti?

La questione è piuttosto complessa. Paolo aveva capito che tra la chiesa madre di Gerusalemme, di origine giudeocristiana con forti tendenze giudaizzanti, e lui vi erano due diverse e contrapposte visioni sia dell'evento Cristo che, di conseguenza, del cristianesimo. Per la prima vi fu una comprensione di Cristo e del suo Vangelo alla luce della Legge mosaica. In buona sostanza un cristianesimo fondato sulle regole della Torah, dove l'insegnamento di Cristo era colto soltanto come regole morali del buon vivere, e che vedeva nella circoncisione il segno esclusivo dell'appartenenza al popolo eletto, che consentiva l'accesso alle promesse e, quindi, alla salvezza. Da qui la necessità, per accedere alla salvezza portata da Cristo, di farsi circoncidere. Non ci si rese conto che in tal modo la novità dell'evento Cristo veniva annullata e la salvezza da lui portata inficiata, poiché la sua efficacia era subordinata alla Legge mosaica e alla sua osservanza e il cristianesimo ridotto ad una serie di regole morali da osservare.

Paolo aveva compreso il pericolo della vanificazione di Cristo e della sua azione salvifica insito nella giudaizzazione del cristianesimo, così che in Gal 5,1-4 lo attesterà in modo chiaro e durissimo, che suona sostanzialmente come un anatema: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia”. Più chiaro non poteva essere!

Circoncisione e regole che creavano una invalicabile barriera di divisione, di contrasto e di inimicizia tra il mondo giudaico e con questo con il giudeocristianesimo, che in esso si radicava e da questo proveniva, e il mondo pagano. Una barriera che l'autore di Ef 2,14b definisce come “muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia”, che è stato tolto di mezzo da Cristo sulla croce, che dei due popoli, quello giudaico e quello pagano, ha fatto un solo unico e nuovo popolo e tutti sono diventati un'unica nuova creatura in Cristo (Ef 2,10-16).

Ed è qui che si inserisce Paolo con la sua colletta, che egli vedeva come un'occasione, un'opportunità e uno strumento di ricongiunzione e di rappacificazione tra la giudaizzante chiesa madre di Gerusalemme, che tendeva ad escludere il mondo pagano dalla salvezza portata da Cristo, e le chiese etnocristiane fondate da Paolo; chiese formate da pagani convertiti, ma che la giudaizzante chiesa di Gerusalemme considerava pur sempre dei pagani, gente, quindi, impura da evitare, tant'è che proprio in questo concilio di Gerusalemme si erano definite le aree di interventi missionari: al giudeocristiano Pietro spettava il mondo giudaico; a Paolo, che per i giudei e i giudeocristiani aveva tradito il giudaismo, quello pagano (Gal 2,7), evitando così alla giudaizzante chiesa di Gerusalemme di contaminarsi, venendo a contatto con gli impuri pagani da convertire. Significativo in tal senso quanto l'evangelista giudeocristiano Matteo, probabilmente uno scriba, fa dire al suo Gesù: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15,14), escludendo in tal modo tutte le altre.

Pertanto, Paolo enfatizza la colletta vedendo in questa l'occasione per la ricongiunzione e la comunione tra le due chiese, quella giudaizzante e quella etnocristiana, poiché se la chiesa madre di Gerusalemme avesse accettato le offerte proveniente dalle chiese fondate da Paolo, formate prevalentemente se non esclusivamente di pagani convertiti, ciò significava non solo che i responsabili di Gerusalemme riconoscevano l'attività missionaria di Paolo e le chiese da lui fondate, ma anche queste chiese venivano accettate e accolte nell'alveo della chiesa madre di Gerusalemme, ricongiungendo e mettendo in comunione tra loro due mondi prima inconciliabili nonostante Cristo.

Questi, dunque, i fatti.

Annotazioni critiche ai capp. 8 e 9

Quanto ai capp.8-9, riguardanti il tema della colletta a favore della chiesa madre di Gerusalemme, questi non sembrano legarsi bene né tra loro, né con la Seconda Lettera ai Corinti, in cui un anonimo redattore li ha inseriti. Il cap.8, infatti, non è il proseguimento del cap.7, poiché i contesti sono radicalmente diversi, così come ben diversa è la figura di Tito, citata in 7,6-7.13b-15, dove compare quale consolazione divina da parte di Paolo; mentre in 8,6.16-18 Tito compare nel ruolo di solerte ed abile organizzatore della colletta e capo delegazione. Vi è una sorta di frattura tra i due capitoli. Il cap.8, pertanto non è in alcun modo legato al cap.7 e non lo è neppure letterariamente. Sarebbe bastata una semplice espressione aggancio del tipo “Quanto alla colletta” (Perˆ de tÁj loge…aj, Perì dè tês logheías), per accorpare il cap.8 alla Seconda Corinti e dare così continuità letteraria al cap.7. Un semplice escamotage letterario che Paolo, invece, usa in 1Cor 16,1, legando in tal modo il tema della colletta al resto della lettera, accorpandolo ad essa. Tra i capp. 7 e 8, invece, vi è soltanto una contiguità letteraria, ma non una continuità.

Il cap.9 si apre, invece, con l'espressione “Quanto al servizio verso i santi, infatti, mi è superfluo lo scrivervi”, dove quel “Quanto a, infatti” (Perˆ men g¦r, Perì men gàr) può costituire un aggancio logico all'originaria 2Cor, introducendo un cambio tematico, che si lega bene nelle logiche con quanto aveva già detto in 1Cor 16,1-4, per cui, qui, non intende ripetersi o prolungarsi sulla questione. Tuttavia, va considerato il contesto letterario e tematico in cui il cap.9 e così pure il cap.8 sono stati inseriti e con il quale nulla hanno a che vedere e che, di fatto, suonano come una stonatura. La canonica 2Cor, infatti, è composta, al di là dei capp.8-9 (la colletta), da due ampie sezioni riguardanti esclusivamente la crisi dei rapporti tra la comunità di Corinto e Paolo e l'autodifesa di Paolo circa la sua apostolicità e il suo Vangelo. Sezioni che si presentano molto aggressiva e polemica la prima (10-12) e molto più pacifica e tranquilla la seconda (2-7). Ora, in questo contesto di crisi di rapporti, che a gran fatica si cerca di rabberciare in qualche modo, non sembra opportuno inserire, sia pur debitamente motivata, una richiesta di soldi ad una comunità, quella di Corinto, che probabilmente, pur disponibile alla riconciliazione, non è ancora pienamente convinta in tal senso. In tal modo si rischierebbe di riaprire il conflitto e prestare il fianco agli avversari di Paolo o ai sobillatori all'interno della comunità stessa, considerati i rapporti non ancora definitivamente rappacificati, dando adito al sospetto che Paolo, fautore di questa colletta, potrebbe approfittarsi per interessi personali di questo piccolo tesoro, che sono i soldi della colletta, come sembra paventare lo stesso Paolo in 8,18-21.

Quanto, poi, ai due capp.8 e 9, questi non vanno letti in sequenza, come se il cap.9 fosse il seguito del cap.8. Vi è, infatti, una palese contraddizione tra 8,1-5, dove le chiese della Macedonia sono presentate quale esempio stimolante per quelle dell'Acaia; mentre in 9,2 sembra essere l'Acaia esempio d'incitamento per la Macedonia. Così il modo di aprirsi del cap.9,1 sembra ignorare completamente il cap.8, creando uno stacco netto con quest'ultimo. Entrambi i capp.8 e 9, pertanto, non solo sono stato scritti successivamente alla Seconda ai Corinti, ma anche in modo successivo e disgiunto tra loro, benché il cap.9 richiami in qualche modo il cap.8, ma di certo non fanno parte della Seconda Lettera ai Corinti, nella quale costituirebbero una stonatura tematica e letteraria e certamente testimonierebbero una scarsa avvedutezza in tema di gestione di una crisi che non è ancora definitivamente risolta e i rapporti definitivamente consolidati.

Tuttavia i capp.8.9 sono entrambi indirizzati ai Corinti, considerato il fatto che il redattore finale li ha inseriti entrambi nella canonica 2Cor, avendone probabilmente trovato i testi nella stessa comunità e considerato altresì che in essi si parla di Macedonia esempio per l'Acaia (8,1-2) e viceversa (9,1-3), regione quest'ultima dove è situata Corinto e le chiese locali a questa facenti capo; e viceversa in 9,2, dove è l'Acaia esempio per la Macedonia. Di queste due regioni specifiche, circa la colletta, Paolo ne parlerà anche in Rm 15,25-27, scritta da Corinto tra il 57e il 58 d.C., dove soggiornava dopo la grave crisi dei rapporti con i Corinti.

Quando questi due capitoli siano stati scritti è difficile dirlo. Certamente devono essere stati scritti in tempi successivi sia ai capp.10-12, che contengono la lettera scritta tra molte lacrime, molto aggressiva e polemica; sia ai capp.2-7, che contengono l'originaria 2Cor, perché è difficile pensare che in questo contesto di tensioni e di grave crisi di rapporti tra la comunità e Paolo, che stavano per rompersi definitivamente, Paolo battesse cassa presso i Corinti. Erano ben altri i problemi in quel momento.

Il periodo della crisi è da collocarsi intorno agli anni 55-56 d.C., subito dopo la canonica 1Cor, scritta tra il 53 e il 54 d.C da Efeso. È da pensare che questi due capitoli, che probabilmente costituivano due biglietti a se stanti, siano stati scritti dopo la lettera ai Romani, scritta a Corinto tra il 57 e il 58 d.C. Questi dovevano essere stati scritti tra il 58 e il 59 d.C. per sollecitare e rimotivare una colletta che, a motivo del conflitto tra Paolo e la sua comunità, si era arenata. Da dove siano stati scritti mi è difficile dirlo, anche ipotizzando, per cui lascio ai posteri e agli studiosi meglio attrezzati di me l'ardua sentenza.



Cap.8: il primo biglietto per sollecitare la colletta (vv.1-15)

e presentarne i collaboratori (vv.16-24)


Testo a lettura facilitata

Paolo scuote il torpore dei Corinti con l'esempio delle chiese della Macedonia (vv.1-7)

1- Vi rendiamo noto, fratelli, la grazia di Dio data alle chiese della Macedonia,
2- poiché ne(lla) grande prova della tribolazione l'abbondanza della loro gioia e la loro grande povertà sovrabbondarono nella ricchezza della loro generosità;
3- poiché, (ne) do testimonianza, secondo (la loro) possibilità ed (anche) oltre la (loro) possibilità (furono) volontari,
4- chiedendoci con grande supplica la grazia e la partecipazione del servizio che (è) per i santi,
5- e non come sperammo offrirono se stessi prima al Signore e (poi) a noi per mezzo della volontà di Dio,
6- cosi che noi pregammo Tito affinché come già iniziò così anche portasse a termina presso di voi anche questa grazia.
7- Ma come in tutto sovrabbondate: (nella) fede e (nella) parola e (nella) conoscenza in ogni sollecitudine e nell'amore, (che) da noi (è passato) a voi, affinché sovrabbondiate in questa grazia.

Paolo sollecita i Corinti con l'esempio di Cristo (vv.8-15)

8- Non parlo come chi dà un ordine, ma con la sollecitudine degli altri, mettendo anche alla prova la sincerità del vostro amore;
9- conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, allorché divenne povero per voi pur essendo ricco, affinché voi diventaste ricchi per la sua povertà.
10- E su questo vi do un consiglio: poiché questo giova a voi, i quali, già dallo scorso anno, cominciaste per primi non solo a far(la), ma anche a voler(la);
11- ma, ora, anche portate a termine l'opera, come appunto (vi fu) la prontezza d'animo del volere, così anche (vi sia, ora) il portare a termine secondo il (vostro) avere.
12- Se, infatti, è presente la buona volontà, secondo ciò che (uno) ha, (questa è) bene accetta, non secondo (ciò che uno) non ha.
13- Infatti, non (si tratta che il) sollievo (vada) ad altri, (mentre) a voi (la) tribolazione, ma di uguaglianza;
14- al momento presente la vostra abbondanza (è) la loro penuria, affinché la loro abbondanza diventi (la) vostra penuria, di modo che vi sia eguaglianza,
15- come sta scritto: “Chi molto (aveva) non sovrabbondò, e chi (aveva) poco non venne meno”.

La presentazione dei delegati alla colletta (vv.16-24)

16- Ma grazie a Dio, che dà la medesima sollecitudine per voi nel cuore di Tito,
17- perché accolse (la nostra) esortazione, cominciando (subito) molto zelante e volontario venne da voi.
18- Con lui abbiamo inviato il fratello la cui lode (è) nel Vangelo per tutte le chiese,
19- ma non solo, ma anche (fu) scelto dalle chiese (quale) nostro compagno di viaggio con questa grazia, da noi servita per la gloria dello [stesso] Signore e per (dimostrare) il nostro impegno,
20- temendo questo, che qualcuno ci biasimi per questa abbondanza che è da noi amministrata;
21- Infatti ci diamo pensiero (di comportarci) bene non solo al cospetto (del) Signore, ma anche al cospetto (degli) uomini.
22- Abbiamo inviato con loro il nostro fratello, che spesso abbiamo sperimentato in molte (occasioni) (quanto) fosse zelante, ma ora (è) molto più zelante per la molta fiducia che (ha) in voi.
23- Quanto a Tito, (egli è) mio compagno e collaboratore per voi; quanto ai nostri fratelli, (essi sono) apostoli delle chiese, gloria di Cristo.
24- Pertanto mostrate a loro la prova del vostro amore e del nostro vanto per voi davanti alle chiese.


Note generali

Che questo sia il primo biglietto inviato da Paolo ai Corinti per sollecitare la colletta e presentarne i collaboratori, lo si arguisce non tanto dal fatto che il cap.8 viene prima del cap.9, ma perché 9,1-5 ne fa riferimento, riprendendolo e in particolar modo richiamando 8,10; ma si capisce anche come, proprio da 8,10 e 9,1-5, l'Acaia e il suo capoluogo Corinto fossero state di esempio e di stimolo per le chiese della Macedonia e probabilmente per molte altre chiese (9,2), perché i Corinti e le chiese dell'Acaia furono i primi a volerla e a iniziarla, costituendosi in tal modo esempio per tutti (v.10).

È da tenere presente questo particolare per comprendere la fine ironia che percorre quasi impercettibilmente l'intero cap.8, che è un pressante invito a riprendere in mano e a portare a termine la colletta che i Corinti avevano incominciato, ma poi abbandonato, probabilmente per la grave crisi sorta nei rapporti tra loro e Paolo, aggravata dai suoi avversari. Infatti Paolo sbatte quasi in faccia ai Corinti il fatto che loro, i quali sovrabbondano nella fede, nella parola, nella conoscenza e nell'amore (8,7); loro che sono stati i primi a volere questa colletta, spingendo altri ad imitarli con entusiasmo, e di tanto vanto e stima da parte di Paolo si erano adornati (v.24b), adesso si sono arenati.

Significativi in tal senso sono i vv.6.24. Il v.6, infatti, porta a conclusione inattesa tutto il panegirico che Paolo spende per la sollecitudine delle chiese della Macedonia, le quali sull'esempio di quelle dell'Acaia hanno implorato Paolo ad iniziare anche presso di loro la colletta per la chiesa madre di Gerusalemme. Ebbene, dice Paolo con il v.6, per evitare il predicare bene e il razzolare male, rivolgendosi improvvisamente ai Corinti, vi mando subito Tito a riprendere quella colletta che avete predicato ovunque dandone esempio, ma poi avete lasciato cadere, mettendo così alla prova la sincerità del vostro amore (v.8), così ostentato con il voler primeggiare in una colletta, che poi si è afflosciata, quasi certamente non solo a motivo del conflitto nei rapporti tra i Corinti e Paolo, come sì è detto, ma anche per le basse insinuazioni sussurrate contro di lui, che lo vedevano come un profittatore di tanto tesoro raccolto presso le loro chiese (v.20). E proprio per questo Paolo se ne tira fuori, delegando alla raccolta altre persone, Tito (6.16-17) e altri due stimatissimi collaboratori, ben visti anche da tutte le chiese (vv.18-19) e quindi una garanzia per lui.

Quanto al v.24, Paolo, dopo aver presentato i delegati, suoi collaboratori nella faccenda della colletta, sollecita i Corinti, quasi sfidandoli e costringendoli ad uscire dal loro guscio e a “dar prova” del loro amore e a difendere quella loro stima che Paolo aveva espresso davanti a tutti e in particolare davanti ai tre preposti alla colletta (v,22), lodandoli per la loro generosità.

Un biglietto finalizzato a sollecitare la colletta, ma il cui termine non compare mai. In sua sostituzione compaiono, invece, espressioni come “grazia di Dio” (v.1), “servizio per i santi” (v.4), “grazia” (vv.6.7), “opera” scaturita dall'amore e dalla buona volontà (v.11), mettendo in tal modo in rilievo la vera natura di questa raccolta di soldi, sottolineandone la liberalità secondo le capacità di ognuno (v.11b.12).

Ma Paolo non si limita ad evidenziare il significato di questa colletta, ma la motiva in triplice modo: cristologicamente (v.9) e sociologicamente, appellandosi alla giustizia e all'eguaglianza sociale, favorite dalla condivisione (vv.13-14), nonché scritturisticamente (v.15).

La macrostruttura del biglietto si suddivide in due sezioni: a) sollecito e motivazione della colletta (vv.1-15); b) presentazione dei delegati preposti alla raccolta dei fondi (vv.16-24).

La prima sezione (vv.1-15) si suddivide a sua volta in due pericopi: a) Paolo scuote il torpore dei Corinti con l'esempio delle chiese della Macedonia (vv.1-7); b) Paolo motiva i Corinti con l'esempio di Cristo (vv.8-15).

Commento ai vv.1-24

Paolo scuote il torpore dei Corinti con l'esempio delle chiese della Macedonia (vv.1-7)

Il biglietto (vv.1-24), destinato a scuotere i Corinti risvegliando in loro l'impegno della colletta, si apre con la pericope delimitata dai vv.1-7, con cui Paolo porta quale esempio le chiese della Macedonia. Ma l'esempio diventa per i Corinti un rimprovero bruciante, perché quelle chiese si erano attivate con grande entusiasmo per la colletta grazie all'entusiastica adesione proprio dei Corinti l'anno precedente (v.10b). Ma mentre le chiese della Macedonia sono riuscite a completare in breve tempo, nonostante le difficoltà e con grande merito, la colletta, quelle dell'Acaia, le quali fanno capo a Corinto, dopo una partenza effervescente si sono afflosciate, degenerando addirittura nel sospetto che Paolo si comportasse disonestamente, approfittando della colletta per interessi personali.

Le lodi sperticate date alle chiese della Macedonia, quindi, suonano come un duro richiamo e un duro rimprovero per quelle dell'Acaia.

Il biglietto. Infatti, si apre in modo sottilmente ironico con quel “Gnwr…zomen de Øm‹n” (Ghnorízomen de imîn, Vi rendiamo noto), quasi che i Corinti non lo sapessero, considerato che furono proprio loro, che, entusiasticamente e per primi (v.10b), avevano avviato la colletta per la chiesa madre di Gerusalemme, contagiando con la loro foga anche le chiese della Macedonia e non solo. Un rimprovero, quindi, che qui Paolo muove ai Corinti per la loro neghittosità e il loro mancato impegno a differenza della Macedonia.

Ciò che qui Paolo vuol rendere noto, a maggior detrimento dei Corinti, è il contesto sociale e politico in cui è avvenuta la colletta, che le chiese di Macedonia hanno accolto con fervore quale un dono che Dio ha fatto loro, dando loro l'opportunità di rendere un servizio ai santi, cioè ai credenti della chiesa madre di Gerusalemme, creando in tal modo un contesto di sacralità e di santità attorno a questa raccolta di fondi, avvenuta in un momento particolarmente difficile per quelle chiese, vessate da persecuzioni e dal loro stato di povertà. Ma tutto ciò non ha impedito loro uno slancio meritorio di grande generosità e di fervore spirituale, arricchendole spiritualmente.

E Paolo dà qui la sua testimonianza circa la loro entusiastica generosità, che li ha visti donare non solo secondo le loro possibilità, ma anche ben oltre a quanto egli stesso potesse sperare, considerato il loro stato di grave precarietà esistenziale, sfidando la loro stessa povertà (vv.3-5).

Anzi, di più ancora, perché nonostante le persecuzioni e la loro povertà, sull'esempio delle chiese dell'Acaia, avevano, come quelle, chiesto volontariamente e insistentemente di poter aderire a questa grazia di Dio, percepita come un arricchimento personale e un servizio che essi rendevano a Dio stesso nel “servire i santi”.

Il quadro che ne esce di queste chiese della Macedonia è grandioso e incentivante, ma è anche un potente rimprovero dato a vergogna dei Corinti, entusiastici fautori di questa colletta, ma, purtroppo per loro, fallita.

Le sperticate lodi alle chiese della Macedonia, divenute a loro volta chiaro esempio di generosità e di impegno per i loro stessi maestri decaduti, i Corinti, si chiudono con due sferzanti vv.6-7. Il v.6, infatti, si apre con un significativo “e„j tÕ” (eis tò, per questo, così che), che si riaggancia a quanto fin qui detto ai vv.1-5 riguardo alla Macedonia e portando a conclusione il loro esempio per i Corinti: “cosi che noi pregammo Tito affinché come già iniziò così anche portasse a termina presso di voi anche questa grazia”. Quindi, qui, Paolo passa dall'esempio della Macedonia alla conclusione che, ora, anche i Corinti devono darsi una mossa. E, detto fatto, li avverte che manda nuovamente da loro Tito per portare a termine quello che egli aveva iniziato presso di loro, non più una raccolta di fondi, ma una “grazia”, cioè un dono che Dio fa loro, aiutando così le chiese dell'Acaia a leggere in modo meno prosaico e malizioso (v.20) la colletta, cercando di evidenziarne il senso spirituale.

Paolo, tuttavia, si rende conto che la drastica conclusione del v.6 può aver offeso gli animi molto suscettibili dei Corinti e non era il caso, considerato che erano da non molto usciti da una grave crisi di rapporti con lui, così che all'energico v.6 aggiunge il v.7 che vuol essere comunque un sollecito meno duro, ma certamente non morbido, richiamando i Corinti alle loro eccellenze morali e spirituali, quali la fede, la parola, la loro particolare attenzione verso gli altri e il loro amore. Tutte qualità che Paolo ha trasmesso loro con il suo insegnamento e di cui essi hanno fatto tesoro. Ebbene, conclude ancora una volta Paolo, così come avete appreso bene quello che vi ho insegnato, continuate ad apprendere anche quello che vi ho detto per la colletta e portatela a compimento.

Paolo sollecita i Corinti con l'esempio di Cristo (vv.8-15)

Se la precedente pericope (vv.1-7) era caratterizzata dall'esempio delle chiese della Macedonia, che costituiva per quelle dell'Acaia un duro richiamo e un rimprovero, che doveva muovere i Corinti alla vergogna per la loro neghittosità, spingendoli alla generosità, questa seconda pericope si qualifica per la sua densa riflessione, che punta a motivare la generosità dei Corinti cristologicamente (v.9), socialmente (vv.13-14) e scritturisticamente (v.15).

Paolo si rende conto che questo biglietto si è aperto con toni ruvidi, dando l'idea di voler quasi imporre la colletta ai Corinti e quasi che sotto sotto ci fossero suoi interessi personali (v.20), così che egli, ora, precisa, quasi a volersi scusare, che non intende costringere nessuno, né tantomeno vuole impartire ordini alla comunità, ma ha voluto soltanto, sull'esempio delle chiese della Macedonia, spingere i Corinti ad una sorta di esame di coscienza per verificare la sincerità del loro amore (v.8), poiché tutto si fonda sull'amore, che trova in Cristo un forte esempio, che sollecita i Corinti a configurare se stessi su tale amore. Egli, infatti “divenne povero per voi pur essendo ricco, affinché voi diventaste ricchi per la sua povertà” (v.9). Un esempio che forma da preambolo ai vv.12-15 e che a Paolo deve essere venuto in mente, ripescandolo dalla sua stessa Lettera ai Filippesi, che aveva scritto da Efeso (54-55 d.C.) quasi contemporaneamente a questa 2Cor (55-56 d.C.), scritta da Filippi, richiamandosi qui, in qualche modo, a Fil 2,5-8, dove sollecita la comunità di Filippi a riprodurre in se stessa lo stesso modo di sentire che aveva quel Cristo Gesù, che svuotò se stesso della sua gloria divina, assumendo la condizione di servo, umiliando se stesso fino alla morte di croce per riscattare l'umanità dalla sua schiavitù del peccato, così che dalla sua umiliazione l'intera umanità venne esaltata, partecipando alla Vita divina, facendo così ricca l'umanità con la sua povertà.

Ed è proprio su questo schema cristologico di una povertà che arricchisce, che Paolo invita i Corinti a riflettere, solleticando il loro amor proprio, ricordando loro come proprio soltanto un anno fa avevano non soltanto incominciato per primi tra tutte le chiese a fare questa colletta, ma l'hanno fermamente voluta, quindi, proprio sull'esempio di Cristo, fattosi povero per arricchire con la sua povertà, e sul ricordo del loro iniziale entusiasmo spinge i Corinti a rinnovare con pari entusiasmo la volontà di portare ora a termine ciò che avevano a suo tempo intrapreso.

Il sollecito del v.11 si conclude con un'espressione. che funge da tema di approfondimento per la successiva pericope vv.12-15: la volontà di un tempo si traduca ora in una volontà di “portare a termine secondo il (vostro) avere”.

Con il v.12 Paolo stabilisce la misura entro cui deve giocare la buona volontà: non in modo eroico, dando anche ciò che non si ha, ma entro l'ambito della ragionevolezza del ciò che uno può permettersi secondo la propria disponibilità. Non si tratta, infatti, precisa con i vv.13-14, di arricchire gli altri impoverendo se stessi, poiché in tal modo non si è colmato il divario della giustizia sociale, poiché in tal caso ci sarà sempre uno che è diventato ricco, mentre un altro è diventato povero, donando i propri beni a chi era povero, ma va presa coscienza che l'abbondanza di beni da una parte costituisce la sofferenza della povertà dall'altra parte. Da qui la necessità di cedere una parte dei propri beni, impoverendosi del giusto, così che i beni ceduti vadano a colmare la povertà dell'altro, di modo che si arrivi ad una uguaglianza sociale, che è nel contempo anche una forma di giustizia.

Un pensiero questo che Paolo ha mutuato da Es 16,17-18, dove si parla della raccolta della manna nel deserto, che doveva essere pari ad un omer, circa 1,3 Kg, per ogni componente la famiglia, così che gli Israeliti “Ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l' omer: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo, colui che ne aveva preso di meno non ne mancava: avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne”. E qui l'omer è la misura che Paolo ha stabilito: quella del buon senso, su cui deve muoversi la buona volontà di dare ciascuno secondo le proprie capacità, adempiendo in tal modo anche la volontà di Dio, che così ha stabilito nelle Scritture.

La presentazione dei delegati alla colletta (vv.16-24)

La pericope vv.16-24 presenta i tre delegati destinati a gestire la colletta presso i Corinti, le loro credenziali e le motivazioni della loro scelta. Di questi tre soltanto uno viene citato per nome, Tito, gli altri due, nonostante la loro grande reputazione presso le chiese, rimangono anonimi. Sorge spontaneo, quindi, l'interrogativo: perché? Si possono azzardare alcune ipotesi. Tito viene citato perché probabilmente è capo delegazione e perché gode della fiducia incondizionata di Paolo, che lo definisce non solo “compagno”, ma altresì “collaboratore” e, quindi, il suo braccio destro, che condivide con lui le responsabilità e i gravami dell'apostolato. È lui, infatti, che, grazie alle sue abilità diplomatiche e di mediazione è riuscito a superare la grave crisi insorta tra Paolo e i Corinti e a ripristinare i rapporti tra loro; è lui che gli ha dato la lieta notizia della riconciliazione dei Corinti; lui ha incominciato la colletta presso i Corinti e, ora, è chiamato da Paolo a portarla a termine. Una stima che si evidenzia non solo dal fatto che il nome di Tito nel solo cap.8 ricorre ben tre volte e ben otto volte nella 2Cor, ma altresì dal fatto che Paolo gli dedica interamente un suo scritto, la Lettera a Tito, da cui emerge la sua fiducia in lui.

Quanto agli altri due anonimi membri della delegazione, il primo viene citato nella pericope vv.18-21. Si tratta di un personaggio molto stimato presso tutte le chiese e da queste scelto perché accompagnasse Paolo per la raccolta dei fondi, godendo, quindi, della massima fiducia da parte di tutte le chiese. Ed è proprio qui, a mio parere, il motivo del suo anonimato. Innanzitutto costui non è un compagno di apostolato di Paolo, né tantomeno un suo collaboratore, ma soltanto un “compagno di viaggio”, quindi del tutto occasionale, che gli è stato imposto dalle chiese esplicitamente per la questione della colletta, perché controllasse Paolo sulla corretta gestione dei fondi. Un sonoro atto di sfiducia, quindi, nei confronti di Paolo, che lo accetta, obtorto collo e suo malgrado, per evitare pettegolezzi, insinuazioni, maldicenze o, peggio ancora, calunnie nei suoi confronti (vv.20-21), considerato che i suoi rapporti con i Corinti, benché ripristinati, erano sempre tesi.

Una nota va spesa su questo “fratello la cui lode (è) nel Vangelo per tutte le chiese” (v.18). Si è cercato di identificare questo personaggio con qualche evangelista, in particolare con Luca, un greco-ellenista, come tutte le chiese fondate da Paolo e presenti nell'Asia minore. Un evangelista che ha a cuore, come Paolo, il mondo dei pagani, che vede nel suo vangelo di buon occhio ed oggetto della misericordia di Dio. Sennonché, quando Paolo parla di Vangelo certamente non intende quello scritto di Luca, poiché ai tempi in cui Paolo scrive questo biglietto e, comunque ai tempi della sua attività missionaria (49-60 d.C.) non vi era ancora un qualche vangelo scritto. Il primo fu quello di Marco, scritto tra il 65 e il 69 d.C. Quindi quel notevole apprezzamento per il Vangelo di questo tale, va inteso probabilmente come “predicazione del Vangelo”. Probabilmente costui un abile predicatore, molto noto nell'ambiente cristiano.

Il secondo anonimo delegato viene definito soltanto in modo generico come “fratello”, come tutti i credenti si definivano tra loro indistintamente. Di questo tale Paolo attesta soltanto riguardo al suo zelo, ma niente di più. Non dice che è un suo compagno di missione e tantomeno suo collaboratore. Un personaggio, quindi, che, seppur di modeste dimensioni, gode comunque della fiducia di Paolo, che, probabilmente per questi motivi, non ritiene di doverlo menzionare, togliendolo dall'anonimato, forse anche perché sconosciuto dai Corinti.

Entrambi i due anonimi delegati vengono da Paolo definiti genericamente come “nostri fratelli”, ma anche “apostoli” (v.23b), quindi personaggi che dovevano ricoprire una certa responsabilità all'interno delle comunità credenti, benché non sia ben definita tale figura nell'epoca post pasquale presso le comunità. Probabilmente erano predicatori del Vangelo inviati dalle comunità per la diffusione della fede con incarichi anche di fondare nuove comunità credenti, di cui divenivano responsabili o quanto meno loro punto di riferimento; oppure inviati speciali, rappresentanti di comunità presso altre comunità credenti, con incarichi o poteri occasionali.

Comunità credenti che qui Paolo, al v.23, definisce già con il nome proprio di “chiese”, colte come “gloria di Cristo”, cioè assemblee di credenti, questo il significato del termine greco di chiesa, che si sono raccolte sotto il nome di Cristo nell'unica fede nell'unico Cristo, celebrandone il nome non solo con l'annuncio della Parola, ma altresì con l'annuncio della Parola incarnata nella loro vita, quali testimonianza di una Vita nuova, che non solo viveva in loro, ma che era giunta anche in mezzo agli uomini, rendendo così gloria a Cristo e in lui a Dio, cioè trasformando la loro vita in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio; una vita in cui quotidianamente veniva celebrato il culto a Dio, conformandosi esistenzialmente alla sua Parola (Rm 12,1-2); una Parola che ha rigenerato le loro vite alla Vita stessa di Dio (1Pt 1,23), da loro portata e incarnata in mezzo agli uomini.

Il v.16 apre la presentazione dei tre delegati alla colletta con il nome di Tito, riprendendo e portando a compimento quanto già detto al v.6. Tito, quale compagno e collaboratore di Paolo presso i Corinti (v.23), era già stato incaricato da Paolo di aprire la raccolta fondi per la chiesa madre di Gerusalemme, quindi personaggio già noto, anche per altri incarichi ricoperti, presso la comunità di Corinto, che, quindi, ben lo conosceva e stimava. Colletta che, poi, naufragò a motivo della grave crisi insorta nei rapporti tra Paolo e i Corinti, ma che già doveva essere stata iniziata ai tempi della 1Cor (53-54 d.C.), visto che in 16,1-4 Paolo parla delle modalità della sua raccolta, rimandando alle regole date alle chiese della Galazia.

Tito viene qui definito, oltre che compagno e collaboratore di Paolo (v.23), come colui che ha verso i Corinti la medesima sollecitudine e la stessa cura non solo di Paolo, ma altresì di Dio stesso, che qui Paolo ringrazia per aver infuso in Tito la “medesima sollecitudine”. Tanta era la stima di quest'uomo presso Paolo, personaggio non facile con cui collaborare e convivervi.

Il biglietto termina con l'esortazione e ammonizione di Paolo ai Corinti (v.24), dapprima con il dare prova ai tre delegati del loro amore, che mette in gioco, testimoniandola concretamente, la loro capacità di saper donare e saper donarsi; esortazione quest'ultima che, a mo' di sfida, aveva già lanciato ai Corinti, sostanzialmente identica, al v.8a; poi ricordando ai Corinti che egli ha speso non poche parole di lode per loro, esponendosi così personalmente davanti a tutte le chiese nonché davanti agli stessi delegati e, quindi, cercando di evitare, con la loro tirchieria o scarsa collaborazione, di farlo sfigurare. Tema quest'ultimo che verrà ripreso da 9,4.



Cap.9:  il secondo biglietto per la colletta:

sollecito alla generosità e nuove motivazioni



Testo a lettura facilitata

Paolo sollecita le chiese dell'Acaia a non sfigurare con quelle della Macedonia (vv.1-5)

1- Quanto al servizio verso i santi, infatti, mi è superfluo lo scrivervi.
2- Conosco, infatti, la vostra buona volontà, per la quale mi vanto di voi (presso) i Macedoni, (dicendo) che l'Acaia si è preparata dallo scorso anno, e il vostro zelo ha stimolato molti.
3- Vi ho mandato i fratelli, affinché il nostro vanto verso di voi non sia svuotato in questa parte, affinché come dicevo siate preparati,
4- affinché qualora venissero con me i Macedoni e vi trovassero impreparati (e) noi veniamo svergognati, per non dire anche voi, in questo argomento.
5- Pertanto ho ritenuto necessario pregare i fratelli affinché venissero da voi prima e preparassero prima la vostra preannunciata offerta, così da essere questa pronta come (una vera) offerta e non come una taccagneria.

Il donare con generosità, come suggerisce il cuore, verrà ricompensato da Dio (vv.6-11)

6- Questo, dunque: chi semina con parsimonia, con parsimonia anche raccoglierà; e chi semina in abbondanza, in abbondanza raccoglierà.
7- Ciascuno tiri fuori come il cuore (gli suggerisce), non con tristezza o con costrizione; Dio, infatti, ama il donatore lieto.
8- Dio può sovrabbondare ogni grazia su di voi, affinché, avendo sempre in ogni cosa il sufficiente, abbondiate in ogni opera buona,
9- come sta scritto: “Sparse, diede ai poveri, la sua giustizia rimane in eterno”.
10- Ora, chi somministra il seme al seminatore e il pane per mangiare provvederà e moltiplicherà il vostro seme e aumenterà il raccolto della vostra giustizia.
11- Arricchendo(vi) in tutto per ogni generosità, la quale opera per mezzo nostro un rendimento di grazie a Dio;

Colletta e generosità, atti di culto graditi a Dio (vv.12-15)

12- poiché il ministero di questa liturgia non solo supplisce le penurie dei santi, ma anche sovrabbonda per mezzo dei molti rendimenti di grazie a Dio.
13- Per mezzo della prova di questo servizio, (essi) glorificano Dio per la vostra sottomissione all'adesione al vangelo di Cristo e per la generosità della (vostra) comunione verso di loro e verso tutti.
14- E per la loro preghiera per voi, (dimostrano di) desiderarvi vivamente, a motivo della sovrabbondante grazia di Dio (che è) in voi.
15- Grazie a Dio per il suo ineffabile dono.


Note generali

A distanza di breve tempo, forse soltanto qualche mese dal primo biglietto, quello del cap.8, Paolo scrive un secondo biglietto, questo del cap.9. La motivazione la si può arguire dal contesto generale di questo nuovo biglietto, che insiste molto, se non esclusivamente, sulla generosità delle offerte, che sembrano stentare, e quando ci sono, sono striminzite. Sollecita, infatti, che l'offerta sia una vera e propria offerta e non una taccagneria (v.5b), così da sfigurare nei confronti delle chiese della Macedonia (v.4), che, invece, si sono mostrate non solo entusiaste dell'iniziativa a favore della chiesa madre di Gerusalemme, ma altresì molto generose oltre ogni speranza (8,3-5).

Il sollecito alla generosità, poi, prosegue motivato teologicamente e scritturisticamente (vv.6-11), spingendo a vedere sia nell'offerta che nella generosità un atto di culto gradito a Dio, una sorta di celebrazione liturgica di rendimento di grazie a Dio per “l'ineffabile dono” della colletta (v.15); un ministero i cui ministri sono gli stessi Corinti (vv.12-15).

A rafforzare il sollecito alla generosità soccorrono anche qui due citazioni scritturistiche, liberamente tratte dal Libro dei proverbi (v.6) e dai Salmi (v.9).

Anche qui non viene mai citato il termine colletta, ma in sua sostituzione compaiono nuove espressioni finalizzate a dare un nuova e più approfondita lettura e comprensione di questa stentata raccolta fondi. Così che ricompare l'espressione “servizio verso i santi” (vv.1.13a), “offerta” (v.5), “raccolto della vostra giustizia” (v.10b), dove il raccolto sta per “colletta”, mentre la giustizia riguarda la generosità con cui si è affrontato il raccolto, ma richiama nel contempo anche il tema dell'uguaglianza sociale trattato in 8,13-15; “ministero di questa liturgia” (v.12a), cioè un servizio sacro, con cui si esprime il modo generoso con cui si raccoglie la colletta; una generosità che costituisce anche un “rendimento di grazie” (v.12b); “generosità della vostra comunione” (v.13b), cioè una colletta generosa, che costituisce un segno vivo e concreto di comunione tra chiese, ciò che più sta a cuore a Paolo, nella speranza che anche la chiesa madre di Gerusalemme lo capisca.

Un biglietto (cap.9), si è detto sopra, che è stato scritto a breve distanza dal primo (cap.8). Lo si arguisce dal fatto che sia in questo biglietto (9,2b) che in quello precedente (8,10) si parla dello ”scorso anno” con riferimento al medesimo evento: l'entusiastico inizio della colletta da parte delle chiese dell'Acaia. La medesima tempistica (un anno) richiamata nei due biglietti dice che entrambi sono stati scritti a breve distanza di tempo l'uno dall'altro, probabilmente dietro segnalazione di Tito e degli altri due anonimi delegati alla colletta (8,16.23; 18-19; 22), qui richiamati in 9,3a.5a, a motivo della scarsa raccolta, che non riusciva a decollare nel modo voluto e sperato da Paolo e dai suoi collaboratori.

Quanto alla macrostruttura di questo cap.9, propongo la seguente tripartita:

  1. Paolo sollecita le chiese dell'Acaia a non sfigurare con quelle della Macedonia (vv.1-5);

  2. Il donare con generosità, come suggerisce il cuore, verrà ricompensato da Dio (vv.6-11);

  3. Colletta e generosità, atti di culto graditi a Dio (vv.12-15).


Commento ai vv.1-15


Paolo sollecita le chiese dell'Acaia a non sfigurare con quelle della Macedonia (vv.1-5)

Paolo apre questo secondo biglietto, indirizzato ai Corinti e a tutte le chiese dell'Acaia (1,1), sullo stesso schema del primo biglietto (8,1-5), ma qui capovolto. Infatti, se il primo biglietto si apriva presentando le chiese della Macedonia, quale esempio di entusiastica e volontaria iniziativa di una colletta, mostratasi generosa al di là di ogni aspettativa (8,3.5), sospinte dall'iniziale esempio di quelle dell'Acaia, alle quali egli aveva successivamente inviato Tito (8,6) e altri due delegati (8,18.22) per sollecitare la stagnante colletta, che si era arenata, probabilmente per i conflitti che erano sorti tra i Corinti e Paolo, qui, in questo secondo biglietto, Paolo, invece, sprona i Corinti alla generosità, ricordando la loro antica magnanimità, richiamandosi allo “scorso anno” (8,10; 9,2), epoca in cui i Corinti avevano spontaneamente ed entusiasticamente dato inizio alla colletta, trascinando con loro le chiese della Macedonia (8,10; 9,2).

Il biglietto doveva far parte di una altro scritto, poiché inizia qui con l'espressione “Perˆ men” (Perì men, quanto a), caratteristica questa di Paolo, quando all'interno di uno scritto, che tratta di un determinato argomento, ne vuole aggiungere un altro con diversa tematica. Esempi in tal senso si hanno in 1Cor 7,1.25; 8,1; 12,1; 16,1.

Il tema che qui Paolo vuole affrontare è il “servizio ai santi”, cioè la colletta. Espressione questa che già aveva usato per la prima volta in 8,4, riagganciandosi pertanto a quanto già aveva detto nel suo primo biglietto, per questo non intende ora ripetersi (v.1). Preferisce, invece, richiamarsi in qualche modo a 8,7, dove sottolineando le qualità morali e spirituali in cui eccellevano i Corinti, si augurava anche che eccellessero in generosità “in questa grazia”, cioè nella colletta, lasciando intuire fin da subito il tema, nota dolente, di questo secondo biglietto: la loro scadente generosità. Ed è per questo che qui (9,2), come là (8,7), si richiama alle qualità morali dei Corinti, qui quelle della loro “buona volontà” e del loro “zelo” nella raccolta fondi, che furono da Paolo portate ad esempio e a stimolo per molte chiese, in particolar modo per quelle della Macedonia, la quale seppe dare oltremodo generosamente, senza risparmiarsi (8,2). È interessante notare come qui in 9,2 e là in 8,7 Paolo sappia usare la leva delle qualità dei credenti più che il rimprovero delle loro mancanze per stimolarli al bene, benché il richiamo non manchi all'occorrenza. In ciascuna persona c'è del bene ed è su questo che va puntato, perché il bene in quella persona si espanda e prevalga su tutto.

Paolo, dunque, si era esposto presso le chiese della Macedonia, portando ad esempio quelle dell'Acaia e vantandosi di queste quanto alla colletta. Ma probabilmente ha sentito voci non troppo confortanti e lusinghiere circa la generosità dei Corinti, che, ormai, perso l'originale entusiasmo, guastato anche dalla crisi nei rapporti con Paolo, si era andato spegnendo e la generosità sostanzialmente scomparsa. Per questo egli ha mandato i fratelli, quelli già citati in 8,16.18.22, Tito e due anonimi delegati, il cui scopo non era soltanto di rianimare la colletta, arenatasi, ma altresì stimolare i Corinti nella loro generosità, perché la colletta fosse abbondante e non “una taccagneria” (9,5b). Sollecito che Paolo aveva già implicitamente fatto a conclusione del primo biglietto, esortando i Corinti a dare prova del loro amore ai tre delegati inviati loro, salvaguardando così anche la sua faccia, che ci aveva messo davanti alle chiese della Macedonia (8,24).

Ed è proprio questo il tenore del v.4, l'essere generosi così che, qualora venissero i Macedoni a far visita alle chiese dell'Acaia, non rimanessero delusi per la tirchieria dei Corinti, venendo svergognati per la loro spilorceria e con loro, ancor prima, anche Paolo, che davanti ai Macedoni si era speso in lodi sperticate nei confronti dei Corinti. In gioco, quindi, c'era anche il buon nome delle chiese dell'Acaia oltre che la credibilità di Paolo.

Il donare con generosità, come suggerisce il cuore, verrà ricompensato da Dio (vv.6-11)

Ed è a tal punto che Paolo, accanto ai solleciti umani a non sfigurare davanti alle chiese della Macedonia, affianca ora una riflessione che prende avvio da una libera citazione di Prv 22,8 e 11,24, rafforzando così anche scritturisticamente l'impegno nella colletta. Il senso del proverbio citato è che ognuno raccoglierà in base a quanto ha seminato. Si noti il verbo “raccoglierà” posto al futuro, dando a questo un senso escatologico, che racchiude implicitamente in se stesso il giudizio finale, cui ciascuno sarà sottoposto e soppesato in base alle sue opere. Pertanto una velata minaccia.

La primaria conseguenza di questa esortazione scritturistica non è quella del dare molto, ma del dare “come suggerisce il cuore”. Una regola del dare che Paolo aveva già stabilita in 8,11-12, quella del donare in base al proprio avere e alle proprie capacità. Qui aggiunge “secondo quanto suggerisce il cuore”, che dice la voce più intima e profonda dove riecheggia quella di Dio, la coscienza. Come dire: date quello che potete dare, secondo le vostre capacità, ascoltando nell'intimità del vostro cuore quanto vi suggerisce Dio.

Anche le modalità del “donare” acquistano in questo contesto la loro importanza, anzi sono determinanti, poiché sono proprio le modalità interiori della donazione che rivelano l'elemento, cui più sta a cuore a Paolo, ma ancor prima a Dio: la generosità. La donazione va fatta con cuore lieto e non nella tristezza e controvoglia, sentendosi costretti. Da qui la motivazione teologica: “Dio, infatti, ama il donatore lieto”, poiché proprio in questo consiste la generosità, nel saper donare lietamente, quindi, con animo ben disposto, nella coscienza che donando al povero si dona a Dio, il quale di certo non si fa battere in generosità da nessuno. Un Dio che non guarda la quantità della donazione, ma le modalità con cui questa viene elargita. Sarà, infatti, proprio questa l'attestazione del Gesù marciano, che emette la sua sentenza su quella povera vedova, che aveva gettato nel tesoro del Tempio soltanto due spiccioli, tutto ciò che aveva, a differenza degli altri, che pur gettando in modo più abbondante, gettavano il superfluo (Mc 12,42-44). Come dire che a Dio donavano gli avanzi, mentre la vedova, già il termine stesso dice tutta la precarietà della sua esistenza, ha dato la sua stessa vita, preferendo Dio a se stessa.

E dal tema della generosità nella raccolta della colletta, Paolo passa ora con i vv.8-11 alla generosità di Dio quale risposta alla generosità dell'uomo nei suoi confronti, anche questa comprovata da una libera citazione scritturistica tratta dal Sal 112,9, dove viene lodato il giusto che dona largamente ai poveri. Dio, infatti, sovrabbonda di grazie i Corinti, perché, rassicurati nei loro bisogni quotidiani, sappiano abbondare in ogni opera buona, condividendo i loro beni con chi non ne ha, lasciando così intendere come questa colletta, l'opera buona dei Corinti, è frutto della grazia di Dio ed è un dono di grazia che Dio fa a loro (8,1), un segno della sua benevolenza nei loro confronti. È Lui che fa sovrabbondare i beni dei Corinti, per spingerli a donare.

Una riflessione che Paolo rafforza con un altro esempio, preso dalla quotidianità, quello del seme e del contadino, dandone una lettura teologica, che dice come tutto dipende da Dio e tutto da Lui proviene, come il seme per seminare, da cui trarre, poi, il pane quotidiano, tutto è opera di Dio, il quale aumenterà anche il seme dei Corinti, cioè i loro beni, da cui traggono la loro sussistenza e lo fa con sovrabbondanza, perché questa sovrabbondanza sappiano tramutarla anche in giustizia, che è quell'equità sociale, di cui già aveva parlato in 8,13-15: privarsi in parte dei propri beni perché quel loro sovrappiù vada a colmare il meno di chi non ha o ha in modo insufficiente. E questo, conclude Paolo, è la generosità attraverso la quale Dio veicola il suo aiuto a tutti, tramutandosi per il generoso in un rendimento di grazie a Dio.

Colletta e generosità, atti di culto graditi a Dio (vv.12-15)

La considerazione del v.11, che reputa la generosità, anzi ogni gesto di generosità, un rendimento di grazie a Dio, dà l'occasione a Paolo di incentrare la sua attenzione sul significato e sul senso della generosità, quale atteggiamento interiore di apertura donativa dell'uomo nei confronti del suo prossimo, in rapporto a Dio. In altri termini quale sia il senso teologico della generosità, inserita nel contesto esistenziale del credente. Ma non si tratta di una considerazione in astratto della generosità, ma della colletta, colta quale atto di generosità, così che per Paolo vi sarà una identificazione tra “colletta” e “generosità”, divenendo in tal modo sinonimi. Va tenuto presente questo particolare, poiché qui la generosità-colletta viene sublimata ad azione sacra inserita in un contesto sacerdotale e liturgico di lode e di ringraziamento a Dio, così che la raccolta di fondi diventa un “ministero”, cioè un servizio sacro espletato in un contesto liturgico celebrativo; la generosità-colletta diventa una “liturgia”, mentre ogni atto di generosità, leggasi ogni donazione, si trasforma in questo contesto in una liturgia di “rendimento di grazie a Dio” che si trasforma nei “santi” in una glorificazione a Dio non solo per l'adesione degli “etnocristiani” Corinti e chiese dell'Acaia in genere al Vangelo di Cristo, ma anche per la loro generosità, che diviene veicolo di comunione con la chiesa madre di Gerusalemme. Pensiero quest'ultimo che sottende l'intero progetto della colletta di Paolo.

Il biglietto termina con una sorta di dossologia, che si traduce in un rendimento di grazie a Dio per il “suo ineffabile dono”. Così è percepita la colletta da Paolo, poiché tale dono, oltreché costituire un concreto aiuto a chi ne ha bisogno, favorisce una comunione interecclesiale e intraecclesiale, sotto l'egida dell'unica fede nell'unico Cristo che “è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Ef 2,14-20).





N O T E


1Da questi 2033 versetti che compongono gli scritti paolini sono stati scorporati i 303 versetti che compongono la Lettera agli Ebrei, la quale, benché inserita nel Corpus paulinum, tuttavia non è attribuile né a Paolo né alla sua scuola.

2Quando qui Paolo parla di “aver ricevuto dal Signore” non si riferisce a visioni particolari, ma ad una Tradizione che viene fatta risalire al Signore.

3Traduzione: L'imperatore Claudio “espulse da Roma i Giudei che creavano tumulti sotto la spinta di Cresto”. Il nome “Cresto” va compreso come una deformazione di “Cristo”, appellativo che era attribuito a Gesù, da cui ne seguì quello di “cristiani”, quali seguaci di Cristo. A Roma vi era la presenza di due folte comunità di Giudei e di cristiani, che, probabilmente per motivi di proselitismo, non di rado creavano problemi di ordine pubblico, così che l'imperatore Claudio pensò bene di espellere da Roma i Giudei, ma con loro anche i cristiani.

4Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II,22,1-2: “1. Come successore di Felice, Nerone inviò Festo, davanti al quale Paolo fu processato e poi mandato prigioniero a Roma. Era con lui Aristarco, che l'apostolo, in un passo delle sue lettere chiama giustamente compagno di prigionia (Col 4,10a ndr). Anche Luca, che ha riportato per iscritto gli Atti degli apostoli, terminò a questo punto la sua narrazione, precisando che Paolo passò a Roma due interi anni in libertà e vi predicò senza ostacoli la parola di Dio. 2. Dopo aver sostenuto la propria difesa in giudizio, si dice che ripartì per il ministero della predicazione, ma ritornò una seconda volta a Roma sotto Nerone e vi subì il martirio. Durante la sua prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, in cui accenna alla sua prima difesa ed alla fine imminente

5La colletta oltre che in questi passi delle lettere di Paolo viene citata fugacemente anche in At 24,17

6Gustav Adolf Deissmann (1866-1937) è uno storico e teologo tedesco, il cui nome è legato ad approfonditi studi di filologia dell'Antico e del Nuovo Testamento e sul cristianesimo primitivo.

7Il nome originario di Paolo è “Shaul”, che richiamava il primo re d'Israele (1030-1010 a.C.), Nome che venne, poi, grecizzato in Saulos, che significa “vacillante; che si muove con lentezza, con fiacchezza” e, successivamente, per assonanza, forse anche di significato, latinizzato in Paulus. Tre nomi che attestano anche il mondo in cui Paolo si è mosso ed è vissuto e la sua vasta cultura cosmopolita.

8Ricordo al lettore che il commento che qui viene svolto riguarda la Lettera scritta “tra le molte lacrime”. Soltanto successivamente a questa, ricevute le buone notizie da Tito, Paolo scriverà l'originale Seconda ai Corinti, accompagnata da un biglietto, che è un inno alla misericordia di Dio che consola Paolo.

9La stessa citazione di 10,17, liberamente tratta da Ger 9,22.23, Paolo l'aveva già riportata in 1Cor 1,31 nel contesto del confronto tra la sapienza umana, che cerca miracoli e saggi ragionamenti, e quella divina che usa il linguaggio della croce, perché la fede del credente non sia frutto di convincimento umano, ma della potenza di Dio.

10Cfr. Mt 23, 2-7; Mc 12,38-40; Lc 20,46-47.

11Il termine deriva dal latino “ille”, che significa “quello”, quindi un terzo rispetto al narratore stesso. Si tratta, infatti, di una forma letteraria che consente di parlare di se stessi in terza persona.

12Cfr. Gen 8,2; Dt 11,11b; Is 55,10; 2Sam 21,10a; Zc 2,10

13Cfr. Gen 1,8.14-18.

14Cfr. Sal 67,34; 114,3; 122,1; Lam 3,41; Is 66,1a; Sal 10,4a

15In tal senso cfr. Mc 16,17.20; At 2,22.43; 5,12; 6,8; 8,13; 14,3; 15,12; Rm 15,18-19; Eb 2,4; 2Ts 2,9.

16A motivo della predicazione di Paolo, molti si convertirono e abbandonarono il culto ad Artemide. A seguito di ciò calarono notevolmente anche le richieste di tempietti, di statuine e icone che riproducevano la dea, incidendo questo sui guadagni degli orafi, che su tale commercio campavano. Da qui la rivolta contro Paolo, che si tradusse in una una persecuzione.

17Il termine £misericordia£ deriva dal latino “misereo, provo pietà” e “cor, cuore” e, quindi, aver pietà con il cuore o cuore che si muove a pietà.

18In età repubblicana (509-27 a.C.), a fronte di una condanna a morte, il condannato poteva avvalersi della “provocatio ad populum”, cioè un ricorso al giudizio popolare, istituito dalla “Lex valeriana de provocatione” del 509 a.C. per mitigare il potere assoluto di consoli, pretori o dittatori. In età imperiale (27a.C.-476 d.C.) l'istituto era ancora vigente, ma l'appello non era più rivolto al popolo, bensì all'imperatore. Paolo, in quanto cittadino romano, se ne servirà più volte per sfuggire a fustigazioni, linciaggi o sentenze di morte (At 22,24-30; 23,26-30; 25,11-12).

19Cfr. Gen 28,17; Es 19,16; 20,18; 2Mac 15,23; Sal 2,11; Bar 3,33

20Famoso è l'oracolo che la Pizia dava al soldato che le chiedeva sull'esito del suo militare in guerra: “Ibis redibis non morieris in bello”. Letteralmente “Andrai ritornerai non morirai in guerra”. Una frase solo apparentemente chiara, che si giocava tutta sulla grammatica, poiché se la virgola veniva posta dopo il verbo “redibis”, l'oracolo acquisiva un senso positivo: “Andrai ritornerai, non morirai in guerra”; ma se la virgola si spostava subito dopo al verbo “Ibis” il senso era opposto: “Andrai, ritornerai non, morirai in guerra”. Un responso molto equivoco, quindi, come tutti i responsi della Pizia. Ma non così il dire di Paolo.

21Cfr. Mt 18,15.17; Fil 1,1; Ef 4,11-12

22Cfr. L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, prima ed. TEA, Milano 1994, pag.150

23Le lettere che gli studiosi, per la maggior parte, attribuiscono a Paolo sono le seguenti: Rm, 1Cor, 2Cor, Gal, Fil, 1Ts, Fm.

24Sulla questione cfr. pag.17 del presente studio.

25Cfr, Rm 1,1;

26Le lettere, cui mi riferisco, sono le sette lettere ufficialmente attribuite a Paolo, cioè Romani, 1^ e 2^ Corinti; Galati; 1^ Tessalonicesi; Filippesi e Filemone, non a quelle di scuola paolina, che non sempre riportano altri mittenti oltre a Paolo. Eccezione fanno le lettere pastorali, che personalmente ritengo attribuibili a Paolo, di 1^ e 2^ Timoteo e Tito, che per la loro natura strettamente personale riportano soltanto il nome di Paolo.

27Cfr. Gal 1,1-2

28A solo titolo esemplificativo si cfr. Rm 1,7; 1Cor 6,1.2; 2Cor 8,4; 9,1; Ef 1,1.15; Fil 1,1; 4,21; Col 1,2.4, ecc.

29Cfr. Rm 6,17; 7,25; 1Cor 15,57; 2Cor 2,14; 8,16

30Cfr. Es 29,18; Lv 8,21.28; Nm 29,2; Gdt 16,16; Ez 16,19

31Cfr. At 15,23; 18,27; Rm 16,1-2; 1Cor 16,10-11; Col 4,10; 3Gv 1,9-10

32Cfr. Gv 12,31; 14,30; 16,11

33Cfr. la voce “Gnosi, Gnosticismo” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.G. Hawthorne, R.P. Martin, D.G. Reid; edizione italiana a cura di Romano Penna, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999.

34Sulla questione dell'uso del linguaggio gnostico nel Vangelo di Giovanni cfr. pagg. 15-19 del mio studio sul Vangelo di Giovanni: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

35Cfr Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23

36Cfr. Sir 21,14; 50,9; Is 29,16; 30,14; 45,9; Ger 18,3-6; 22.28; 48,38; Bar 6,15; Os 8,8.

37Sulla questione cfr. le pagg. 9-17 del il mio studio: https://digilander.libero.it/longi48/Per%20un%20cammino%20cristiano.pdf

38Cfr. 2Cor 3,1; 5,12; 10,12.18; 12,11

39Cfr. oltre ai testi qui sopra citati anche Eb 4,12

40Il v.16b cita abbastanza fedelmente Lv 26,11-12 ed Ez 37,27; il v.17 si richiama liberamente a Is 52,11; Ger 51,45; Ez 20,34; ed infine, il v.18 si richiama abbastanza liberalmente a 2Sam 7,14; Is 43,6;Ger 31,9.

41Cfr Is 54,4-8; 61,10; 62,4-5; Ger 2,2; Ez 16,1-43.59-63; Os 1-3;

42 Il primo viaggio fu nel 38 d.C. per una breve visita di 15 giorni in cui incontrò soltanto Pietro e Giacomo (Gal 1,18-19)

43Cfr. At 24,17