Quaresima, cammino di liberazione

verso la libertà, pienezza di vita



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Premessa

Virgilio, nel presentare Dante a Catone, custode del Purgatorio, gli si rivolge dipingendo il pellegrino dell'aldilà come un cercatore di libertà, così come lo fu Catone, che piuttosto di soggiacere alla tirannia di Cesare preferì suicidarsi: “libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (I Purg., vv.71-72). Ma mentre Dante va alla ricerca della libertà morale, quella interiore dello spirito, libero dalle passioni e dalla colpa, illuminata dalla ragione e sorretta dalla grazia; una ricerca che parte dall'interno dell'uomo e punta alla piena espressione della sua vita, Catone, invece, per salvaguardare quella libertà che gli doveva assicurare la pienezza di vita giunge a negare la vita stessa. Una stessa ricerca, ma che vede due conclusioni contrapposte, perché contrapposti sono i punti di partenza: Dante vede la libertà come un bene connesso alla stessa natura umana, che si radica nell'intimo dell'uomo e lo spinge a liberarsi di tutti gli ostacoli interiori che gli si frappongono per dare piena espressione e affermazione alla vita. Catone vede la libertà come un fatto meramente fisico e dipendente da fattori esterni, così che quando questi diventano tali da non consentirgli di poter vivere liberamente, si sottrae loro distruggendo quella vita, che la libertà invece doveva affermare1.

Ma, già nove secoli prima, S. Agostino (354-430), nella sua opera “De vera religione”, sollecitava il suo lettore a far partire la ricerca dell'armonia interiore dal proprio intimo, quale luogo di dimora della verità, quella verità che il Gesù giovanneo attestava essere generatrice di libertà (Gv 8,32): “Riconosci quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo interiore” (De vera religione, 39,72).

Punto di partenza e di riferimento per ogni ricerca antropologica, dunque, è e rimane l'uomo, che è sempre più tale nella misura in cui egli riesce ad esprimere al meglio la propria umanità. È qui che si inserisce il gioco della libertà, intesa come uno stato di vita tale da consentire alla vita stessa di affermarsi nella pienezza delle sue potenzialità. La libertà, pertanto, si esprime come potenzialità che viene offerta a ciascuno perché sappia giocare al meglio la propria vita. La libertà, pertanto, è lo spazio stesso della vita. Si tratta, in realtà, più che di libertà, di un cammino di liberazione, che deve partire dall'interno dell'uomo, verso la libertà. Questa, fintantoché rimane circoscritta entro la cornice spazio-temporale, è soggetta ad un continuo divenire e non potrà mai essere assoluta, ma soltanto relativa, perfettibile e soggetta anche al rischio di processi involutivi, che ricacciano l'uomo nel caos primordiale del proprio Io. La libertà assoluta è soltanto una fantasia che, se perseguita come obiettivo possibile, diviene estremamente pericolosa perché cozza contro i limiti propri dell'uomo e lo può anche distruggere, perché una simile libertà tende a togliere i limiti che sono imposti dalla stessa natura umana. Per questo la libertà deve esprimersi all'interno delle regole, che sono quelle proprie che normano la vita stessa dell'uomo e insite nella sua stessa natura. Pensare quindi ad una libertà priva di vincoli, come l'ideale di libertà è deviante ed è destinato a creare danni enormi a se stessi e agli altri. Anzi vero è il contrario: più una libertà si gioca all'interno e nel rispetto delle regole dettate dalla propria natura e dal rispetto degli altri, più questa libertà diventa liberante, perché si conforma alle regole che sono insite nella vita stessa, e che sono finalizzate ad affermarla. In tal modo la libertà diviene lo spazio liberante entro cui si afferma in pienezza la vita.

La libertà pertanto, in se stessa, presa come un assoluto, non esiste, mentre esiste un cammino di liberazione che vede l'Io impegnato in una ricerca quotidiana della propria identità in un confronto con l'altro, colto non come nemico da abbattere, ma come opportunità di arricchimento proprio. Anzi un arricchimento personale che passa attraverso a quello dell'altro. La libertà pertanto è una moneta che va spesa per l'affermazione della vita propria, che trova la sua piena realizzazione nella misura in cui l'Io va verso il Tu e a favore di questo si spende, trovando nell'affermazione dell'altro la propria affermazione di vita. Non esiste una libertà spesa a danno degli altri o che s'impone agli altri. Una simile libertà è schizofrenica perché si muove all'interno di una finzione: quella di sentirsi degli assoluti, in cui il proprio IO tende a trasformarsi in dio, trovando negli altri un ostacolo a se stesso.

In questo cammino di liberazione l'uomo non può avere come riferimento soltanto se stesso, si cadrebbe in un antropocentrismo, che lo spingerebbe a ripiegarsi pericolosamente su se stesso fino a perdersi nei miti della razza pura o del superuomo, rischiando, a giochi finiti, di diventare schiavo di se stesso. Nessun marinaio in mezzo al mare ha come punto di riferimento del proprio navigare la propria nave, ma guarda costantemente la bussola o la stella polare, pena la deriva. La libertà, o meglio il processo di liberazione dell'uomo, ha per questo bisogno di modelli su cui conformare tale processo, che si pongono al di fuori e al di sopra dell'uomo, ma che, tuttavia, gli devono essere consoni, cioè capaci di esprime al meglio le potenzialità stesse della sua umanità, che trova la sua completezza nell'altro. Tutto ciò che si discosta da questa o va contro questa conduce l'uomo all'alienazione, e lo porta a intraprendere un cammino di autodistruzione.

Il cammino di liberazione verso la libertà trova la sua metafora e il suo modello nel racconto dell'Esodo, che ci vedrà impegnati in una breve riflessione su quattro punti: a) La presa di coscienza del proprio stato di schiavitù è il principio della propria liberazione; b) Mosè, il liberatore liberato da ogni logica di potere; c) Il deserto, strada obbligata verso la Terra Promessa; d) la Terra Promessa.

La presa di coscienza del proprio stato di schiavitù è il principio della propria liberazione

Ciò che ridusse Israele in uno stato di schiavitù fu la paura del faraone, che vide insito nella prosperità d'Israele un pericolo per l'Egitto (Es 1,8-10). Israele non è più percepito come una risorsa e un arricchimento, ma come una minaccia. La paura dell'altro, quindi, crea il suo stato di schiavitù, che richiede ora per Israele un lungo cammino di liberazione, che ha inizio nel momento in cui il popolo decide di non più soggiacervi: “Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio” (Es 2,23b). Similmente il figlio, che ha sperperato i beni del padre e si è ritrovato a pascolare i porci e a nutrirsi del loro stesso cibo, inizierà il suo riscatto rientrando in se stesso: “Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te” (Lc 15,17-18). In entrambi i casi, sia Israele che il figliol prodigo, rientrando in loro stessi, prendono coscienza della loro triste condizione esistenziale e si decidono per il riscatto. Un cammino di liberazione, che pur partendo dal loro interno ha come meta un modello di vita che si pone al di fuori di loro: sarà Dio e la promessa che egli fece ai Padri, per Israele (Es 2,24); sarà l'agevole condizione di vita della servitù paterna e il pensiero del padre per il figliol prodigo. Nessun ripiegamento e nessun affidamento su loro stessi, ma il guardare avanti a nuove mete, che aprono loro nuove e diverse prospettive di vita migliore, che fungono da motore all'intero processo di liberazione verso una libertà, che è spazio di piena affermazione per una nuova vita.

Mosè, il liberatore liberato da ogni logica di potere

All'interno di questo processo di liberazione compare un'inaspettata variante, che si insinua negli ingranaggi oppressivi e oppressori del faraone e che li spezzerà: Mosè, ironia della sorte, un salvatore a sua volta salvato proprio dal suo oppressore. Egli è adottato dalla figlia del faraone, allevato alla sua corte, ne apprende la cultura, è insignito del potere che gli viene dal suo nuovo status sociale, che lo colloca all'interno della stessa famiglia del re d'Egitto. Quale migliore posizione per poter manovrare a favore del popolo e liberarlo dal suo doloroso stato di schiavitù? Ma queste non sono le logiche del vero Liberatore. Chi fa la storia della salvezza, che è storia di liberazione, non è l'uomo, ma Dio. Non è l'uomo che libera se stesso, ma una Realtà che si pone al di fuori di lui, ma che nel contempo opera nascostamente in lui. Per questo Egli preferisce gli umili, i fragili, quelli che non contano niente, quelli che la storia non la fanno, ma la subiscono perché appaia inequivocabilmente la potenza del loro agire. Ne dà testimonianza Paolo nella sua seconda lettera ai Corinti, là dove egli invoca Dio affinché lo liberi dalla sofferenza di una spina che lo sta tormentando e Dio gli fa sapere “<<Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza>>. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10). Un paradosso, che viola ogni logica umana e di potere. Ma queste sono le logiche con cui Dio conduce la storia e tutti i credenti sono sollecitati a rinnegare loro stessi, a prendere la loro croce e a seguirlo (Mt 16,24). A questa logica non fa eccezione neppure Mosè, che Dio si è riservato per operare la liberazione del suo popolo. Da una posizione privilegiata di potere, Mosè è improvvisamente spogliato di tutto: deve fuggire dal palazzo del faraone, abbandonare i suoi privilegi, la sua vita agiata, su cui ora pende anche una condanna a morte. Ripudiato dal faraone e ripudiato dal suo stesso popolo che voleva salvare: “Quegli rispose: <<Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?>>” (Es 2,14; At 7,27). Egli sperimenta la solitudine e la sofferenza della fuga nel deserto; si rifugia a Madian e qui, nel silenzio e nella solitudine, ricostruisce lentamente la sua vita. E quando ormai tutto sembra essersi placato, e tutto rientrato nel corso normale del vivere quotidiano, ecco, all'improvviso, irruenta e inaspettata la chiamata di Dio dal monte Oreb, che lo costituisce liberatore del suo popolo, nonostante la persistente e indisponente ritrosia di Mosè (Es 4,14), che preferisce la tranquillità e la sicurezza del suo trantran quotidiano. La chiamata s'incunea nella quotidianità della vita, nel momento che meno ti aspetti, rompe sempre il cerchio delle nostre protezioni e gli schemi del nostro vivere ed esige sempre una risposta esistenziale.

Segno della consacrazione di Mosè a liberatore è il dono che Dio gli fa del suo bastone, simbolo del suo potere liberante (Es 4,17). Mosè dunque porta con sé il potere stesso di Dio, l'unico capace di liberare da ogni schiavitù e con quello aprirà la strada al suo popolo verso la libertà. È Dio, infatti, il liberatore e l'uomo senza di lui non può fare nulla (Gv 15,5). L'uomo autoreferenziale, che ha escluso Dio dal proprio vivere, porta all'attuale disastro sociale, in cui l'intera umanità, i singoli nuclei familiari e le singole persone sono travolte e calpestate, mentre terrorismo e venti di guerra scuotono il pianeta. E tutto ciò è già stato in qualche modo preannunciato nel racconto mitologico della Torre di Babele, elevata contro Dio: essa si tradusse per l'uomo in una confusione di lingue che rese l'uomo incapace di comprendere e di comprendersi, perdendo la sua identità e la sua capacità di relazionarsi così da portare i popoli alla divisione e alla loro dispersione (Gen 11,1-8). La missione di Mosè quale liberatore non sarà semplice e tanto meno facile e dovrà scontrarsi ripetutamente e duramente con la pervicace chiusura del faraone, a cui Dio aveva indurito il cuore, per rendere ancor più evidente la sua potenza a favore del suo popolo (Es 7,3-5; 14,4). La lotta con il faraone è la lotta che s'impone agli inizi di ogni cammino di liberazione: rompere con il proprio passato, che ci tiene prigionieri e ci preclude ogni prospettiva di libertà, che è evoluzione verso la pienezza di vita. Il cammino verso la libertà è lungo e faticoso, irto di ostacoli, ma se si possiede il bastone di Dio, il bastone della sua Parola, viva ed efficace (Eb 4,12), essa opererà efficacemente la liberazione interiore dell'uomo, dandogli una nuova visione delle cose e della vita e aprendolo ad una nuova comprensione, che lo pone dalla prospettiva di Dio.

Il deserto, strada obbligata verso la Terra Promessa

Il passaggio del mar Rosso, che segna la linea di demarcazione tra lo stato di schiavitù e quello di libertà, in realtà colloca il popolo in una condizione di assoluta precarietà: di fronte a lui c'è il deserto pieno di insidie e di incognite e un lungo cammino verso una meta incerta e difficilmente raggiungibile. Tutto è da costruire e un senso di smarrimento pervade il popolo: la sete, la fame e le insidie dei nemici sono le costanti che cadenzano il suo cammino verso una libertà che è ancora tutta da costruire e tutta da meritare e che si prospetta soltanto come una incerta promessa. Il popolo si trova ora a dover percorre un lungo cammino di liberazione, che deve scoprire e realizzare faticosamente giorno per giorno: liberazione da un passato di schiavitù che non è garantito dal semplice passaggio del mar Rosso. Il faraone, infatti, pentitosi di aver lasciato andare il popolo, lo insegue con l'intento di ricondurlo nuovamente in schiavitù. Ed anche il popolo, stressato dalle continue insidie, che mettono quotidianamente e duramente in discussione la sua sopravvivenza, mormora contro il suo liberatore, lo accusa di averlo condotto in un luogo di morte e rimpiange il rassicurante stato di schiavitù (Es 14,11-12). È il passato che ritorna e che vuole riappropriarsi delle sue vittime, tenerle ancora legate a sé; sorge qui il pericolo di una involuzione, che segnerebbe la sconfitta definitiva del popolo, a cui verrebbe negata ogni speranza. Ma il liberatore sollecita il popolo a guardare avanti e a non temere i disagi del presente, perché è un presente che passa e che sta conducendo, se mantenuto con fedeltà, verso una promessa di libertà, la cui realizzazione è affidata allo stesso Israele: “Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore” (Es 14,13a). Il sollecito all'impegno senza remore è espresso qui con verbi al presente, “non abbiate ... siate”, mentre il “vedere la salvezza” è posto al futuro. Lo scarto tra presente e futuro è coperto dal faticoso cammino di liberazione, che comporta una conversione e un riorientamento esistenziale. Per questo Jhwh, rivolto a Mosè, lo sollecita a sferzare gli Israeliti: “Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino” (Es 14,15). Non serve lamentarsi delle difficoltà, esse ci sono date come un test, ci interpellano quotidianamente ed esigono delle risposte esistenziali positive. Solo superandole ci si posiziona ad un livello superiore e ci si arricchisce interiormente. Difficoltà che non vanno mai colte nella contingenza di un presente, che potrebbe schiacciare e renderci vittime, ma considerate nel più ampio quadro della vita, come componenti di crescita della vita stessa. Difficoltà che ci sono date come opportunità di affermazione e di arricchimento. La libertà non è un regalo, ma una conquista, che si pone sempre alla fine di un cammino di liberazione e che si renderà definitiva soltanto al compimento della vita stessa. Solo allora “vedrete la salvezza del Signore”. E non serve neppure lamentarsi con Dio: “Perché gridi verso di me?”, Lui non può fare il lavoro al posto nostro ed indica al liberatore la strada da percorrere: “Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino”. La storia, quindi, è riservata all'uomo e al suo impegno; Dio non può che sollecitare, pungolare, strigliare, ma il cammino di liberazione spetta all'uomo, illuminato dalla Parola e dalle ispirazioni o dalle illuminazioni che gli nascono dal di dentro.

La Terra Promessa

Non è un cammino facile perché si muove nel deserto, il luogo della prova, dove non ci si può permettere di fermarsi: “Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino”. Ma è proprio qui, nel deserto e nella lotta per la sopravvivenza, che Israele costruisce e trova la sua nuova identità e instaura un nuovo rapporto con Jhwh, che cambierà radicalmente il suo modo di essere e di porsi qui nella storia e il suo modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri popoli. Una nuova visione e una nuova comprensione delle cose e della vita si apre davanti al popolo: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Tutto è condizionato dall'ascolto della Parola e dalla custodia dell'alleanza. Si rinnova qui il patto genesiaco dove Dio condizionò la permanenza di Adamo ed Eva nella pienezza della vita divina all'ascolto del comando che limitava l'uso del mangiare degli alberi (Gen 2,16-17) e dal saper lavorare e custodire il giardino; dal saper mettere a frutto lo spazio divino concesso loro e in cui dimoravano, simboleggiato dal giardino in cui erano stati posti (Gen 2,15). Uno stato di vita pienamente libero e realizzato, benché condizionato, la cui gestione era loro affidata. Ora questo schema primordiale di alleanza viene riproposto ad Israele e in lui ad ogni uomo. Dio dunque restituisce ad Israele la sua dignità perduta, significata nella schiavitù egiziana, qualificandolo quale sua proprietà, quindi popolo a Lui consacrato e appartenente, la cui funzione primaria era quella di costituire qui nella storia e in mezzo agli altri popoli lo spazio storico che Dio si riservava per dialogare con gli uomini e che preludeva ad un altro Luogo, all'ultimo Resto d'Israele, che giungerà nella pienezza dei tempi, allorché “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5). Israele, infatti, viene qualificato quale regno di sacerdoti, che per loro natura sono i detentori del Sacro e i mediatori tra Dio e gli uomini; ed è insignito della qualifica di nazione santa, cioè partecipe della stessa vita di Dio, che per sua natura è il Santo e fonte di ogni santità e di ogni santificazione (Lv 19,2; 20,6). Ed è proprio qui in mezzo al deserto, in cammino verso una terra promessa, fin qui sconosciuta ed incerta, che Dio, nell'assegnare una nuova identità ad Israele, condizionata all'ascolto della Parola e alla custodia dell'Alleanza, prospetta una nuova dimensione di libertà compiuta, simboleggiata nella Terra Promessa, in cui riecheggia in qualche modo il primordiale Paradiso Terrestre. La Terra Promessa verrà dunque raggiunta, ma soltanto al termine di un lungo quanto difficile e controverso cammino di liberazione, che dice il passaggio da uno stato di schiavitù ad uno di libertà; da una mentalità chiusa e ripiegata su se stessi e sulle cose, ad una rivolta verso quella libertà, che è pienezza di vita e che ci si gioca in questo cammino di liberazione, che può anche fallire nella misura in cui ci si lascia vincere dal passato, rimpiangendolo e ripiegandosi su di esso. Un passaggio dalla schiavitù alla libertà parla di un deciso riorientamento esistenziale.

Ancora una volta risuona qui potente la voce del deutero Isaia, rivolta allo scoraggiato Israele, esule a Babilonia: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,18-19). Una grande visione escatologica, una promessa, che Giovanni, nella sua Apocalisse, vedrà realizzata nel Risorto: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”>>. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate(Ap 21,1-4). Questo è il luogo della definitiva libertà compiuta, che è pienezza di vita: il ritorno dell'uomo nella dimensione divina da cui era drammaticamente uscito.

Ma nell'attesa del compimento della libertà, Paolo sollecita i Colossesi a cercare le cose di lassù: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,1-3). Viene a crearsi in tal modo una forte tensione tra il già e non ancora, che caratterizza il nostro cammino di liberazione, a cui questo tempo sacro della Quaresima, scandito dal silenzio delle cose e dall'ascolto della Parola, ci richiama prepotentemente.

Giovanni Lonardi

1Questa mia personale valutazione non intende essere in alcun modo un'esegesi del citato passo di Dante, che vede invece in Catone un martire della libertà e lo colloca quale custode del Purgatorio, il luogo dove finiscono coloro che hanno perseguito il bene, ma in modo imperfetto. In tal modo Dante, pur facendo di Catone il simbolo di un ideale di libertà, non ne giustifica il gesto.