SCRITTI GIOVANNEI
(Elaborazione dei miei appunti integrati da un sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)
Premessa
Il Corpus Johanneum comprende cinque scritti: Il Vangelo secondo Giovanni, le tre Lettere e l'Apocalisse.
Le Lettere
La Tradizione ci ha consegnato tre lettere che vengono attribuite ad un certo "Giovanni" di cui non si conoscono bene i tratti identificativi.
Delle tre lettere la prima è la più ampia, comprende ben 5 capitoli e benché sia inserita tra le lettere, in realtà non ne possiede la cornice (mittente, destinatari, corpus e saluti). Essa ha esercitato un fascino particolare per la sua essenzialità e la forza del suo messaggio teologico.
Le altre due lettere, invece, ne possiedono la cornice, ma sono molto brevi ( solo 13 vv. la seconda e 15 vv. la terza) e si possono considerare dei semplici biglietti di circostanza, imparentati tra loro per stile e vocabolario.
Quanto a canonicità la prima lettera è conosciuta e citata dagli scrittori cristiani del II secolo: Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, Ireneo di Lione, mentre per la Chiesa di Roma si fa riferimento alla citazione di Giustino. Nel III sec. essa è riconosciuta e accolta sia da Tertulliano che da Cipriano, mentre nel IV sec. tutte tre le lettere sono riconosciute come apostoliche e canoniche, anche se Girolamo (380 d.C.) è a conoscenza ancora di dubbi sulla 2° e 3° lettera. Comunque tutte tre le lettere erano già presenti agli inizi del II secolo poiché Papia e Policarpo ne sono a conoscenza e le citano.
Quanto al luogo di origine delle tre lettere esse vengono fatte risalire nell'Asia Minore e più precisamente nella Chiesa di Efeso in cui si è formata e conservata la tradizione che si richiama a Giovanni.
Quanto all'autore esso, nella prima lettera, si presenta anonimo e si nasconde dietro ad un gruppo di cristiani autorevoli inviati ad altri credenti per metterli in guardia dai dissidenti, definiti come "falsi profeti" e "falsi cristi". Nella seconda e terza lettera, invece, l'autore si definisce come il "presbitero" che scrive ad una comunità, definita come "Signora" (II lett.) e ad un cristiano, chiamato Gaio (III lett.).
Le tre lettere, comunque, considerata l'affinità di linguaggio e stile sembrano attribuibili ad un unico autore, che si definisce "presbitero", rappresentante dello stesso ambiente o cerchia teologico-spirituale designata come scuola o tradizione giovannea.
L'autore si presenta come autorevole e legittimo interprete della tradizione evangelica, infatti si rivolge agli altri responsabili di comunità annunciando la sua visita per stabilire quella che più volte viene definita la "Verità" o la "dottrina di Cristo".
Tuttavia egli non sembra essere l'apostolo Giovanni per due motivi: sia perché tale titolo non viene menzionato in nessuna delle tre lettere (e ciò risulterebbe incomprensibile), sia perché la sua autorità viene contestata da un certo Diotrefe, responsabile della Chiesa a cui ha inviato una lettera.
Apocalisse
Quanto a questo libro, composto da 22 capitoli, va fatto per il momento un solo accenno, rimandando una più ampia riflessione più avanti.
Tale libro si iscrive nell'ampia tradizione apocalittica giudaica ed ha dei precedenti nell'A.T. come ad esempio in Daniele, ma si presenta, rispetto all'A.T. con numerose novità; in particolare una su tutte: mentre l'apocalittica tradizionale è essenzialmente escatologica poiché si guarda alla fine dei tempi, quando Dio avrà sottomesso i suoi nemici e ristabilito l'ordine divino, in questa Apocalisse tutto ciò è già avvenuto nella morte e risurrezione di Cristo e si pone come un fatto irrepetibile.
IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
Uno sguardo panoramico
Il Quarto Vangelo (QV) nel corso dei secoli ha esercitato un notevole influsso sul pensiero cristiano e ne costituisce la vetta teologica. E' uno scritto che ha avuto una lunga fase redazionale che si è conclusa tra gli anni 90 e 100. L'intero Vangelo è percorso da una figura anonima definita come "il discepolo che Gesù amava" o come "l'altro discepolo"; una figura, comunque, che deve aver avuto una notevole autorevolezza all'interno della comunità e sulla cui testimonianza si è sviluppato il QV.
Il QV si stacca nettamente dalla tradizione sinottica, pur rientrando nel medesimo genere letterario. Fin dall'inizio ci si accorge che lo stile è totalmente diverso. Clemente di Alessandria lo definisce un "Vangelo spirituale" contrapponendolo ai Sinottici che, invece, trattano di cose più terrene e materiali (ta swmatika). In tal senso significativo è il racconto del cap. 21,7 in cui "il discepolo che Gesù amava" esclama con slancio intuitivo "E' il Signore". Gli altri discepoli non se ne accorgono, ma questo discepolo riesce a leggere oltre le apparenze fisiche. E questa è una caratteristica che pervade l'intero QV. Non a caso il suo simbolo è l'aquila che vola alta nei cieli, là dove gli altri non arrivano.
Forse proprio per questa sua caratteristica e forse perché accolto bene negli ambienti gnostici e, forse, perché poteva facilmente essere travisato, questo Vangelo ha faticato ad entrare nel canone.
Quanto l'autore del QV ci riporta non vuole essere una dettagliata cronaca sulla vita di Gesù, ma opera una cernita delle opere e dei detti di Gesù modellandoli su una propria teologia. Egli stesso, infatti, in 20,3 ce ne dà testimonianza: "Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro" e ancora in 21,25 (benché tale capitolo sia una aggiunta postuma) ne viene confermata la logica: "Vi sono anche molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere".
Pur essendo un Vangelo "spirituale", tuttavia esso ci fornisce particolarità e spaccati storici che, talvolta, rasentano la cronaca e che gli altri vangeli non ci offrono.
Ad esempio, i Sinottici ci presentano una sola salita di Gesù a Gerusalemme, dove viene ucciso; mentre Giovanni ci presenta tre salite a Gerusalemme e ciò è più attendibile, poiché il pio ebreo saliva almeno tre volte all'anno a Gerusalemme.
Il QV ci presenta tre pasque vissute da Gesù (2,13; 6,4; 11,55), mentre i sinottici ne descrivono una sola. Proprio su tale dato viene commisurata anche la durata della missione pubblica di Gesù, circa tre anni.
Nel cap. 5,2, inoltre, ci viene descritta dettagliatamente una piscina "... presso la porta delle Pecore, chiamata in ebraico Betzada, con cinque portici". Questo dettaglio ci è stato confermato dagli scavi archeologici.
A differenza, poi, dei Sinottici, il QV ci presenta una particolare attenzione alle festività ebraiche: Pasqua (cap.6), Capanne (Succot) (capp.7-8) e Dedicazione o festa dei lumi (Hanukkah) (10,22-39), che costituiscono lo scenario entro cui Gesù gradualmente svela la sua persona.
Nell'ambito della Pasqua egli compie la moltiplicazione dei pani (6,1-15) che funge da prologo alla rivelazione di Gesù, quale vero pane di vita (6,22-59). Una rivelazione che comporta una scelta di fede per i suoi discepoli, molti dei quali lo abbandonano (6,66).
Quanto alla festa delle capanne, poi, essa ricordava il pellegrinaggio degli ebrei nel deserto. Dopo la sedentarizzazione degli ebrei nella terra promessa, divenne una festa celebrata in autunno ed era legata alla vendemmia. Giuseppe Flavio la sottolinea come la festa più grande e più santa per gli ebrei. Durante la festa si chiedeva la pioggia indispensabile per la fecondità delle future messi. Sempre durante tale festa, ogni giorno, processionalmente si scendeva da Gerusalemme alla sorgente Ghichon, che alimentava la piscina di Siloe, e qui si raccoglieva in un vaso d'oro dell'acqua che veniva sparsa poi sull'altare. In questo scenario celebrativo Gesù si rivela nell'ultimo giorno della festa quale acqua viva che disseta, preannunciando la diffusione dello Spirito sui suoi discepoli (7, 37-39). Una rivelazione che creerà dissenso tra i suoi uditori (7,43).
Sempre durante la festa delle Capanne, forse in ricordo della dedicazione del Tempio di Salomone che avvenne proprio durante tale festa (1Re 8,2), il Tempio era tutto illuminato e su questo sfondo di luce eccezionale Gesù si dichiara luce del mondo che illumina chiunque lo segue (8,12)
Infine, la festa della Dedicazione in cui Gesù, passeggiando nel tempio, si proclama Messia e Figlio di Dio, invitando i Giudei a credere almeno nelle opere che egli compie. Con questo suo passeggiare con disinvoltura nel tempio Gesù sembra quasi volerne prendere possesso. E come i Maccabei liberarono il tempio dalla statua di Zeus per restituirlo al culto di Dio, così, con quel suo passeggiare nel Tempio, Gesù sembra reclamare per sé il Tempio in cui si rivela Messia e Figlio di Dio e al cui centro si pone lui stesso.
Come ogni pio ebreo, Gesù vive le feste ebraiche, ma le reinterpreta alla luce della sua rivelazione: egli è il vero pane; egli è la vera acqua che disseta; egli è Figlio di Dio e il Messia atteso.
Il QV è scritto secondo una logica apocalittica: ogni racconto, ogni occasione, ogni festività, ogni segno diventa motivo per rivelare un qualcosa di Gesù, della sua natura, del suo rapporto con il Padre, del senso della sua missione. Tutto il Vangelo, pertanto, diventa un graduale e progressivo svelamento di Gesù e della sua figura che provoca risposte di adesione o di rifiuto. Un rifiuto che è personificato nei Giudei e che Giovanni identifica con il mondo, una realtà che si chiude a Dio, benché del mondo Giovanni non abbia una visione negativa, poiché egli afferma " ... Dio ha tanto amato il mondo da inviare suo Figlio".
Da un punto di vista letterario il QV da l'idea di una pesante monotonia per quel suo ripetersi con stessi concetti. Ma va letto attentamente. Infatti, se da un lato questo in parte è vero, dall'altro, egli procede in "modo a spirale", cioè affronta un tema che poi riprende più volte, ma a livelli superiori di volta in volta fino ad arrivare ad una rivelazione piena e completa. E' una sorta di scala a chiocciola che continuamente gira su se stessa, ma che non lascia mai al punto di partenza, ma sale continuamente fino alla cima.
Altro elemento di pesantezza, ma che apre ad una grande comprensione della figura di Gesù e del suo operare, sono i lunghi discorsi; si pensi a quello con Nicodemo, la Samaritana e, uno per tutti, il lungo discorso di addio che dura ben cinque capitoli (capp.13-17), così che anche quelli che hanno l'aria di essere dei dialoghi, in realtà si trasformano in monologhi (v. Nicodemo).
Spesso questi lunghi discorsi sono legati ad un segno, che lo precedono o lo seguono: è la parola che spiega il segno e il segno che dà concretezza alla parola.
In tutto il QV troviamo sette segni, distribuiti nei primi dodici capitoli; l'ultimo segno è quello della risurrezione di Lazzaro, il più significativo di tutti poiché precede la sua morte e risurrezione e ne diviene suo preannuncio. Un segno, quindi, profetico.
Quanto a questi segni, essi sono definiti nei Sinottici come "dunameij", cioè manifestazione di potenza attraverso cui viene testimoniato l'operare di Dio in mezzo agli uomini; mentre Giovanni gli definisce "semeia", cioè segni; e il segno, per sua natura, rimanda sempre oltre a ciò che si vede e chiede uno sforzo personale, che si trasforma in cammino di fede, di adesione esistenziale a Cristo.
Il segno, infine, è sempre legato al tema dell' "ora", che per Giovanni è l'ora della croce, della glorificazione, della piena manifestazione della gloria; ecco perché egli parla di innalzamento, che assume un duplice significato: innalzamento sulla croce, ma anche innalzamento dalla morte verso Dio, cioè la sua glorificazione. Una croce che per Giovanni diventa un polo di attrazione e di raduno di tutti: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (12,32).
ALCUNE PECULIARITA' DEL QUARTO VANGELO
Un confronto con i Sinottici
Niente è più utile per rilevare le particolarità del QV che confrontarlo con i Sinottici. Un confronto che già è avvenuto fin dai primi tempi della Chiesa e che ha portato Clemente di Alessandria a definirlo un "Vangelo spirituale" contrapponendolo agli altri che, invece, trattano di cose più terrene e materiali (ta swmatika).
Infatti, diversi sono i linguaggi usati: più spontaneo e narrativo quello dei sinottici; più ricercato, simbolico, riflessivo quello di Giovanni. I Sinottici raccontano dei fatti attraverso cui si manifesta la figura di Gesù; mentre per Giovanni i fatti perdono la loro concretezza storica, benché la cornice storica spesso sia molto dettagliata al punto di diventare cronaca, e assurgono, invece, a valore di simbolo, diventano segni, invitando il lettore ad andare oltre a ciò che vede e sente.
Lo stile letterario, poi, diverge decisamente da quello dei Sinottici: semplice, concreto, di facile e scorrevole lettura quello dei Sinottici; alquanto ricercato e complesso quello di Giovanni che si esprime con uno stile tutto suo, caratterizzato dall'ambiguità del linguaggio come, ad es., anwqenche significa sia "di nuovo" come "dall'alto" (Gv 3,3). Oppure da una fine ironia che, ad esempio, rivolta contro Gesù in realtà ne definiscono la vera natura che sfugge alla loro comprensione come nella presa in giro di Gesù salutato come re dei Giudei e come tale incoronato dalla soldataglia. Oppure così definito dal cartello posto sulla croce. Un altro elemento che caratterizza lo stile del QV è l'inintelligenza che viene rilevata negli interlocutori di Gesù come, ad esempio, in Nicodemo o nella Samaritana e nei discepoli di Gesù nello stesso racconto. Oppure quando Gesù parla della distruzione del tempio riferendosi al suo corpo, mentre gli altri la riferiscono alla distruzione fisica del loro Tempio. Un'inintelligenza che manifesta i limiti dell'uomo secondo la carne. Un altro aspetto che qualifica lo stile giovanneo sono le note di commento disseminate in abbondanza nel suo vangelo. Se ne sono contate ben cinquantanove che, interrompendo la narrazione, aiutano il lettore a comprendere bene la narrazione come ad es. in 1,38 "Rabbi (che significa maestro)"; in 1,42 "... ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)"; in 2,21 "... ma egli parlava del tempio del suo corpo"; in 12,33 "... questo diceva per indicare di quale morte doveva morire", ecc. E ancora caratteristici sono i suoi discorsi-racconto al centro dei quali c'è la figura di Gesù attorno a cui girano uno o più personaggi che divengono occasione di nuove rivelazioni della figura di Gesù in un crescendo continuo fino al raggiungimento di un vertice rivelativo che costituisce il vertice stesso del racconto, come nel caso della Samaritana, che potrebbe fungere da copione di una commedia; o nel caso di Nicodemo che funge un po' da spalla di Gesù in un racconto che in realtà è un grande unico discorso in cui la figura di Nicodemo va lentamente diminuendo fino, ad un certo punto, scomparire completamente. E' una tecnica giovannea questa a cui prestare molta attenzione perché l'evangelista racconta Gesù per poi sfociare in una teologia profonda.
Ma veniamo, ora, ad analizzare più da vicino la dinamica dei discorsi-dialogo-monologo e dei racconti di miracolo.
I discorsi (dialoghi e monologhi) e i racconti di miracolo
A differenza dei Sinottici il cui raccontare è semplice e lineare, quello di Giovanni è appesantito da lunghi dialoghi, spesso essenziali e sobri che spesso sfociano in monologhi, in cui l'interlocutore sparisce completamente per dare spazio alla sola figura di Gesù che, talvolta, scompare essa stessa nell'ambito di un monologo in cui non si capisce più bene se sia Gesù o l'evangelista che parla. E' il caso di Nicodemo in cui l'evangelista imbastisce l'incontro con Gesù su tre domande sempre più brevi fino a cui la figura di Nicodemo scompare completamente, mentre quella di Gesù cresce sempre di più in un crescendo rivelativo e il dialogo si trasforma lentamente in monologo fintanto che, a partire dal v. 16 fino al 21 il discorso continua, ma non si sa più se sia Gesù che parla o l'evangelista.
Ma è anche il caso dell'uomo paralitico da trentotto anni (5,1-18). Qui si sviluppa un dialogo breve e serrato tra Gesù, il paralitico e i Giudei in un rapido susseguirsi di scene e personaggi, il tutto racchiuso in 18 versetti in cui vengono poste le basi per il lungo monologo condotto da Gesù (5,19-47) che occupa ben 29 versetti.
Come si può ben vedere anche le sezioni dialogiche sono in funzione di monologhi in cui sono inseriti e ne fanno parte; anzi potremmo dire che quasi il dialogo in realtà è una variante di quel monologo in cui va gradualmente a sfociare o di cui diventa una fase preparatoria.
Questi lunghi discorsi di Giovanni, composti da dialoghi-monologhi, sono caratterizzati da:
Lo schema su cui si snodano questi diologhi-monologhi è di tipo apocalittico. Infatti, caratteristico della letteratura apocalittica è la rivelazione che avviene in due tempi: presentazione di una visione che è enigmatica, seguita da una spiegazione che ne rivela il senso.
Questo modo di procedere si ritrova spesso nel QV come, ad esempio, nel dialogo con Nicodemo (3,3-5): un'affermazione fraintesa è seguita da un'affermazione solenne che ne rivela il senso "In verità, in verità ti dico ..." ripetuto per ben tre volte a fronte di altrettante domande d Nicodemo.
Una rivelazione "in due tempi" che può ripetersi in modo susseguente formando una sorta di catena rivelativa, come nel caso del giorno seguente alla moltiplicazione dei pani riportato nel dialogo tra Gesù e la folla in 6,27-35:
a) "Operate per il cibo che non perisce" frase enigmatica che viene fraintesa. b) "Questa è l'opera di Dio: credere i colui che egli ha mandato" e ciò dà il senso alla prima rivelazione enigmatica.
c) "Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio" seconda espressione enigmatica che si allaccia e ne costituisce uno sviluppo della prima rivelazione. d) "Io sono il pane della vita" è la spiegazione che dà senso alla seconda rivelazione enigmatica e che, infine, costituisce la conclusione rivelativa, il vertice della rivelazione di questa sezione che partita dalla moltiplicazione sfocia in una sorte di monologo dialogico in cui con un crescendo continuo si arriva a capire un altro aspetto fondamentale di Gesù.
Questo stile enigmatico, che talvolta è tinto da una più o meno velata ironia, altra caratteristica del QV, e che spinge a continue domande che provocano una ulteriore risposta chiarificatrice, in un crescendo continuo, invitano il lettore a non fermarsi alle apparenze, ma ad andare oltre, in un vortice di riflessione sempre più ardita fino a raggiungerne l'apice rivelativo. In tal senso tutto il QV è da ritenersi simbolico, poiché dice una cosa, ma ne intende un'altra e i dialoghi hanno proprio questa funzione: condurre il lettore, attraverso una riflessione sempre più approfondita, verso realtà che non sono apparenti, ma che in qualche modo sono significate nelle apparenti.
Altre caratteristiche proprie dello stile giovanneo si riscontrano nel Vocabolario, nei Parallelismi e nella Struttura circolare dei discorsi che danno nel loro insieme una sensazione di pesante monotonia, ma che in realtà conducono il lettore ad un sempre maggiore approfondimento.
Quanto al Vocabolario l'autore usa un lessico molto ristretto rispetto agli altri scritti neotestamentari.
Lo Stile, poi, è quello semitico che ama i parallelismi o il ripetere gli stessi concetti con espressioni diverse. Un esempio ci viene offerto in 10,14-15 in cui il rapporto di conoscenza Gesù-pecore si pone in parallelo con quello di Gesù-Padre.
Infine, il pensiero giovanneo, a differenza dei Sinottici, non procede quasi mai linearmente e con semplicità espressiva, ma come in una spirale avvolgente continua a ripetersi a livelli sempre più elevati fino a raggiungere un vertice rivelativo verso cui l'intero pensiero tende. E' un continuo procedere per tappe e all'inizio di ogni tappa viene ripreso il pensiero precedente e approfondito. L'autore, quindi, anziché condurre linearmente il pensiero preferisce procedere per tappe affrontando temi che solo apparentemente lascia in sospeso, ma che riprende in tappe successive portandoli a conclusione. Tuttavia, in ogni passaggio viene approfondito e chiarito il tema. Uno stile che, per certi aspetti e in qualche modo, ritroviamo anche in Paolo, come, ad esempio, nella Lettera ai Romani in cui annunciato il tema in 1,16-17, in cui annunciato il tema della giustificazione universale per mezzo della fede, all'improvviso sembra dimenticarsene e a partire dal 1,18 e fino al 3,20 sviluppa un complesso castello ragionativo che gli fornisce le argomentazioni che gli consentono di concludere e motivare la sua tesi iniziale annunciata in 1,16-17, che viene ripresa con 3,21 e che trova il suo vertice conclusivo in 3,28.
Questo stile dà l'impressione di sentire sempre le stesse cose, appesantisce il ritmo del discorso, lo rende monotono e di difficile comprensione o, quantomeno, la comprensione non è immediata.
I racconti di "miracolo"
Un'attenzione particolare va posta a quella che si potrebbe definire come la sezione dei miracoli e che si sviluppa nei capp. 2-11. Essa comprende sette miracoli o segni di cui solo uno è proprio di Giovanni ("Le nozze di Cana" con cui si apre la sezione) , mentre gli altri sei si ritrovano anche nei Sinottici. A questi va aggiunto anche un ottavo miracolo posto nel cap. 21 (La pesca miracolosa), ma che va considerato a parte per le caratteristiche, da un lato, di capitolo aggiunto e, dall'altro, per il suo senso squisitamente ecclesiastico che introduce il lettore nei tempi della chiesa, i quali hanno anche un sapore di giudizio escatologico significato dalla pesca.
Giovanni ne riporta soltanto sette. Il numero limitato, tuttavia, non sta ad indicare le scarse conoscenze di Giovanni, ma egli ha operato, invece, una scelta finalizzata alla sua teologia e in funzione alla sua comunità. Infatti, è l'autore stesso che in 20,30 afferma che Gesù ha compiuto molti altri segni in presenza dei suoi discepoli, ma ne sono stati riportati solo alcuni perché "crediate". Stesso concetto viene ripreso in 21,25. Ma anche in 2,23, in una sorta di sommario, si dice "molti, vedendo i segni che faceva, credettero in lui", qui Gesù era a Gerusalemme in occasione della prima Pasqua.
Quindi, il numero di segni limitato a sette non indica disinformazione, ma una precisa scelta intenzionale finalizzata agli obiettivi teologici che orientano l'intera sua opera.
Essi, in ordine, sono:
- Le nozze di Cana o l'acqua mutata in vino (Gv 2, 1-11). Miracolo introduttivo.
- Guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4, 46-54) - Guarigione del paralitico da 38 anni (Gv 5, 1-18) - Guarigione del cieco nato (Gv 9, 1-41)
- La moltiplicazione dei pani (Gv 6, 1-13) - Gesù cammina sulle acque (Gv 6, 16-21)
- La risurrezione di Lazzaro (Gv11, 1-41)
Ora, questa scelta intenzionale pone un interrogativo: come va letto il "miracolo" in Giovanni, considerato che in lui nulla è lasciato al caso? Per Giovanni il miracolo, a differenza dei Sinottici, non è un "dunamij", cioè una manifestazione di potenza attraverso cui si manifesta l'azione di Dio e la venuta del suo regno in mezzo agli uomini e a fronte del quale essi sono chiamati a dare una risposta di adesione o di rifiuto, ma un "semeion", cioè un segno che invita ad andare oltre a ciò che viene raccontato e a scoprire la gloria di Gesù, cioè la presenza onnipotente di Dio, e, di conseguenza, la sua vera natura. Per questo i miracoli in Giovanni hanno una forte valenza di simbolo che spingono il lettore ad andare al di là di ciò che percepisce immediatamente con i suoi semplici sensi ed introdursi ad una più profonda comprensione che ha quasi sempre valore cristologico.
I segni, quindi, in Giovanni sono una sorta di servizio alla rivelazione e sono tutti orientati all' "ora" che costituisce l'apice della rivelazione; sono una sorta di cammino che accompagnano il lettore verso la vera e definitiva rivelazione che si attuerà nella morte e risurrezione di Gesù e che, grazie a questi segni che la preannunciano, riuscirà a darne una corretta lettura. Non a caso, l'ultimo dei segni, la risurrezione di Lazzaro, chiuderà questo cammino verso l'ora e aprirà il lettore, a partire dal cap. 13 fino al 20, alla comprensione del mistero della morte e risurrezione, a cui quest'ultimo segno si aggancia. Il termine miracolo in Giovanni viene definito oltre che "semhion" anche "ergon", cioè opera, che viene usato nella guarigione del paralitico da 38 anni e nel cieco nato. Con tale espressione Giovanni evidenzia come l'operare di Gesù non scaturisce dalla sua volontà, ma da quella del Padre, anzi, in questo suo operare opera il Padre stesso, evidenziando in tal modo la stretta relazione che esiste tra Gesù e il Padre, di cui Gesù porta a compimento l'opera che gli è stata affidata.
Quindi, il miracolo ("semeion" e "ergon") rivelano la gloria di Gesù, cioè la viva presenza di Dio in mezzo agli uomini; rivelano la sua stretta relazione con il Padre; rivelano ancora come Gesù sia l'inviato del Padre in cui egli, il Padre, opera.
Infine, attorno al miracolo di Gesù si sviluppano dei discorsi, che lo precedono o lo seguono o lo intervallano, il cui senso è quello di aiutare il lettore a cogliere il senso cristologico del segno.
Ma il miracolo ha anche lo scopo di provocare nei lettori una decisione esistenziale di accoglienza o di rifiuto di Gesù, costituendo, in tal modo, un giudizio.
La cornice geografico-cronologica
Benché le prime pagine del QV presentino delle coincidenze con i Sinottici come, ad esempio, la testimonianza del Battista (Gv 1, 19-28), l'incontro del Battista con Gesù (Gv 1, 29-349) e la chiamata dei primi discepoli (Gv 1, 35-51), tuttavia il QV si snoda in una cornice geografica e cronologica ben diversa che obbedisce agli intenti teologici del suo autore.
La purificazione del Tempio(Gv 2, 13-22)
Mentre i Sinottici pongono questo episodio alla fine del ministero di Gesù e vi leggono un segno profetico (Gesù abbatte i vecchio culto per sostituirlo con uno nuovo ), Giovanni lo pone all'inizio del ministero di Gesù, subito dopo il segno di Cana, in occasione di una sua salita a Gerusalemme per una festa di Pasqua, la prima delle tre ricordate e in cui Gesù si qualifica come il nuovo tempio, rivelandosi come il nuovo luogo di incontro tra Dio e gli uomini. Un tema, questo, che verrà ripreso anche nella Samaritana ("E' giunto il tempo ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno Dio in Spirito e Verità, in cui Spirito e Verità altri non è che Cristo stesso).
Le festività giudaiche
Un altro elemento tipico del QV è la particolare attenzione che Giovanni attribuisce alle festività giudaiche poste in rapporto a Gesù. Tre sono quelle citate: la pasqua ebraica, la festa delle capanne (Sukkot) e quella della dedicazione del tempio (Hanukkah).
La Pasqua. Tre sono quelle menzionate:la prima in 2,13-22, caratterizzata dalla purificazione del tempio e dal colloquio con Nicodemo. La seconda ricordata in 6,4 in cui Gesù compie la moltiplicazione dei pani e cammina sulle acque e culmina con la proclamazione di Gesù "Io sono il pane di vita" (6,35). Infine la terza in 11,55-12,1 quella che vedrà la sua morte e risurrezione. Tre pasque, quindi, a cui corrispondono tre viaggi a Gerusalemme.
Le Capanne o Sukkot che occupa per intero i capp. 7,1-10,21 e si snoda nel corso di una settimana ed è ricordata nel cap.7 per tre volte: all'inizio (7,2), a metà della festa (7,14) e alla fine, nell'ultimo giorno (7,37)
La Dedicazione o Hanukkah compresa nei vv. 10,22-42 in cui Gesù si dichiara Messia e Figlio di Dio e proclama la sua unità con il Padre: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (10,30)
Concludendo possiamo dire che il QV, rispetto ai Sinottici, menziona almeno tre viaggi a Gerusalemme; collega la predicazione di Gesù e la sua rivelazione alle festività giudaiche; pone l'attività di Gesù in riferimento al tempio dove insegna abitualmente, mentre la cacciata dei venditori dal tempio è posta all'inizio della sua attività. Infine, ancora, ci fa conoscere un'attività battezzatoria di Gesù, anche se si precisa che non era lui che battezzava, ma i suoi discepoli. Da ultimo, Giovanni pone la morte di Gesù alla vigilia della Pasqua nel momento in cui venivano uccisi gli agnelli che sarebbero stati consumati durante la cena pasquale, ponendo in tal modo un parallelo tra gli agnelli pasquali e quel Gesù che dal Battista fu proclamato l'Agnello di Dio.
Tre ipotesi per spiegare l'originalità giovannea
Perché il Vangelo di Giovanni si stacca così nettamente dai Sinottici? Tre sono sostanzialmente gli elementi che, secondo gli studiosi, potrebbero aver influenzato la composizione e le logiche del QV : la tardiva epoca di composizione, lo gnosticismo e il docetismo.
Epoca tardiva di composizione
Alcuni pensano che la tardiva data di composizione abbia pesato sui ricordi della predicazione di Gesù, della sua opera, dei luoghi che egli ha frequentato e dei tempi in cui si sono svolti. Per cui non va data molta attendibilità storica al QV, che viene, invece, considerato una sorta di supplemento ai Sinottici e una loro particolare rielaborazione.
Ipotesi questa un po' debole e che presta il fianco a non poche critiche. Infatti il rinvenimento di papiri, in particolare il P/52, datato tra il 120-130, indicano come data di composizione del QV intorno agli anni novanta. La sua formazione, dunque, fu coeva a quella dei Sinottici, in un tempo, quindi, in cui le fonti dei Sinottici potevano essere a disposizione di Giovanni, ma che egli non ha utilizzato. Pertanto, è condivisibile il parere del Brown secondo cui Giovanni attinse ad una fonte sua propria, autonoma rispetto a quelle dei Sinottici.
Quanto alla credibilità storica del QV va detto che le recenti ricerche archeologiche danno ragione a Giovanni, che dimostra un'ottima conoscenza dell'ambiente palestinese, delle località, delle tradizioni giudaiche. In proposito va reso merito al Dodd che ha saputo dimostrarne l'attendibilità storica.
Lo gnosticismo
La gnosi ha avuto una grande diffusione nel bacino Mediterraneo e in particolare negli ambienti giudaici e si qualifica come una sorta di sincretismo religioso che si basa su un sistema dualistico contrapposto. Al principio di questa contrapposizione ci sta il dio del bene e il dio del male in una lotta perenne che vede contrapposti il mondo della luce contro quello delle tenebre; il mondo dello spirito contro quello della materia. Da questa contrapposizione nasce una visione pessimistica dell'universo e dell'uomo, decaduto dal mondo celeste in quello della materia e delle tenebre. Ma il Dio del bene non l'abbandona e manda un suo inviato che, reso, a sua volta, prigioniero della materia, riesce a liberarsene e insegna agli uomini decaduti la via per vincere la materia e rientrare nel mondo celeste da cui proviene. Ma come può avvenire ciò? Proprio attraverso la conoscenza (gnwsij).
Alcuni aspetti del Vangelo di Giovanni hanno portato a pensare che il QV avesse legami con questo mondo gnostico, anche perché esso era apprezzato proprio in tale ambiente e ciò costituì una delle difficoltà ad accoglierlo nel canone.
L'alta cristologia giovannea, che eleva il Cristo a Figlio di Dio e Signore e parla della sua glorificazione, si presta ad essere riletta in chiave gnostica. Il dualismo di luce e tenebre, in particolare nella prima lettera di Giovanni. L'importanza data alla verità e alla rivelazione. Lo stile spesso enigmatico e simbolico, sono tutti elementi che evidenziano i suoi agganci con lo gnosticismo. Può essere, comunque, che Giovanni abbia avuto contatti con questo mondo gnostico e ne abbia sfruttato alcuni aspetti per dare vigore alla sua teologia, rendendola più accattivante e comprensibile al mondo greco verso cui era rivolta, ma ciò non deve portare a pensare che il QV abbia fondamenti gnostici o provenga da quel mondo o, tantomeno, ne sia un suo prodotto.
Un'opera docetista?
E' questa un'ipotesi avanzata dal Kasemann. Secondo tale autore il QV propone una teologia che si distacca nettamente da quella dei Sinottici e da quella paolina ed è frutto di una comunità posta in minoranza all'interno di una chiesa che si stava organizzando e solo un errore di valutazione ha permesso a questo vangelo di far parte del canone. Infatti, sempre secondo il Kasemann, la figura di Gesù presentata in questo vangelo è etera, disincarnata, sembra un Dio che cammini sulla terra, cadendo in un ingenuo docetismo.
Una valutazione quella del Kasemann forse un po' troppo affrettata visto che per ben 15 volte Gesù viene definito "uomo" e ne evidenzia tratti di autentica umanità come, ad es., stanchezza emozione e pianto di fronte alla morte dell'amico Lazzaro, la paura per l'ora che si sta avvicinando ("l'anima mia è turbata").
Il Colzemann osserva acutamente che se Giovanni avesse radici gnostiche dovrebbe avere una lettura negativa del mondo e invitare la sua comunità a disprezzare il mondo e a ritirarsi da esso. Ma Giovanni sottolinea, invece, come "Dio ha tanto amato il mondo da donare suo Figlio" e insegna alla sua comunità a confrontarsi con il mondo portandovi la propria testimonianza.
Il genere letterario "vangelo" applicato al QV
Dopo aver considerato tre ipotesi che tendevano a considerare il QV come un'opera spuria con tendenze gnostiche ed eterodosse, vediamo, ora, quali sono gli elementi oggettivi che confermano saldamente il QV tra le opere neotestamentarie degne di fede e che lo qualificano a pieno titolo come Vangelo.
Innanzitutto la tradizione cristiana, soprattutto dei primi tempi, lo ha sempre accomunato ai Sinottici. Inoltre il frammento muratoriano, databile intorno al 170, definisce l'opera di Giovanni come "Vangelo". Questo significa che tale era comunemente considerato nella chiesa nascente. Così pure il P/66, databile intorno al 200, e contenente i primi 14 capitoli e altri frammenti, definisce l'opera di Giovanni come Vangelo.
Vediamo, ora, quali sono gli elementi che definiscono il genere letterario "vangelo".
Il nome "vangelo"
Il termine deriva dal greco "euaggelion" con il quale si definiva nell'antichità una vittoria, la nascita del figlio del re e simili. Il termine applicato a delle opere letterarie è del tutto originale e ad esse non fu applicato subito. In bocca a Gesù significa l'annuncio del Regno di Dio in mezzo agli uomini, mentre nelle prime comunità indicava lo stesso Gesù Cristo.
Nella tradizione preevangelica sono già presenti quegli elementi fondamentali che costituiranno lo schema fondamentale su cui sarà strutturato il vangelo di Marco, con cui nascerà il genere letterario "vangelo". Nella predicazione di Pietro, riportata in At 10, 34-43, è riconoscibile uno schema narrativo molto semplice e antico che avrebbe costituito la struttura essenziale seguita, poi, da quelle opere letterarie denominate, poi, vangeli.
Lo schema narrativo
I vangeli, dunque, si presentano come uno sviluppo narrativo dello schema abbozzato in At 10,34-43 che a sua volta è definito "vangelo" in At 15,7.
Esso è costituito da tre momenti essenziali: a) battesimo predicato da Giovanni e inizio della vita pubblica di Gesù b) opere e predicazione di Gesù inquadrate in una cornice geografica c) morte e risurrezione con accenni degli inizi della vita ecclesiale.
I punti fondamentali che formano l'ossatura della predicazione apostolica si possono individuare nei seguenti:
1) Figura del Battista, la sua attività battezzatoria, il battesimo di Gesù che costituisce l'inizio della sua attività pubblica.
2) La fine del racconto, formato dalla morte e risurrezione.
3) Tra questi due confini si pone tutta l'attività di Gesù, parole ed opere, inserita in una cornice geografica essenziale: Inizio in Galilea, viaggio tra Galilea e Giudea, e in Giudea a Gerusalemme, tappa conclusiva.
Racconto storico kerigmatico
La nuova forma letteraria denominata "vangelo", prima kerigmatica poi scritta, è stata originata da un evento completamente nuovo, unico nella storia, quello di Cristo. Esso è il racconto di ciò che fece e disse Gesù, inserito in una cornice narrativa, ma senza alcun interesse per gli aspetti cronologici e topografici. In altre parole, il vangelo scritto risente di quello kerigmatico: esso è prevalentemente un annuncio di fatti che riguardano il passato, ma che interpellano il lettore nel presente e lo spingono ad una scelta di fede. Non si tratta, quindi, di una biografia, né tantomeno di una cronaca o di una storia del tempo.
Il racconto di Giovanni
Il racconto di Giovanni può essere definito a pieno titolo "vangelo". Esso, infatti, segue lo schema narrativo del genere letterario "vangelo", anche se in modo più libero e originale e affonda le sue radici in fonti diverse, ed è certamente un racconto storico-kerigmatico.
Gli elementi che caratterizzano, infatti, il QV sono:
Quanto al quadro topografico, anche per Giovanni la Galilea costituisce l'inizio dell'attività di Gesù: chiamata dei discepoli, primo segno di Cana, sua permanenza a Cafarnao. Vi è anche un viaggio dalla Giudea alla Galilea attraverso la Samaria. Gesù, poi, pera in tutta la Giudea e in particolare a Gerusalemme, che acquista molta importanza per Giovanni: qui, infatti, sana un paralitico da 38 anni, guarisce un cieco nato, risuscita un morto e compie altri segni come la purificazione del tempio. Qui viene posto il culmine della narrazione con la morte (18-19) e risurrezione di Gesù (20).
La cristologia in chiave rivelatoria
Ciò che colpisce particolarmente nel QV è il suo valore storico-kerigmatico: tutto il racconto è finalizzato a rivelare il mistero del Gesù morto-risorto e della sua vera natura. Tale finalità è chiaramente espressa in Gv 20,30-31: "Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" Si faccia attenzione che qui il termine "segno" va inteso in senso più ampio, cioè tutto ciò che Gesù ha compiuto in parole ed opere.
Da quanto ci dice l'autore nei vv. 30-31, egli sa che Gesù ha compiuto molti segni, ma ne ha operato una selezione. Ciò significa che il suo interesse non era rivolto a stendere una biografia, ma a porre in luce la vera natura di quest'uomo che egli qui definisce "Cristo" e "Figlio di Dio" e che sono gli stessi due appellativi che costituiscono gli obiettivi e lo schema narrativo di Marco: "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Mc 1,1).
Quanto, poi, ci viene narrato è finalizzato a dare una testimonianza ("questi sono stati scritti") e spingere il lettore a compiere una scelta di fede ("perché crediate") perché giunga alla salvezza ("perché abbiate la vita nel suo nome")
L'opera, quindi, presenta un duplice scopo: cristologico e soteriologico. Entrambi gli obiettivi sono perseguiti da tutti quattro i vangeli, ma il QV eccelle per originalità, maturità di fede e spiritualità.
L'autore del quarto vangelo
A partire dal cap. 13 appare nel QV una curiosa figura di discepolo il cui nome viene caparbiamente taciuto, mentre viene indicato con giri di parole in cinque passi:
1) Egli è il discepolo che Gesù amava (13,23) e che appoggia la testa sul petto di Gesù (13,25); 2) Egli è presente ai piedi della croce ed è affidato a Maria, che egli si prende in casa (19,26); 3) Riceve assieme a Pietro la notizia del sepolcro vuoto e con lui corre a vedere (20,2.3.4.8); 4) E' sempre lui che, dopo la risurrezione, riconosce Gesù (21,7.20); 5) E' lui colui che testimonia i fatti e li ha scritti (21,24)
Vi sono anche altri due passi (18,15-16 e 1,35.40) in cui si parla di "un altro discepolo", ma senza citarne il nome. Proprio questo particolare del "tacere il nome" identifica questo discepolo con quello "amato da Gesù".
In 18,15-16 questo discepolo è conosciuto dal Sommo Sacerdote e dal suo entourage così che egli riesce a far entrare Pietro nel cortile del Sommo Sacerdote, mentre lui presenzia al processo di Gesù. Un personaggio, quindi, che gode di una certa fama e di un certo potere.
Il secondo testo 1,35.40 parla di due discepoli, provenienti da Giovanni, di cui uno è Andrea, mentre l'altro rimane nell'anonimato più assoluto. Non viene neppure nominato con una qualche vaga indicazione. Semplicemente viene omesso.
Questo assoluto silenzio su questo discepolo che, invece, ricompare a partire dal cap. 13 non è casuale. Infatti, tale discepolo è identificato solo in relazione a Gesù. Agli inizi Gesù non era conosciuto da questo discepolo e, pertanto, la sua "non conoscenza" fa si che non vi sia comprensione di Gesù e, quindi, nessun rapporto speciale lo lega a lui. Ma a partire dal cap. 13 il discepolo esce parzialmente dal suo completo anonimato e diventa "discepolo amato", espressione che indica la profonda comprensione che nel frattempo si era verificata in questo discepolo e delinea il particolare rapporto che lo lega a Gesù che, a mio avviso, non va letto solo a livello affettivo, ma di profonda comprensione teologica del mistero di Cristo. Questa parziale uscita dall'anonimato indica un cammino di comprensione e di fede di questo discepolo che viene ad occupare un posto di primo piano nella comprensione e nel rapporto con Gesù e il suo mistero.
A questo punto si pongono tre questioni:
- Questo discepolo è un personaggio storico o simbolico? - Si identifica con Giovanni, figlio di Zebedeo? - Deve essere identificato con l'evangelista?
E' un personaggio storico o simbolico?
Secondo alcuni autori (Bultmann, Kragerud, Kugler) la figura di questo anonimo e misterioso discepolo è soltanto simbolica e viene identificata, di volta in volta, con il credente, con il discepolo, con la comunità giovannea. Infatti ciò che definisce il discepolo è la sua intima relazione di comunione con Gesù, da cui nasce la comprensione del suo mistero.
Assegnare un valore simbolico a questo personaggio non significa, ipso facto, negarne la storicità, poiché, se così fosse, non si comprenderebbe la preoccupazione del redattore finale di spiegare la morte finale del discepolo, correggendo la diceria che si era diffusa circa la sua permanenza fino al ritorno del Signore (21,21-23). Inoltre, in 18,15-16 questo discepolo sembra avere degli agganci storici ben precisi: è conosciuto dal Sommo Sacerdote e dal suo entourage e ciò gli consente di far accedere Pietro all'abitazione del Sommo Sacerdote e di seguire da vicino l'interrogatorio di Gesù.
E' identificabile con Giovanni, figlio di Zebedeo?
Secondo la tradizione il DP è identificabile in Giovanni, figlio di Zebedeo. Ne dà pure testimonianza Ireneo di Lione (140-202) il quale lo apprese, quando ancora era fanciullo, da Policarpo. Ma sembra che, considerata la distanza di tempo che intercorse tra l'apprendimento della notizia e la sua testimonianza, Ireneo abbia confuso questo Giovanni con un presbitero dell'Asia Minore.
Comunque, si afferma che non è ragionevole negare ciò che tutta la tradizione afferma e che cioè il DP è Giovanni, figlio di Zebedeo.
Tuttavia, tra le argomentazioni della tradizione non sembrano emergere dati probanti.
Certo è che assegnare il QV a Giovanni, figlio di Zebedeo crea più problemi che certezze, per cui oggi si tende a non identificare l'autore del QV con il figlio di Zebedeo per i seguenti motivi:
Il Colson, che fu il primo a mettere in dubbio l'identificabilità del DP con il figlio di Zebedeo, afferma che il DP proveniva dalla cerchia del Battista, quindi, dalla Giudea dove Giovanni aveva svolto l'intera sua attività e ciò spiega l'importanza data all'attività e alla predicazione di Gesù in Giudea e a Gerusalemme e in particolare del suo rapporto con la cerchia dei battisti. A tutto ciò va aggiunto anche il suo particolare rapporto con il Sommo Sacerdote e il suo entourage. Quindi, il DP non faceva parte della cerchia dei Dodici e non era della Galilea.
Il DP è identificabile con l'autore del QV?
Il radatore del QV afferma: "Questo è il discepolo che rende testimonianza a questi fatti e li ha scritti e sappiamo che la sua testimonianza e vera" (Gv 21,24). Il discepolo di cui si parla qui altri non è che il DP; l'importanza e l'autorità che gli sono attribuite provengono dalla sua testimonianza oculare e non per sentito dire.
A questo punto autori come il Brown e il Grelot affermano che si deve porre una distinzione tra l'autore del vangelo, inteso come fonte testimoniale, e lo scrittore dello stesso.
Questo DP con la sua predicazione e la sua testimonianza oculare crea un'aggregazione di discepoli attorno a lui formando una sua comunità. Sono questi che danno origine ad una raccolta scritta sull'insegnamento di Gesù e la sua opera. Tale discepolo, quindi, diventa ad essere una fonte privilegiata da cui si attinge il materiale per la composizione del vangelo, anche se non è lui direttamente che scrive. Lui funge solo da fonte, altri scrivono e redigono il vangelo.
Concludendo, si può affermare:
a) alla base della tradizione giovannea vi è certamente l'autorità del DP, personaggio realmente storico e seguace di Gesù fin dagli inizi e che proviene dalle fila del Battista. E' la sua testimonianza che rende attendibile il QV, anche se non da lui direttamente esteso e redatto.
b) Il fatto, poi, che la tradizione attribuisca il QV a Giovanni, figlio di Zebedeo, uno dei dodici, va letto come il voler agganciare alla tradizione apostolica questo vangelo, dandogli così l'imprimatur dell'autenticità e aprendogli, così, le porte alla canonicità.
c) Quanto alla distinzione tra autore ed estensore va detto che la questione non è di facile soluzione, tuttavia, una cosa è certa: considerata la unità di stile e la profondità teologica che pervade l'intero QV è indiscutibile che il DP ha esercitato una determinante e prolungata influenza nella composizione del testo, lasciandovi la sua indelebile e ben visibile impronta.
Storia della comunità giovannea
Diversi studi si sono prodotti sulla comunità giovannea senza che con ciò si sia giunti a delle certezze comunemente divise. Si ipotizzano, pertanto, le seguenti fasi della sua formazione, il cui sviluppo e struttura si configurano a cerchi concentrici sempre più ampi:
Le tappe storiche della formazione della comunità
E' possibile individuare tre momenti fondamentali nella storia della formazione della comunità: a) sua origine in terra palestinese; b) allontanamento dalla Palestina; c) crisi interna.
a) Origine palestinese: a differenza delle altre comunità di origine apostolica, quella giovannea vede una lunga e perdurante presenza del DP in mezzo a sé che la caratterizza. E' una comunità che intrattiene rapporti con i Battisti, che è in buone relazione con i convertiti samaritani e che si caratterizza per l'approfondimento della cristologia e la relativizzazione degli elementi istituzionali, forse per il suo carattere carismatico e per la lunga presenza del DP. Essa è particolarmente presa di mira dai Giudei. b) Allontanamento dalla Palestina: l'aspra polemica con la sinagoga, che ha investito l'intera chiesa nascente (v. Matteo), e forse l'eccessiva indipendenza dal resto della chiesa in formazione e che si stava istituzionalizzando, ha provocato una dispersione della comunità, stanziatasi in Asia Minore, probabilmente ad Efeso, a stretto contatto con quelle paoline. La dispersione porta ad evidenziare l'elemento universalistico nel QV e caratterizza il suo linguaggio che tiene conto dell'ambiente ellenistico. E' questo il tempo in cui si forma, infatti, il QV. c) La crisi interna: la 1Gv 2,19 afferma: "... sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri". Questo inciso rileva come all'interno della comunità, forse per infiltrazioni della dottrina gnostica o del vario pensiero ellenistico, si era creata una spaccatura nella comunità. Coloro che si sono allontanati vengono aggrediti con termini molto duri: anticristi, ingannatori, mentitori, falsi profeti. I tratti che caratterizzano quelli che si sono allontanati sono di tipo cristologico (negano che il Gesù venuto nella carne sia Cristo e Figlio di Dio) e di tipo etico (svalutano l'impegno morale e la realtà del peccato. E' questo il contesto storico in cui vengono composte le tre lettere e, forse, il cap. 21 del QV. La crisi verrà superata con la riaffermazione di Gesù come Messia e Figlio di Dio (1Gv 1,1-4)
Unità letteraria del QV: il problema e le spiegazioni
Da un'attenta analisi del QV si rilevano differenze di stile, delle fratture e delle incoerenze nella narrazione, delle ripetizioni, che spingono a pensare che l'opera non sia nata di getto e tutta insieme, ma abbia, invece, avuto una lunga gestazione e abbia passato più mani. Vediamole in dettaglio.
Differenze di stile
Innanzitutto, l'articolazione e la cadenza poetica del prologo non è rilevabile altrove, come alcuni suoi termini (logoj, carij, plerwma) e la duplice menzione di Giovanni Battista in 1,6-8 e 1,15.
Alcune particolarità stilistiche, poi, sembrano tradire la diversa paternità del cap. 21.
Fratture e incoerenze
a) In 1,29-34 il Battista presenta ai suoi discepoli l'identità di Gesù e ne spiega la missione, ma in 3,26-30 sembra che essi non capiscano niente. b) In 2,11 è segnalato il primo miracolo a Cana, poi Gesù a Gerusalemme compie altri miracoli (2,23), poi torna a Cana e qui viene segnalato il suo secondo miracolo (4,54). c) In 13,36 Pietro domanda a Gesù dove sta andando, mentre in 16,5 Gesù si lamenta perché nessuno gli abbia domandato dove vada. d) In 12,36 si dice che "Gesù se ne andò e si nascose da loro", mentre pochi versetti dopo, in 12,44-50 vi è una proclamazione pubblica di Gesù. e) In 14,31 Gesù dà l'ordine di partire, ma l'ordine viene eseguito dopo tre capitoli in 18,1. f) In 20.30-31 appare chiara la conclusione del Vangelo, segue però un altro capitolo con un'altra conclusione. g) I capp. 4 e 6 sono ambientati in Galilea, mentre i capp. 5 e 7 in Giudea
Ripetizioni
a) Nei capp. 15-16 si trovano temi ed espressioni già incontrati nei capp 13-14 b) In 10,40-42 e 12,37-43 sembra esserci una duplice conclusione del ministero pubblico di Gesù.
Infine si rilevano delle tensioni teologiche nella duplice interpretazione della lavanda dei piedi con valore cristologico l'una, con valore paradigmatico-parenetico l'altra. L'idea di morte espiatrice di Gesù che compare in cinque passi sembra evitata nel resto del vangelo.
Tentativi di spiegazione
Già si è detto che il QV non fu scritto di getto e in una volta sola, ma ha subito più passaggi e diverse mani che hanno causato quasi certamente le incongruenze sopra accennate. Vediamo ora le ipotesi più significative. Cambio di fogli: da Taziano (II sec.) in poi si sono motivate le incongruenze narrative con un generico spostamento occasionale di alcuni passi causato accidentalmente, anche se personalmente questo mi sembra un disperato tentativo di spiegazione.
Utilizzo di fonti diverse
L'evangelista avrebbe utilizzato diverse fonti per la composizione del suo vangelo. In tal senso interessante, anche se inaccettabile, risulta essere l'ipotesi delle tre fonti di Bultmann: a) fonte dei segni da cui l'autore ha selezionato quei segni distribuiti nei primi 12 capitoli; b) fonte dei discorsi di rivelazione; c) fonte del racconto della passione e apparizioni.
Un'ipotesi, come si è detto criticabile per vari motivi, ma in particolare per la solida e profonda unità di stile e di teologia da cui segni, discorsi e racconti sono informati; unità che è stata ampiamente confermata anche da approfonditi studi riguardanti il vocabolario, lo stile, la lingua e la grammatica.
Redazioni multiple
Si è ipotizzato, ancora, l'esistenza di un nucleo originario di materiale successivamente rielaborato più volte fino ad ottenere il nostro QV. Si è pensato ad almeno due redattori: un evangelista-scrittore e un redattore-compilatore. C'è, poi, chi ha pensato ad una riscrittura completa e chi, invece, ad una semplice aggiunta di alcuni passi.
In tempi recenti si è formulata una nuova critica letteraria, consistente in un'indagine storico-redazionale che studia gli interventi redazionali successivi alla prima stesura. Stadi di composizione
Questo rinnovato sforzo di comprensione della formazione del QV ha portato a studi più approfonditi che mirano a ricostruire la storia e la teologia della comunità giovannea. Una di queste ipotesi è stata formulata dal Brown che individua cinque stadi nella formazione del QV:
Su quanto esposto, si è giunti a delle conclusioni accolte dalla quasi totalità degli studiosi: il QV è un'opera unitaria che fa capo ad una forte personalità del cristianesimo primitivo. Tale unità deve essere sempre e comunque salvaguardata pur tenendo conto del contesto storico culturale in cui è sorto (interazione tra giudaismo ed ellenismo, opposizione tra giudaismo e cristianesimo, diversi gruppi marginali).
La struttura del quarto vangelo
Premessa
Numerose sono state le proposte di struttura del QV (85 sono i diversi modelli). Ma che cosa si intende per struttura? La potremmo definire come l'ossatura, lo scheletro attorno a cui si aggrega il vario materiale, creando relazioni tra le sue varie componenti, informate dal pensiero teologico dell'evangelista.
L'idea guidaCome una qualsiasi opera letteraria, anche la struttura del QV è determinata da un'idea guida che funge da polo catalizzatore e da principio organizzatore delle varie parti di cui è composto il materiale. Tale principio catalizzatore può essere colto in Gv 16,28: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Di nuovo lascio il mondo e vado al Padre". E' proprio questo uscire dal Padre per venire nel mondo e il suo ritorno al Padre che percorre tutto il QV. Se ben si guarda questa "uscita-discesa e ritorno" riproduce e riprende in un certo qual senso la struttura dell'inno cristologico della lettera ai Filippesi (2, 6-11) in cui vediamo il Figlio che esce dalla gloria del Padre, di cui condivide la natura, si abbassa assumendo la natura umana, toccando i livelli più profondi e iniqui della storia, per poi essere innalzato dal Padre e ricondotto nella sua gloria originale che gli era propria.
Tale uscita dal Padre e venuta nel mondo e il suo ritorno al Padre sono espressi da Giovanni con varie forme verbali disseminate qua e là in tutto il suo vangelo e che fungono da filo invisibile che dà unità, sostanza e dinamismo a tutta la sua opera, come ad esempio: "ercomai", "exercomai", "apercomai" "katabainw", "anabainw".
Sono verbi che sottendono la teologia giovannea che gira attorno a questo duplice viaggio di Gesù "dal Padre nel mondo - dal mondo al Padre": il Figlio, l'unico che dimora nel Padre e che lo ha visto, lascia il Padre facendosi carne e venendo tra di noi. Questo ha avuto come conseguenza i segni, i dialoghi, discorsi, dispute, provocazione che il Figlio, uscito dal Padre, lancia all'uomo, spingendolo ad una scelta radicale di fede e di apertura al Padre.
Accanto a questa idea guida del "Viaggio" possiamo accostare anche quella della "Rivelazione" del mistero di Gesù, testimoniata anche questa da una serie di verbi che indicano testimonianza, manifestazione, conoscenza. Una rivelazione, comunque, che appare concretamente nei segni, nei dialoghi e discorsi che li accompagnano.
Concludendo, potremmo dire che l'idea guida è costituita dal "viaggio di Gesù in vista della rivelazione del Padre". Ovviamente a fronte di questo viaggio-rivelazione corrisponde la risposta dell'uomo, stimolato da segni e parole. La venuta di Gesù, quindi, determina una "crisi", cioè una divisione tra accoglienza e rifiuto.
La macrostruttura
All'interno del QV ci sono dei segnali, quasi delle pietre miliari, che segnano lo snodarsi del racconto e ne indicano le tappe fondamentali. Tra queste ricordiamo le conclusioni e le introduzioni.
Le conclusioni
a) Una prima conclusione importante è quella posta alla fine del vangelo in 20, 30-31. Essa è una sorta di sommario conclusivo in cui ci viene detto che i segni riportati sono frutto di una selezione finalizzati a stimolare una risposta di fede in Gesù quale Cristo e Figlio di Dio, così che il lettore possa ottenere la salvezza. Una duplice finalità, dunque, cristologica e soteriologica.
b) Tutto potrebbe terminare qui, ma vi fu aggiunto un ulteriore capitolo, il 21° dal sapore ecclesiologico, che possiede, a sua volta, un'ulteriore conclusione in 21,24-25. Essa riprende in buona sostanza la precedente, rivelandoci l'autore del QV: il discepolo prediletto. Versetti questi composti, probabilmente, dopo la sua morte.
c) Nel corso del vangelo, però, si incontra un altro testo che ha le caratteristiche della conclusione. Si tratta dei vv 12,37-50, articolati in due sezioni: vv. 37-43 e 44-50.
La prima sezione (vv.37-43) costituisce una sorta di sommario dell'opera di Gesù e un suo bilancio piuttosto deludente: "Sebbene avesse compiuti molti segni davanti a loro, non credevano in lui", a cui viene fatta seguire la ragione teologica di tale fallimento: "... perché si adempisse la parola del profeta Isaia".
La seconda sezione (vv.44-50) possiede anch'essa un carattere riassuntivo della predicazione di Gesù e costituisce una sorta di amara riflessione, espressa nel grido di Gesù ("Gesù allora gridò a gran voce") in cui vengono ripassati i temi della sua predicazione presentata nei primi 12 capitoli: la necessità di credere in Gesù inviato da Dio, Gesù luce del mondo, il non rimanere o camminare nelle tenebre, la missione di Gesù finalizzata alla salvezza e non alla condanna.
Tre, dunque, le conclusioni riscontrabili nel QV: due poste alla fine dello stesso (20,30-31 e 21,24-25) e una intermedia, posta alla fine della vita pubblica di Gesù (12,37-50).
Le introduzioni
Il QV inizia con una duplice introduzione una di tipo poetica (1,1-18), che si è soliti definire prologo e che anticipa le tematiche dell'opera: la preesistenza del Verbo, contemplato presso la gloria del Padre con cui condivide la natura, la sua incarnazione, il tema della inintelligenza ("il mondo non lo riconobbe"); quello del giudizio espresso nell'accoglienza e nel rifiuto del Verbo incarnato; e ancora il tema della testimonianza, dalla vita, della verità e della luce contrapposte alle tenebre, temi questi che caratterizzano l'intero QV. Viene, infine, anticipata la figura del Battista, visto come la voce intermedia del Verbo di cui prepara la strada (significativi, infatti, sono a mio avviso, la posizione dei versetti con cui viene introdotta la figura del Battista, posti tra la contemplazione del Verbo eterno ancora presso Dio e la sua venuta nel mondo - 1,6-8 -).
A questa prima introduzione ne segue subito un'altra di tipo narrativo-rivelativo (1,19-51) divisibile in tre sezioni: a) la presentazione della figura di Giovanni e il senso della sua missione; b) il primo annuncio della figura di Gesù, quale agnello di Dio e la sua missione: togliere il peccato del mondo; c) la costituzione dei primi discepoli, che formano la nuova comunità messianica raccolta attorno a Cristo.
Essa termina con un annuncio che forma da aggancio all'attività pubblica di Gesù: "Vedrai cose maggiori di queste" (1,50). A questo punto presentiamo una panoramica dell'intera struttura del QV:
A) Introduzione (1,1-50) contenente
- un prologo innico (1,1-18) : Inno al Logos - un prologo narrativo (1,19-51): Testimonianza del Battista su se stesso e su Gesù Incontro con i primi discepoli
B) Il Libro dei segni (2,1-12-50) comprendente
le sezioni "da Cana a Cana" (2,1-4,54) da Cana sale a Gerusalemme e, attraverso la Samaria torna a Cana dove compie il secondo segno. In questa sezione Gesù cambia l'acqua in vino, purifica il tempio, incontra Nicodemo, ultima testimonianza sul Battista e incontro con la Samaritana, guarigione del figlio del funzionario regio a Cana (secondo segno)
"Gesù reinterpreta le feste giudaiche" (5,1-10,42) - Sabato: opera di sabato come il Padre. - Pasqua: Gesù dona il pane che sostituisce la manna di Mosé e si dichiara Pane vivo. - Capanne: Gesù si dichiara acqua viva e luce, segue guarigione del cieco. - Dedicazione: Gesù si dichiara messia e Figlio di Dio.
"Gesù verso l'ora della gloria" (11,1-12,36) - Gesù restituisce la vita a Lazzaro e i Giudei decretano la morte di Gesù.
"La conclusione" (12,37-50) - Duplice valutazione dell'operato di Gesù: constatazione dell'incredulità nonostante i segni. Discorso di Gesù riepilogativo della sua predicazione che, non accolta, diviene motivo di condanna.
C) Il Libro della Gloria o del compimento e ritorno (13,1-20-31) comprendente
le sezioni "L'ultima cena" (13,1-30) "Ultimi discorsi di Gesù" (13,31-17,26) "Racconto della passione" (18,1-19,42)
Si svolge tra i due orti: quello del Getsemani e quello del sepolcro nuovo. Di mezzo si pone l'arresto e l'interrogatorio di Gesù presso Anna; processo davanti a Pilato, crocifissione e sepoltura.
"Racconti pasquali" (20,1-29)
Sono sviluppati in due dittici:
"La conclusione" (20,30-31) Vengono esplicitate le finalità del Vangelo.
D) L'epilogo (21,1-25) Nuova apparizione ai discepoli e colloquio con Pietro. Segue una nuova conclusione.
Presentata schematicamente la macrostruttura, ci soffermiamo a considerare le particolarità che caratterizzano le due parti principali che la compongono: il Libro dei segni (2,1-12,36) e il Libro della Gloria (13,1-20,29).
Caratteristiche della prima parte: il Libro dei Segni
La prima parte del QV viene definita anche come la sezione del "Libro dei segni" che si presenta come una selezione di "segni" operati da Gesù, i quali sono accompagnati da discorsi chiarificatori che ne evidenziano il senso e aprono alla rivelazione e sono disseminati nei primi 12 capitoli :
- Le nozze di Cana (2,1-12)
- La guarigione del figlio del funzionario regio (4,43-54) - La guarigione del paralitico da 38 anni (5,1-16) - La guarigione del cieco nato (9,1-41)
- La moltiplicazione dei pani (6,1-15) - Gesù cammina sulle acque (6,16-21)
- Risurrezione di Lazzaro (11,1-45)
Il primo è il segno introduttivo che apre il cammino di Gesù verso l'ora; tre riguardano le guarigioni; due presentano il dominio di Gesù sulla natura e l'ultimo è il segno conclusivo che preannuncia che l'ora è giunta. Tutti i segni contengono in sé una forte tensione verso l'ora e scandiscono il cammino rivelativo di Gesù verso questa meta finale, che domina tutta l'attività di Gesù e la caratterizza come attività rivelativa.
Il termine segno in questa grande sezione ricorre per ben 17 volte, mentre non si ritrova più a partire dal cap.13 ed è accompagnato da una serie di verbi come fare, credere, mostrare.
Questa prima sezione, inoltre, presenta una serie di personaggi che in essa si muovono e la animano: i discepoli, la madre di Gesù, Nicodemo, la Samaritana, il funzionario regio, il malato da 38 anni, il cieco nato, Lazzaro, Marta e Maria. Giudei e l'anonima folla costituiscono i suoi interlocutori abituali.
Con questi segni Gesù si rivolge a tutti, opera sempre in pieno giorno, segno della rivelazione che si manifesta (con la Samaritana l'evangelista ci ricorda che si era verso mezzogiorno). Tutto il capitolo è un progressivo manifestarsi e autorivelarsi di Gesù. Questo è il tempo del giudizio, della separazione, il tempo delle scelte.
Caratteristiche della seconda parte: il Libro della Gloria
Questa seconda parte è caratterizzata dal compimento dell'opera che il Padre ha affidato al Figlio e dal ritorno al Padre. E' il libro in cui si conclude il cammino di Gesù verso l'ora della sua glorificazione che è anche piena rivelazione. Non a caso questa ampia sezione che comprende i capp. 13-20 è preceduta dalla conclusione della sezione dei segni e della vita pubblica di Gesù (12,37-50) e si conclude con la finale del libro (20,30-31) in cui vengono evidenziate le finalità dell'opera, di tipo cristologico e soteriologico.
Se la prima parte del QV era caratterizzata dal termine "semeion", accompagnato dai verbi fare, credere, mostrare, questa seconda parte è scandita dalla ripetuta presenza del termine "teloj" e dal verbo "telestai". Non a caso questa sezione si apre con l'espressione "eij teloj hgaphsen autouj", un amore che si compie fino alla fine, in modo totale e totalizzante, mentre l'ora della morte è l'ora del pieno compimento: "telestai", "E' compiuto".
Le tematiche qui presentate sono la "venuta dell'ora", "il passaggio da questo mondo al Padre" e "l'amore" tutte unite tra loro da un invisibile filo conduttore: il compimento.
Quanto alla "venuta dell'ora" troviamo che nella prima parte Gesù afferma più volte che la sua ora non era ancora venuta. Non a caso già con il primo segno viene annunciato questo, quasi un "la" che viene dato a tutta la prima parte.Ma nel capitolo 12, che costituisce la fine della prima parte e il passaggio alla seconda Gesù afferma che la sua ora è giunta e che per questo egli è venuto, evidenziando con ciò la sua piena accettazione.
Quanto alla "partenza di Gesù" essa è contrassegnata da una serie di verbi che la indicano e tutti disseminati nella seconda parte e indicano il ritorno di Gesù al Padre e, quindi, il compimento della sua missione. Essa è caratterizzata dal grande discorso di addio che abbraccia ben cinque capitoli (capp.13-17).
Quanto all' "amore" è un termine che ricorre un po' in tutto il QV, ma che è maggiormente concentrato nella seconda parte. Non a caso la seconda parte si apre con l'espressione di un amore portato a pieno compimento: "eij teloj hgaphsen autouj".
Come per la prima parte, anche questa seconda è animata da una serie di personaggi che caratterizzano le sezioni di questa seconda parte:
PRIMA LETTERA DI GIOVANNI
Premessa
Vedi note a pag.1
Caratteristiche letterarie e occasione della redazione
Questo scritto viene definito come "Lettera", ma in realtà non ne possiede le caratteristiche. Mancano, infatti, il mittente, il destinatario, i saluti e la conclusione. Come genere letterario, quindi, è più vicina al genere epistola, forse una sorta di enciclica rivolta alle varie comunità dell'Asia Minore, minacciate dalla stessa eresia, che provoca divisioni interne.
L'autore non specifica né persone né luoghi sia perché riteneva, forse, che lo scritto potesse essere utile anche in altri contesti ecclesiali o, forse, perché il fenomeno era talmente diffuso e noto per cui non c'era bisogno di tanti riferimenti, conosciuti da tutti.
Quanto all'anonimato della lettera, si può pensare che l'autore taccia il suo nome, sostituito dal "noi", perché parla a nome dei responsabili della o delle comunità ecclesiali, forse coalizzatisi contro questo cancro dottrinale, ormai in metastasi.
Essa possiede un elevato spessore dottrinale e una forte potenza di convinzione, basti pensare che il verbo "sapere" ricorre in tutta la lettera ben undici volte.
Un'altra caratteristica dello scritto sono i tratti parenetici: l'autore si rivolge ai credenti con tono esortativo, chiamandoli "teknia" (9 volte) e "agaphtoi" (6 volte), la quale cosa denuncia l'autorità e il rapporto familiare e di profonda conoscenza che l'autore ha nei confronti dei destinatari.
Non si tratta, quindi, di una parenesi generica, poiché essa fa riferimento ad avvenimenti contingenti precisi, a minacce di divisioni e confusioni che serpeggiano tra le comunità cristiane, che stanno attraversando una grave crisi, per cui il tono si fa duro e polemico contro i fomentatori di queste divisioni. E' al corrente, inoltre, dello stato morale e spirituale dei destinatari e delle loro sofferenze.
Ma chi sono questi personaggi contro cui si scaglia l'autore? Sono quasi certamente dei predicatori che si sono presentati presso le comunità e diffondono strane dottrine dal sapore gnosticheggiante. Essi pretendono di conoscere Dio e di vivere in comunione con lui e di essere nella luce, ma in realtà negano che Gesù sia il Messia e il Figlio di Dio e non ammettono l'incarnazione. Inoltre, presumono di essere senza peccato e non si preoccupano di osservare i comandamenti, in particolare quello dell'amore fraterno.
Contro questi personaggi, l'autore si scaglia con durezza incredibile e una notevole carica aggressiva, definendoli anticristi, mentitori, seduttori e profeti di menzogna. Tuttavia lo scritto non vuole combattere gli eretici, ma mettere in guardia i credenti. Il tutto sotteso da un'unica tesi: non c'è comunione con il Padre senza il riconoscimento e l'accettazione dell'azione mediatrice del Figlio, incarnatosi e testimoniato dai primi testimoni. Lo sfondo dottrinale
Benché lo scritto citi soltanto una volta l'AT in 3,12 ("Non come Caino che era dal maligno e uccise il fratello"), tuttavia esso è costruito tutto attorno al tema della nuova alleanza promessa dai profeti, come Geremia ed Ezechiele, ma riformulata secondo la prospettiva cristologica giovannea. Essa è costantemente richiamata dalle espressioni "conoscere Dio", "essere in comunione con Dio".
Numerosi, inoltre, sono i punti di contatto con gli scritti di Qumran. Nella "Regola della Comunità", infatti sono state trovate espressioni come "camminare nella verità", "il peccato", "lo spirito della verità" e così pure per il contrasto tra "luce e tenebre", "Dio e il mondo", "verità e menzogna". Tuttavia va precisato che il dualismo giovanneo non è metafisico, ma etico.
Infine, è stato recentemente rilevato l'influsso che questo scritto ha avuto sulla riflessione cristiana primitiva e in particolare sulla catechesi battesimale. Temi battesimali sono considerati i numerosi richiami al "principio", ciò che si "è udito", l'invito a "riconoscere i propri peccati" e a professare la fede in "Gesù Cristo, figlio di Dio incarnato".
La struttura di Ignace de la Potterie
Premessa
Ignace de la Potterie per individuare la struttura dello scritto, parte dalla considerazione che il modo di pensare e scrivere di Giovanni è "a spirale", cioè si muove attorno alla stessa idea fondamentale, che torna più volte, ma sotto aspetti nuovi e diversi, con una netta progressione tra un passaggio all'altro. E' una sorta, quindi, di scala a chiocciola che gira sempre su se stessa, ma porta sempre in posizioni diverse e sempre più alte, fino al vertice. Legge fondamentale di questa spirale è il parallelismo, che si può definire anche come principio della ripetizione progressiva.
Questa idea centrale l'autore la espone all'inizio, nei vv. 1,1-4, e, analogamente, alla fine in 5,13. Dal confronto di questi due passi emerge che l'autore vuole dare la certezza che i credenti sono nella piena comunione con Dio e ne fornisce i criteri identificativi. L'oggetto della fede è il Verbo della vita che testimoni qualificati hanno veduto, udito e toccato e annunciano ai credenti perché essi siano in comunione con questi testimoni e, tramite loro, con il Padre e suo Figlio Gesù Cristo. Evidenziato, dunque, l'oggetto della fede attorno cui si crea una comunione di vita tra tutti i credenti e il Padre, in 5,13 viene data rassicurazione che la vita eterna, proprio grazie alla fede che immette tutti i credenti nel ciclo vitale di Dio, è da loro posseduta pienamente.
La struttura
La struttura è composta da tre cicli compresi tra un prologo (1,1-4), che annuncia il tema principale, e un epilogo (5,13-21), che conclude e ricapitola i temi fondamentali. Ogni ciclo, composto a sua volta da tre sezioni, tranne l'ultimo in cui è omesso il criterio negativo della rinuncia al peccato, costituisce una continua e ripetuta ripresa dell'idea centrale: i criteri della nostra comunione con Dio.
1- a) camminare nella luce e b) praticare la giustizia, rinunciando al peccato; 2- a) praticare il comandamento dell'amore b) sull'esempio del Figlio di Dio, c) un amore che viene da Dio e si radica nella fede; confessare la fede. 3- a) confessare la fede di fronte al mondo, b) fede in Gesù Cristo in opposizione al mondo, c) fede nel Figlio di Dio, fondamento dell'amore e della comunione
PROLOGO (1,1-4) : enunciazione del tema fondamentale
Temi privilegiati della Lettera
Dall'esposizione della struttura proposta da Ignace de la Potterie, rileviamo come i primi due cicli sono perfettamente paralleli tra loro e trattano in modo diverso e crescente degli stessi temi. Nel terzo ciclo, invece, non è presente la prima sezione, quella della rinuncia al peccato poiché essa, in un certo qual senso, è contenuta e superata dai seguenti temi della fede e della carità, che si alternano frequentemente.
Si può cogliere, infatti, una crescente relazione tra fede e carità: nel primo ciclo esse sono soltanto accostate,senza alcun nesso; nel secondo ciclo sono collegate superficialmente; nel terzo ciclo si sviluppa un nesso profondo.
Il tema dell'amore, poi, ha uno sviluppo progressivo nei tre cicli: nel primo ciclo è considerato sotto l'aspetto parenetico-ecclesiale, come prassi morale; nel secondo ciclo viene riassunto l'aspetto precedente a cui viene aggiunto quello cristologico; nel terzo ciclo si arriva all'aspetto teologico.
Ma anche il tema della fede viene approfondito progressivamente. Sia nel primo che nel secondo ciclo la fede appare solo nel suo aspetto esteriore ed ecclesiale, come confessione di fede (usati verbi "omologew" e "pisteuw" + dat., cioè credere a qualche cosa o a qualcuno. Nel terzo ciclo, invece, la fede acquista un pieno senso teologale, qui compare l'espressione "pisteuw eis" che esprime il movimento esistenziale della fede che si muove verso l'oggetto del proprio credere e ad esso si apre.
In conclusione, lo scritto vuole mostrare quali sono i criteri che definiscono quelli che credono in Dio: la carità che si radica nella fede, considerata come realtà teologale interna.
L'APOCALISSE DI GIOVANNI
Il termine apocalisse deriva dal greco "Apokaluyij", cioè svelamento, rivelazione di Gesù Cristo. Questo genitivo è soggettivo e oggettivo al tempo stesso. Soggettivo, in quanto l'autore della rivelazione è Gesù Cristo, che l'ha ricevuta dal Padre; oggettivo in quanto l'oggetto di questa rivelazione è Gesù Cristo stesso.
Procedimenti di composizione e struttura letteraria
Leggendo attentamente l'opera si ha l'impressione che le sue diverse parti si intersechino l'una nell'altra per poi frammentarsi. Alla base di questo modo di procedere stanno alcuni procedimenti letterari su cui, poi, si impianta la struttura stessa del libro. Eccone alcuni tipi.
Procedimenti di composizione
La struttura
Dagli accenni circa i procedimenti letterari che tipizzano l'opera si può ricavare una struttura di massima che regge l'intero libro.
Il Libro risulta composto di due parti ineguali incorniciate da un'introduzione (1,1-3) e da un epilogo (22,6-21) che è una specie di conversazione tra il Cristo risorto e il veggente.
La prima parte (1,4 - 3,22), si apre con il nome dell'autore dell'opera e il mittente delle sette lettere (Giovanni) nonché i destinatari dello scritto (le sette Chiese dell'Asia) e i saluti ("grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene").Si tratta, quindi di un'opera che ha una cornice di lettera e contiene, infatti, sette lettere inviate ad altrettante chiese.
La seconda parte (1,5 - 22,5) presenta una struttura piuttosto complessa e diseguale e si può suddividere in cinque parti:
a) La prima, che ha carattere introduttivo, presenta i personaggi e gli elementi che poi entreranno in azione nel corso del Libro: Dio, la sua corte celeste, l'agnello e i sette sigilli (capp. 4-5)
b) La seconda è caratterizzata dall'apertura dei sette sigilli e dall'apparizione di quegli elementi che caratterizzano la lotta tra il bene il male (capp. 6-7)
c) La terza parte inizia con l'apertura del settimo sigillo e il suono delle prime sei trombe che scatenano una serie di rovesciamenti storici, espressione della lotta tra il bene e il male in un drammatico crescendo (8,1 - 11,14)
d) La quarta parte presenta tre segni: la donna che sta per partorire, il drago e i sette angeli con le sette coppe. Anche qui la lotta tra il bene e il male assume contorni di un dramma crescente fino all'arrivo culminante del "gran giorno di Dio onnipotente" (11,15-16,16).
e) La quinta parte ha carattere conclusivo e presenta la condanna definitiva del male e l'esaltazione del bene: tutto confluisce nella sintesi finale della Gerusalemme celeste (16,17-22,5)
Il genere letterario
Il genere letterario è chiaramente quello apocalittico, sorto intorno al II secolo a.C. e si estende a tutto il III sec. d.C. Occupa, quindi, un'estensione di circa cinque secoli da cui ci provengono una trentina di testi apocalittici.
La finalità di queste opere, che sorgono in momenti difficili della storia del popolo ebreo, è quella di aiutare a sperare e a resistere chi soffre oppressione e persecuzione, dando una lettura teologica degli eventi della storia: dietro questi sconvolgimenti ci sta la lotta tra il bene e il male, ma il bene avrà, alla fine, il sopravvento sul male e Dio instaurerà il suo regno. Non si deve, pertanto, temere perché dietro a tutto c'è la mano provvida di Dio che conduce la storia in modo saldo e sicuro e sostiene e non abbandona chi gli è fedele, anche, se talvolta, il male sembra avere il sopravvento, ma sarà solo per un breve tempo. Tutto è sotto il controllo di Dio e tutto è da lui condotto alla vittoria finale.
In questa opera giovannea c'è, tuttavia, un qualcosa di nuovo che manca alla normale apocalittica: c'è l'elemento della "profezia" che pone l'opera sulla linea dei profeti veterotestamentari, qualificandola, quindi, come la voce di Dio in mezzo al suo popolo che aiuta il popolo a leggere teologicamente la storia e lo sorregge nei momenti di difficoltà, mantenendolo compatto e orientato verso Dio.
Altro aspetto innovativo: mentre le altre apocalissi attendevano l'instaurazione del regno di Dio alla fine della storia, quest'opera, invece, dà già per attuato questo avvento del Signore e tutta la storia ruota attorno a Lui, al Cristo incarnato, morto e risorto. E', quindi, una sorta di apocalisse cristocentrica che annuncia come già compiuto il tempo della venuta di Dio e della sua vittoria sul male. In essa è contenuta una sorta di escatologia presenziale che informa e guida tutta la storia e ogni credente.
Il Libro è destinato ad una lettura liturgica; ce lo indica sia il rapporto tra lettore e ascoltatore con cui si apre l'opera: "Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia" (1,3); sia il fatto che tutta la vicenda avviene "en th kuruakh hemera" (1,10), cioè "nel giorno del Signore" in cui i cristiani solevano riunirsi per celebrare la risurrezione di Cristo e in cui tutto il libro è inquadrato.
Il simbolismo
Tutta l'Apocalisse fa un ampio ricorso al simbolismo, anzi si può ben dire che è integralmente impregnata di simboli che spesso si accavallano l'uno sull'altro, sfiorando l'ermetismo. Per comprenderla, dunque, bisogna saper decodificare il simbolo da cui scaturisce una ricchezza teologica unica nel suo genere. Un esempio lo abbiamo in 5,1.6.
Mettendo un po' di ordine tra l'esuberanza dei simboli, potremmo individuare delle costanti simboliche:
a) simbolismo cosmico: cielo, dimora di Dio; stelle segno della sua trascendenza; sole e luna, espressioni del tempo che scandiscono con il loro regolare sorgere e calare; la terra espressione dell'habitat naturale dell'uomo su cui si svolge la sua avventura storica.
b) sconvolgimenti cosmici: sole, luna, stelle, terra nel loro insieme delineano l'habitat naturale dell'uomo, da lui conosciuto e familiare. Il suo sconvolgimento (sole ce si oscura, luna che si tinge di sangue, stelle che cadono, terra devastata dal fuoco) esprimono da un lato il giudizio di Dio su un mondo che lo rifiuta e dall'altro la fine di un mondo vecchio er lasciar posto ad uno nuovo, che nasce dalle logiche di Dio. E Dio sta operando tutto questo.
c) Simbolismo teriomorfo: fa riferimento agli animali che esprimono il vario manifestarsi dell'azione divina come i cavalli, il leone, l'agnello, dall'aquila; ma anche impersonificano il male significato nel drago, nel serpente antico, l'agnello che ha la voce del drago, le cavallette, ecc. Tutti questi animali scompariranno all'apparire della Gerusalemme celeste, rimarrà soltanto l'Agnello, simbolo del Cristo risorto.
d) Simbolismo cromatico: il bianco esprime la realtà trascendente di Dio; il rosso, la crudeltà che si accanisce sulla vita umana; il verde, che indica la caducità; il nero, la negatività il cui contenuto è specificato in seguito (la carestia e la carenza di beni essenziali per la vita dell'uomo).
e) Simbolismo aritmetico: il 7 indica la totalità; il 3,5 indica parzialità; 1000 esprime la totalità propria di Dio e di Cristo; 144 (il quadrato di 12) indica l'elezione e la perfezione; il 10 sembra indicare la limitazione.
La Teologia del Libro
L'Apocalisse presenta alcuni temi teologici generali, quali Dio, Cristo, la Chiesa e la teologia della storia; e un tema teologico di fondo: il cammino della Chiesa nella storia.
Dio: è visto come colui che, seduto sul trono, detiene saldamente i destini degli uomini e della storia, concepita come sua creatura privilegiata. E' l'autore della salvezza ed è colui che attuerà il definitivo rinnovamento alla fine dei tempi.
Cristo: è colui che è morto, risorto ed è il vivente. E' colui che sostiene la Chiesa nel suo triblato cammino. E' l'Agnello immolato che ha acquistato per Dio uomini di ogni tribù e razza. Egli è l'alfa e l'omega, il principio e la fine.
La Chiesa: essa è vista come l'erede dell'antico Israele, il nuovo popolo di Dio, riscattato dal sangue dell'Agnello, che si muove nel tribolato esodo della storia; ma appare anche nel suo luminoso traguardo finale, quando, quale nuova Gerusalemme ricreata da Dio e a sua immagine, scende dal cielo vestita da sposa adornata per il suo sposo, l'Agnello.
La teologia della storia: si ricava dalla decodificazione dei simboli e permette di leggere quanto avviene in essa in senso teologico, cioè del Dio che opera e sostiene la sua Chiesa e i suoi fedeli nel tribolato cammino verso di lui e non li abbandona. E' una lettura, quindi, di speranza.
Il tema di fondo sembra essere quello di una Chiesa colta nel suo cammino storico verso la meta finale e che, purificata dalle tribolazioni e dalla parola del Signore, sa riconoscere la sua ora, in una forte tensione tra il "già" e il "non ancora". Ma ciò che è centrale per l'autore è la morte e la risurrezione di Gesù Cristo, per questo l'Apocalisse si qualifica come apocalisse di Gesù, uomo di Nazaret, ma anche Cristo e Figlio di Dio.
L'ultimo giorno, quindi, non è ciò che determinerà la storia, ma esso è un giorno che acquista valore e significato da ciò che è già avvenuto nella morte e risurrezione di Cristo. Ciò che svela la storia, quindi, non sono gli avvenimenti futuri, ma il già avvenuto: l'incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Per questo nell'Apocalisse l'autore mette il suo nome e non si rifà ad alcun personaggio del passato, non c'è pseudonomia, poiché egli è il testimone che ha veduto, udito e toccato il Verbo della vita, il Cristo incarnato, morto e risorto. Egli si impone, quindi, con tutta la sua autorità e autorevolezza di testimone.
L'autore, la lingua, i destinatari e la data di composizione
L'autore stesso rivela il suo nome fin dall'inizio, qualificandosi quale testimone prescelto per questa rivelazione che riguarda Gesù Cristo. Egli si trova nell'isola di Patmos a causa del vangelo (persecuzione di Domiziano 81-96) e nel giorno del Signore ha avuto queste visioni. Egli si presenta come il testimone di Gesù Cristo ("Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto).
Il linguaggio, il procedere del pensiero, la testimonianza basata sul vedere e l'udire, l'esprimere la rivelazione attraverso simboli, la contrapposizione tra bene e male qui, luce-tenebre là rende questo Giovanni affine all'autore del QV che procede in modo apocalittico, cioè rivelativo del mistero di Cristo. Tuttavia, profondamente diversa è la concezione escatologica con il QV: nell'Apocalisse c'è una vivissima attesa del ritorno del Signore (non a caso essa termina con l'invocazione "Maran-ata"), mentre nel QV è un'escatologia presenziale: il Cristo è in qualche modo già tornato e il giudizio è già operante: accoglienza o rifiuto dividono l'umanità in due e la contrappongono.
Quale nota finale, va posto in conto anche che l'Apocalisse possa essere in realtà un libro pseudoepigrafico, un'ipotesi che è favorita dallo stesso genere apocalittico. L'autore, in tal caso, potrebbe essere un discepolo di Giovanni o della scuola giovannea che, esiliato a Patmos, rivolge il suo messaggio di speranza e di consolazione alle chiese perseguitate.
La lingua usata è il greco, ma infarcito di molti semitismi e barbarismi. In buona sostanza l'autore pensa con categorie semitiche, ma le esprime in greco.
I destinatari dello scritto sono le sette Chiese dell'Asia Minore. Molte di queste comunità erano, infatti, alle prese con problemi di confronto con il mondo pagano. Ma il sette rappresenta la totalità e, quindi, si potrebbe pensare che le lettere siano rivolte alla Chiesa universale.
La data di composizione dell'Apocalisse viene posta dalla maggior parte degli autori intorno all'anno 95, verso la fine del regno di Domiziano (81-96) che ha scatenato una violenta persecuzione contro i cristiani, la prima dopo quella neroniana del 64 e durata all'incirca un anno, localizzata prevalentemente a Roma.
PARTE ESEGETICA
LE NOZZE DI CANA
(Gv 2, 1-11)
Il contesto
Il racconto delle nozze di Cana funge da cerniere tra quanto avviene prima (1,19-51) e quanto segue, aprendo un nuovo itinerario, preannunciato dalla testimonianza di Giovanni.
Il contesto anteriore
Dopo il prologo (1,1-18) si apre il tempo della rivelazione e del suo compimento. Essa è scandita in sette giorni e richiama, per alcuni, la settimana della creazione. Proprio attraverso la creazione è incominciata l'autorivelazione di Dio. Paolo sottolinea, infatti, come "... dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute" (Rm1,20).
Questo lo schema:
Le nozze di Cana sono poste in una cornice cronologica molto significativa: esse avvengono nel settimo giorno di un cammino rivelativo, inaugurato dal Battista. Esse, quindi, inaugurano l'inizio della piena rivelazione. Non a caso questa rivelazione si pone al settimo giorno, che esprime la totalità, la pienezza.
Ma queste nozze si pongono anche al terzo giorno, che richiama il terzo giorno della risurrezione. Ritengo, infatti, che l'autore non a caso incominci il racconto con l'espressione "Al terzo giorno " e lo termini dicendo che proprio in questo terzo giorno "Gesù manifestò la sua gloria". Dunque, "Al terzo giorno ... Gesù manifestò la sua gloria" con chiara allusione alla risurrezione, che nell'economia del vangelo giovanneo, unitamente alla morte, rappresenta l' "ora" per eccellenza, verso cui tende l'intera opera di Gesù, proprio a partire da queste nozze di Cana, il primo segno, il primo passo verso la piena manifestazione della sua gloria; un cammino costituito da sette segni sottesi da una forte tensione verso l' "ora".
In questo quadro rivelativo c'è anche chi vede nella sezione 1,19 - 2,12 un unico tema: le nozze messianiche tra Gesù, lo sposo, e il popolo della nuova alleanza, che lentamente si sta raccogliendo attorno a lui, e che costituisce la sposa. La cornice entro cui avviene questo sposalizio è un banchetto di nozze, che nelle Scritture raffigura l'Alleanza tra Dio e il suo popolo. Questa scena è scandita da tre momenti: a) la testimonianza del Battista, l'amico dello sposo (1,19-34 e 3,29); b) i discepoli, che lentamente si aggregano attorno a Gesù, costituendo la prima comunità messianica, sono la sposa (1,35-51); c) mentre il racconto delle nozze di Cana costituisce la cornice del banchetto messianico. Cana, dunque, si presenta, da un lato, come il momento conclusivo della sezione 1,19-51, che si aggancia al racconto con la battuta finale di Gesù a Natanaele: " ... perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico credi? Vedrai cose maggiori di queste" (1,50); dall'altro, segna l'apertura di un'ampia sezione (2,1 - 4,54) scandita da due segni (l'acqua cambiata in vino e la guarigione del figlio del funzionario regio) che incorniciano tre incontri significativi, che testimoniano, a modo loro, la varia e diversa reazione al Gesù che si rivela: l'incontro con Nicodemo, rappresentante del mondo giudaico (3,1-21) ; l'incontro con la Samaritana, simbolo del mondo giudaico eretico convertito (4,1-41) e l'incontro con il funzionario regio, rappresentante del mondo pagano (4,43-54). Sono la descrizione di tre incontri, tre modi di approcciarsi a Gesù e di pervenire alla fede, tre diverse reazioni di fronte al mistero di Cristo.
Il racconto, sua articolazione e genere letterario
Dei sette segni riportati nei primi dodici capitoli questo è il primo, che apre la serie dei sette segni, ed è anche l'unico proprio di Giovanni, è un suo sondergut, in quanto gli altri sei, sia pur con varianti, sono presenti anche nei Sinottici.
E' un racconto sovraccarico di simboli, di temi teologici al punto tale che lo stesso Brown dubita della sua storicità, mentre il Bultmann, addirittura, pensa che dietro questa storia ci sia un forte influsso pagano derivante dalla festa di Dioniso, che veniva celebrata il 6 di gennaio, durante la quale le fontane dei templi pagani di Andros versavano vino invece di acqua. Un'ipotesi questa negata dallo stesso Brown. Ma, al di là di questi aspetti, è importante capire che cosa l'autore con questo racconto ci vuole testimoniare.
Un racconto, dunque, dal sapore molto simbolico e disseminato da numerosi particolari: il vino, l'acqua, le giare di cui si dice i numero e la capienza individuale, l'ampiezza del dialogo tra Gesù, sua madre e i servi. Un racconto che presenta anche delle stranezze: non si parla della sposa, mentre lo sposo viene menzionato solo alla fine; l'intromissione di Maria e Gesù in una questione che riguardava il direttore del banchetto che, invece, sembra non accorgersi di nulla. Un racconto, tutto sommato, molto strano, anche perché, contrariamente agli altri segni, non è accompagnato da nessun discorso e da nessun commento, per cui diventa anche difficile la sua corretta interpretazione.
Quanto strano è il racconto, altrettanto facile è l'individuazione della sua struttura:
1) Introduzione ambientale: tempo, luogo, occasione, personaggi (2,1-2) 2) Dialogo tra Maria e Gesù. Oggetto del dialogo è la mancanza di vino (2,3-4) 3) Ordine di Gesù ai servi ed esecuzione dell'ordine (2,5-8) 4) Elogio del maestro di tavola allo sposo con richiamo dell'antefatto (2,9-10) 5) Conclusione scandita da tre momenti: a) si dichiara l'inizio dell'attività pubblica di Gesù; b) si afferma che qui si manifestò la sua gloria; c) i discepoli si aprono alla fede (2,11)
Il genere letterario può essere fatto rientrare nei racconti di moltiplicazione o di donazione di beni, in cui si riscontra il seguente schema:
a) presentazione del taumaturgo; b) presentazione della situazione di bisogno; c) dialogo tra il taumaturgo e le persone circostanti; d) realizzazione del prodigio
La finalità di questi racconti è di simboleggiare la gratuità e l'abbondanza dei beni che Dio comunica agli uomini.
Tuttavia, a motivo del carattere fortemente simbolico e allusivo diventa difficile inquadrare questo racconto in qualche genere letterario particolare. Comunque, tre sono gli elementi di spicco in questo racconto: a) la trasformazione dell'acqua in vino è chiamata "segno" in cui c'è un esplicito invito ad andare oltre a ciò che si vede, rimandando a qualcos'altro; b) è un segno destinato a manifestare la gloria; c) è l'inizio dell' "ora", cioè di un cammino verso quell' "ora" che per Giovanni è la morte e risurrezione di Gesù, il momento della piena rivelazione e glorificazione.
Gli elementi simbolici del racconto
Vi sono nel racconto dei tratti caratterizzanti il racconto stesso e costituiscono i pilastri interpretativi dell'intero racconto. Li potremmo così enumerare: le nozze, il vino, la madre di Gesù, l' "ora" e i discepoli.
Le nozze
Nell'A.T., da Osea fino al Cantico dei Cantici, l'immagine dello sposalizio è usata per descrivere non solo l'alleanza tra Dio e il suo popolo, ma anche, vista in prospettiva escatologica, tra Dio e tutti gli altri popoli.
Il N.T. vede in Gesù colui che prende il posto di Dio: è lui il nuovo sposo del nuovo popolo di Dio, la Chiesa.
Anche qui è presente il tema nuziale. Ma chi è qui che funge da sposo e chi da sposa?
Il v. 11a afferma che "Gesù fece questo inizio dei segni", mentre nel v.10 sentiamo il maestro di tavola che si congratula con lo sposo perché ha saputo dare vino buono fino alla fine. Ma chi ha dato questo vino? la risposta è semplice: Gesù; egli, dunque, è lo sposo.
Ma chi è la sposa? Il testo ci offre due indicazioni:
E' la madre di Gesù, pertanto, la sposa: essa rappresenta la nuova comunità escatologica che entra in alleanza con il messia.
Il vino
Mentre della sposa non si parla e lo sposo viene citato marginalmente una sola volta, si parla in abbondanza del vino (5 volte in tutto il brano). E' evidente che esso nel contesto deve assumere una notevole importanza. Ma che cosa significa il vino? Nell'A.T. il vino, assieme all'olio, al grano, al latte e al miele era il segno dell'abbondanza messianica donata da Dio al suo popolo e allietavano il banchetto messianico. Nel giudaismo, poi, il vino simboleggiava la Legge, in particolare la nuova Legge che il Messia avrebbe insegnato. Ebbene, questo giorno è giunto (non va dimenticato che siamo nel settimo giorno, il giorno della pienezza) e il vino messianico viene elargito a piene mani. Un'abbondanza che viene sottolineata quasi pignolescamente: sei giare che contengono complessivamente circa 450-650 litri e queste sono piene fino all'orlo.
Gesù, dunque, dona con abbondanza un vino nuovo e superiore che dà compimento al primo vino.
La madre di Gesù, l' "ora" e i discepoli
Con il v.3 Maria fa notare a Gesù che il vino era terminato. Gesù risponde in un modo che può sembrare irriguardoso: "Che cosa importa a me e a te, donna". Si viene a creare una forte tensione: Maria ha una preoccupazione materiale, che per altro non le competeva; ma Gesù guarda oltre verso la sua "ora", facendo capire che il suo operare non è rivolto a tappare le deficienze organizzative degli uomini, ma è strettamente legato alla volontà del Padre. Già, in tal senso, Maria era stata redarguita da Gesù: "Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?" (Lc 2,49).
Qui Gesù per la prima volta la chiama "donna", quasi a richiamare il suo ruolo messianico all'interno del disegno del Padre a cui lui, ma anche lei, deve sottostare. Le due figure, quindi, di Gesù e Maria sono qui abbinate nell'unico disegno del Padre in cui devono ricoprire ruoli già pensati dal Padre. Loro compito, quindi, non è quello di correre dietro alle necessità contingenti degli uomini, ma cercare attentamente la volontà del Padre che si attualizza nel compimento dell'"ora". Maria, dunque, deve smetterla di pensare il suo rapporto con Gesù come tra madre e figlio, poiché ora lei è "donna".
Quello dell'ora è un tema teologico fondamentale in Giovanni che percorre tutto il QV quasi come un unico filo conduttore che sottende l'intera missione di Gesù. Essa indica il tempo della sua passione, morte e glorificazione.
Maria, finalmente, sembra cogliere il senso delle parole di Gesù e si sottomette, come Gesù, all'economia dell'ora e invita a fare altrettanto con i servitori: "Fate ciò che vi dirà". Si noti come Maria non nomina Gesù ma si limita al pronome "egli", riconoscendo in tal modo la distanza che la separa da Gesù e, quindi, la sua autorità.
Il racconto, infine, si chiude con l'annotazione, propria dell'evangelista, che "i suoi discepoli credettero in lui" (v.11). L'espressione greca, più significativa dice. "kai episteusan eij auton oi maqhetai autou" in cui si rileva un aoristo ingressivo (episteusan) che sta ad indicare l'inizio di un cammino di fede la cui dinamica è bene espressa da quel "eiV" che indica l'orientamento esistenziale dei discepoli verso Gesù e, in un certo qual senso, la consacrazione delle loro vite. Solo loro, infatti, vedono la gloria di Gesù, mentre il maestro di tavola "non sapeva da dove venisse". Essi, dunque, assieme a Maria, ormai non più madre, ma "donna" e associata all'ora di Gesù, costituiscono la prima comunità messianica.
Concludendo, questo primo segno della trasformazione dell'acqua in vino viene a prefigurarsi la trasformazione della vecchia alleanza sinaitica nella nuova alleanza escatologica tra Dio e gli uomini, significata dal banchetto nuziale.
Maria e i servi rappresentano l'Israele fedele che, dopo aver sperimentato l'inadeguatezza delle loro pretese, si aprono in un atteggiamento obbedienziale, facendo spazio a Dio nella loro vita.
Infine, nel v.11 l'autore definisce questo segno con l'appellativo di "arch twn shmeiwn" che non ha valore solo cronologico, ma simbolico esso stesso: è il "principio" di tutti i segni e come tale, in un certo qual senso, li ingloba tutti. Da questo momento in poi tutti gli altri segni avranno lo stesso senso e lo stesso sapore di questo primo: esprimono l'abbondanza e la gratuità della vita di Dio donata agli uomini.
Un ultimo appunto: Gesù ordina ai servi di "attingere" e non di versare tutto il vino. E' il segno che la festa messianica è incominciata e tutti vi possono attingere. E' quanto avviene nel tempo della Chiesa.
IL DIALOGO CON NICODEMO
(Gv 3, 1-12)
Premessa
La sezione del "dialogo con Nicodemo" è preceduta da alcuni versetti di transizione (2,23-25) che, da un lato, chiudono i racconti delle nozze di Cana e della purificazione dl Tempio con un bilancio piuttosto deludente: molti credettero in Gesù per i segni che egli ha compiuto a Gerusalemme, ma non sono riusciti ad andare oltre a quello che hanno visto; non hanno saputo, cioè, cogliere il messaggio rinchiuso nei segni. Dall'altro, essi sono preparatori alla narrazione dell'incontro di Gesù con Nicodemo. Si tratta in entrambi i casi di una fede ancora imperfetta, impressionata dai segni che, però, non si riesce a leggere: in Gesù si vede solo un operatore di prodigi.
Struttura letteraria e tematica
L'incontro con Nicodemo si inquadra in una serie di tre incontri che costituiscono tre risposte tipo: Nicodemo (3,1-21), un capo dei giudei che segna un'apertura ancora imperfetta alla proposta di Gesù; la Samaritana (4,1-42), rappresentante del mondo eretico che accoglie e si converte; la guarigione del figlio del funzionario regio (4, 46-54), rappresentante del mondo pagano che legge nel segno la presenza di Dio, si apre a lui nella fede su cui si incammina con la propria famiglia. Inizia per lui l'avventura della fede che si traduce in sequela:"quell'uomo credette alla parola ... e si mise in cammino (4,49)
Il testo è di grande profondità teologica, ma è alquanto enigmatico nel suo svolgersi. Esso si struttura su tre domande poste da Nicodemo, le quali, man mano che procedono, diventano sempre più stringate fino a scomparire. L'ultima domanda si riduce a poco più di un sussurro: "Come può accadere questo?" (v.9), mentre le risposte di Gesù acquistano sempre più spazio e solennità dottrinale: tutte tre sono introdotte dall'espressione "In verità, in verità ti dico". Risposte che per la loro ampiezza smorzano sempre più il dialogo fino a sfociare naturalmente in un monologo (vv.13-21).
Questo dialogo, dalla struttura così incerta e fragile, pone degli interrogativi sulla stessa storicità dell'incontro, che potrebbe essere un artificio per introdurre, da parte dell'autore, i temi principali della predicazione di Gesù che così potremmo enunciare:
La struttura
Il testo presenta la seguente struttura redazionale:
1) Introduzione, ma priva di conclusione, quasi a voler significare che le tematiche qui annunciate sono un discorso aperto che percorre l'intero QV.
2) Il dialogo tra Nicodemo e Gesù, scandito da domande sempre più brevi e concise, che ricevono, invece, risposte sempre più ampie da parte di Gesù, fino a trasformarsi, poi, in un monologo (vv.13-21).
3) vv.11-12 che fungono da cerniera: conclusione di ciò che precede (v.11) e titolo di ciò che segue (v.12).
4) monologo (vv. 13-21) in cui viene sviluppato il tema del Figlio inviato dal Padre per portare la vita nel mondo: accogliere o rifiutare questa vita costituisce già un giudizio che spacca in due l'umanità. Un monologo dal sapore kerigmatico e che richiama nei contenuti l'annuncio di Marco in 1,15: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo".
Esegesi del testo
vv. 3,1-2a: il personaggio
Il racconto si apre con la presentazione dell'unico interlocutore di Gesù: Nicodemo. Egli è presentato come appartenente al gruppo dei Farisei, capo dei Giudei, nonché membro del Sinedrio, organo di governo politico e religioso. Egli comparirà altre due volte nel corso del QV: in 7,50 dove si espone a favore di Gesù e per questo viene rudemente redarguito dai farisei: "Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea". E in 19,39 dove dà una onorata sepoltura a Gesù. In entrambi i casi è richiamato l'incontro che egli avuto di notte con Gesù. Nicodemo, quindi, viene sempre associato, dall'inizio alla fine, a questo incontro notturno, espressione forse di una fede che non ha saputo evolversi fino in fondo perché è mancata la decisione finale: quella di staccarsi definitivamente dal giudaismo. E sarà proprio questa categoria di "credenti a metà" che darà filo da torcere a Paolo e costituirà la sua spina nel fianco.
Egli si reca da Gesù di notte. L'indicazione cronologica si presta ad una triplice interpretazione: a) il timore di compromettersi con i Giudei, di cui egli era un capo altolocato; b) l'usanza rabbinica di levarsi durante la notte per lo studio della Legge, in tal caso si potrebbe vedere il titubante passaggio dal credere nella Legge al credere in Gesù; c) infine, potrebbe avere anche il significato simbolico di una fede ancora imperfetta, avvolta ancora dal velo della notte, non ancora giunta nella pienezza della luce e che non riesce a vedere in Gesù il manifestarsi della gfloria di Dio, come, invece, lo è stato per i discepoli a Cana, durante le nozze (2,11).
vv. 3,2b-12: il dialogo
Apre il dialogo Nicodemo: "Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno, infatti, può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui". Qui Nicodemo riconosce Gesù come un uomo accreditato da Dio per mezzo di segni. Si sente qui un'eco lontana dell'annuncio kerigmatico della predicazione di Pietro riportata dagli Atti: "Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, segni e prodigi" (At 2,22).
Quel "sappiamo" più che un plurale maiestatico va letto, idealmente, come un Nicodemo portavoce forse di quel gruppo di credenti di cui si parla nei vv. 2,23-25 e la cui fede non è ancora giunta a maturazione perché si è fermata ad una lettura superficiale di questi segni.
Nicodemo, poi, riconosce che Gesù "è venuto da Dio". In greco abbiamo un perfetto (eleluqaj) che sta ad indicare una continuità di azione anche nel presente: "sei venuto da Dio e rimani tale", cioè rimani inviato da Dio, continui ad esserlo.
Gesù gli risponde: "In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall'alto non può vedere il regno di Dio".
Nicodemo riconosce che Gesù proviene dall'alto, cioè da Dio, ma la sua fede non gli consente ancora una lettura piena di Gesù, perché è ancora notte. Per poter cogliere pienamente la "gloria di Dio" in lui, come la colsero i discepoli a Cana, bisogna avere l'intelligenza di Dio, che è lo Spirito che rigenera l'uomo e lo rende conforme alle logiche di Dio, dandogli la capacità di vedere nei miracoli di Gesù non dei semplici prodigi, ma dei segni che manifestano la vera natura di Gesù. Per questo Gesù gli risponde che se non si rinasce dall'alto non si può vedere il regno di Dio. Quindi per cogliere il senso della persona di Gesù e della sua missione serve un intervento dall'alto, proprio perché lui proviene dall'alto. La semplice intelligenza dell'uomo non può fare nulla se non c'è un'azione specifica di Dio.
L'espressione "dall'alto" in greco è resa con il termine "anwqen". Essa ha un duplice significato: locale (dall'alto) o temporale (di nuovo). Su questo duplice significato si svolge l'equivoco attorno a cui gira l'intero dialogo: Nicodemo, ancora avvolto dalla notte, intende una nuova nascita carnale, secondo le logiche umane; Gesù, venuto da Dio cioè dall'alto, lo intende come una generazione che proviene da Dio stesso.
Il duplice significato di "anwqen" viene esplicitato da Gesù nella contrapposizione tra la carne e lo spirito: "... quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito" (v.6). In altri termini, l'uomo che proviene dalla carne, che esprime l'intera fragilità della condizione umana, non può pensare con le sue sole forze di accedere al messaggio di Gesù che viene dall'alto; mentre l'uomo che è generato dallo Spirito, cioè rigenerato da Dio per mezzo della fede, partecipa alla pienezza della vita divina.
L'interpretazione autentica di quel "anwqen" viene data da Gesù stesso nel v.5: "... se uno non nasce da acqua e da Spirito non può entrare nel Regno di Dio". Dunque, si tratta si di una nuova nascita, ma essa non proviene dalla carne, ma "da acqua e da Spirito", cioè si tratta di una rigenerazione dell'uomo operata da Dio attraverso lo Spirito che qui viene associato all'acqua, che richiama l'esperienza battesimale, evidenziando la necessità della prassi battesimale.
Non è da escludere, tuttavia, che questa associazione tra "acqua e Spirito" sia stata fatta appositamente da Giovanni per rendere più comprensibile al mondo veterotestamentario, che si accosta alla novità del messaggio di Gesù e che qui è simbolicamente rappresentato da Nicodemo, questa rigenerazione nello Spirito, simboleggiato nell'acqua. Infatti, l'A.T. è percorso da questo simbolismo dell'acqua che purifica interiormente l'uomo e lo rigenera spiritualmente a Dio e che esprime l'azione dello Spirito di Dio sull'uomo. In Is 44,3 l'azione dell'acqua viene paragonata a quella dello Spirito: "... io farò scorre l'acqua sul suolo assetato ... spanderò il mio spirito sulla tua discendenza e la mia benedizione sui tuoi posteri"; e ancora in Ez. 36,25-27: "Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo". Ma, per venire in tempi più vicini a quelli di Gesù e Nicodemo, anche nella regola del Qumran (1QS IV, 19-21) si leggeva l'azione dell'acqua come l'azione rigenerativa dello Spirito di Dio sull'uomo: "Io lo purificherò da tutte le sue azioni malvagie per mezzo di uno Spirito Santo; quasi acque purificatrici io aspergerò su di lui lo spirito di verità".
A tal punto "acqua e Spirito" potrebbero essere lette come una sorta di endiadi: "l'acqua che è Spirito".
Nel v.7 Gesù invita Nicodemo a non stupire per questa seconda nascita dall'alto, che è rigenerazione dell'uomo da parte di Dio, poiché queste sono realtà avvolte dal mistero: sono inafferrabili benché se ne percepiscano gli effetti. Tale mistero viene espresso con il con il v.8: "Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque che è nato dallo Spirito".
Giovanni, qui, gioca sull'equivoco termine greco "pneuma", che significa parimenti spirito come vento (Gv poteva usare anche il termine "anemoj", ma questo esprime soltanto l'aspetto metereologico del vento, veniva tolta la sacralità che invece possiede il "pneuma") ; un vento dalle tonalità sacre, dunque, perché riproduce l'inafferrabilità dello Spirito, che tutto avvolge, permea e compenetra e in cui tutto si alimenta e vive.
Nicodemo ha avuto, pertanto, la risposta la risposta alla sua seconda domanda: l'uomo necessita di una seconda nascita resa possibile soltanto a Dio per mezzo della potenza del suo Spirito.
Ora Nicodemo gioca la sua ultima domanda che vuole indagare sul come ciò possa accadere. La vera risposta verrà articolata nei vv.13-21. Infatti, nel v.10 Gesù si limita ad una velata ironia unita con una punti di rimprovero. Infatti, le Scritture offrivano delle anticipazioni sul tema trattato da Gesù e che un maestro in Israele doveva conoscere: alla fine dei tempi, con la venuta del messia, lo Spirito sarebbe stato effuso nei cuori, rinnovando ogni cosa (in tal senso Ger. 31,31-34; Ez 36,25-27; Gl 3,1).
Con il v.11 il tono di Gesù torna autoritario e solenne: "In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quello che sappiamo e testimoniamo quello che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza".
Stupisce qui Il passaggio dal singolare al plurale, mentre sia prima che dopo l'autore usa il singolare. E' probabile che qui le parole di Gesù siano state messe in bocca dalla comunità giovannea stretta attorno al suo maestro. Tre, infatti, sono i verbi caratteristici ("parliamo, sappiamo, testimoniamo") che Giovanni usa quando si riferisce alla propria testimonianza o a quella della propria comunità. E', dunque, la comunità giovannea attorno al DP che qui parla e non senza una punta di polemica, che affiora nella contrapposizione tra quel "noi" che dà testimonianza e "voi" che, invece, la rifiuta.
Il v.12 ha un sapore sentenziale che segna, da un lato, chiusura del dialogo con Nicodemo, che da questo momento scompare; dall'altro, preannuncia la tematica che sostanzierà i vv.13-21.
Le "cose della terra" indicano probabilmente ciò che Gesù ha fin qui detto a Nicodemo e che è stato espresso con analogie terrestri (la nascita e il nascere); mentre ciò che seguirà (vv.13-21) farà parte delle "cose del cielo" che non hanno, per la loro natura, analogie terrestri, ma richiedono l'intelligenza di Dio che si ottiene con la rinascita dall'alto, per mezzo dello Spirito. Come potrà, dunque, Nicodemo coglierle?
IL MONOLOGO
(Gv 3, 13-21)
Premessa
Questa pericope, circoscritta nei vv. 13-21, segue il dialogo tra Nicodemo e Gesù. Un dialogo che si impernia su tre domande di Nicodemo, sempre più brevi e concise, a cui seguono tre risposte di Gesù, invece, sempre più ampie, fino a sfociare, quasi naturalmente, in un monologo, in cui Nicodemo scompare nella notte da cui è venuto e in cui non si capisce più bene se sia Gesù che parla o l'evangelista.
Un monologo il cui contenuto è stato preannunciato nel v.12b: si parlerà delle cose del cielo.
Il tema, infatti, qui trattato, è la rivelazione dell'amore di Dio per l'uomo che si è concretizzato nell'incarnazione del Figlio, a cui l'uomo deve dare una risposta di fede, diversamente, su di lui è già stata pronunciata una sentenza di condanna.
Questa pericope può essere idealmente scomposta in tre parti:
Il v.13 mette in evidenza la qualità della predicazione di Gesù la cui rivelazione qui viene presentata come di origine divina. Il versetto, infatti, potrebbe essere idealmente diviso in due parti i cui soggetti sono messi a confronto tra loro. Nella prima parte si afferma che "nessuno è salito al cielo" e poi vi è rimasto (è questo il senso del perfetto "anabhbeken"). Forse qui c'è un ricordo dell'ascensione di Gesù, l'unico che sia veramente salito al cielo e che poi ci sia rimasto per sempre. Implicitamente, quindi, si attesta la qualità della testimonianza di Gesù. Mentre nessun'altro è salito al cielo, cioè ha potuto conoscere le cose di Dio.
La seconda parte del versetto, invece, sottolinea esplicitamente come Gesù sia l'unico discendente dal cielo, dove già si trovava, da sempre, presso il Padre, come ricorda l'apertura stessa del QV. L'unico, quindi, che ne conosce la natura e le cose segrete; l'unico, pertanto, in grado di darne un'autentica testimonianza.
Tutto il v.13, pertanto, mira a sottolineare l'origine celeste del Figlio dell'Uomo e, di conseguenza, la credibilità della sua testimonianza da ritenersi autentica e veritiera.
Con i vv.14-15 si apre la rivelazione. Essa inizia citando l'episodio di Mosé che innalza nel deserto il serpente, così che chiunque lo guarda venga salvato dal morso dei serpenti velenosi. Questo episodio, dal sapore profetico, costituisce il parametro di raffronto con quanto è avvenuto in Gesù: anch'egli deve essere innalzato "perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna". Siamo in presenza di un annuncio di tipo kerigmatico: la passione e morte di Gesù, significata nel verbo "uywsen", un verbo caro alla tradizione giovannea e usato dall'evangelista nel contesto di altre tre predizioni che Gesù fa della sua morte. Ma esso richiama anche l'innalzamento alla gloria di Gesù, cioè la sua risurrezione che, sempre inscindibilmente unita alla sua morte, costituisce il mistero pasquale. Significativo, poi, è il verbo "dei" (bisogna) che indica la presenza di un piano divino che Gesù attua con il suo "innalzamento". Nulla, quindi, avviene per caso.
Il verbo "guardare" il serpente è sostituito, quando si parla di Gesù, con il verbo "credere" ("vedere e credere" nei vangeli sono quasi sempre dei sinonimi),indicando la necessità di un'adesione personale; mentre il serpente, che nell'elaborazione sapienziale è visto come il simbolo della salvezza, è posto in stretto riferimento a Gesù. Un credere che qui è finalizzato alla "vita" qualificata come "eterna" che può essere intesa come "definitiva", ma anche che ha attinenza con il mondo di Dio. Una vita eterna che è, comunque, già presente nella persona stessa di Gesù e che per suo mezzo viene proposta all'uomo.
Se con i vv.14-15 ci viene presentato il mistero di Cristo: egli è Figlio dell'uomo, coeterno al Padre e che dal Padre esce per incarnarsi (disceso dal cielo) affinché nella sua morte e risurrezione (innalzamento) sia costituito fonte di salvezza per chiunque crede, nel v.16 ci viene presentato l'autore del disegno salvifico, la cui presenza già si intravedeva in quel "dei". Tutto viene fatto risalire a quel "Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". Questo è il piano segreto del Padre che ci viene svelato nella persona di Gesù.
Per la prima volta qui ricorre il verbo "agapaw" che in genere esprime il rapporto tra il Padre e Gesù, tra Gesù e i discepoli e dei discepoli tra loro. Oggetto di questo amore il mondo, che in Giovanni ha un senso negativo, ma che qui significa gli "uomini" in genere, qualificati subito dopo con quel "paj". Non si parla, però, della reciprocità di amore da parte del mondo, sottolineando in tal modo l'esclusiva e gratuita iniziativa del Padre che ama indipendentemente dalla risposta dell'uomo.
Una particolare attenzione va riservata, poi, a quel verbo "edwken" (donò) che esprime l'aspetto donativo di questo amore, un amore che si fa dono, un dono che è Gesù stesso con tutto ciò che tale nome evoca: incarnazione-morte-risurrezione, un potente dinamismo di salvezza.
La finalità di questo amore donativo, che racchiude in sé tutta la dinamica di salvezza, è recuperare ogni uomo alla dimensione divina per mezzo della fede, che si costituisce quale risposta di adesione al progetto salvifico di Dio, attuato nel Cristo. Si noti come quel "crede in lui" in greco è reso con "eij auton" indicando una fede che è movimento dell'uomo verso Dio. Una fede, dunque, dinamica che si radica nel vivere quotidiano.
Con i vv.17-18 viene espressa la conseguenza di questo amore gratuito che si fa dono. Il v.17 lo si potrebbe considerare come transizione tra il v.16 e il v.18. Infatti, da un lato riprende e rimarca la finalità di questo dono, già espressa nel v.16: è un dono per la salvezza dell'uomo; dall'altro, introduce un primo elemento giudiziale: un dono che non è un giudizio per il mondo, ma lo potrebbe diventare. Sarà proprio il v.18 che specificherà il diverso esito che avrà questo dono sull'uomo, un esito che dipende tutto dalla risposta che l'uomo darà a questo dono: chi crede e chi non crede. Non è ammessa alcuna indifferenza, poiché l'indifferenza è già una risposta negativa.
La venuta di Gesù, dunque, costituisce all'interno del mondo una "krisij", cioè un giudizio e spacca il mondo letteralmente in due parti contrapposte. La presenza di Gesù, pertanto, spinge l'uomo a prendere posizione.
Si sente tutta in questo versetto la sferzante escatologia presenziale di Giovanni: "chi non crede è già stato condannato". La condanna è espressa in greco con il verbo al perfetto "hdh kekritai" che dice una condanna che è già avvenuta e che rimane tale, benché la condanna non rientri nel progetto di Dio, ma dipende tutta dall'uomo. E' l'uomo che si autoesclude dal progetto divino di salvezza, malgrado l'intenzione di Dio.
Ma che cosa ci sta alla base di questo rifiuto? La risposta ci viene fornita dai vv.19-20 ed è espressa su di un piano storico nel simbolico contrasto tra luce e tenebre, che riprendono idealmente i vv.5 e 9-12 del prologo.
La luce, che è Cristo stesso, rivelazione dell'amore del Padre per il mondo, è totalmente disattesa dalle tenebre, cioè dall'uomo che si chiude in se stesso. Il termine greco "oi anqropoi" esprime il carattere universale di tale giudizio, poiché esso ingloba non solo i giudei del tempo di Gesù, ma gli uomini di ogni tempo. La crisi, dunque, nasce da una situazione di conflittualità che vede l'uomo, radicato nelle tenebre del proprio egoismo, contrapporsi al progetto salvifico del Padre.
Ma la ragione profonda e ultima di questo rifiuto risiede nel cuore dell'uomo stesso ed è espressa da Giovanni in due frasi, entrambe introdotte da un "gar". Nella prima, che chiude il v.19, si dice che "le loro opere erano malvagie". La seconda frase, introdotta dal v.20, spiega il senso della malvagità delle opere e in che cosa essa consiste: compiere il male perché mossi da un odio verso la luce; e questo porta a nascondersi dalla luce perché questa non faccia apparire la malvagità dell'operare. Viene introdotto qui da Giovanni, attraverso un paragone, il doppio senso di luce: materiale e spirituale. Infatti, come chi agisce male materialmente cerca di nascondersi, così chi agisce male moralmente cerca di nascondersi dalla luce della rivelazione, per non sentirne la pesantezza della condanna.
L'origine delle azioni malvagie sta nell'unico peccato che Giovanni riconosce: l'incredulità. Da qui scaturisce ogni malvagità. Dietro queste opere, dunque, c'è una fondamentale opzione di vita che esclude Dio e che, pertanto, si preclude ogni via di comprensione e accoglienza della rivelazione.
Infatti, il termine "erga" non si riferisce a determinate azioni cattive che l'uomo compie, ma a quanto esse esprimono, cioè l'opzione fondamentale del credere o del rifiutare la rivelazione che gli viene proposta. Quindi non sono le opere a determinare la salvezza o la condanna dell'uomo, bensì quanto sta dietro a loro e le muove. Esse, quindi, testimoniano l'opzione fondamentale di vita, che orienta l'uomo verso Dio o contro di lui.
Quanto sia vero questo ci viene dal successivo v.21 che si apre con una forte contrapposizione: "o de" ("chi invece"). "Fare la verità" è un'espressione semitica tutta giovannea che richiama quella verità che è Cristo stesso. "Fare la verità", quindi, significa "accogliere-assimilare-esistenzializzare" Cristo stesso. Per questo "le sue opere sono fatte in Dio", cioè hanno la loro origine in Dio stesso e tendono a creare una comunione con lui.
Il rapporto si fa, pertanto, dinamico: più uno pratica la verità più viene illuminato dalla luce; più viene illuminato più aumenta la compenetrazione tra lui e Dio e più ancora si manifesta in lui la luce della verità e la sua appartenenza al mondo di Dio.
GESù E LA DONNA SAMARITANA
(Gv 4, 4-42)
Unità e struttura letteraria
Il brano 4, 4-42 costituisce una unità letteraria a se stante delimitata da due sommari: 4,1-3: Gesù si pone in viaggio verso la Galileia, passando attraverso la Samaria; e 4,43-45: Gesù, dopo due giorni riparte dalla Samaria e procede verso la Galileia.
Quanto alla struttura letteraria essa è molto accurata e procede in modo dinamico. Potrebbe quasi costituire la traccia per un copione di commedia:
Sommario introduttivo (Gv 4,1-3)
Il cap.4 si apre con un sommario di transizione la cui funzione è quella di creare uno stacco tra l'attività di Gesù in Giudea e il nuovo sviluppo narrativo che vedrà due nuovi scenari geografici: la Samaria e la Galileia.
Dopo il fortunato episodio di Cana, con cui conquista i suoi discepoli alla fede, Gesù ha subito una serie di delusioni: la purificazione del tempio, la fede superficiale della gente (3,23-25), l'incomprensione di Nicodemo e, ora, i farisei che cominciano a puntare gli occhi su di lui: si accorgono che egli fa più discepoli di Giovanni e la sua attività crea numerosi proseliti e questo poteva essere pericoloso per la tranquillità del potere. Questa attenzione per Gesù, quindi, poteva in qualche modo preludere ad un possibile suo imprigionamento, come era successo per il Battista. Il redattore, però, si affretta a commentare "... benché non fosse Gesù a battezzare", non accorgendosi che ciò contrasta con quanto viene detto in 3,22 dove si afferma, invece, che Gesù battezzava. Questo costituisce per il Brown "una prova quasi inconfutabile della presenza di diverse mani" nel QV. Ma la preoccupazione dell'evangelista, probabilmente, era quella di porre una netta distinzione e stacco tra il battesimo del Battista e quello praticato, invece, dopo la pasqua dai primi cristiani. E' questo un periodo in cui è ancora forte la presenza dei seguaci di Giovanni. Tutto questo insieme di cose, pertanto, deve aver spinto Gesù ad andarsene dalla Giudea verso la Galilea dove, invece, "i Galilei lo accolsero con gioia" (4,45) e i pagani si aprono alla fede: "... e credette lui con tutta la sua famiglia." (4,53).
Dialogo con la Samaritana (Gv 4,4-26)
I vv.4-6 costituiscono la parte introduttiva del dialogo: "Gesù doveva attraversare la Samaria". Significativo quel "doveva" (edei) che lascia intendere che Gesù sceglie questo itinerario perché mosso dalla volontà del Padre, la quale costituisce suo cibo (Gv 4,34). Infatti, Gesù poteva scegliere un diverso itinerario, considerato che non era raccomandabile passare attraverso l'impura Samaria anche perché non correva buon sangue tra giudei e samaritani (v.9).
Gesù giunge a Sicar, che corrisponde all'antica città di Sichem le cui rovine furono scoperte da scavi archeologici avvenuti nel 1927. Essa fu distrutta da Vespasiano nel 67 e gli abitanti si rifugiarono, probabilmente, ad Askar, a circa un 1,5 Km a nord-est del pozzo di Giacobbe.
Gesù giunge stanco dal viaggio, una stanchezza che allude, probabilmente, alle fatiche e alle delusioni apostoliche. Infatti Gesù proviene dalla Galilea dove aveva sostanzialmente fallito la sua missione per l'incredulità e la superficialità di fede con cui i giudei gli si sono accostati.
Egli sedeva presso il pozzo. Il pozzo di Giacobbe, ai piedi del monte Garizim, era profondo circa 30 mt. e Giovanni lo chiama "phgh", cioè fonte, probabilmente per alludere alla sorgente di acqua viva che è la rivelazione che sgorga da Gesù.
Nella letteratura giudaica spesso il pozzo simboleggia la Legge mosaica da cui si attinge la sapienza. Se così è, si potrebbe ravvisare qui un raffronto tra la sapienza della Torah e la rivelazione di Gesù. Infatti, Gesù siede accanto al pozzo, quasi un confrontarsi con questo, quasi un costituirsi una sua alternativa: egli è venuto a sostituire l'acqua della Torah con quella del Padre; una sostituzione proclamata da Gesù in Mt 5,21: "Avete inteso che fu detto agli antichi, ... ma io vi dico". La donna, inoltre, comincia a intuire chi ha davanti e gli chiede se lui è più grande del loro padre Giacobbe (4,12), attuando un confronto tra Gesù e Giacobbe.
Da ultimo, va rilevato che nell'A.T. il pozzo era considerato anche come il luogo degli incontri amorosi che spesso si concludevano con il matrimonio. E' il caso di Rebecca e Isacco, Giacobbe e Rachele e dello stesso Mosé che, fuggitivo, trova al pozzo le sette figlie di Reguel.
Era verso mezzogiorno, un'ora inconsueta per attingere l'acqua. Infatti le donne si recavano al pozzo alla sera, nell'ora meno calda della giornata. Il richiamo cronologico è del tutto simbolico: mezzogiorno è il momento della giornata di piena luce e, quindi, indica la pienezza della rivelazione che la presenza di Gesù realizza. Ma non è tutto, l'ora coincide con quella in cui Gesù verrà proclamato re da Pilato (Gv 19,14). E', dunque, l'ora della piena rivelazione.
GESù PROMETTE L'ACQUA VIVA
(Gv 4, 7 - 15)
La sezione è delimitata dall'inclusione costituita dal verbo "attingere" che si trova nei vv.7 e 15. Questo, quindi, è lo spazio entro cui si muove il dialogo, caratterizzato dalla presenza del termine "acqua", citata ben otto volte in pochi versetti e attorno a cui, secondo lo stile giovanneo, nascono, come era successo per Nicodemo, equivoci e incomprensioni, tant'è che sembra un dialogo fra due sordi: uno dice una cosa, l'altro ne capisce un'altra.
E' la tecnica del dialogo propria di Giovanni: si parte da livelli raggiungibili e comprensibili dall'esperienza umana (sete, acqua materiale, attingere) per poi arrivare a livelli superiori (la rivelazione).
Vediamo, infatti, che c'è nel dialogo un progressivo crescendo e una forte tensione verso l'alto: dapprima Gesù è percepito dalla donna come un semplice estraneo, un Giudeo; poi incomincia a intuire qualcosa: "Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?"; poi la Samaritana lo definisce "Signore"; poi, ancora lo scopre "profeta" ed infine la piena rivelazione: la Samaritana è giunta alla pienezza della fede e scopre Gesù come messia e qui termina il dialogo.
Come si vede è un crescendo continuo, un dialogo serrato, sotteso da una forte tensione che spinge sempre più in alto fino al vertice. Esso simboleggia il cammino di fede che la Samaritana ha percorso.
E' Gesù che inizia il dialogo, quasi ad esprimere come l'iniziativa della rivelazione e della salvezza è sempre nelle mani di Dio. E' lui che per primo incontra l'uomo e lo interpella.
Gesù chiede "Dammi da bere". Ma in cambio non riceve che un velato rifiuto da parte della Samaritana, che si meraviglia che lui, Giudeo, si rivolga a lei che è samaritana. Non correva, infatti, buon sangue tra giudei e samaritani per questioni di antica data. I samaritani erano israeliti imbastarditi dalle conquiste e dalle varie colonizzazioni. Erano considerati eretici dai giudei e, pertanto, impuri alla stregua dei pagani, tant'è che un detto rabbinico diceva che "chi mangia pane dei samaritani è come se mangiasse carne d porco", ne rimarrebbe contaminato.
Gesù incassa il colpo e rilancia: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice: "dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva".
Il discorso prende una piega inaspettata per la donna, la cui attenzione viene incentrata, ora, non più su questioni di acqua e razziali, ma sul "dono di Dio" e sulla misteriosa identità di chi le sta parlando. C'è, dunque, un salto di qualità. "Se tu conoscessi ...", la curiosità della donna è sufficientemente stuzzicata: che cos'è questo dono di Dio e chi è mai costui?
La risposta ci viene da un'attenta analisi del v.10:
a) Se tu conoscessi il dono di Dio b) e chi è colui che ti dice: dammi da bere b') tu lo avresti pregato a') e ti avrebbe dato acqua viva
La lettera "b" si presenta come una sorta di commento alla lettera "a": colui che ti chiede da bere è il dono di Dio. Quindi la frase potremmo leggerla in forma di endiadi: a) Se tu conoscessi il dono di Dio b) che è colui che ti dice: dammi da bere.
E' chiaro, dunque, che il dono di cui qui si parla è Gesù stesso.
Ma che cos'è quest'acqua viva? La frase sopra riportata si presta ad essere letta in forma chiasmica, per cui si avrà: "dono-dato" e "Dio-acqua viva", quindi l'acqua viva è Dio stesso che viene donato, cioè rivelato, alla donna per mezzo dello stesso dono di Dio che è Gesù.
In sintesi, potremmo dire che il dono di Dio è Gesù stesso attraverso cui sgorga la rivelazione del mistero di Dio.
Il tono della samaritana, a tal punto, comincia a cambiare: Gesù non è più uno sconosciuto giudeo impertinente, ma diventa "Signore" (v.11) ed è posto in concorrenza con Giacobbe: "Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?" (v.12). C'è, quindi, un raffronto di identità che la Samaritana compie tra Giacobbe e Gesù, collocandosi in tal modo all'interno della storia della salvezza. Un raffronto che già si intuiva fin dall'inizio quando Gesù si sedette vicino al pozzo di Giacobbe: è il confronto tra l'A.T. e il N.T. da cui sgorgano due diverse acque, quella della Torah e quella della rivelazione stessa di Gesù. Un secondo interrogativo viene posto sull'origine di quest'acqua viva che Gesù dichiara di possedere. Come dire "da dove vieni?"
Si stanno, dunque, ponendo le basi per la rivelazione finale: chi è Gesù e da dove gli viene questo suo sapere che è salvifico, dato che chi beve di questo sapere non avrà più sete.
La risposta che Gesù da alla Samaritana non parla della sua identità, infatti, la Samaritana non è ancora pronta a ricevere tale rivelazione, ma pone un confronto tra l'acqua del pozzo, che è stata data a Giacobbe e che ha dissetato solo temporaneamente gli uomini, che poi sono morti, con l'acqua che egli, invece, possiede e che disseterà "eij ton aiwna", cioè per sempre. Si tratta, dunque, di un'acqua nuova destinata a sostituire quella del pozzo veterotestamentario. Un'acqua che è capace di trasformare la persona che la beve in una fonte, essa stessa, di acqua zampillante. Ma per ricevere quest'acqua bisogna conoscere colui che sta parlando. La Samaritana non è ancora giunta a tanto, per questo Gesù ancora non si rivela.
Una nota va posta sui vv.13-14, che costituiscono la risposta di Gesù: da un lato. il cambio di soggetto (v.13): dalla Samaritana si passa al "chiunque"; e, dall'altro (v.14), l'aoristo "edwken" dei vv. 10 e 12 sono sostituiti dal futuro "dwsw". Il discorso si apre, dunque, sul tempo della chiesa, il tempo dello Spirito, grazie al quale la verità rivelata da Gesù sarà interiorizzata nel cuore dei credenti.
La Samaritana ribatte a Gesù chiedendogli di quest'acqua così che lei non abbia più a venire al pozzo, dimostrando ancora una volta di più la sua inintelligenza delle cose divine. Tuttavia va rilevato che essa si dimostra disponibile a ricevere quest'acqua e questo è sufficiente perché essa giunga alla comprensione piena del mistero di Cristo. La Samaritana, dunque, è sulla buona strada.
Con i vv.16-19 Gesù dà una sterzata al dialogo e chiede alla donna di far venire suo marito. Ma la donna, benché abbia passato ben cinque mariti, in realtà, non ne ha uno vero e proprio, mostrando in ciò tutto il suo disordine morale.
La domanda posta da Gesù è piuttosto strana e si può comprendere se si pensa che gli incontri fatti al pozzo si potevano concludere con un matrimonio. Infatti, nell'A.T. chi dava l'acqua era il futuro marito. La Samaritana deve, quindi, capire che non può ricevere l'acqua se non dal proprio marito che, però, non ha. Gesù, a tal punto, svelerà la situazione ingarbugliata della donna predisponendola alla comprensione della sua vera identità, condizione indispensabile per ricevere l'acqua. Infatti la donna arriverà ad avere una prima comprensione di Gesù: "Vedo che sei un profeta".
GESù RIVELA DOVE BISOGNA ADORARE E SI MANIFESTA COME IL VERO MESSIA
(Gv 4, 20-26)
Premessa
Nel corso del serrato dialogo tra Gesù e la Samaritana, questa, al v.15, si rivolge al suo interlocutore pregandolo di darle di "quest'acqua". Certo ancora non aveva colto esattamente di quale acqua Gesù stesse parlando, ma vero è che con questa sua richiesta si era resa disponibile ad accogliere quest'acqua misteriosa. E fu proprio questa disponibilità che spinge, da un lato, Gesù a dare una sterzata al dialogo e, dall'altro, a consentire alla Samaritana di cogliere un primo elemento di questo personaggio sempre più misterioso e incomprensibile: "Signore, vedo che tu sei un profeta" (v.19).
A partire da questo momento Gesù incomincerà a svelare la sua vera identità e il senso della sua inquietante presenza.
Il nuovo tempio
La donna ha incominciato a percepire, dunque, la misteriosità del suo interlocutore e ne approfitta per porre una questione scottante di vecchia data che opponeva i giudei ai samaritani (v.20). Questi, dopo la riforma di Esdra (450 a.C.), avevano eretto sul monte Garizim, in concorrenza con quello di Gerusalemme, un tempio. Se si accetta l'interpretazione dei "cinque mariti" della donna come il simbolo delle false divinità, allora diventa comprensibile il passaggio dal brano precedente (vv.16-19) alla questione del vero culto.
La risposta di Gesù (v.21) si apre con un forte invito all'apertura alla fede: "Credimi, donna ...", un invito ad una rigenerazione interiore perché ciò che Gesù sta per dire diventa incomprensibile se non si è interiormente disponibili. Gesù elude l'alternativa posta dalla donna e parla di un cambiamento radicale del culto che prescinderà da ogni luogo.
Dopo la sua prima risposta negativa: "né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre", Gesù ancora non dice dove si svolgerà il nuovo culto (ormai si capisce che di "nuovo culto" si tratta, considerato che i vecchi luoghi non sono più in grado di contenerlo) ma si limita a parlare del presente contrapponendo il "Voi" al "Noi" (v.22). Bisogna, prima di introdurci nella rivelazione, porre un chiarimento di tipo storico-religioso e questo risponderà in parte alla domanda della Samaritana.
Il "Voi" indica chiaramente i Samaritani, il "Noi", invece, può assumere diverse valenze. Esso può indicare semplicemente "Gesù insieme ai Giudei" (Gesù, infatti, viene chiamato al v.9 con l'appellativo di "giudeo" dalla Samaritana); e qui Gesù riconosce che sotto il profilo storico "la salvezza viene dai Giudei". Ma, ad un livello più profondo, il "Noi" va riferito solo a Gesù. Infatti, è proprio il verbo "oidamen" che spinge a farlo, poiché l'oggetto del "conoscere", qui, è il Padre e l'unico che adora e conosce, perché lo ha visto e sperimentato, è soltanto Gesù. L'unico vero conoscitore e adoratore del Padre, dunque, è Gesù che lo adora proprio perché lo conosce. Ma il "Noi" può assumere anche una "valenza ecclesiale". Infatti, la comunità cristiana si riconosce in quel "Noi" in quanto comunità che adora il Padre in comunione con Gesù. In senso più ristretto, non è, da escludere, poi, che questa comunità sia quella giovannea.
Fate le dovute precisazioni storiche ("la salvezza viene dai Giudei"), nei vv.23-24 Gesù si accinge a fare una proclamazione solenne, che è rivelazione: "Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito, è quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità".
La dichiarazione di Gesù si apre con un "ma" che contrappone,creando un netto distacco, il culto sul Garizim e quello in Gerusalemme a quanto sta per proclamare. Quel "ma" dà, dunque, un forte senso avversativo a quanto segue, presentandolo in tutta la sua novità.
Gesù, riprendendo quanto aveva detto al v.21b, rimarca che "è giunta l'ora" la cui attualità è sottolineata da quel "kai nun estin", che la radica nel presente, dandole tutta la sua concretezza. Adesso, dunque, il culto antico è finito e non si lega più a nessun luogo, ma avviene "in spirito e verità". Con queste parole si indica il nuovo luogo in cui si adora, designato dal quel "en" e l'uomo è proiettato in una nuova dimensione cultuale, in un nuovo rapporto con Dio.
La risposta di Gesù, tuttavia, non è immediatamente coglibile. Infatti, quale significato dare a quel "spirito e verità" e quale rapporto intercorre tra loro?
Innanzitutto va precisato che "spirito e verità" non allude a nessuna adorazione interiore. In Giovanni "spirito e verità" hanno un contenuto molto profondo. Infatti, si dice che "Dio è Spirito"; una formulazione questa che, secondo il Brown, non vuole indicare la natura di Dio, ma l'azione di Dio verso gli uomini; infatti, Dio è colui che dona lo Spirito che rigenera gli uomini, rendendoli capaci di cogliere la verità: "... lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (Gv 14,26); e ancora: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore" (Gv 14,16). Uno Spirito, dunque, che proviene dal Padre: " ... lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza" (Gv 15,26).
Ma che cos'è la Verità? Il senso di tale termine va colto nel contesto giovanneo:
Da queste poche citazione emerge un duplice significato di Verità: essa si identifica, da un lato, con Cristo stesso, dall'altro, con la sua rivelazione che, a sua volta, si identifica con Gesù: lui, infatti, è il rivelatore del Padre per eccellenza.
Ma quale rapporto esiste tra lo Spirito e la Verità? E' sempre il contesto giovanneo che ci illumina:
Da queste poche citazioni possiamo evincere come questo Spirito è sempre strettamente legato alla Verità. E' uno Spirito che procede dal Padre e che viene dato agli uomini per renderli intelligenti circa le cose di Dio e li conduce alla comprensione di quella Verità che il mistero di Cristo. Possiamo, dunque, dire che questo Spirito rigenera gli uomini e gli rende capaci di aprirsi alla Verità, infatti: "... chiunque è dalla verità ascolta la mia voce" (Gv 18,37).
"Spirito e Verità", pertanto, sono intimamente legati e si compenetrano reciprocamente definendo le caratteristiche della nuova adorazione che si realizza mediante l'inabitazione nella Verità, che è Gesù stesso, resa possibile dallo Spirito. Adorare Dio in Spirito e Verità, pertanto, significa "inabitare nella Verità", cioè vivere in Cristo grazie all'azione dello Spirito, che alla Verità ci rigenera.
Per poter meglio comprendere il senso di questa affermazione va fatto riferimento alla forte tensione contenuta nel v.23: "Ma viene l'ora ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità". Il presente dell'ora, che viene qualificata con l' "adesso" indica il tempo di Gesù e più precisamente la sua presenza nella storia, mentre l' "adoreranno" indica un tempo futuro, è il tempo della chiesa.
La vera adorazione, quindi, si attua già nel presente e più precisamente nella persona stessa di Gesù: lui è il vero adoratore del Padre, l'unico che lo ha visto e lo vede perché da lui proviene e in lui rimane, l'unico che possiede lo Spirito. E' la vita stessa di Gesù, la sua stessa persona che è vera adorazione del Padre.
Ma che cosa significa per Gesù adorare il Padre? E' il v.34 che lo specifica: "Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera". Adorare il Padre, dunque, per Gesù significa conoscere la sua volontà e portarla a compimento.
Ebbene, questa adorazione di Gesù verso il Padre, che nell'ora presente non è attuabile per i suoi discepoli perché lo Spirito dimora ancora tutto in Gesù, sarà estesa anche ai suoi discepoli soltanto dopo la sua morte e risurrezione.
Infatti, Gesù nell'ora della sua morte "paredwken to pneuma" restituisce al Padre quello Spirito che gli era stato donato e che in lui era rimasto durante tutta la sua vita terrena (Giovanni nel rendere la sua testimonianza su Gesù dirà: "L'uomo su cui vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo" - Gv 1,33-); ebbene, proprio questo Spirito, dopo la risurrezione, Gesù espanderà anche sui suoi discepoli: "Alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo" (Gv 20,22). E' lo Spirito del risorto, lo Spirito della vera adorazione del Padre e che rende ora capaci anche i discepoli di adorare il Padre con quella stessa adorazione che, prima, era propria solo del Figlio, perché, ora, lo Spirito della vera adorazione del Padre dimora in loro. E' il tempo della Chiesa, in cui il culto legato al tempio non c'è più, perché sarà la vita di ogni credente, inabitato dallo Spirito della vera adorazione del Padre, che costituirà il luogo del nuovo culto a Dio.
Sarà proprio questo insieme di cose (l'ora che viene, l'uso dei tempi futuri per indicare la vera adorazione, l'annuncio di un nuovo culto che soppianterà quello in Gerusalemme e del Garizim) che porterà la Samaritana a focalizzare la sua attenzione sul Messia, che inaugurerà proprio questo tempo escatologico.
La Samaritana, ora, è decisamente tesa verso la venuta del Messia ed è pronta, finalmente, ad accogliere il mistero racchiuso in quell'individuo impertinente che le aveva chiesto da bere, lui un Giudeo, anzi il Messia. Questa forte tensione spirituale venutasi a creare nella Samaritana in un crescendo continuo porta Gesù ad aprirsi a lei: "Egw eimi, o lalwn soi", "Sono io che ti parlo" e in cui, in quel "Egw eimi", si può intravedere la divinità stessa di questo Messia.
Ora la donna ha trovato il suo vero marito, ha capito che quegli altri (le divinità pagane) non lo erano, e lasciata la brocca della sua fede antica abbeverata dall'acqua del pozzo della Legge mosaica, rigenerata dall'incontro con il Messia, ne diventa testimone e condurrà i samaritani a riconoscere in quell'uomo, impertinente e per di più giudeo, il "Salvatore del mondo".
Questo stupendo e commovente racconto, che è un cammino di fede alla scoperta del mistero di Cristo, si chiude con i vv.39-42. In questa parte finale si ritrovano tutti i personaggi: Gesù, la Samaritana, i discepoli e i samaritani.
La donna, rigenerata dall'incontro con Cristo, si fa testimone e fa iniziare il cammino dei Samaritani verso la fede. Ma c'è bisogno dell'incontro con il Signore perché questo cammino si porti a compimento. Infatti, i Samaritani pregano Gesù di "rimanere con loro", che indica una dimensione comunionale; la fede, infatti, mette in comunione Gesù con il credente. La donna con la sua testimonianza ha avuto il compito di condurre i suoi concittadini da Gesù, ma è soltanto l'esperienza personale con Gesù che può trasformare la persona e rigenerarla a Dio.
Si notino qui i verbi caratteristici della testimonianza giovannea: "abbiamo udito e sappiamo".
E' questo il vertice di tutto il racconto, alla cima del quale ci sta il titolo dei titoli cristologici: "Salvatore del mondo". Ora questi che la donna ha condotto da Gesù sono stati rigenerati anch'essi nella fede e diventano essi stessi testimoni, non più per sentito dire, ma perché ora anch'essi "hanno veduto e sanno".
Ora si è compiuta la piena rivelazione del mistero di quell'uomo impertinente e giudeo, ma del resto siamo verso mezzogiorno e non poteva essere diversamente.
LA PASSIONE: UNO SGUARDO PANORAMICO
Il racconto della passione è un'unità ben compatta che procede per sequenze logiche ed abbraccia i capp. 18-19 ed è preceduto da un lungo discorso di commiato (capp.13-17).
Si apre al cap.18,1 in un giardino, posto al di là del torrente Cedron, e si chiude con il v.19,42 sempre in un giardino.
C'è un'unità di spazio e di tempo: il tutto si svolge con sequenze logiche nel giro di circa 24 ore.
E' l'unica sezione che si avvicina maggiormente ai Sinottici per quanto riguarda la tematica narrata: passione e morte; ma registra anche numerosi scostamenti:
- non viene raccontata l'agonia di Gesù nel Getsemani; - viene omesso il processo davanti al sinedrio; - attenua la scena degli oltraggi nel pretorio di Pilato; - tralascia gli insulti al Crocifisso; - il grido in croce di Gesù morente; - i fenomeni apocalittici delle tenebre, del terremoto e del velo squarciato del tempio; - la professione di fede del centurione.
Vengono in buona sostanza omessi tutti quei particolari che in qualche modo potrebbero offuscare l'immagine regale di Gesù.
Vi sono, invece, degli apporti giovannei:
Tali omissioni e aggiunte sono finalizzate ad evidenziare il realizzarsi dell' "ora" della glorificazione e della regalità di Gesù.
Gesù, dunque, è glorificato nella sua morte, vista come una sorta di sua intronizzazione sulla croce da dove egli regna sovrano: la scritta, posta sopra la croce, lo conferma. Torna, quindi, qui la tematica dell'innalzamento e, pertanto, del dominio e della signoria sul mondo, che viene significativamente espressa nella regalità di Cristo.
LA REGALITA' DI CRISTO
(Gv 18, 33-38a)
Premessa
Il dialogo di Pilato con Gesù si apre con una domanda molto significativa che dà il tono non solo all'intero dialogo, ma a tutta la sezione della passione: "Tu sei il re dei Giudei?".
Il termine "re" nel QV compare 18 volte, di cui rivolto direttamente a Gesù, in modo esplicito, 14 volte; di queste ultime 10 si trovano nella sezione riguardante la passione. Una tale concentrazione, proprio in tale sezione, ci dice che l' "ora" della glorificazione di Gesù è ormai giunta e il mistero della sua persona si sta dischiudendo definitivamente.
Tale termine nel QV assume, talvolta, connotazioni positive, altre, negative. In senso positivo ricorre in Gv 1,49 quando Natanaele, rivolto a Gesù, esclama: "Rabbi, tu sei Figlio di Dio, tu sei il re di Israele" e in cui sembra esserci una sorta di sovrapposizione tra la regalità e la figliolanza di Dio. La proclamazione di Natanaele è accolta positivamente da Gesù.
Anche in 12,13-15, quando Gesù entra solennemente in Gerusalemme accolto festosamente dalla gente, l'appellativo di "re" viene annunciato in termini positivi, assumendo, qui, una coloritura messianico-davidica ed è visto come la realizzazione della profezia di Zaccaria (Zc 9,9-10).
Mentre, In Gv 6,15, dopo che Gesù ha compiuto il segno della moltiplicazione dei pani sfamando una grande folla lo vogliono fare re, assume una connotazione negativa. Infatti, "Gesù, sapendo che stavano per venirlo a prendere per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo". Una regalità questa dalla coloritura politica che Gesù rifiuta.
Nel dialogo tra Pilato e Gesù la regalità assume aspetti equivoci, come è caratteristica di Giovanni (lo si vede ad es. in Nicodemo in cui tutto si gioca sull'equivoco termine "anwqen"; oppure nella Samaritana in cui si parla di acqua, ma ognuno la intende a modo proprio). Ma sarà proprio questo giocare sull'equivoco, in una crescente contrasto di comprensioni, che consentirà a Gesù di precisare il senso più vero della propria regalità: Pilato la intende in termini politici (e non poteva essere diversamente), Gesù in termini del tutto spirituali.
Rivelazione in negativo della regalità
Il dialogo si apre, quindi, si apre con la domanda di Pilato: "Tu sei il re dei Giudei?". Quasi come in una disputa rabbinica, Gesù risponde con una contro domanda che mette in luce la sua sicurezza e, nonostante la sua situazione gravemente compromessa, domina gli eventi e lo stesso Pilato, che crede di avere potere su Gesù, ma che si sente rispondere che lui non avrebbe alcun potere se non gli fosse stato dato dall'alto (Gv 19,10).
La risposta data vuole, da un lato, mettere Pilato a diretto e personale confronto con Gesù; e, dall'altro, tende a far emergere l'accusa rivoltagli dai Giudei.
Con il v.36 dà una prima definizione, ma in negativo,della sua regalità:
a) Il mio regno non è da questo mondo b) Se il mio regno fosse da questo mondo ... c) Ma il mio regno non è di quaggiù
La negazione, che caratterizza l'intero versetto, riguarda in particolare le due espressioni "ek tou kosmou toutou" e "enteuqen" che con quel loro "ek" indicano la provenienza e, di conseguenza, l'appartenenza.
L'avverbio "enteuqen" ha il suo contrapposto in "anwqen" che indica la vera origine di Gesù e il mondo di appartenenza e da cui proviene anche il potere di Pilato su Gesù (Gv 19,11).
In questo versetto non si parla mai di "re", ma soltanto di "regno", citato per ben tre volte. Gesù prima di rivelarsi a Pilato vuole che sia chiaro il luogo di provenienza e, quindi, di appartenenza della propria persona. Se è chiaro questo, allora, non si equivocherà più sul termine "re". Infatti, non va dimenticato che Pilato nel v.33 esordisce chiamando Gesù "re dei Giudei" con una chiara connotazione politica.
L'espressione, poi, "i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei" precisa con ragionamenti umani, comprensibili anche a Pilato, che il suo regno non ha caratteristiche umane e non si muove conformemente alle loro logiche. Siamo, quindi, in un'altra dimensione. In questa dimensione Pilato deve entrare se vuole capire la vera identità di Gesù.
La risposta di Gesù sortisce il suo effetto: Pilato incomincia a capire che non si trova di fronte ad uno dei tanti sovversivi fanatici; lo rivela la sua domanda: "Dunque, tu sei re?". Molto diversa questa domanda da quella con cui si apriva il dialogo. Là il termine "re" era preceduto da un articolo determinativo che faceva di Gesù un preciso re, la cui natura era specificata dal quel genitivo "Ioudaiwn"; qui, invece, mancano entrambi i termini: Gesù è soltanto dichiarato re, la cui appartenenza, ora Pilato lo sa, non è di questo mondo, ma va collocata in una diversa dimensione, che sarà specificata in 19,11 con l'avverbio "anwqen". Per questo Gesù accetta la definizione di Pilato e la riprende confermandola: "Tu dici che sono re".
Già si intravede qui un progressivo cammino di rivelazione che dovrebbe portare Pilato a comprendere il mistero della persona di Cristo, ma che, purtroppo, fallirà per la cecità invincibile di un rude e crudele uomo di potere, quale Pilato era.
Qualcosa, comunque, si sta chiarendo su questa regalità, anche se per il momento si dice soltanto che cosa non è.
Rivelazione in positivo della regalità
Si tratta, ora, di chiarire in che cosa consista questa regalità. La risposta ci viene data dalla seconda parte del v.37, uno dei più importanti di tutto il QV in cui la rivelazione della persona di Gesù e del senso della sua missione tocca il suo vertice.
Questo versetto potremmo dividerlo in due parti: una prima parte (A) di carattere cristologico; una seconda (B) di carattere antropologico:
Il carattere cristologico è determinato da quel "Egw" che si riferisce alla persona di Cristo; quello antropologico è definito da quel "pas". Il termine "alhqeia", invece, fa da cerniera tra le due frasi, in quanto esso ha valore per entrambi i versanti sia cristologico che antropologico. Quanto al primo, l' "alhqeia" costituisce la finalità per cui Cristo si è staccato dal seno del Padre. Essa è la verità del Padre che è venuto a rivelare. Quanto al secondo, essa costituisce l'elemento che rigenera l'uomo a Dio e lo rende capace di accogliere e comprenderne il contenuto.
Tre sono le espressioni significative in questa frase:
§ "rendere testimonianza alla verità" § "essere dalla verità" § "ascoltare la voce"
"Rendere testimonianza alla verità"
L'espressione è preparata e preceduta dalla frase "Io per questo sono nato e per questo sono venuto" e la carica di senso.
Innanzi tutto quel "Egw" che si riferisce alla persona di Gesù, ma che in Giovanni assume connotati divini e rivelatori, richiamandosi alla rivelazione del nome di Dio fatta a Mosè sul Sinai: "Io sono".
Poi, per due volte viene ripetuta l'espressione "Eij touto" che precede enfaticamente i due verbi a cui si riferisce e caricandoli di senso, per cui il nascere e il venire non sono accaduti dal caso, ma vengono finalizzati al "Eij touto", che costituisce il loro obiettivo. Quel "eis", poi, indica moto a luogo ed esprime tutta la dinamica di quel nascere e di quel venire, che sono finalizzati ed orientati secondo un preciso disegno. Quel "Eij touto" che è anticipatore della frase successiva e da questa specificato.
Quanto al verbo "gegennhmai",esso è un perfetto medio-passivo che indica un'azione passata, ma che continua nel presente, per cui si dovrà leggere "sono nato e vivo", rimandando, in tal modo, alla concreta umanità di Gesù. Il verbo "elhluqa" è anch'esso un perfetto e, parimenti, indica una continuità nel presente di un'azione avvenuta nel passato, per cui si avrà "Io sono venuto e sono qui", rimandando a sua volta alla missione di Gesù, al suo agire nel mondo.
I due verbi, pertanto, abbracciano l'intera realtà personale e storica di Gesù.
Lo scopo del nascere e del venire, anticipato anonimamente dal quel "Eij touto" viene ora reso noto e, quindi, rivelato dalla frase successiva, introdotta dalla particella finale "ina": "per rendere testimonianza alla verità".
Ma qual è il senso di questa testimonianza resa? Essa esprime l'essenza stessa della missione e del mistero della persona di Gesù. Quell' "alhqeia", poi, esprime la rivelazione di Dio offerta all'uomo per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito e che, a giochi finiti, si identifica con Cristo stesso che si definisce "Via, Verità e Vita", poiché egli è il rivelatore per eccellenza del Padre, dal cui mistero proviene. Contenuto ed essenza di questa Verità, pertanto, è, da un lato, la persona di Cristo stesso; dall'altro, le cose che egli ha visto e udito presso il Padre.
Questa "alhqeia", così come definita, costituisce a sua volta l'oggetto del verbo "marturew" che si specifica, a sua volta, nel mistero della persona di Cristo e della sua attività rivelatoria, il cui apice sta proprio nell' "ora", cioè nella passione e morte di Gesù.
"Essere dalla verità" e "ascoltare la verità"
Con questa seconda parte si passa a considerare l' "alhqeia" non più dal versante cristologico, bensì da quello del credente.
Quale significato dare all'espressione "ognuno che è dalla verità"? In genere si tende a interpretare questa frase come "aver origine dalla verità", forse spinti da quel "ek" che indica un'origine. Tuttavia non va dimenticato che questo "ek" è preceduto e strettamente collegato dal "pas o wn" che indica uno stato di un "essere permanentemente" dalla verità e, quindi, uno stato permanente e perdurante di vita, uno stato attuale che trae la sua forza vitale proprio da quel "ek" che informa costantemente il proprio essere e il proprio vivere. Non si tratta, quindi, di una semplice origine, ma di un influsso persistente e perdurante di questa origine, che è Cristo stesso, sull'essere e sull'agire del credente. La formula, pertanto, è da porre non su di un piano ontologico, bensì esistenziale e pone il credente sotto il costante influsso del mistero del Padre che si rivela in Cristo nel cui ciclo vitale il credente è inserito e rinchiuso per sempre.
Rimane, infine, l'ultima formula "ascolta la mia voce". L'ascoltare esprime, innanzitutto, un atteggiamento di apertura e accoglienza che si fa conformità e sequela. Si tratta, quindi, di una sudditanza alla signoria dell' "alhqeia", che altri non è che il mistero della persona di Cristo in quanto rivelatore del Padre.
Questa espressione (ascoltare la mia voce) ricorre anche in 10,3 nel contesto di pastore-gregge. Qui l'immagine è la sequela del pastore che si fa anche maestro, non tanto impartendo ordini vessatori sui suoi sottoposti, bensì facendosi esempio, che ci viene offerto nella lavanda dei piedi in 13,12-17. L'esempio, quindi, è quello dell'abbassamento per amore, un amore che si fa servizio, un servizio che si concretizza fino all'offerta della propria vita.
Alla figura del "re", dunque, si affianca quella di "pastore e maestro", che non sono due appellativi aggiunti, ma esplicativi della regalità.
La domanda conclusiva di Pilato: "che cos'è la verità?" esprime tutta l'incomprensione e l'inintelligenza di questo rude uomo di potere, che rappresenta tutti coloro che si chiudono alla rivelazione perché non è dalla verità. E', pertanto, il portavoce di quel mondo incredulo che non sa riconoscere e accogliere il Cristo, l'ultimo e definitivo discorso del Padre offerto agli uomini.
PIETRO E IL DISCEPOLO PREDILETTO AL SEPOLCRO
(Gv 20, 1-10)
La chiesa cerca i segni del risorto
Nel capitolo ventesimo sono narrati tre episodi di apparizioni (alla Maddalena, ai discepoli senza Tommaso, ai discepoli con Tommaso) e uno di scoperta di tomba vuota. Mancano di una successione logica come si potrebbe trovare nel racconto della passione.
Si tratta probabilmente di episodi giustapposti l'uno accanto all'altro dal redattore, ma originariamente staccati.
Il racconto è articolato in due unità maggiori, suddivise a loro volta in due sottosezioni:
La scoperta del sepolcro vuoto: una corsa verso la fede
Articolazione del testo
Il racconto si articola in due quadri ben definiti: vv.1-2 e 3-10. Entrambi iniziano con un movimento verso il sepolcro e si chiudono con una comune annotazione di inintelligenza di quanto veduto, che evidenzia l'assoluta impreparazione e cecità di fronte all'esperienza della risurrezione. Un avvenimento del tutto nuovo e inatteso, che mette in risalto la realtà della risurrezione stessa.
Quanto all'inintelligenza della Maddalena e dei due discepoli si rileva una sostanziale differenza: nel primo caso essa è espressione di un totale smarrimento di fronte ad un supposto trafugamento del corpo di Gesù. Nel secondo caso, essa si riduce ad una glossa dell'autore che evidenzia il carattere del tutto iniziale della fede dei discepoli, poiché non c'è ancora la comprensione delle Scritture.
Il primo quadro è funzionale al secondo. Infatti, è la Maddalena che smuove con il suo totale smarrimento i due discepoli e li mette in cammino verso il sepolcro.
Il secondo quadro, invece, è a se stante, ben strutturato e completo: si apre con un movimento di andata (verso il sepolcro) e uno di ritorno (alle loro case). Questo ritorno è presentato come il frutto della loro inintelligenza dell'accaduto che li fa ritornare alle loro case, cioè alla loro situazione primitiva, quando ancora non avevano conosciuto Gesù ed erano dei semplici pescatori. Quanto hanno vissuto, proprio per la loro inintelligenza, non li spinge a comunicarlo agli altri.
Nella corsa di questi personaggi possiamo vedere l'ansia della chiesa primitiva che cerca di capire affannosamente quanto le sta succedendo e chiede e cerca i segni del Risorto. In questa ricerca si delineano diversi atteggiamenti: c'è l'affettuosa apprensione di Maria; la veloce e agile intuizione del discepolo amato; la lentezza solida e prudente di Pietro.
Ciò che unisce i tre è la collaborazione nella loro diversa posizione: ognuno dice all'altro quel poco che ha visto o intuito e così, insieme, arrivano a capire quanto è successo.
Esegesi del testo
La notte della Maddalena
Il racconto si apre con una sorta di intonazione liturgica: "Th de mia tvn sabbatwn" che ci porta in quel primo giorno della settima in cui le primitive comunità cristiane si riunivano per celebrare la cena del Signore, come ci viene ricordato dagli Atti 20,7.
A differenza dei Sinottici, Giovanni mette in moto verso il sepolcro soltanto Maria di Magdala. Essa si muove "quand'era ancora buio", contrariamente agli altri evangelisti che parlano "delle prime luci dell'alba alba". Essa si accosta al sepolcro e "Blepei ton liqon", cioè vede fisicamente la pietra rovesciata, ma non sa interpretare il segno.
La Maddalena, qui, diventa il simbolo della primissima chiesa che intraprende il suo cammino di comprensione verso una realtà che è ancora avvolta dall'oscurità del dubbio, dal timore e dalle molte incertezze; una realtà su cui gravano molti interrogativi inquietanti e senza risposta. Una profonda inintelligenza degli avvenimenti li avvolge e impedisce loro di aprirsi alla fede.
Infatti, la precisazione temporale "skotias eti oushs" (essendo ancora buio) e il "vedere" di questa donna, reso in greco con "blepw", che indica un vedere meramente fisico, che non va oltre a ciò che percepisce, sono elementi che fanno pensare ad una chiesa che si sta muovendo in mezzo ad una situazione indecifrabile che le crea disorientamento, inquietudine e turbamento.
Maria vede la pietra che "era stata ribaltata", reso in greco con "hrmenon", un perfetto passivo, forse un passivo teologico. Quindi questa pietra ribaltata si poneva di fronte a Maria come un segno di intervento divino, ma la donna non va oltre il vedere fisico, perché, come afferma Giovanni "era ancora buio".
Questa prima parte del racconto si chiude con il correre di Maria da Pietro e dal discepolo amato, i due punti di riferimento di una chiesa che si sta muovendo nel buio: Pietro il capo riconosciuto del gruppo e Giovanni, legato da un profondo vincolo di amore con Gesù che lo rende agile e intuitivo sul mistero del suo maestro. Essa esplicita tutto il suo disorientamento e la sua profonda inquietudine: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'anno posto". Essa da una sua interpretazione di quanto ha visto: per lei il sepolcro vuoto è il chiaro segno di un trafugamento del corpo.
Quel "ouk oidamen" (non sappiamo) è un plurale non comprensibile nel contesto, considerato che qui l'unico soggetto è la Maddalena. Probabilmente si tratta di un residuo della tradizione antica che parlava di un gruppo di donne.
Quanto al verbo in sé "oidamen" esprime un "non sapere" che va ben al di là di una semplice incomprensione: esso indica tutta l'impotenza dell'uomo di fronte al mistero di Dio. Evidenzia tutta la fragilità del sapere umano nei confronti delle cose che vengono dall'alto, le quali solo lo Spirito può rendere comprensibili.
... e quella dei discepoli
Il turbamento della Maddalena smuove anche i discepoli e li fa uscire (exhlqen), li fa venir fuori, quasi li strappa dal loro ripiegamento su se stessi, ancora frastornati dagli avvenimenti che li hanno sconvolti e li hanno racchiusi in un torpore che rende incredibile anche la realtà più vera.
Da questo momento in poi si susseguono una serie di verbi di movimento che indicano l'ansioso, inquieto e frenetico dinamismo della chiesa nascente che, disorientata, cerca affannosamente di trovare un punto di appiglio per capirci dentro qualcosa su quanto le è successo (passione e morte del maestro) e le sta succedendo (la scoperta della risurrezione).
Si inizia con un significativo verbo di moto: "Uscì", poi, "si recarono", "correvano insieme", "corse più veloce", "giunse per primo", "non entrò", "giunse anche Pietro", "lo seguiva", "entrò". Indicano un dinamismo convulso, confuso e incerto che ben rispecchia il sentire della chiesa primitiva (v. anche Lc 24,13ss).
La convulsa corsa mette a confronto i due discepoli, che certo non dice rivalità, poiché essi "correvano insieme tutti e due ". E', dunque, una corsa fatta in comunione e non in rivalità. Essa esprime una corsa verso la comprensione di un mistero che li sta turbando e li ha gettati in una profonda angoscia (era ancora buio). Viene posta a confronto soltanto la loro capacità di comprensione di questo mistero e la collaborazione (corrono insieme) che si era sviluppata nella chiesa per mettere insieme i pezzi di un quadro ancora confuso.
L' "altro discepolo", proprio perché legato da un particolare rapporto con Gesù, ha sviluppato una più agile intuizione del mistero di Cristo, per cui arriva prima a intuire cosa è successo. Ma l'intuizione non è comprensione piena del mistero, per cui egli "vide le bende per terra", ma non va oltre, si ferma e non entra. Il suo vedere è ancora imperfetto e quel "blepei" lo denuncia. E con deferenza attende l'arrivo anche di Pietro, il cui cammino è più lento, più prudente, ma sicuro. Infatti, Pietro "giunse ... ed entrò" nel mistero. Anche lui "vide", ma il suo vedere è diverso da quello dell'altro discepolo. Infatti, l'autore assegna al vedere di Pietro non più uno sguardo imperfetto, denunciato dal "blepei" della Maddalena e dell'altro discepolo, bensì un "qewrei", cioè un vedere più attento, più riflessivo, un vedere che si fa osservazione acuta. E, finalmente, anche il discepolo che Gesù amava, preceduto dal "qewrei" di Pietro può concretamente entrare nel mistero e l'intuizione che lo aveva fermato alle soglie del mistero, colto, ma non penetrato, diventa fede concreta: "vide e credette". La qualità e i tempi dei verbi usati, "eiden kai episteusen", denunciano un decisivo salto di qualità nella comprensione del mistero. Il tempo usato è l'aoristo ingressivo che ci indica l'inizio di una fede che si è aperta al mistero, ma non ancora giunta a piena maturazione; mentre il verbo proprio della fede "vedere", diventa qui "oraw", che esprime uno sguardo che non si ferma più alle apparenze, ma va oltre: è un vedere spirituale.
Viene, quindi, qui delineato un complesso, difficile e convulso cammino di fede: dapprima c'è un semplice "blepw", che indica uno sguardo del tutto superficiale che vede, ma non comprende (20,1.5); poi, si passa ad un "qewrew", che esprime un guardare attento e riflessivo; ed infine, si giunge all' "oraw" che è il vero e proprio sguardo della fede che va oltre alle apparenze e che sgorga da un'attenta riflessione che porta alla comprensione.
Da questo momento in poi il verbo "oraw" si ripeterà più volte: nel v.18, che segna il raggiungimento della fede della Maddalena, il cui cammino era iniziato con un semplice "blepei" (v.1); nel v.25 che indica l'essere pervenuti alla fede del gruppo dei discepoli; nel v.29 in cui il credere dei discepoli viene esteso a tutti i credenti. Tutti i verbi, poi, sono al tempo perfetto che indica una fede persistente che continua anche nel tempo e che, in qualche modo, introduce al cap. 21 dal sapore tutto ecclesiale.
Tuttavia, il cammino della fede è ancora agli inizi, non è ancora consolidato al punto tale da trasformare questi disorientati testimoni in araldi della fede. Ecco, perché, i due discepoli se ne tornarono di nuovo a casa. A loro mancava ancora un tassello importante: la comprensione delle Scritture: "Non avevano, infatti, ancora compreso le Scritture", cioè una ancor più profonda e completa comprensione del mistero, di cui sono stati inconsapevoli testimoni.
Da ultimo, ancora qualche osservazione su alcuni particolari di secondo piano, ma non trascurabili e che consentono una migliore comprensione del quadro.
I discepoli qui citati sono "due", molto probabilmente, essi avevano lo scopo di di convalidare la testimonianza della donna, priva di valore giuridico, secondo il diritto giudaico che, invece, richiedeva la sua validità la presenza di due testimoni maschili.
Un'attenzione particolare, poi, viene attribuita al "sudario", non menzionato al momento della sepoltura e per questo, qui, meticolosamente descritto: "... il sudario, che gli era stato posto sul capo, non era per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte". Tale menzione ha una duplice finalità: da un lato, suggeriscono che il cadavere non è stato trafugato, come aveva insinuato la Maddalena; e dall'altro, evidenziano la sostanziale differenza rispetto alla risurrezione di Lazzaro, il quale esce dalla tomba ancora avvolto dalle bende e dal sudario, segno di una morte solo momentaneamente sconfitta, ma non definitivamente vinta. Gesù, invece, se ne libera da solo e definitivamente: segno di una morte che non ha più alcun potere su di lui.
IL VERBO DELLA VITA
(1Gv 1,1-4)
Premessa
Questa è la prima lettera di tre, l'unica che abbia una certa consistenza: ha infatti 5 capitoli, mentre le altre due sono dei semplici biglietti, formati rispettivamente da 13 e 15 versetti; ma è anche l'unica che pur chiamandosi lettera non ne ha la forma: mancano destinatari, mittenti, saluti e conclusione, cose che invece hanno le altre due.
I primi quattro versetti di questa prima lettera costituiscono il prologo teologico, che anticipa le tematiche trattate dalla lettera.
Già da subito si coglie la preoccupazione di Giovanni di agganciarsi ai testimoni oculari, quali mediatori tra Cristo e la comunità. Una preoccupazione che ci viene testimoniata da quel persistente e quasi ossessivo riferimento al vedere, udire, toccare e contemplare.
Si nota in ciò una venatura polemica contro quei personaggi che, appartenuti alla comunità, ne sono usciti perché, da un lato, negavano l'umanità di Cristo; dall'altro, perché su di un piano etico-pragmatico negavano il peccato.
E proprio in merito a questi cristiani fuoriusciti, in 2,18-19, mette in guardia i credenti rimasti, che chiama con affetto e autorevolezza "figlioletti" e a cui ricorda che è giunta l'ultima ora, caratterizzata dalla presenza degli anticristi, cioè i fuoriusciti: "... questa è l'ultima ora. Come avete udito che deve venire l'anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l'ultima ora. Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri".
Testo e Struttura
A) Kerigma ecclesiale (v.1) : Ciò che era fin da principio
B) Esperienza apostolica ciò che abbiamo ascoltato ciò che abbiamo contemplato con i nostri occhi ciò che osservammo e le nostre mani palparono riguardo al Verbo della Vita
C) La Rivelazione (v.2) e la vita si manifestò e abbiamo contemplato e testimoniamo e annunciamo a voi la vita eterna che era rivolta verso il Padre e si manifestò a noi
B') Esperienza apostolica (v.3) ciò che abbiamo contemplato e abbiamo ascoltato
A') Kerigma ecclesiale lo annunciamo anche a voi perché anche voi abbiate comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. (v.4) E noi scriviamo queste cose perché la nostra gioia sia piena.
Analisi della frase
I primi quattro versetti costituiscono un'unica frase, molto lunga, contorta e complessa, comunque, non di facile lettura. Tuttavia essa è di rara densità teologica. Le forme verbali, poi, passano facilmente dal perfetto all'aoristo e viceversa. Non si capisce bene se questo è il procedimento stilistico dell'autore o se con questa alternanza di tempi esso ci voglia comunicare sottili distinzioni di significato.
Il lungo e contorto periodo comincia al v.1 con quattro pronomi relativi (o) che introducono altrettanti frasi di stessa natura, caratterizzate dalla presenza di verbi "percettivi" che supportano la fondamentale testimonianza. Il v.2, poi, introduce una frase incidentale, una sorta di parentesi riflessiva ed esplicativa che sembra voler, da un lato, giustificare le quattro frasi relative precedenti; e, dall'altro, precisare e qualificare il "Verbo della Vita", come verbo che si è reso visibile (e questo spiega i verbi percettivi delle quattro frasi relative), che è vita eterna presso il Padre, richiamandosi idealmente al prologo del QV in cui il Verbo, anche qui, è contemplato presso il Padre. Esso è caratterizzato da una inclusione data dal verbo "efanerwqh". Il v.3 è una ripresa del primo versetto a cui ci si riaggancia con i verbi della testimonianza: vedere e udire. Esso contiene un verbo chiave da cui dipende tutto il senso della frase: "apaggellomen", già contenuto nel v.2 assieme ai verbi "ewrakamen" e "marturoumen", e che ha per oggetto i quattro pronomi relativi del v.1, per destinazione "umin", cioè la comunità dei credenti, ed è finalizzato alla piena totale comunione che sfocia nel ciclo vitale di Dio stesso. Il v.4 enuncia la motivazione dello scritto.
Il "Noi" dei primi tre versetti
A chi fa riferimento il "Noi" dei primi tre versetti? Per rispondere bisogna evidenziare la relazione che c'è tra i due verbi "ewrakamen" e "marturoumen" del v.2. Il Verbo "marturew" è spesso associato ai verbi "oraw" e "qeawmai" che, come nel v.4,14, fanno sempre riferimento ad un testimone oculare.
Chi scrive, dunque, qui si presenta come un testimone oculare della vita di Gesù. L'uso del plurale, tuttavia, non va preso come un "pluralis maiestatis", ma indica che questo testimone ha avuto accanto a sé altri discepoli, essi pure testimoni oculari, con i quali sembra formare una sorta di comunità e con i quali è in perfetta comunione. Questo "Noi" costituisce il nocciolo fondante della comunità cristiana e il tramite insostituibile tra "ciò che era fin da principio", cioè la persona di Gesù stesso con il suo messaggio e le sue opere, e la comunità dei credenti a cui questa scritto è rivolto.
Esegesi del testo
Il v.1 esordisce con "o hn ap' archj". A che cosa allude l'autore con quel "ap' archj"? Si tratta di un inizio assoluto del tipo precreazionale; o di un inizio storicamente situabile?
Vi è una differenza tra "en arch" e "ap' arch": il primo indica il "punto iniziale", l'altro dice uno svolgimento temporale a partire da un determinato momento storico. Essa costituisce una sorta di formula tecnica che, nella lettera, è presa sempre in senso storico.
Questa formula, che caratterizza l'inizio della lettera, è posta in stretta relazione ai verbi kerigmatici e testimoniali del v.1 ripresi, poi, in forma chiasmica dal v.3: "akhkoamen" ed "ewrakamen", che confluiscono tutti in quel "apaggellomen kai umin", che indica in tal modo un annuncio testimoniale. Ma annuncio testimoniale di che cosa? In altre parole qual'è l'oggetto di questa testimonianza? E' proprio lo "o hn ap' archj" che si viene, pertanto, a qualificare la stessa persona di Gesù Cristo, la sua parola, le sue opere, in definitiva, la sua autorivelazione, come afferma anche il Brown.
Che sia così lo lascia anche intuire la finalità per cui è stata scritta la lettera: fornire il punto di riferimento solido e indiscutibile contro gli elementi gnosticizzanti che dividevano la comunità. Tale punto di rifiorimento è proprio "Ciò che era fin da principio" e che è stato trasmesso e garantito da testimoni che hanno udito, visto, toccato e contemplato con i loro propri occhi, indicando così non solo la solidità della fede, ma anche il permanere della tradizione, radicata in "Ciò che era fin da principio".
Quel "arch", però, non è un principio rimasto chiuso in se stesso, ma "efanerwqh", cioè si è reso visibile, quindi accessibile e raggiungibile, per questo "ewrakamen kai marturoumen kai apaggelloumen umin", cioè ci è stato possibile contemplarlo, darne testimonianza e annunciarlo. Questa manifestazione, che sta al principio di tutta l'esperienza cristiana, ha potuto essere percepita, dapprima con i sensi, poi interiorizzata e, infine, è divenuta oggetto di proclamazione.
Un'esperienza, pertanto, che ha avuto un inizio tangibile e storicamente collocato e che si è estesa nel tempo, come esprimono bene i due verbi al perfetto "akhkoamen" e "ewrakamen", che indicano un'esperienza posta nel passato e che continua anche nel presente. Questo insistere sui verbi di senso e di percezione vuole rimarcare la fisicità di questo "principio", cioè la sua umanità, contestata dagli "anticristi".
Tutta questa esperienza ha come oggetto il "Logoj thj zwhj", espresso qui con un genitivo epesegetico, cioè esplicativo della natura di questo "Logoj" che è "zwh",cioè la "Vita" per eccellenza che qualificata come "aiwnon", cioè eterna. Si tocca qui l'essenza stessa di Dio.
Il v.2 pone l'accento sul verbo "fanerow", che forma inclusione all'interno dello stesso versetto e dice manifestazione, rivelazione, richiamando l'incarnazione e, con essa, la rivelazione. All'interno di questa manifestazione incarnata si pongono tre verbi cari alla sensibilità giovannea: "oraw" che indica un vedere che riesce leggere ben al di là del sensibile; "marturew" che indica una testimonianza radicata nell'esperienza. Entrambi i verbi, poi, confluiscono naturalmente nell' "apaggellw", cioè nell'annuncio.
Oggetto di questa testimonianza (marturew) radicata nell'esperienza (oraw) che si fa annuncio (apaggellw) è "thn zwhn thn aiwnon htij hn pros ton patera", cioè "la vita eterna che era rivolta verso il Padre" indicando con quel "verso" un dinamismo nel rapporto tra il Figlio (la vita che si è manifestata) e il Padre e che si fa comunione e comunicazione, esprimendo la profondità della relazione filiale.
Il contenuto di questa testimonianza viene meglio specificato in 5,11 in cui ci viene detto che "La testimonianza è questa: Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio."
La vita qui è qualificata come "eterna", che non ha valore cronologico, ma qualitativo, cioè è vita divina e proprio perché divina essa è eterna.
Giovanni usa due termini per indicare la vita: "bioj" per indicare la vita fisica; "zwh" per indicarne la dimensione spirituale. Questa vita eterna è rivolta, come si è detto verso il Padre, indicandone tutto il dinamismo di comunicazione che si fa comunione e in cui sono coinvolti tutti coloro che hanno creduto ai testimoni.
Ebbene, tutta questa dinamica di comunione e comunicazione, che dice la natura della filiazione, una volta manifestata (fanerow), è stata vista, udita, contemplata dai primi testimoni che l'annunciano, fungendo così da tramite verso la comunità dei credenti.
La finalità di tutta questa dinamica che vede coinvolti Padre, Figlio, testimoni e comunità credente è quella di creare una perfetta comunione tra tutti gli attori. Una comunione che ora, però, è attuabile solo attraverso la testimonianza "creduta" dei primi testimoni, che hanno visto, udito, toccato, contemplato e annunciato e che, ora, viene posto per iscritto perché la nostra gioia sia piena.
APOCALISSE: IL PROLOGO
(Ap 1, 1-8)
L'introduzione(Ap 1,1-3)
Questi primi tre versetti costituiscono la cornice introduttiva dell'Apocalisse. Essa presenta l'autore, i destinatari, gli intermediari, i contenuti (v.1), un'attestazione di veridicità (v.2) e l'ambiente di proclamazione (v.3).
Il tema del presente libro consiste in una rivelazione il cui autore è Gesù Cristo, ma che costituisce, nel contempo, anche l'oggetto stesso di questa rivelazione. Abbiamo, infatti, qui, un genitivo soggettivo e oggettivo allo stesso tempo. Tuttavia, l'autore primo da cui si diparte e discende ogni cosa, il "motore primo" è lo stesso Padre, di cui il figlio, per sua natura, è il fedele rivelatore e attuatore di ogni sua volontà.
I destinatari di tale rivelazione sono i "suoi servi". Tale rivelazione, dunque, non è destinata a tutti, ma a dei servi che sono qualificati da quel aggettivo possessivo che rimanda a Cristo stesso e, di rimbalzo, a Dio. Sono coloro, quindi, che non solo hanno deciso la loro vita per Cristo, abbracciando la fede, ma anche, nelle difficoltà del momento presente (siamo in piena persecuzione domizianea), sanno mantenersi a lui fedeli.
Il contenuto di tale rivelazione sono "le cose che devono presto accadere", cioè gli avvenimenti umani, la storia stessa colta nel suo svolgersi e che sono visti alla luce del piano salvifico di Dio, che è già in atto. Un piano che si è attuato e si sta attuando nella persona del Cristo risorto. Tali avvenimenti, quindi, vanno letti secondo la chiave interpretativa che è Cristo stesso, divenuto dopo la risurrezione il Signore della storia.
Il luogo privilegiato di ogni rivelazione è la storia stessa e benché ogni rivelazione abbia in lui la sua origine e il suo contenuto, tuttavia, Dio si rivolge agli uomini, soggetti della storia, sempre in forma mediata e mai diretta, usando con loro un linguaggio squisitamente storico, l'unico che l'uomo è in grado di recepire. Servono, quindi, degli intermediari. Due sono sostanzialmente: l'angelo e Giovanni. L'angelo, quale messaggero che porta in sé la luce di Dio da donare agli uomini, qui si identifica nello stesso Cristo, inviato dal Padre per rivelare ai suoi discepoli il piano di salvezza del Padre e perché questi diventino testimoni e propugnatori di tale salvezza rivelata:"Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv ). Quanto a Giovanni, egli è qui il destinatario primo di tale rivelazione e, contemporaneamente, si costituisce quale intermediario verso i servi di Dio. Si tratta di una rivelazione che proviene da Dio e destinata ad essere inoculata nella storia. C'è bisogno, dunque, di un apostolo, di un profeta, di un testimone fedele, cioè di un servo di Dio.
Ricevuta la rivelazione da parte del Padre per mezzo di Cristo, Giovanni è costituito testimone fedele e attendibile poiché dichiara solennemente di riferire ciò che ha visto. Si tratta, dunque, di una sorta di certificazione di autenticità e di fedeltà.
Lo scritto di Giovanni, infine, è destinato alla lettura liturgica. Infatti, l'ambiente è proprio l'assemblea liturgica in cui uno legge e gli altri ascoltano. Ed è proprio in tale ambiente che la rivelazione acquisirà la sua efficacia: nell'ambito della celebrazione e del culto dove la parola si fa rito e dove il rito è sostanziato dalla parola e le dà forma storica e simbolica. E' l'attuarsi sacramentale della salvezza. Abbiamo qui il primo macarismo ("beati") che in questo libro risuonano per sette volte.
L'indirizzo(Ap 1, 4-8)
Nel precedente v.3 si era preannunciato l'ambito liturgico entro cui veniva proclamata la rivelazione, dichiarando beati sia il lettore che gli ascoltatori.
In questi cinque versetti, immediatamente seguenti, ci viene presentato un dialogo liturgico che si snoda nell'assemblea liturgica e in cui la comunità ecclesiale interagisce con il lettore, con Cristo e Dio.
Questo la scansione del dialogo:
vv. 4-5a : Lettore | vv.5b-6: Assemblea | v.7: Lettore | v.8: Dio per bocca del lettore.
a) Lettore (vv.4-5a)
L'Apocalisse si presenta formalmente come una lettera. Infatti, vi è menzionato il mittente, il destinatario, il saluto iniziale, il corpo della lettera e i saluti finali. I destinatari sono le sette chiese dell'Asia; ma il numero sette fa pensare all'intera Chiesa.
Tra il lettore e il suo gruppo di ascolto si intreccia un dialogo liturgicamente e spiritualmente molto denso e contenutisticamente molto elevato. Al saluto, che proviene da parte di Dio, definito come l'eterno veniente; da parte dello Spirito, presentato nella sua pienezza (sette spiriti) e da parte del Cristo, colto come il rivelatore fedele del Padre che trova la sua massima espressione nella passione (testimone fedele), risorto (primogenito dei morti) e Signore della storia (principe dei re della terra); proveniente, dunque, dalla stessa Trinità così riccamente celebrata per mezzo del suo intermediario Giovanni, l'assemblea ecclesiale risponde con una dossologia che celebra, a sua volta, l'azione salvifica sgorgata dal Padre (colui che ci ama) e attuata per mezzo del suo Cristo (ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue).
Colui che è e che era e che viene: nel mondo greco si esprimeva l'eternità degli dei con la formula "Giove era, Giove è, Giove sarà", mentre nel giudaismo similmente si diceva con riferimento a Jhwh: "Colui che è, che era, che sarà".
La nostra formula subisce una significativa trasformazione in quel "ercomenoj": Dio non è più l'eterno che è avulso dalle vicende umane e dalla storia, ma è un Dio che "viene", cioè entra nella storia, la assume su di sè, la condivide, si fa storia esso stesso e in essa si incontra con l'uomo.
Quel "kai", poi, che lega i tre verbi tra loro, dice il porsi di Dio nell'eternità e nel tempo: quel Dio che Giovanni nel suo vangelo contempla in quel "en arch" metastorico, è lo stesso che viene (ercomenoj) ad incontrare l'uomo nel suo habitat naturale, facendosi carne: "O logoj sarx egeneto" (Gv 1,14). C'è, dunque, una continuità eterna e logica nell'azione di Dio che dalla metastoria si rivela nell' "ercomenoj" e si fa Emmanuele, il Dio con noi. Quindi, fin dall'inizio il nome di Dio acquista una risonanza cristologica.
b) Assemblea (vv.5b-6)
A questo saluto trinitario, così ricco e teologicamente denso ed elevatissimo, l'Assemblea liturgica risponde celebrando l'opera della salvezza del Padre attuata in Cristo e per Cristo. Essa è definita da tre verbi significativi: "Colui che ci ama", espresso con un participio presente (tw agapwnti) per indicare questa persistenza di un amore che non conosce limitazioni di tempo e che accompagna l'uomo lungo lo scorrere dei secoli. "Ci ha liberati" espresso in greco con un participio aoristo (lusanti) per indicare un'azione puntuale nel tempo e irrepetibile (passione e morte), da cui è defluita una libertà per sempre. E, infine, "Ha fatto di noi un regno di sacerdoti" che richiama Es. 19,6: "Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". Dio, dopo aver affrancato Israele dalla schiavitù dell'Egitto, lo conduce ai piedi del Sinai e, qui, gli dà una nuova identità: "Voi sarete per me la proprietà ... un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,5-6). Con questo Israele diventa parte di Dio, suo tramite e testimone in mezzo alle genti, un popolo consacrato e riservato a Dio. Tutto ciò, ora, è divenuto realtà per Cristo e in Cristo, grazie alla sua azione redentrice.
c) Lettore (v.7)
Tale dossologia dell'Assemblea liturgica viene ripresa dal Lettore, evidenziando l'aspetto escatologico di tale redenzione. Non si tratta, pertanto di un Cristo intimistico, ma che spinge la storia al suo compimento, quando le cose appariranno nella loro piena verità. Appare sullo sfondo la visione notturna di Daniele (Dn 7,13) che vede uno simile al figlio dell'uomo venire sulle nubi; e la predizione di Zaccaria: "... guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico" (Zc 12,10), ripreso, pari pari, da Gv 19,37).
d) Il Lettore presta la sua voce a Dio (v.8)
L'intervento conclusivo di questo dialogo è riservato a Dio il "pantokratwr" che esordisce con il suo vero nome, rivelato a Mosé sul Sinai: "Egw eimi" (Es 3,14), ponendo il sigillo su quest'ultima rivelazione che trova la sua piena e ultima verità nel Cristo stesso: Egli è l' "Egw eimi" del Sinai che ora si è fatto visibile e che annuncia il su ritorno.
Il termine "pantokratwr" (onnipotente) ricorre nove volte in tutta l'Apocalisse e sempre riferite a Dio, mai al Cristo, benché l'iconografia glielo abbia attribuito.
Un versetto squisitamente teocentrico in cui vengono presentati i vari attributi di Dio: Egli è l'Alfa, da cui discende la creazione e l'iniziativa della rivelazione e della salvezza; egli è l'Omega a cui tutto ritorna e in cui tutto ritrova la sua ricomposizione e il suo senso originale: quando egli sarà di nuovamente "... tutto in tutti " (1Cor 15,28).
Viene poi ripreso il "Colui che è, che era e che viene" per indicare l'eternità Dio continuamente offerta (che viene) all'uomo nel suo Cristo.
E, infine, Egli è l' "Onnipotente" sintesi finale di ogni attributo di Dio in cui tutto è ricompreso e in cui tutto confluisce e defluisce, accogliendo l'intera creazione e la sua massima espressione, l'uomo, nel suo ciclo vitale.
Considerazioni finali
A) La struttura di questa pericope (vv. 4-8) è squisitamente teocentrica (si noti l'inclusione data da quel "Colui che è, che era e che viene") ed afferma la signoria di Dio sulla storia. Entro questa cornice teocentrica è inserito il dramma della salvezza, che Giovanni legge a partire dal centro rivelatore che Cristo, colto nella sua morte redentrice, e in cui Dio si è fatto storia. Una storia di amore (colui che ci ama), di liberazione (ci ha liberati dai peccati) donandoci una nuova dignità, prefigurata e promessaci (sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa) ai piedi del Sinai (ha fatto di noi un regno di sacerdoti).
Al centro di tutto ci sta la croce (con il suo sangue) da cui promana la nostra redenzione (ci ha liberati dai nostri peccati).
B) Nella pericope è percepibile un movimento di discesa e di salita, di dono e di risposta: da Dio scende il dono della "grazia e della pace" e dall'uomo sale l'inno di lode e ringraziamento che lo celebra per la sua opera di salvezza donata e rivelata in Cristo e per Cristo.
C) La pericope rilegge l'AT in chiave cristologica e parte dalla signoria di Dio sulla storia, fatta passare attraverso la croce, unica via di salvezza e di vittoria.
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