PRIMA  LETTERA  DI  PIETRO

 

 

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Premessa

 

La Prima Lettera di Pietro fa parte delle sette Lettere Cattoliche[1], così chiamate perché indirizzate non ad una persona o ad una particolare comunità, ma alla generalità dei credenti.

Essa non ha mai rappresentato per i teologi un particolare interesse, poiché i temi qui trattati non presentano sviluppi dottrinali interessanti, come ad esempio le lettere di Paolo, teologicamente e dottrinalmente ricche e innovative, ma sono soltanto una ripresa e una riflessione teologica e pastorale su questioni già ampiamente proposte sia dall'A.T. che dal N.T.  L'autore, quindi, si serve di ciò che già forma in qualche modo il patrimonio teologico e dottrinale della Chiesa nascente, senza nulla aggiungervi, per spingere i credenti a prendere coscienza della novità del loro stato di vita e a conformarsi esistenzialmente ad esso. Gli intenti di questa lettera, pertanto, sono squisitamente pastorali.

 

 

 

Introduzione

 

 

 

 

Autore, luogo di composizione e data

 

Fino al 19° secolo la lettera era pacificamente attribuita a Pietro. Infatti essa si apre con l'intestazione "Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli ..." (1,1); l'autore inoltre si definisce "... anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo ..." (5,1). La Tradizione dei Padri della Chiesa, poi, l'ha sempre riconosciuta a Pietro.

 

Tuttavia, nel 19° secolo, quando tutti i testi sacri sono stati sottoposti ad una dura critica storica e letteraria, trattando l'intera Bibbia come un normale documento storico e letterario, con l’intento di screditarla, non pochi specialisti ne hanno messo in dubbio l'autenticità.

 

Infatti, lo stile, il linguaggio, i termini usati, lo sviluppo del pensiero richiamano molto da vicino quelli di Paolo. Il greco, lingua con cui è scritta la lettera, è troppo fluente e ricercato per poterlo attribuire ad un semplice pescatore della Galilea, che probabilmente neppure lo conosceva. Il pensiero si muove e si sviluppa in base a precisi schemi retorici, che certamente Pietro non poteva conoscere.

La lettera, poi, allude ad una situazione di persecuzione diffusa in tutta l'Asia minore e questo ci porta all'epoca della prima grande persecuzione, che ha investito l'intero impero romano sotto Domiziano (81-96 d.C.), di cui vittima fu anche Giovanni, l'autore dell'Apocalisse[2] ed è collocata intorno all'anno 95 d.C.

La lettera, inoltre, termina con i saluti da parte della comunità che dimora in Babilonia. L'espressione Babilonia è il nome con cui era chiamata anticamente dai cristiani la capitale dell'Impero, Roma. Sennonché tale nome, attribuito a Roma, viene utilizzato in tutto il N.T oltre che dalla nostra lettera, soltanto dall'Apocalisse, che come è noto è stata scritta intorno all'anno 96 d.C. L'autore della lettera, quindi, che chiama Roma con il nome di Babilonia doveva collocarsi storicamente intorno al 96.

Va rilevato, da ultimo, come la Prima Lettera di Pietro sia ricca di richiami e di citazioni dirette e indirette tratte non solo dall'A.T. ma anche, in particolar modo, dalla letteratura neotestamentaria. Ciò significa che chi ha scritto doveva avere un livello culturale piuttosto elevato, ciò che non si addice al pescatore di Galilea, e doveva essere a conoscenza di numerosi testi neotestamentari, la quale cosa presuppone che essi siano già ampiamente affermati e diffusamente consolidati presso le varie comunità dell'impero e ciò ci porta necessariamente alla fine del I sec. d.C.

 

Per l'insieme di questi motivi questa Lettera non può essere attribuita a Pietro, morto intorno al 64 d.C. Va onestamente detto, tuttavia, che non sono pochi coloro che ritengono comunque la presente lettera di Pietro, cercando di trovare delle diverse giustificazioni, a mio avviso non sempre convincenti.

 

L'autore, infine, sembra essere un giudeo-cristiano ellenista, che vive presso la comunità cristiana di Roma da dove scrive e di cui porge i saluti (5,13), e ciò sia per la sua conoscenza ed abile uso della lingua greca, sia per la sua disinvolta conoscenza delle Scritture veterotestamentarie, a cui spesso fa riferimento, sia perché usa il termine diaspora (5,1), un termine tecnico usato per indicare la dispersione degli ebrei nel mondo, e che egli applica ai cristiani, che vivono sparsi nell'Asia minore, tradendo in tal modo la sua origine e cultura ebraiche.

 

Destinatari e motivo della lettera

 

L'autore rivolge lo scritto ai credenti che definisce pellegrini della diaspora (1,1) e che si trovano nelle cinque province romane dell'Asia minore (1,1), l'attuale Turchia, che fu terra di evangelizzazione di Paolo. L'uso del termine diaspora e le ricorrenti citazioni veterotestamentarie (1,10-12.16; 2,4.6-10; 3,6.10-12.20; 4,18; 5,5c.7) fanno pensare a degli ebrei, ma i vv. 1,14.18; 2,11 e 4,1-4 denunciano la presenza, piuttosto consistente e prevalente, anche di etno-cristiani, cioè di cristiani convertiti dal paganesimo. Si tratta, dunque, di comunità miste di piccole dimensioni, se vengono definite con l'espressione di pellegrini della diaspora, la cui organizzazione doveva essere scarsamente istituzionalizzata[3] (5,1) e prevalentemente di tipo carismatico (4,10-11), cioè affidata a vari gruppi di persone che, investite dall'azione dello Spirito, mettevano a servizio della comunità i propri doni spirituali. Proprio in merito ai doni, che Paolo chiama carismi, cioè doni di grazia, l'Apostolo dedica l'intero cap. 12 della prima lettera ai Corinti.

 

Il motivo per cui l'autore indirizza questo suo scritto è spronare queste piccole comunità a resistere nella fede (5,8-9.12) e saper rendere ragione di essa davanti a tutti (3,15). Sono dunque delle comunità che vivono in mezzo ai pagani (2,12a) e che soffrono, perseguitate (4,12), a motivo della loro fede (1,6; 2,12b.19-20; 4,13-14.19a; 5,9-10).

 

La struttura della lettera

 

Lo scritto si presenta sotto la forma propria di una lettera. C'è infatti il prescritto, formato dal nome e titolo dell'autore (Pietro, apostolo di Gesù Cristo); i destinatari (ai fedeli dispersi nel Ponto ...); i saluti (grazia e pace a voi in abbondanza); il rendimento di grazie (Sia benedetto Dio ...). Segue poi il corpo della lettera (1,10-5,12) e si chiude con i saluti finali (Vi saluta la comunità ....).

 

Si tratta di uno scritto in cui le esortazioni si intrecciano continuamente con elementi dottrinali, che motivano e sostengono, giustificandole, le esortazioni stesse. Esso va letto e compreso come una lettera essenzialmente pastorale (5,12), scritta per sostenere delle piccole comunità, scarsamente istituzionalizzate e, quindi, deboli, che rischiano di non reggere l'urto violento della persecuzione ed essere sopraffatte e scomparire. L'autore, pertanto, fornisce dei punti di riferimento teologici solidi a cui i credenti devono far riferimento per prendere coscienza della loro nuova identità, nata dalle nuove realtà in cui sono stati collocati per mezzo della fede. Su queste essi devono riflettere per rafforzare e giustificare la propria scelta di credenti a se stessi e davanti a tutti (3,15).

 

La lettera possiede dei codici al proprio interno che la dividono in tre parti:

 

·   La prima parte (1,3-2,10) è delimitata dalla parola misericordia in 1,3 e 2,10; essa forma una inclusione;

·   la seconda parte (2,11-4,11) si apre con l'espressione "Carissimi ..." in 2,11 e si chiude con le parole "nei secoli dei secoli Amen" in 4,11;

·   la terza parte (4,12-5-11), parimenti alla seconda, si apre con "Carissimi" in 4,12 e si chiude con "nei secoli Amen" in 5,11.

 

Pertanto questa lettera potremmo suddividerla nel seguente modo:

 

Il prescritto - 1,1-2:  presentazione dell'autore, i destinatari e i saluti;

 

Il corpo dello scritto:

 

Prima parte -  1,3- 2,10: La risurrezione di Cristo è il fondamento della vita cristiana ed esige dal credente una corrispondente vita di santità e di amore;

- La benedizione (euloghia) rivolta a Dio Padre, che diventa un inno di ringraziamento per il progetto di salvezza attuato per mezzo della risurrezione di Cristo (1,3-12);

- La necessità di conformare la propria vita al nuovo stato di cose in cui siamo stati introdotti per mezzo della fede (1,13-25);

- L'identità e la natura del nuovo credente: come Cristo, pietra angolare, anch'egli è una pietra viva chiamata a costruire un edificio spirituale, in cui si sottolinea la sua natura sacerdotale e consacratoria delle realtà temporali (2,1-10).

 

Seconda parte -  2,11- 4,11: il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, deve far sentire la sua forza spirituale:

- nella società, nella famiglia e nella comunità stessa, in cui il credente è incardinato in virtù della sua fede comune (2,11-3,12);

- il nuovo credente deve essere sempre pronto a rispondere a chiunque gli chieda ragione della speranza che è in lui (3,13-22);

- tutto deve essere svolto e vissuto con sobrietà e vigilanza nella carità, mettendo i propri doni e le proprie capacità a servizio di tutti (4,1-11).

 

Terza parte - 4,12- 5,11: le sofferenze e la morte di Cristo sono il modello su cui ogni credente deve riparametrare la propria vita per dare una degna e coraggiosa testimonianza della sua fede.

- La persecuzione è un essere associati alle sofferenze di Cristo ed è una promessa che saremo anche associati alla sua gloria (4,12-19);

- Come comportarsi all'interno della comunità: gli Anziani, quali responsabili della comunità, devono pascere il gregge a loro affidato senza prepotenze e prevaricazioni, ma con spirito di servizio; mentre i giovani devono rendersi disponibili agli insegnamenti degli anziani con umiltà (5,1-5);

- Raccomandazioni finali: umiltà verso Dio e fiducia in Lui; essere temperanti, vigilanti e saldi nella fede, in tal modo parteciperemo alla gloria che Cristo ha riservato per chi gli è fedele (5,6-11).

 

La conclusione (5,12-14): motivo della lettera (5,12) e saluti finali (5,13-14).

 

 

 

Capitolo Primo

 

 

 

Analisi e commento del testo

 

 

Il primo capitolo possiamo suddividerlo in tre parti:

 

·   vv. 1-2: il prescritto o introduzione della lettera;

·  vv. 3-12: l'inno trinitario, in cui vediamo la nascita, lo sviluppo e l'attuazione del progetto di salvezza, pensato dal Padre e attuato in Cristo per mezzo dello Spirito;

·  vv. 13-25: la prima di quattro esortazioni, intercalata da un inno cristologico rivolto a Cristo (vv.19-21), colto come l'agnello senza macchia.

 

vv. 1-2: Pietro è qui definito come l'apostolo di Gesù Cristo, cioè il suo inviato. In tal modo Pietro vene strettamente collegato a Gesù, che qui viene qualificato nella sua duplice natura: umana (Gesù) e divina (Cristo, cioè l'unto, il consacrato di Dio e pertanto appartenente al suo mondo). La lettera quindi assume un'autorità unica perché viene direttamente collegata e fatta risalire, in qualche modo, all'autorità stessa di Dio, per mezzo di Pietro, inviato da Gesù che è il Cristo di Dio.

 

Essa è inviata ai nuovi credenti che vengono definiti in due modi: come eletti e come pellegrini della diaspora. In quanto eletti li si pone in stretto rapporto a Dio e al suo piano di elezione, che verrà presentato subito nell'inno trinitario. Questa elezione ci riporta alla Lettera agli Efesini: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per farci santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo" (Ef 1,4-5). Esiste, quindi, un piano di salvezza pensato dal Padre fin dall'eternità, che si attua in Cristo ed è riservato a tutti coloro che aderiscono a lui pr mezzo della fede.

 

Il secondo aggettivo qualifica i nuovi credenti come dispersi della diaspora, cioè persone che sono disseminate in mezzo agli uomini, perché siano testimoni con la loro vita del loro stato di elezione, che li qualifica come appartenenti al mondo di Dio in mezzo agli uomini.

 

Il v.2 ha una duplice finalità: da un lato dice come è avvenuta questa elezione; dall'altro anticipa sinteticamente l'inno trinitario che segue immediatamente nei vv. 3-12. Potremmo definirlo, quindi, come un versetto di transizione e di introduzione.

Esso scandisce la dinamica di questa elezione in tre momenti: a) la prescienza del Padre, che potremmo tradurre con il progetto del Padre; b) la santificazione dello Spirito, cioè l'azione dello Spirito che avvolge il credente collocandolo nella dimensione stessa di Dio, così che egli possa condividerne la vita; c) per obbedire a Gesù Cristo. Il progetto del Padre prevede che l'uomo, per mezzo dell'azione dello Spirito, sia ricollocato in Cristo e quindi in Dio. L'obbedienza a Cristo qui non ha il significato di sottoporre forzatamente l'uomo a lui, ma, per mezzo dello Spirito, l'uomo è chiamato a creare in se stesso lo spazio per Dio, così che egli possa diventare dimora stessa di Dio in Cristo per mezzo dello Spirito (Gv 14,23).

 

vv. 3-12: già introdotto dal v.2 si apre ora l'inno trinitario, che costituisce lo sviluppo di tale versetto, ed è così chiamato perché i personaggi principali di riferimento sono il Padre (vv. 3-5), Gesù Cristo (vv. 6-9) e lo Spirito Santo (vv. 10-12). Tale inno, quindi, è diviso in tre parti, ognuna delle quali è dedicata all'azione propria di ogni persona della Trinità in questo piano di salvezza, in cui vedremo come l'uomo ne è partecipe e coinvolto.

 

Gli attori principali di questo inno quindi sono quattro: il Padre, Gesù Cristo, lo Spirito Santo e il "Voi", cioè i nuovi credenti, così enfatizzato in questo contesto, per far capire come essi siano fin da subito coinvolti in questo progetto di salvezza a loro destinato e chiamati a collaborare in prima persona.

Al centro ci sta Gesù Cristo, quale punto di ritrovo e d’incontro del Padre, che in lui opera (Gv 14,10) per mezzo dello Spirito, e il credente, a cui l’intero progetto di salvezza è rivolto.

Cinque sono i punti chiave di questo inno: 1) la rigenerazione per mezzo della risurrezione, 2) la speranza, 3) la fede, 4) la carità e 5) la salvezza.

 

La rigenerazione per mezzo della risurrezione è collocata al primo posto perché è la sorgente indispensabile da cui tutto dipende e da cui tutto defluisce. Paolo, infatti, ricorda nella sua prima lettera ai Corinti che "... se Cristo non è risuscitato allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri peccati." (1Cor 15,14.17b).

La fede, poi, è il secondo elemento per importanza e percorre tutto l'inno per quattro volte: essa è colta come espressione della potenza di Dio per proteggere il credente, preservandolo per la salvezza (v.5); è un grande valore, che deve essere provato e che, se conservato, sarà premiato da Cristo al momento della sua manifestazione (v.7); essa è meritevole perché si apre a Cristo, di cui il credente non ha avuto alcuna esperienza diretta, ma lo ha comunque accolto sulla Parola che gli è stata annunciata (v.8b); essa ha una sua dinamica interna ed è finalizzata al conseguimento della salvezza (v.9).

La fede, dunque, è opera di Dio che trasforma il credente e lo preserva per la salvezza.

Il terzo elemento è il termine salvezza, presente in tutte e tre le parti dell'inno. Essa viene presentata come la meta prima ed ultima di tutto il progetto divino, in funzione della quale opera la fede (vv. 5.9) e fu oggetto di ricerca e indagine da parte dei profeti; come dire che la salvezza pensata dal Padre ha origini storiche antiche e che si radica all'interno della storia degli uomini e li interpella.

L'inno si apre con un'azione di benedizione dall'intonazione squisitamente liturgica, che richiama da vicino Ef 1,3. Essa sale dalla comunità credente verso Dio, che viene definito Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Dio, quindi, viene colto come Padre, cioè l'origine prima ed assoluta da cui discende lo stesso Gesù. Egli, pertanto, è originato da Dio e ne possiede lo stesso DNA. In tal modo viene posto in relazione al Padre, definendone implicitamente la sua natura di Figlio. Per questo egli, come il Padre, è anche Dio e il suo operare in mezzo agli uomini va colto come l’operare stesso di Dio-Padre per mezzo dello Spirito.

 

La figura di questo Figlio viene qualificata in quattro modi: "Signore nostro Gesù Cristo". Con il termine Signore gli si riconosce la signoria universale acquisita con la risurrezione e, quindi, la sua divinità; con l'aggettivo possessivo nostro si definisce l'appartenenza della comunità credente a lui, il quale a sua volta appartiene alla comunità stessa, venendo a crearsi in tal modo un circolo di condivisione e compartecipazione vitale unica tra la comunità credente e Cristo, così che i due sono ora una cosa sola, realizzandosi così la preghiera di Gesù al Padre: "Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola" (Gv 17,21b). Con i nomi Gesù Cristo si riconosce nel Figlio la sua natura umana (Gesù) e di inviato dal Padre, suo consacrato e rappresentante speciale (Cristo).

 

L'azione del Padre consiste essenzialmente nell'aver rigenerato gli uomini mediante la risurrezione di Gesù Cristo. La risurrezione di Gesù, pertanto, diventa lo strumento fondamentale ed essenziale attraverso cui l'uomo è nuovamente rigenerato a Dio, ricollocato nella sua stessa dimensione e, grazie alla quale, egli condivide la stessa vita di Dio e partecipa del suo mondo. Viene in tal modo ricostituita l'integrità della primordiale creazione quando "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31a). Si trattava di una bontà che rispecchiava lo splendore stesso di Dio e che in qualche modo era permeata di Dio. Tutto ciò fu irrimediabilmente perduto con la colpa originale (Gen 3,1-24). Ma la risurrezione di Cristo ha restituito lo splendore primordiale al creato e all'uomo, espressione somma di questo creato e con lui strettamente solidale (Gen 6,7.12-13). Si tratta, dunque, di una nuova creazione che ha avuto inizio proprio con la risurrezione di Cristo. Quei cieli nuovi e terra nuova vaticinati da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplati da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1) hanno trovato il loro inizio proprio nel Cristo risorto.

Al centro della salvezza dunque ci sta la pasqua, da cui è sgorgata per l'uomo una speranza viva.

 

Ho detto sopra che i cieli nuovi e la terra nuova hanno avuto nel Cristo risorto il loro inizio, non il loro compimento. La risurrezione, quindi, diventa la promessa certa e concreta di una realtà già presente, ma non ancora pienamente compiuta. Ed è proprio qui tra l'inizio e il compimento, tra il già e il non ancora che si gioca la speranza cristiana, che viene definita viva, perché affonda le sue radici nel Cristo risorto e in lui e da lui trae il suo sostentamento.

 

La speranza, pertanto, occupa quello spazio e quel tempo che separa la vecchia creazione decaduta e rigenerata in Cristo dal suo pieno compimento.

 

Il tempo della speranza, quindi, è il nostro tempo ed essa trova la sua ospitalità nella storia dell'uomo nella misura in cui essa, inculcata in noi dal battesimo-cresima-eucaristia[4], trova in noi dei validi testimoni, che con il proprio stile di vita la sappiano generare al mondo.

 

La speranza, quindi, è soggetta ad una forte tensione causata da realtà nuove generate dalla risurrezione di Cristo e oggi già presenti in mezzo a noi e visibili soltanto attraverso la Parola, i Sacramenti e percepibili dalla Fede, ma non ancora pienamente compiute. Queste realtà sono presenti in noi e noi ne siamo coinvolti. Queste nuove realtà spirituali camminano nella storia e in mezzo agli uomini grazie a noi e il loro compimento ci è affidato. La speranza, quindi, diventa un cammino dell'uomo, rigenerato dal Cristo risorto, verso il compimento pieno della sua umanità e con lui dell'intero creato, in virtù del principio di solidarietà che lega l'uomo all'intero universo creato.

 

La speranza è quindi questa forza, questo dinamismo, questa tensione che spinge l'uomo e l'intera creazione a superare la contingenza della storia, che spesso contrasta con la speranza che vive in noi e che spesso crea sofferenza, intolleranza e morte. La speranza, quindi, è un cammino di crescita verso il compimento, iniziato dal Cristo risorto, incarnato in noi (Gal 2,20) e che ci spinge a vivere già fin d'ora quelle realtà future verso cui l'intera storia è rivolta, ma che già sono presenti in noi.

 

La dinamica di questa speranza cristiana, di cui siamo portatori e in cui siamo coinvolti, viene mirabilmente espressa da Paolo nella sua Lettera ai Romani: "Io ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, ... , e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre  fino ad oggi nelle doglie del parto, essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza." (Rm 8,18-25).

 

Il credente, quindi, in virtù del battesimo-cresiama-eucaristia, è stato reso incinto da Cristo e ciò che porta in sé è la realtà di una vita nuova che già vive e palpita dentro di lui e attende di essere partorita al mondo. Ma come ogni gravidanza comporta in sé una certa attenzione e una certa attesa; e come ogni parto comporta una certa sofferenza, così è il vivere cristiano. Questa è la dinamica della speranza cristiana.

 

La coscienza di questa speranza viva, che palpita e scalcia dentro di noi, crea in noi uno stato di gioia, simile a quello di una madre che sente muoversi in sé una nuova vita. "Perciò - continua Pietro - siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove". E' una gioia, quindi, che può tranquillamente coesistere con la sofferenza, poiché questa gioia non è uno stato d'animo o un sentimento, ma la coscienza di essere coinvolti in un disegno di cui siamo beneficiari, attori e responsabili verso Dio e verso il mondo. E' una gioia che nasce, quindi, dalla nostra condizione di eletti sparsi nel mondo e destinati alla gloria futura, già presente in noi: "Poiché quelli che da sempre egli ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo ...; quelli poi che ha predestinanti li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati" (Rm 8,29-30).

 

I cristiani, quindi, grazie alla speranza che vive in loro e in cui sono coinvolti, anticipano il futuro e lo rendono manifesto con il loro stile di vita già nel tempo presente. Vivere la speranza per il cristiano significa dare continuità nella propria vita alla morte e risurrezione di Cristo, a ciò che esse hanno incominciato e che continuano in noi.

 

Tre sono gli elementi che danno forza e forma alla nostra speranza: la Parola, che ci rivela il disegno di Dio sull'intera creazione, in cui siamo coinvolti in virtù della nostra elezione; lo Spirito Santo, che ci illumina e ci sostiene nel cammino verso il compimento di ciò che la morte-risurrezione di Cristo ha iniziato; la Fede, che Pietro vede come la potenza stessa di Dio, che ci custodisce e ci sostiene in questo nostro cammino verso la salvezza (1,5), cioè verso il compimento di questa nuova creazione, inaugurata dalla risurrezione di Cristo e già presente in noi.

 

Ebbene, continua Pietro, "su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che profetizzarono sulla grazia a voi destinata ... E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate ..." (1,10.12). L'autore della Prima Lettera di Pietro, quindi, si preoccupa di dare una forma storica a questa speranza, che è disegno di salvezza posto nella storia e che in essa e con essa si muove.

La salvezza, dunque, ha una storia che è stata oggetto di ricerca e di indagine da parte dei profeti, cioè da parte di quelle persone che, mosse e illuminate dallo Spirito, indagavano sui segni dei tempi[5], che lo Spirito non ha mai fatto mancare allora come nel nostro oggi. Essi disegnano lo stile proprio del credente che ricerca non senza sofferenza, non senza dubbi o incertezze i segni del realizzarsi della storia della salvezza e del compiersi contrastato della speranza che è in lui. Questi segni sono visibili alla luce della Parola, dello Spirito e della Fede. Essi vanno ricercati, scoperti, indicati e testimoniati perché altri vi possano accedere. Ecco che allora la storia della salvezza si trasforma in un servizio di salvezza reso al mondo.

 

vv. 13-25: l'autore di questa lettera ha posto fino a questo momento, sotto forma di inno trinitario (1,3-12), le basi dottrinali e teologiche, che costituiscono le motivazioni ed esprimono le esigenze di una vita conforme alle realtà annunciate. Come dire, se questa è la realtà nuova rivelataci e attuata in Cristo è necessario, di conseguenza, conformare la propria vita a tale realtà.

Ecco, pertanto, la parte parentetica[6] o esortativa (1,13-25), che segue immediatamente, come logica conseguenza, quella teologica e dottrinale (1,2-12).

 

La struttura di questa seconda parte (1,13-25) possiamo elaborarla nel seguente modo:

 

- v. 13: introduzione a questa seconda parte, che si aggancia alla prima con quel "Perciò" posto all'inizio della frase e ne trae le conseguenze. Questa introduzione preannuncia il tema della seconda parte, che verrà ripreso e trattato nei versetti seguenti (1,14-25)

 

- vv. 14-16: invito ai credenti ad essere "Figli obbedienti", cioè capaci di conformare la propria vita alle esigenze di Dio;

- v. 17: di conseguenza è necessario comportarsi con timore nei confronti del "Padre", che qui è colto come un giudice imparziale;

 

- vv. 18-21: intermezzo innico rivolto a Cristo, agnello immacolato e immolato, che con la sua risurrezione costituisce il fondamento della nostra speranza e della nostra fede;

 

- v.22: ripresa del tema trattato nei vv. 14-16 ed esortazione ad amarci vicendevolmente come "Fratelli"

 

- vv. 23-25: sono versetti conclusivi di questa prima parte della lettera e viene ripreso il tema della rigenerazione già affrontato nel v.1,3. L'espressione "essendo stati generati" forma qui inclusione con "egli ci ha generati"[7] dando unità letteraria a questa prima parte della lettera.

 

Questa seconda parte è strutturata attorno a cinque esortazioni:

 

·         Siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia ... (v.13);

·         Non conformatevi ai desideri di un tempo  (v.14);

·         Diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta (v.15);

·         Comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio (v.17);

·         Amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri (v.22).

 

Se escludiamo la prima esortazione del v.13, che forma da introduzione, le altre quattro si condensano attorno a tre termini fondamentali: a) "Figli obbedienti" (v.14); b) "Padre" (v.17); c) "Fratelli" (v.22). Viene a crearsi in tal modo un circolo parentale che ha la sua fonte e il suo fondamento nell'attore principale: il Padre, posto al centro perché in esso trovano la loro comune origine e giustificazione sia la figliolanza che la fratellanza. E' lui infatti che ci ha rigenerati per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo (v.3), dandoci la figliolanza divina e costituendoci fratelli tra di noi. Le esortazioni, quindi, si collocano all'interno di questa nuova famiglia spirituale, in cui abbiamo Dio come Padre e Gesù stesso come fratello. In altre parole, grazie alla rigenerazione noi facciamo parte della stessa realtà divina e siamo strettamente imparentati con Lui (Ef 2,19).

 

Si apre, ora, questa seconda parte con l'avverbio "Perciò", il cui senso e significato è "per questo", "quindi", "di conseguenza" che ci aggancia alla precedente parte dottrinale e ne trae di seguito le conseguenze. La parte esortativa, dunque, è strettamente legata a quella teologico-dottrinale e ne è la logica conclusione. L'esortazione alla vita cristiana, pertanto, affonda sempre le sue radici nella comprensione delle realtà in cui siamo stati collocati con il battesimo. Non comprendere queste realtà rende impossibile vivere realmente il nostro cristianesimo e quello che viviamo, in realtà è soltanto una illusione.

 

La prima esortazione, che contiene tutte le altre, è composta da tre momenti : a) "dopo aver preparato la vostra mente",occorre cioè una disponibilità interiore acquisita attraverso un'attenta e prolungata riflessione sulla Parola di Dio, che illumina il credente sulle realtà spirituali in cui è stato collocato nel battesimo-cresima-eucaristia e da cui è avvolto come da un abito nuovo (Rm13,14; Gal 3,27; Ef 4,24); b) "siate vigilanti", letteralmente il testo greco dice "rimanete sobri". La coscienza di appartenere ad un mondo nuovo deve portare il credente ad una sobrietà di vita, che lo orienta verso ciò che più conta senza disperdersi nelle cose, poiché egli ben sa che la sua presenza qui in questo mondo è un lento evolversi verso le realtà celesti, a cui in qualche modo già appartiene per la sua elezione in Cristo.  Paolo ci ricorda questa condizione di vita propria di ogni credente: "Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio" (Col 3,1-3). c) "fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà". Si viene a creare in tal modo una forte tensione esistenziale verso "quella grazia", cioè la vita stessa di Dio a cui apparterremo in modo pieno e definitivo alla venuta di Cristo. Questa tensione che ci fa trascendere la contingenza di questo mondo, orientandoci verso Dio, è la "speranza".

 

La conseguenza di questa speranza, che è tensione verso le cose di Dio e non della terra, ci porta ad essere "figli obbedienti". Che cosa significhi obbedienza ci viene detto subito: "non conformatevi ai desideri di un tempo", di quando cioè si viveva ancora alla maniera dei pagani, dando importanza alle cose di questo mondo, ignorando quelle di Dio, rivelateci nella sua Parola. Il nuovo obiettivo dei credenti, quindi, è "diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta". Ciò significa che il nostro modo di vivere deve riflettere le esigenze di Dio, rivelateci in Cristo. Ed ecco che allora il Libro del Levitico ci sollecita "Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo" (Lev 19,2). Questa esortazione innesca in noi un processo di conversione continua, che dura tutta la nostra vita, per colmare quello scarto che c'è tra il nostro modo di vivere e quello voluto da Dio. Su tutto ciò infatti pesa il giudizio stesso di Dio, che è già incominciato con la venuta di Gesù. Ecco, quindi, l'altra esortazione: "comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio". Ciò significa che nel nostro vivere quotidiano dobbiamo porre attenzione alle cose di Dio e alle sue esigenze. Per questo Paolo ci sollecita ad avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5), cioè lo stesso modo di sentire e di vedere le cose che ebbe Gesù, che le coglieva dalla prospettiva di Dio, anteponendo la volontà del Padre alla propria: "Mio cibo è fare la volontà del Padre" (Gv 4,34).

 

Ed ecco che allora Pietro, concludendo questa sua prima serie di esortazioni, riprende: "Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente di vero cuore, gli uni gli altri" (1,22). In altre parole, dopo aver conformato la nostra vita alle esigenze di Dio, rivelateci in Gesù, siamo sollecitati ad amarci intensamente con cuore sincero. Un amore che non è sentimento o attrazione verso l'altro, ma un atteggiamento di apertura di sé verso l'altro, di accoglienza in sé dell'altro, di donazione di se stessi all'altro. Si tratta quindi di un atteggiamento che prescinde dai sentimenti e che proprio per questo possiede in sé i caratteri stessi della divinità. Per questo Pietro insiste col dire "dopo aver santificato le vostre anime", perché un amore simile è impossibile all'uomo con le sue sole forze.

 

L'amore, dunque, è il banco di prova in cui noi dimostriamo concretamente il nostro livello di santità, cioè quanto la nostra vita è stata assimilata a quella di Dio. Per il credente, tuttavia, un tale tipo di amore non è impossibile, poiché egli è stato rigenerato "non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla Parola di Dio viva e immortale" (1,23). E' dunque la Parola di Dio, definita viva e immortale, cioè una realtà che possiede in sé la forza della vita stessa di Dio, che innesca in noi un processo di trasformazione: da semplici uomini mortali ad esseri divini, che appartengono al mondo di Dio.

 

 

Capitolo Secondo

 

 

 

Introduzione

 

Anche questo secondo capitolo si divide in due grandi parti tra loro concatenate e legate da un filo logico: a) dottrinale (2,1-10); b) esortativa (2,11-25).

 

Come al solito, l'autore fa precedere l'esortazione (2,11-25) da una densa riflessione teologica (2,1-10), che fornisce le motivazioni alle esortazioni seguenti, evitando in tal modo che esse si traducano in una difficile e incomprensibile imposizione. Il credente, infatti, deve creare e sviluppare in sé uno stile di vita completamente nuovo adeguato alle realtà spirituali di cui è rivestito. La riflessione, dunque, è finalizzata a far prendere coscienza al credente del nuovo habitat spirituale in cui egli è collocato in virtù della sua fede e del battesimo-cresima-eucaristia, di conseguenza, egli è chiamato a conformarvisi, quale risposta esistenziale a questo stato di cose.

 

Il metodo utilizzato diventa in tal modo una proposta di educazione al cristianesimo, per evitare che questo si traduca in un sterile e incomprensibile complesso di regole da osservare e di pratiche religiose da svolgere, un peso di cui prima o poi ci si libera ben volentieri.

 

Sia la parte dottrinale che esortativa sono incentrate attorno a due inni cristologici (2,4-5; 2,21-25), per far comprendere come il vivere cristiano trovi la sua motivazione più vera e profonda e il suo esempio in Cristo, unico parametro di confronto e unica fonte da cui tutto discende, tutto si giustifica e si comprende.

 

La parte dottrinale (2,1-10) si struttura, a sua volta, in tre momenti:

 

·   Una presa di coscienza del nuovo stato di vita che si è creato in noi con il battesimo (2,1-3);

 

·   L'inno cristologico, che funge da parametro di confronto tra la natura di Cristo, colto come pietra vivente, e la conseguente natura del nuovo credente, configurato a Cristo per mezzo della fede e del battesimo-cresima-eucaristia (2,4-5);

 

·   Ripresa e sviluppo dell'inno cristologico, che qui si amplia in una riflessione teologica, che punta a far comprendere che cosa significhi essere configurati a Cristo pietra vivente (2,6-8) e le conseguenze di tale configurazione nella nostra vita (2,9-10).

 

La parte esortativa (2,11-25) si struttura anch'essa in tre momenti, di cui il terzo si allarga al cap. 3,1-9:

 

· Esortazione, che guarda all'esterno, ad una vita sociale e di relazione irreprensibile, caratterizzata dalla sottomissione (2,11-20);

 

·  Terzo inno cristologico in cui Cristo, servo sofferente, viene presentato come parametro di raffronto per una vita di mitezza e di sottomissione, ma, proprio per questo, salvifica per tutti (2,21-25);

 

·   Esortazione, che guarda all'interno, ad una vita familiare e di comunità fondata sul rispetto, la sottomissione reciproca tra i coniugi, l'amore vicendevole e la mitezza nei rapporti intracomunitari (3,1-9).

 

 

Analisi  e  commento

 

vv. 1-3: il cap. 2 si apre riprendendo il tema della santificazione (1,14-16.21) e della rigenerazione (1,3.23), che delineano la vita cristiana e con questi primi tre versetti ne evidenzia tutta la dinamicità. Essi infatti sono caratterizzati da quattro parole chiave: deposta, bramate, crescere, verso, che esprimono tutta la forte tensione dinamica propria del vivere cristiano.

 

Il contesto, significato dalle espressioni "deposta", "come bambini appena nati" e "se davvero avete già gustato come è buono il Signore", ci richiama il battesimo, che veniva somministrato nella chiesa antica. Il candidato, giunto al termine del suo cammino catecumenale, che durava generalmente tre anni, al momento del battesimo veniva spogliato delle sue vesti abituali, che simboleggiavano il suo passato; si immergeva nell'acqua, che raffigurava Cristo nel sepolcro; ne usciva e veniva rivestito di una veste candida, che simboleggiava la nuova vita di cui si era rivestito. Il battesimo, quindi, raccontava in modo simbolico-sacramentale, ma reale, come il nuovo credente veniva unito e compartecipava alla morte-risurrezione di Gesù (Rm 6,3-11) e da quel momento faceva un tutt'uno con lui (Gal 2,20) ed entrava a far parte della nuova comunità dei redenti.

 

"Deposta, dunque, ogni malizia e ogni frode e ipocrisia e ogni maldicenza"; sono queste le cose che formano l'uomo vecchio, le vecchie realtà da cui il nuovo credente proveniva, un mondo fatto di decadenza e di peccato, che umilia e degrada l'uomo nella sua dignità. Questo modo di vivere e di ragionare era l'abito che veniva deposto.

Un'esortazione questa che risuona in modo molto simile e per certi aspetti coincidenti anche nella lettera agli Efesini[8]: "Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Cristo, per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità" (Ef 4,20-24).

 

Il deporre il vecchio stile di vita, il morire all'uomo vecchio è la premessa indispensabile per poter accedere alla novità di vita, ed è l'inizio di un lungo processo di trasformazione che abbraccia l'intera esistenza, così che la vita del cristiano è una vita essenzialmente pasquale, un continuo passaggio dalla morte alla vita.

Ed è proprio questo dinamismo pasquale, continuamente trasformante, che viene espresso in quel "bramate ... per crescere ... verso". Esso racchiude in sé una forza che spinge "verso" il mondo dello spirito, "verso" le realtà divine, che costituiscono la meta della nostra salvezza e del nostro compimento. Il vivere cristiano, pertanto, è permeato da una forte tensione spirituale ed esistenziale innescata dalla morte-risurrezione di Cristo, così che il credente è profondamente segnato dalla forza rigenerante e rinnovatrice della pasqua.

 

vv. 4-10: la rigenerazione a vita nuova e la santificazione, che rendono il credente creatura nuova in Cristo (rigenerazione) e compartecipe della vita stessa di Dio (santificazione), hanno come conseguenza la trasformazione dello stesso in pietra vivente, cioè elemento fondamentale e indispensabile per la costituzione e la costruzione di una nuova realtà spirituale in mezzo agli uomini. Di questa il credente, radicato in Cristo, pietra angolare e fondante, è erede e depositario, chiamato per sua natura a proseguire l'opera di rigenerazione, rinnovamento e santificazione del creato e dell'umanità stessa, iniziata da Cristo con la sua morte-risurrezione.

 

Questi due versetti presentano un inno cristologico, che agganciandosi al tema introdotto dai vv. 2,1-3, ne costituisce un logico sviluppo teologico, da cui l'autore trae delle conseguenze, che definiscono la natura e la missione propria del cristiano.

 

L'inno è composto da tre parti:

 

·   l'affermazione: Cristo è la pietra vivente;

 

·   la conseguenza: anche il credente, incorporato a Cristo per mezzo della fede e del battesimo-cresima-eucaristia, è trasformato a sua volta in pietra vivente;

 

·   le finalità: la costruzione di un nuovo edificio (chiesa) per mezzo di un sacerdozio santo, radicato in Cristo e compartecipe a quello di Cristo, finalizzato alla consacrazione dell'umanità e delle realtà materiali.

 

Il v.4 presenta Cristo come la "pietra vivente"[9], rigettata dagli uomini, ma scelta da Dio. L'autore si rifà ad immagini veterotestamentarie, lette in prospettiva cristologica. Cristo è la pietra, come per Israele Jhwh era la Roccia, la Pietra che sovrastava tutte le altre pietre, cioè tutte le altre divinità pagane, le cui immagini erano raffigurata con la pietra.

Questa pietra è qualificata nel testo greco con un participio presente "vivente" (zonta), che ci rimanda alla risurrezione di Gesù, chiamato nell'Apocalisse con il nome de "il Vivente" (Ap 1,18) per indicare lo stato di vita, la condizione propria di Gesù dopo la risurrezione, che lo colloca nella dimensione divina stessa. Il verbo greco, infatti, che esprime questo stato di vita perenne è "zao", che indica una condizione di vita qualitativamente superiore e non di tipo biologico.

 

Questa pietra è rigettata dagli uomini, con un chiaro riferimento allo stato di persecuzione e di incomprensione a cui fu sottoposto Gesù durante la sua missione terrena, ma anche con un implicito riferimento allo stato di persecuzione e di sofferenze a cui sono sottoposti i nuovi credenti. Infatti il v. 5 inizia con "anche voi", agganciando il cristiano allo stato di vita di Cristo.

Ma questa pietra vivente è stata scelta da Dio. Torna il tema dell'elezione, che rimanda al progetto salvifico del Padre, che ha reso Cristo con la risurrezione pietra vivente e fondamento sicuro per tutti quelli che si aprono a lui nella fede. Questa elezione divina, a partire da Cristo e in Cristo, è stata estesa anche a tutti i credenti (Ef 1,4-5). Il ma che apre la scelta di Dio indica la contrapposizione tra i progetti e il modo di pensare degli uomini e quelli di Dio (Is 55,8-9), rivelatisi vincenti nella risurrezione. L'espressione pietra vivente, infatti, dice tutta la solidità e la forza della vita, di cui Cristo è stato rivestito nella risurrezione e a cui sono associati anche i nuovi credenti (anche voi). Nel Cristo risorto, quindi, i credenti possono trovare un solido punto di riferimento e di fondamento, anche se ora sono perseguitati, perché con la risurrezione di suo Figlio Dio ha vinto il mondo e le sue pretese (Gv 16,33).

 

Il v.5 inizia con l'espressione "anche voi" agganciando, da un lato, il credente a Cristo e al suo stato esistenziale di eletto da Dio, incompreso e perseguitato dagli uomini, ma solido fondamento su cui si fonda e si realizza il progetto del Padre; dall'altro si viene a creare un parallelismo tra Cristo e i suoi discepoli, che come il loro maestro sono stati eletti da Dio (1,1) e fanno parte dello stesso progetto salvifico, ma che sono anche incompresi e perseguitati dal mondo. Tuttavia, inseriti in Cristo per mezzo della fede e assimilati a lui per mezzo del battesimo-cresima-eucaristia, così da essere cristificati, sono anch'essi resi pietre viventi, su cui si fonda la speranza del mondo. In altri termini, i nuovi credenti sono una estensione di Cristo in mezzo agli uomini.

 

Ogni credente, pertanto, è un altro Cristo e continua in sé la missione del proprio maestro ed è per il mondo pietra vivente, cioè solido punto di fondamento del nuovo mondo, che già vive e palpita in lui, grazie alla risurrezione di Gesù, a cui è associato e grazie alla quale è stato rigenerato e introdotto nella nuova dimensione divina (1,3).

 

Questo nuovo stato di vita del credente, associato a Cristo e a lui assimilato così da essere come lui pietra vivente, ha una sua finalità precisa specificata da quella serie di "per":

 

·  per  la costruzione di un edificio spirituale;

·  per  un sacerdozio santo;

·  per  offrire sacrifici spirituali a Dio graditi

 

il tutto "per mezzo di Gesù Cristo", che è la pietra angolare su cui si fondano tutte le altre pietre viventi e assieme a lui formano quel grande edificio che è la nuova umanità così come pensata dal Padre fin dall'eternità (Ef 1,4-5) e che storicamente e sacramentalmente è significata nella Chiesa.

 

Ogni credente, quindi, rientra nel grande progetto del Padre, e viene da Lui utilizzato, come pietra vivente, per la costruzione di quel nuovo mondo inaugurato da Cristo nella sua risurrezione. La vita di ciascuno di noi, quindi, acquista un significato e un senso spirituale profondo, poiché essa è finalizzata alla realizzazione del sogno di Dio: ricondurre l'umanità in Lui. Compito del credente, consacrato in Cristo e da lui rigenerato, quindi, è quello di consacrare e rigenerare, a sua volta, con il proprio vivere le realtà temporali e materiali reindirizzandole verso Dio.

 

Per attuare questa consacrazione e rigenerazione delle realtà in cui siamo posti, siamo stati anche appositamente dotati di un sacerdozio santo, finalizzato ad offrire sacrifici a Dio graditi. In tal senso Paolo esorta i romani "ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1). Con questa esortazione Paolo mette in evidenza la sacerdotalità propria di ogni credente, espressa dai tre termini che la qualificano: offrire, sacrificio, culto. Compito di ogni credente, consacrato in virtù del proprio battesimo e cresima e compartecipe, quindi, del sacerdozio di Cristo, che opera in lui, è quello di offrire assieme ai propri corpi le realtà materiali in mezzo alle quali vive. Offrire significa reindirizzare, riorientare e, quindi, riportare a Dio, riconsegnare a Lui noi stessi, l'ambiente in cui ci muoviamo, le persone che incontriamo, l'intera creazione. Questo, infatti, è il progetto del Padre: ricapitolare tutte le cose in Cristo (Ef 1,10) Il nostro vivere, pertanto, si costituisce come un unico grande sacrificio. Il termine sacrificio deriva dal latino "sacrum facere", cioè compiere un'azione sacra e sacralizzante, che riconsacra tutte le cose a Dio. Questo modo di vivere diventa e si trasforma in un vero e proprio atto di culto a Dio gradito. Per cui tutta la nostra vita diventa a sua volta una grande liturgia di lode e di ringraziamento a Dio Padre, per mezzo di Cristo che vive ed opera in noi nello Spirito Santo.

 

La funzione propria del sacerdote è quella di essere un datore del sacro[10], colui attraverso il quale defluisce la sacralità e la santità di Dio stesso. In ciò sta la sua funzione di mediazione tra Dio e gli uomini. Egli è una sorta di ponte attraverso il quale consente a Dio di raggiungere gli uomini, di incontrarli e interpellarli con il proprio modo di vivere e di testimoniare le realtà vive e viventi di cui è rivestito e portatore.

 

Questa, in quanto sacerdoti, consacrati a Cristo nel battesimo e cresima, è anche la nostra specifica funzione nei confronti del mondo.

 

Questa nostra nuova identità, generata in noi dalla risurrezione di Cristo, viene bene espressa dal v.9: "Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce".

 

Rivolto ai primi credenti, l'autore di Prima Pietro li definisce "stirpe eletta", cioè coloro che sono all'origine di un nuovo popolo, di cui noi siamo i discendenti e membri. Torna ancora una volta il tema dell'elezione, cioè del piano di Dio che, attuato in Cristo, si sta ora dilatando agli uomini, che interpellati dalla Parola di Dio hanno saputo rispondervi positivamente. Aderire a Cristo è il segno inequivocabile della nostra elezione, sancita nel battesimo-cresima-eucarstia e confermata dalla nostra fede, intesa come apertura esistenziale a Dio e sua accoglienza nella nostra vita. Le nostre vite, dunque, rientrano nel progetto salvifico di Dio, così che Paolo affermerà che "non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).

 

Ma l'elezione è sinonimo di consacrazione e consacrazione significa che Dio ci ha chiamati per riservarci per se stesso, divenendo in tal modo noi sua proprietà. Le vite dei credenti, pertanto appartengono a Dio, gli sono consacrate. Per questo Pietro ci definisce nazione santa, cioè un popolo che condivide la santità stessa di Dio, dalla quale è caratterizzato per mezzo del battesimo e cresima.

 

Avvolti in questo sacro contesto di santità, siamo anche rivestiti di un sacerdozio regale.

Il re nell'antico Israele era considerato il servo di Dio, chiamato ad amministrare e a servire il popolo di Jhwh (1Sam 10,1). La regalità, dunque, ancor prima che un potere politico e militare era un servizio, che rientrava nell'ambito della religiosità e che il re rendeva a Dio nel mettersi a disposizione del suo popolo.

Sacerdozio regale, quindi, dice subito che la sacra mediazione tra Dio e gli uomini, di cui siamo rivestiti in virtù della nostra elezione in Cristo e assimilazione a lui, è un servizio che noi dobbiamo rendere agli uomini. Consacrati in Cristo, siamo chiamati a consacrare; santificati, siamo chiamati a santificare; redenti, siamo chiamati a collaborare al progetto di redenzione attuato in Cristo e affidato a ciascuno di noi, perché esso continui a risuonare nel tempo e possa raggiungere ogni uomo, lungo il cammino della storia.

Per questo Dio si è acquistato un popolo, che ha eletto, santificato e consacrato a sé per mezzo del sangue di Cristo (1,18), perché disperso nel mondo, in mezzo agli uomini, potesse proclamare le opere meravigliose di lui, che dalle tenebre ci ha chiamati alla sua mirabile luce (2,9). Questa è la sua opera: l'essere passati dal degrado del peccato, in cui l'uomo ha perso ogni sua dignità, a condividere nuovamente lo splendore della sua vita. In noi vivono queste nuove realtà, da cui siamo avvolti e permeati e che ci sono state rivelate dalla Parola di Dio. Di queste nuove realtà, di cui siamo portatori, dobbiamo prendere coscienza per renderci testimoni con la nostra vita, ognuno nello stato di vita a cui è stato chiamato.

 

vv. 11-25: con il v.11 inizia la parte parenetica o esortativa introdotta dal verbo "vi esorto". Si tratta, dunque, di un'esortazione che segue immediatamente la parte dottrinale o teologica, da cui si ricevono le motivazioni per condurre una vita conforme alle esigenze cristiane.

 

Già abbiamo visto come l'autore, da buon pastore, si preoccupa non di imporre dei comportamenti, ma di motivarli, lasciando poi alla persona di farli propri. Solo in tal modo la persona può adeguatamente crescere e raggiungere la sua piena maturità in Cristo.

 

Questa seconda esortazione si suddivide in due parti:

 

·   vv.11-12: esortazione ad astenersi dai desideri della carne e, conseguentemente, a tenere una condotta, un modo di comportarsi irreprensibile in mezzo ai pagani;

 

·   vv.13-20.3,1-9: esortazione ad essere sottomessi in piena libertà. Il tema della sottomissione è intercalato da un inno cristologico, il terzo inno, che funge da parametro di confronto alla sottomissione.

 

 

Pietro si rivolge ai cristiani chiamandoli "stranieri e pellegrini", qualificando in tal modo il loro porsi in mezzo ai pagani. Stranieri perché non appartengono più alle logiche proprie di una umanità corrotta, come quella dei pagani, che non conoscono il messaggio di Cristo. Pellegrini perché il nuovo credente si configura come l'uomo nuovo, che è in cammino verso la pienezza di quella speranza che lo permea e lo avvolge come un abito nuovo e che fa sì che egli sia uno straniero, cioè totalmente estraneo al modo di vivere proprio del mondo. Per questo rivolge un pressante invito "ad astenersi dai desideri della carne". Questa espressione non va intesa in modo restrittivo a non soddisfare i desideri sessuali, ma in senso lato: tutto ciò che ha a che fare con la nostra umanità corrotta e degradata. Che cos'è dunque la carne da cui bisogna astenersi? Paolo ce ne fornisce una concreta definizione: "Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose, vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio" (Gal 5,19-20).

Ma per mettere in risalto ancor più il significato di carne, Paolo prosegue elencando le opere dello Spirito, che devono qualificare e contrassegnare nel proprio modo di vivere coloro che sono di Cristo: "Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,22-25).

 

In tal modo la condotta del credente sarà irreprensibile e incensurabile e diverrà motivo di riflessione per coloro che vivono lontani da Cristo, testimoniando così la sua umanità rigenerata dalla risurrezione di Cristo, che ha fatto di lui una cosa nuova (Ap 21,5).

 

Con il v.13 si apre una nuova prospettiva per il cristiano: la sottomissione. Il tema non è nuovo, ma già era stato anticipato in qualche modo in 1,14 dove Pietro sollecitava ad essere "figli obbedienti". La sottomissione, dunque, ha a che fare con l'obbedienza, che non è rinuncia alla propria libertà di espressione per essere soggiogati a chi è più forte di noi o ha più potere per cui, per forza di cose si deve chinare la testa e lasciarsi imporre il giogo, covando dentro di noi risentimento, odio e rivolta.

 

L'obbedienza del nuovo credente è innanzitutto un atto libero, un'espressione di libertà; non a caso, infatti, proprio in questo contesto in cui si parla di obbedienza e di sottomissione l'autore di Prima Pietro sollecita a "comportarsi come uomini liberi" (2,16). L'obbedienza, che si esprime nella sottomissione, spinge il nuovo credente a mettere da parte le proprie esigenze, i propri interessi ed egoismi, per dare spazio alle esigenze degli altri. Ecco che allora l'obbedienza diventa essere un atto di accoglienza dell'altro e pone il cristiano in un atteggiamento di servizio, in cui si mira non alla propria affermazione, ma a quella dell'altro. Obbedienza, quindi, come servizio all'altro e come collaborazione. Ma per giungere a questo tipo di sottomissione bisogna raggiungere un alto livello di libertà interiore, che coglie l'altro come un valore per me e non come un rivale da abbattere. Solo in tal modo nell'affermazione dell'altro ritrovo la mia affermazione e la mia realizzazione.

 

La motivazione che sottende tale atteggiamento di libertà obbediente e di obbedienza libera è "l'amore del Signore", che si esprime attraverso l'apertura di sé all'altro, attraverso l'accoglienza in sé dell'altro, nella donazione di sé all'altro. Ecco, pertanto, la sollecitazione ad onorare tutti, ad amare i fratelli, a temere Dio, a onorare il re (2,17) e a restare soggetti con profondo rispetto ai propri padroni, anche se difficili.

 

In quest'ottica di obbedienza, radicata nell'amore, nel rispetto di tutti, servizievole e accogliente, Paolo esorta i Filippesi: "Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perchè siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo ad una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo" (Fil 2,14-15).

 

Un simile comportamento, che deve diventare per il nuovo credente uno stile di vita distintivo, non è indenne dalla sofferenza e dal dolore, che devono essere sopportati con pazienza, avendo davanti a sé l'esempio di Cristo, il sofferente servo di Jhwh, che "pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,6-8).

 

Posta in questo quadro ecco che allora l'obbedienza si fa un servizio di redenzione per gli uomini, una nostra collaborazione offerta a Dio per la salvezza dell'umanità.

 

Il tema dell’obbedienza e della sottomissione è ampiamente presente nel N.T. C’è infatti nella logica della storia della salvezza questo forte richiamo all’obbedire e al sottomettersi, che tradotto in altri termini significa che tutto deve essere ricondotto in seno a Dio per mezzo di Cristo, così come era nei primordi dell’umanità. L’obbedienza e la sottomissione a Dio fa parte vitale e integrante del piano di salvezza e costituisce una forte tensione di tutte le cose a ricapitolarsi in Cristo (Ef 1,10).

 

In tal senso Paolo ha una grande visione cosmica della salvezza, la cui dinamica profonda è dettata proprio dalla sottomissione di tutte le cose a Cristo, che dovrà poi riconsegnare al Padre, così che tutto sia nuovamente in Lui, così come lo fu agli inizi: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.” (1Cor 15,20-28).

 

Il forte richiamo all’obbedienza e alla sottomissione, dunque, sia pur nelle loro varie forme storicamente espresse, hanno come finalità quella di ricondurre e ricapitolare tutto in Cristo e per Cristo al Padre, in cui tutto sarà nuovamente ricomposto e riconciliato come lo fu nei primordi, quando Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31)

 

 

Capitolo Terzo

 

 

 

 

Introduzione

 

 

Il terzo capitolo si struttura su due parti. La prima parte, 3,1-12, è, come abbiamo già visto la volta precedente, una ripresa e un proseguimento della parte parenetica o esortativa che inizia da 2,12 e si estende a tutto 3,9.

In questa sezione (2,13-3,9) si parla della sottomissione nel suo duplice aspetto: sociale-istituzionale (domestici, padroni, re, sovrani, governatori), che abbiamo analizzato la volta scorsa (2,13-20), e familiare-comunitario (coniugi e comunità credente), su cui rifletteremo oggi (3,1-9) . Queste due parti sono intercalate da un inno cristologico (2,21-25) che presenta il Cristo, servo sofferente, che si è sottomesso ad una ingiusta morte per gli ingiusti. Esso costituisce un parametro di raffronto con le ingiuste sofferenze a cui sono sottoposti i nuovi credenti.

 

Questa prima parte (3,1-12) si snoda su tre momenti:

 

·   vv. 1-7: riprende e continua l'esortazione iniziata in 2,13 ed è qui rivolta alla famiglia o più precisamente ai rapporti che intercorrono tra i coniugi.

 

·   vv. 8-9: esortazione rivolta ai componenti la comunità credente e specifica quale tipo di rapporto deve intercorrere tra di loro.

 

·   vv. 10-12: vengono liberamente riportati i vv. 13-17 del salmo 34. Questi hanno una duplice funzione: da un lato, supportare scritturisticamente i precedenti vv. 3,8-9; dall'altro, con il v.3,12 agganciare il successivo v.13 introducendo il tema dell'ingiusta sofferenza sofferta facendo il bene e per il bene.

 

La seconda parte, 3,13-22 in realtà non si chiude con il v.22, ma sconfina fino al v. 4,6. Il tono è sempre parenetico, cioè esortativo, ed è scandito in due tempi:

 

·  vv. 13-17: con cui si introduce un nuovo tema: l'ingiusta sofferenza sopportata dai nuovi credenti a motivo della loro scelta di fede. Da essa deve trasparire la speranza a motivo della quale essi sono perseguitati e derisi. La sofferenza, pertanto, testimonia lo splendore della speranza che vive in loro.

 

·   vv.18-22: viene introdotto il quarto ed ultimo inno cristologico, che fornisce la motivazione all'ingiusto patire, mentre Cristo, il giusto che è morto per gli ingiusti, diventa il parametro di raffronto con l'ingiusto soffrire dei credenti.

 

 

Analisi  e commento  di  3,1-22

 

Questo terzo capitolo si apre, al v.1, con l'espressione "Ugualmente voi, mogli", che viene ripresa similmente al v.7: "E ugualmente voi, mariti", formando in tal modo una inclusione, cioè una sorta di parentesi, data dalle due frasi identiche, che delimita in tal modo il passo 3,1-7, il cui argomento di fondo è duplice: a) i nuovi rapporti, che devono intercorrere tra i coniugi cristiani (vv.1-2); b) il vero ornamento di cui si debbono rivestire le donne cristiane.

 

Il primo argomento viene introdotto dall'avverbio "ugualmente" (in greco: omoios) introduce un paragone, che rimanda al parametro con cui ci si raffronta. Questo parametro di confronto su cui le mogli, come i mariti, devono misurarsi è dato dall'inno cristologico del capitolo precedente: 2,21-25, in cui Cristo è lasciato loro come esempio (2,21) di sottomissione. Egli, infatti, patì senza ribellarsi, senza rispondere o minacciare, ma rimettendosi al Padre (2,23). Questa sofferenza patita nel silenzio e accolta in obbedienza al progetto salvifico di Dio deve costituire l'elemento di confronto su cui devono fondarsi i rapporti tra i coniugi.

 

Al centro di tutto, dunque, ci sta Cristo, fondamento del vivere cristiano.

 

La sottomissione della donna all'uomo e, quindi, della moglie al marito, che oggi sentiamo come una inaccettabile stonatura, rientrava nella normale cultura corrente dell'epoca. Il cristianesimo non intende rivoluzionare i rapporti sociali e quelli familiari, creando in tal modo scandalo ed opposizione, ma ne dà una lettura nuova alla luce di Cristo: tutto il vivere cristiano, ad ogni livello, deve essere riparametrato su Cristo, trovare il senso più vero e profondo in lui, così che il Cristo, morto e risorto, deve diventare, per il credente, la sua nuova forma mentis.

 

L'autore di Prima Pietro si sofferma qui su di un particolare problema che doveva tormentare la vita familiare di quel tempo: la diversità di fede tra i coniugi, in particolare, qui, della moglie,  creava non pochi problemi nel ménage familiare, per la diversità di vedute e per lo stile di vita che le diverse fedi, cristiana e idolatrica, imponevano ai loro seguaci. Una testimonianza in tal senso l'abbiamo negli stessi vangeli (Mt 10,21-22; Mc 13,12-13; Lc 21,16-17). Gesù, del resto, aveva preavvertito i suoi seguaci: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto, infatti, a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa" (Mt 10,34-36).

 

In questo contesto di conflittualità familiare, Pietro sollecita le mogli ad essere accondiscendenti nei confronti del marito, evitando di esacerbarne l'animo e questo sull'esempio di Cristo, che assoggettandosi alla volontà del Padre e alle conseguenti ingiuste sofferenze patite ci ha riscattati tutti dal peccato e facendoci vivere per Dio (2,24-25).

 

In tal modo anche le mogli, unite a Cristo e a lui configurate nella sua sottomissione, trasformano questa in uno strumento di redenzione per i mariti (3,1). Come dire che il vivere in Cristo trasforma il nostro quotidiano vivere in un'azione redentiva nei confronti degli altri.

 

Il secondo argomento (3,3-4) è introdotto dall'espressione "il vostro ornamento". Si tratta, dunque, degli ornamenti con cui le donne si abbellivano, sia per far bella mostra di sé, sia per attirare l'attenzione dei mariti e non solo. Gli ornamenti, richiamati dalla lettera, sono: capelli intrecciati, collane d'oro e sfoggio di vestiti, propri di donne ricche o di alto rango. Segno che tra i credenti vi era anche la presenza di persone benestanti e non solo di poveri, domestici o schiavi. Questo modo di sfoggiare la propria ricchezza, probabilmente, doveva anche offendere in qualche modo i cristiani di umile condizione. Per questo Pietro esorta queste donne benestanti a indirizzare le loro cure e le loro attenzioni più che sull'abbellimento del corpo, su quello interiore, che si radica nella profondità del cuore, che nella cultura antica era il nucleo più vitale e vero della persona.

 

Quel "cercate piuttosto di adornare" (3,4) dice tutta la tensione e la cura che queste donne devono mettere per operare una inversione di marcia: dall'abbellimento esteriore a quello interiore; dalla cura dei capelli, dalla scelta di collane d'oro e sfoggio di vestiti alla cura per formarsi "un'anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace". L'attenzione, quindi, qui passa dalle cose corruttibili e vacue a quelle durature, dall'interesse per le cose materiali e deperibili a quelle spirituali ed eterne "preziose davanti a Dio" (3,4). E' questa la logica propria della risurrezione, che ha trasformato il corpo materiale di Gesù, segnato dal peccato, in un corpo spirituale, vivente, incorruttibile ed eterno. Questo deve essere anche l'orientamento proprio del cristiano.

 

Non si tratta, dunque, di disprezzare le cose materiali, ma di dare loro il giusto valore, ponendole al servizio dell'uomo e in funzione delle sue necessità, spostando, invece, la propria attenzione e il proprio interesse su quel mondo dello spirito in cui già viviamo e da cui siamo avvolti e verso cui siamo destinati. Non disprezzo, ma giusta e corretta valutazione per non subire distorsioni nel nostro cammino verso Dio, poiché noi saremo pienamente nell'aldilà ciò che siamo stati qui, in questa dimensione spazio-temporale. Così che se il nostro vivere è, pur nella nostra fragilità, orientato a Dio e in Lui sono sinceramente posti i nostri interessi, possiamo ritenerci certi che il nostro nuovo habitat, quello finale, sarà Dio stesso, in cui ritroviamo quella pienezza di vita, che sempre ci siamo sforzati di cercare in questo nostro pellegrinare verso di Lui.

 

I vv. 5-6 sono conclusivi della riflessione che l'autore ha rivolto alle donne, benestanti, abbiamo visto, e probabilmente vi è tra loro anche la presenza di ebree o di cultura ebraica se, ora, egli richiama la loro attenzione sulle "sante donne " di un tempo, probabilmente le mogli dei patriarchi o vissute al loro tempo (1800 a.C.). Infatti, vediamo come, qui, l'aggancio giustificativo di un vivere sottomesso e non appariscente non è più cristologico, bensì storico e veterotestamentario, mentre queste donne vengono definite "figlie di Sara", cioè loro discendenti.

Da queste donne l'autore trae l'esempio di Sara, moglie di Abramo. Di essa viene evidenziato la sottomissione obbediente al proprio marito. Si noti come tra i due aspetti, vistosità negli ornamenti e sottomissione al proprio marito, l'autore accentua quest'ultima, come l'elemento distintivo di una donna saggia ed esemplare.

 

Al di là, comunque, dell'accentuato richiamo alla sottomissione, che risente della cultura propria di quel tempo, va colto lo spirito di collaborazione e di ricerca di bene per il proprio coniuge. Ciò richiede sempre un mettersi da parte per fare spazio alle sue esigenze e necessità, espressione questo propria dell'amore, che si caratterizza per la ricerca dell'affermazione dell'altro, in cui realizzo anche la mia affermazione e ritrovo la mia gratificazione.

 

"Ugualmente voi, mariti" (v.3,7). Anche qui l'ugualmente si aggancia all'inno cristologico, che pone Cristo al centro del vivere cristiano e ad esempio pure per l'uomo, ma nel contempo crea anche un parallelismo con i doveri della donna. La dedizione della moglie nei confronti del marito, colta come missione redentrice e di riscatto, deve trovare nel marito un'attenta accoglienza rispettosa, che le onora. Il motivo è duplice: a) sia per la fragilità del loro corpo, che impone all'uomo una delicata attenzione e, di conseguenza, un particolare rispetto per la loro più spiccata sensibilità; b) sia perché essi condividono con loro la comune vita di grazia, che fa dei due una sola carne in Cristo. La motivazione, dunque, si pone sia su di un piano fisico che quello spirituale, che trova la sua ricomposizione in Cristo.

 

I vv. 8-9 spostano ora l'attenzione dalla comunità familiare a quella ecclesiale, ma senza creare una frattura tra le due comunità. Infatti l'espressione greca "to de telos", che significa letteralmente scopo, termine, finalità, crea una sorta di continuità tra la famiglia e la chiesa. Potremmo, pertanto tradurre: "di conseguenza, siate tutti concordi ...".

L'autore comprende bene come la famiglia sia il nucleo fondamentale non solo della società civile, ma anche e soprattutto di quella ecclesiale. Essa viene definita dal Direttorio di Pastorale familiare per la Chiesa Italiana[11] come la chiesa domestica[12] Va da sè, dunque, che i valori dell'amore, del reciproco rispetto, della concordia, della condivisione coltivati all'interno della famiglia debbano trovare la loro naturale esplicitazione ed estensione anche all'interno della Chiesa.

Mentre il v.8 delinea lo stile di vita che deve caratterizzare i rapporti all'interno della comunità ecclesiale, fondati sulla concordia, che si esplicita nella condivisione delle gioie e dei dolori degli altri, a cui ci si accosta con affetto, umiltà e comprensione; il v.9 definisce le modalità con cui si devono affrontare le divergenze e le offese, che si possono verificare: non contrapponendo ingiuria ad ingiuria, ma rispondendo con la benedizione e il perdono. La motivazione di ciò sta nel fatto che per sua natura il credente, rigenerato in Cristo ad una vita nuova e inserito nel ciclo vitale di Dio stesso, è chiamato a donare agli altri quella benedizione con cui egli è stato benedetto e rigenerato da Dio in Cristo per mezzo dello Spirito.

In tal senso Paolo sollecita la comunità di Roma: "Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri. ... Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina" (Rm 12,14-18); mentre Gesù lascia in eredità ai suoi discepoli un nuovo comandamento: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,34-35)

 

I vv. 10-12, infine, chiudono questa parte esortativa (2,11-3,12) con il Sal. 34,13-17, dal sapore sapienziale, che vede nel duro e difficile impegno nel fare il bene la fonte della felicità e della protezione divina e che fornisce il sostegno scritturistico a quanto fin qui meditato.

 

Il v.12 termina con queste parole: "... ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male". Questa ultima espressione costituisce l'aggancio con quanto segue ed apre un nuovo tema: l'ingiusta sofferenza che perseguita coloro che sono impegnati nel fare il bene. Essi, proprio in questo impegno sofferto, sono chiamati a dare testimonianza della speranza che è in loro. Come dire che la speranza che vive in ciascuno di noi, il Cristo morto-risorto, che ci ha rigenerati ad una nuova vita, deve essere la motivazione di fondo che ci spinge ad operare il bene e a fuggire il male (v.11).

 

Preceduti, dunque, dalla parte finale del v.12, si aprono ora i vv. 13-17, che sono una esortazione per i nuovi credenti a sopportare le ingiuste sofferenze che vengono a loro a motivo del loro impegno nel bene, per il loro vivere da discepoli di Cristo, a cui vengono assimilati e rapportati nell'inno cristologico (vv.18-22).

 

Questa seconda parte del cap.3 si apre con una domanda retorica: "E chi vi potrà fare del male,  se sarete ferventi nel bene?"[13]. La risposta è chiaramente "nessuno". Questo per dire che il compiere il bene è già una sorta di tutela per chi lo compie e lo testimonia, poiché il bene che si compie è un collocare Dio, racchiuso naturalmente in questo bene compiuto, in se stessi e in mezzo alla società, in cui tale bene viene attuato. Dio, infatti, è la fonte di ogni bene, così che "gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male" (3,12). Ciò significa che il bene che si compie non solo attua Dio in mezzo agli uomini, crea spazi a suo favore, ma tutela spiritualmente anche chi lo compie e diventa un giudizio di condanna per coloro che compiono il male.

 

Ma ben si sa che anche colui che fa il bene è spesso oggetto di scherni, derisioni ed offese da parte di coloro che compiono il male o che sono scarsamente illuminati dalla luce della Parola; per questo l'autore di Prima Pietro mitiga il suo eccessivo entusiasmo iniziale con una frase ipotetica: "E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi!" (3,14). Nulla, dunque, ci deve fermare, anche se sulla strada del bene si frappongono gli ostacoli del male. Anzi sono proprio questi inciampi, che rendono difficile il compiersi del bene, che ascrivono coloro che lo compiono nella schiera dei beati, come ci ricorda anche Matteo nel suo vangelo a conclusione delle beatitudini (Mt 5,3-10): "Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così hanno perseguitato i profeti prima di voi" (Mt 5,11-12)[14].

 

Proprio perché il compiere il bene ci qualifica non solo come figli di Dio, ma dice anche che gli apparteniamo, il credente non deve turbarsi di fronte alle esplosioni del male, che sembrano travolgerlo ed avere la meglio su di lui, perché se Dio è con noi chi sarà mai contro di noi? (Rm 8,31) Mentre il Gesù di Giovanni sollecita i suoi discepoli: "Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me" (Gv 14,1).

 

Di particolare interesse è la costruzione con cui sono stati scritti e disposti i vv. 13-17, finalizzata a rendere più efficace il messaggio in essi contenuti. La disposizione è di tipo concentrico, cioè in un gruppo di versetti di numero dispari, cinque nel nostro caso, in cui ogni versetto ha il suo corrispondente in un altro versetto e così via finché rimane un unico versetto centrale, che è quello che contiene il significato più profondo dell'intero passo. Si dice costruzione concentrica perché tutti i versetti convergono verso quello centrale, il più significativo di tutti.

 

Ecco, dunque, la costruzione:

 

 

A) v.13:  E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?

 

   B) v.14: E se anche dovreste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate

              per paura di loro, né vi turbate,

 

 

       C) v.15: ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere

              a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia

              fatto con docenza e rispetto, con una retta coscienza,

 

 

    B') v.16: perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangono svergognati quelli

               che malignano sulla vostra condotta in Cristo.

 

A') v.17: E' meglio, infatti, se così vuole Dio, soffrire oprando il bene che facendo il male.

 

Come si vede ogni versetto trova il suo corrispondente in un altro: A 13 in A' 17; B 14 in B'16. Al centro si trova tutto solo il versetto C 15, che è la chiave di lettura dell'intero passo 13-17. La corrispondenza nel nostro caso è per complementarietà, nel senso che ogni versetto trova la sua risposta e il suo completamento nel suo corrispondente, per cui avremo:

 

A-A') vv. 13.17: E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? (v.13).... E' meglio, comunque, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male (v.17)[15]

 

B-B') vv.14.16: E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate (v.14), ... perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangono svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (v.16).

 

C) v.15: ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, ...

 

Costruito in questo modo, ora il messaggio appare più chiaro: ogni credente è chiamato imperativamente a compiere il bene, ad ogni costo, anche se ciò comporta una inevitabile sofferenza, poiché è meglio soffrire facendo il bene che starsene tranquilli operando il male (vv.13.17).

E se proprio si dovesse affrontare la sofferenza e la persecuzione a causa del bene, allora il credente si consideri beato, cioè assimilato in questo a Cristo crocifisso, su cui brilla sfolgorante la luce della risurrezione (3,18.22). In tal modo questa sofferenza per il bene diventa un giudizio di condanna che ricade sugli operatori di iniquità, perché Cristo ha vinto il mondo (vv.14.16), come ci ricorda il Gesù di Giovanni: "Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia in me; io ho vinto il mondo " (Gv 16,33).

 

Tutti i versetti, accoppiati tra loro, parlano della necessità di fare il bene, che è sottesa da un implicito tema, che appare chiaro nel v.15, preparato dagli altri: la testimonianza della speranza che è presente in ogni credente. Compiere il bene, infatti, è santificare Cristo nei propri cuori ed è una risposta che il credente dà a tutti quelli che vedendolo a compiere il bene pur nella sofferenza si interrogano sul perché si comporti in quel modo. Il credente porta in sé una speranza vivente, da cui è stato rigenerato a nuova vita, che è il Cristo risorto.

 

Ecco, quindi, l'esortazione: "... adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori" (v.15a). La traduzione C.E.I. dice "adorate", in realtà il termine greco, aghiaste, significa santificate, cioè rendete santo nel vostro cuore Cristo, che qui è definito con l'appellativo di Signore, titolo che viene assegnato dalle prime comunità credenti al Gesù risorto, in cui si riconosce la stessa incontrastata potenza di Dio, che opera in lui e per mezzo suo e, quindi, la divinità stessa di Gesù.

 

Santificare il Signore di certo non significa che Gesù abbia la necessità di essere reso santo da parte nostra, poiché lui stesso, nel Padre e per mezzo dello Spirito, è la fonte di ogni santità e della nostra santificazione. Che cosa, dunque, significa "santificate Cristo nei vostri cuori"?

 

Paolo ci ricorda che noi siamo il tempio dello Spirito Santo e che non apparteniamo più a noi stessi (1Cor 6,19), poiché proprio in virtù della nostra rigenerazione ad una vita nuova, operata dal Padre per mezzo della risurrezione di Gesù (1,3), siamo stati ricollocati in Dio, ne condividiamo la vita e ne siamo divenuti dimora vivente, così che non siamo più noi che viviamo, ma Cristo vive ed opera in noi (Gal 2,20).

Ne consegue che per noi è imperativo conformare la nostra vita a queste realtà spirituali a cui siamo stati generati e in cui siamo collocati. Esse devono trasparire dal nostro modo di vivere e trasformarsi in un nuovo stile di vita. Ma proprio in virtù del fatto che noi siamo contemporaneamente tempio di Dio e suoi sacerdoti (2,5.9) questo nostro vivere conformati a Cristo e a lui assimilati si traduce in un atto di culto a Dio, in una liturgia di lode e ringraziamento, mentre il nostro vivere diventa santificazione, cioè consacrazione a Dio delle realtà che la vita ci chiama a vivere quotidianamente e in ciò viene glorificato Cristo (1Pt 2,5; Rm 12,1).

 

Questo nostro nuovo stile di vita deve trovare innanzitutto la sua giustificazione in noi di modo che siamo sempre pronti a giustificarlo[16] e a renderne conto anche agli altri,  dandone così piena testimonianza, condividendo con loro tale nostra speranza vivente.

 

Il v.3,15 è il cuore di tutta la lettera, perché se da un lato sollecita i nuovi credenti, che vivono isolati in mezzo ad un mondo pagano che li perseguita, a testimoniare la speranza vivente di cui sono rivestiti e portatori in mezzo agli uomini, dall'altro, implicitamente esorta a prenderne coscienza. E l'unico strumento che ci consente tale presa di coscienza è la Parola di Dio, da cui siamo stati generati a vita nuova (1,23).

 

L'approccio a questa Parola diventa, pertanto, obbligatorio per il credente più ancora che il celebrare l'eucarestia domenicale. Infatti senza una adeguata conoscenza e la coscienza delle realtà spirituali, in cui siamo avvolti e permeati, tutta la vita cristiana perde di significato e di valore, riducendosi a delle mere, sterili e incomprensibili regole e prescrizioni di ordine morale da eseguire, a cui siamo stati educati e che rispettiamo per tradizione, ma senza mai che tutto ciò si radichi in una adeguata e corretta motivazione, che trova la sua linfa vitale esclusivamente nella Parola. Per cui non solo non riusciamo a giustificarle agli altri, privandoli in tal modo di una testimonianza da noi dovuta a loro, ma neppure noi riusciamo a comprenderle e a giustificarle a noi stessi, così che ci trasciniamo penosamente in un cristianesimo che non sentiamo più nostro o, per i più coraggiosi ed onesti, benché non giustificati, viene completamente abbandonato.

 

Fermiamoci, dunque, per un istante, guardiamoci allo specchio della nostra coscienza, e chiediamoci cosa stiamo vivendo: una speranza vivente, capace di trasformare la nostra vita e le realtà che incontriamo o, più semplicemente e banalmente, stiamo eseguendo delle regole e della precettistica morale, seguendo una tradizione, che ci dà l'illusione di essere cristiani. Quest'ultimo modo di vivere il cristianesimo ci può giustificare davanti agli uomini, ma non davanti a Dio, poiché in tal modo rendiamo vana la grazia di Dio, pregiudicando il suo piano di salvezza pensato per noi e, per mezzo nostro, per tutti gli uomini.

 

I vv. 3,18-22 chiudono questo terzo capitolo con l'ultimo dei quattro inni cristologici. Esso da un lato fornisce la giustificazione teologica all'ingiusto soffrire del credente (3,13-17), ma nel contempo costituisce anche la premessa e la motivazione dottrinale alla parte immediatamente seguente: 4,1-6.

 

Potremmo, pertanto, dire che questi versetti innici sono versetti di passaggio, dal tema dell'ingiusto soffrire (3,13-17) a quello della rottura con la precedente vita di peccato (4,1-6), che vedremo la prossima volta.

 

Il v.3,17 nel chiudere il tema dell'ingiusta sofferenza (3,13-17) afferma che "è meglio ... soffrire operando il bene che facendo il male". Proprio quest'ultima espressione forma da aggancio introduttivo all'inno cristologico, che inizia con "Anche Cristo ...", agganciandosi, a sua volta, con quel anche ai vv. 3,13-17, il cui tema dell'ingiusto soffrire viene così ricondotto a Cristo, che funge da parametro di raffronto all'ingiusto soffrire del credente, impegnato nel compiere il bene. In tal modo le sofferenze ingiustamente patite dai cristiani sono vincolate a quelle di Cristo e trovano in esse la loro giustificazione, poiché il credente è assimilato a Cristo sia nella sua morte che nella sua risurrezione (Rm 6,4-5).

 

Il v. 3,18 contiene in sé una sorta di antica formula di fede con cui si professava la salvezza ottenuta dalla morte-risurrezione di Cristo, che soffrì una volta sola per i nostri peccati; una salvezza che è consistita nel ricollocare l'uomo nella dimensione divina ("per ricondurvi a Dio").

La salvezza operata da Cristo, tuttavia, non riguarda soltanto il presente e il futuro dell'uomo (v.18), cioè da Cristo in poi, ma abbraccia anche l'umanità venuta prima di Cristo e della sua azione redentiva (v.19). Essa, pertanto ha una dimensione universale, abbracciando l'intero cosmo e con esso ogni essere vivente, indipendentemente dal suo collocarsi storico o transtorico. In tal modo viene a realizzarsi la centralità di Cristo e in lui il disegno salvifico del Padre, quello di "ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10) così che Dio, per mezzo di Cristo, sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28). Pertanto, morti e vivi, trapassati e presenti sono tutti ricongiunti in Cristo e con lui formano un unico corpo.

 

L'autore di Prima Pietro è l'unico in tutto il N.T. a riportare la formula di un Cristo disceso agli inferi che va ad annunciare la salvezza in lui compiuta anche a coloro che non hanno saputo credere ai segni premonitori del diluvio universale. Infatti di fronte ad un Noè che stava costruendo l'arca, l'umanità di quel tempo non era stata in grado di interpretare quel segno, perché "la malvagità degli uomini era grande sulla terra e ogni disegno concepito dal loro cuore, non era altro che male" (Gen 6,5). Il peccato li aveva accecati e resi incapaci di leggere l'annuncio del giudizio imminente "perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra" (Gen 6,12b). Ebbene, dice Prima Pietro, anche per questi vi è un nuovo annuncio di salvezza operato da Cristo stesso, così che le antiche acque diluviane che procurarono loro la morte, grazie a questo annuncio vivificato dalla morte-risurrezione di Gesù sono state trasformate in acque capaci di dare la vita divina. Queste nuove acque redentive sono quelle del battesimo, che hanno rigenerato l'uomo ad una vita nuova, ricollocandolo per mezzo di Cristo nella vita stessa di Dio.

 

Queste acque, ricorda Pietro, non sono finalizzate a rimuovere la sporcizia del corpo. Con questa espressione l'autore pone una netta distinzione tra il sacro lavacro battesimale e le varie abluzioni e purificazioni praticate sia dai pagani che dagli ebrei. Ma la nuova acqua possiede in sé una potenza rigeneratrice e santificante, capace di generare il credente alla nuova dimensione divina.

 

Ciò non lascia indifferente chi è stato bagnato da tali acque, ma ha delle conseguenze in lui sia sul piano ontologico che esistenziale, poiché l'uomo rigenerato da tali acque ha subito una radicale e profonda modificazione nel suo essere, che lo ha trasformato. Che cosa ciò significhi concretamente ci verrà detto nei vv. 4,1-6.

 

 

 

Capitolo quarto

 

 

 

Premessa

 

Il cap.3 si chiudeva con il quarto ed ultimo inno cristologico (3,18-22), che si apriva con l'intonazione del v.18, che fornisce la chiave di lettura all'intera sezione 3,13-4,6: "Anche Cristo è morto[17] una volta per sempre  per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito".

 

Questa espressione, che racchiude in sé un'antica formula di fede, mette in luce come la sofferenza che Gesù patì e che si concluse con la sua morte fu in funzione dei peccati, creando in tal modo uno stacco netto tra il mondo corrotto dal peccato, definitivamente terminato e sepolto con la morte e nella morte di Gesù, e il mondo nuovo inaugurato con la sua risurrezione. La morte di Gesù, dunque, segna la fine di un'epoca, mentre la sua risurrezione ne inaugura una nuova.

 

In questo processo di morte e risurrezione anche il credente è coinvolto. Similmente Paolo, rivolto ai Romani, ricorda loro: "Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi, consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6,10-11).

 

Si è venuta quindi a creare una spaccatura tra il vecchio mondo e quello nuovo; l'elemento che funge da spartiacque tra i due, rendendoli inconciliabili l'uno all'altro, è la morte-risurrezione di Gesù, che pone fine ad un certo modo di vivere (caratterizzato dal degrado esistenziale in cui l'uomo si trovava) e ne inaugura uno completamente nuovo, che apre l'uomo completamente a Dio, lo orienta a Lui e lo costituisce come essere "vivente per Dio".

 

Tutto ciò non lascia indifferente l'uomo, che è chiamato nel suo oggi ad operare una scelta radicale di fondo: o per Dio o contro di Lui.

 

 

Introduzione

 

Fatta questa debita premessa, passiamo ora al cap. 4, che, con quel "Poiché, dunque", si apre agganciandosi proprio al v. 3,18, riprendendolo e sviluppandone le conseguenze pratiche nella vita del credente.

 

I primi due versetti del cap. 4 danno l'intonazione all'intero capitolo, suddividendolo in due parti:

 

·   v. 1a: "Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti". Si preannuncia il tema dell'assimilazione del credente alla sofferenza di Cristo, che verrà trattato ai vv. 4,12-16;

 

·   v. 1b: "chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente con il peccato". Infatti come Cristo nella sua sofferenza-morte ha ucciso in se stesso una volta per tutte, definitivamente, il vecchio mondo adamitico, così è anche per il credente, che in tale morte è stato assorbito da Cristo e a lui assimilato (Gv 12,32; Rm 6,4-6). Questo versetto funge da passaggio e da legame logico tra il tema del v.1 e quello del v.2.

 

·   v. 2: "per non servire più alle passioni umane, ma alla volontà di Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale". Vengono qui rilevate le conseguenze che la sofferenza di Cristo ha sulla vita del credente e, nel contempo, vengono anticipati nelle espressioni "passioni umane" e "volontà di Dio" i temi che saranno sviluppati rispettivamente nei successivi vv. 4,3-6, per quanto riguarda le passioni umane; e 4,7-11, per quanto riguarda invece la volontà di Dio.

 

Vedremo infine come proprio nel cap.4 l'autore darà una lettura della sofferenza su vari livelli:

 

·   La sofferenza è assimilazione a quella di Cristo, per cui il soffrire del credente è un condividere quella di Cristo, una sua compartecipazione (4,1a.13);

 

·   la sofferenza nasce dal contrasto tra le due realtà vecchia e nuova, che portano il credente ad una rottura con il passato, che lo coinvolge esistenzialmente ad ogni livello (4,1b.3-4);

 

·   la sofferenza è colta come una forma di giudizio divino posto sul credente, giunto ormai alla fine dei tempi (4,7a.17-19).

 

·   La sofferenza viene letta come preannuncio della fine dei tempi, che inizia con il giudizio di Dio. Esso inizierà proprio da coloro che appartengono a Dio per estendersi poi a tutti gli altri (4,17).

 

  

Analisi e commento di  4,1-19

 

 

I primi undici versetti di questo capitolo si giocano tutti all'interno della contrapposizione che emerge nel v.3,18, a cui il cap.4 è strettamente legato dalle due congiunzioni "Poiché, dunque": "Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito" (3,18).

 

La morte sofferta da Cristo, avvenuta una volta per sempre, dice l'assolutezza e la definitività  di questa morte nei confronti del peccato, con cui sancisce una rottura definitiva e insanabile, così che ora il vivere di Cristo è un vivere esclusivo per Dio (Rm 6,10).

La morte che Gesù subì nella sua carne, profondamente segnata dalla colpa adamitica, determinò la fine del peccato, cioè di quella ribellione a Dio che pose l'uomo fuori dalla dimensione divina stessa, il che è simboleggiato dalla sua espulsione dal paradiso terrestre. La morte di Gesù, dunque, ha distrutto in sé la vecchia creazione che, passata attraverso la risurrezione, è stata rigenerata nuovamente a Dio e a Lui restituita nel suo splendore integrale degli inizi, quando Dio, al termine della sua opera, constatò che "quanto aveva fatto, ..., era cosa molto buona" (Gen 1,31).

 

In Cristo dunque si è attuata una frattura con il vecchio mondo che ha il suo prototipo nel vecchio Adamo, frattura significata nella sua morte; ma nel contempo è sgorgata una nuova creazione. Questo passaggio da morte a vita, dal vecchio al nuovo, dal generato al rigenerato, è il bipolarismo della Pasqua entro cui si muove il vivere del nuovo credente.

 

"Poiché, dunque ...": mentre la prima congiunzione, che collega il cap.4 al v.3,18, esprime la causa, il motivo, la seconda dice la conseguenza. Pertanto potremmo riscrivere il v. 4,1 in questo modo: "Poiché Cristo soffrì nella carne, dunque anche voi rivestitevi degli stessi sentimenti". C'è dunque tra Cristo e il credente una sorta di rapporto di causa ed effetto che anche il Gesù di Giovanni ricorderà: "Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra." (Gv 15,20). All'origine delle sofferenze del credente, pertanto, sta Cristo sofferente, cosicché il soffrire del credente è la conseguenza del soffrire di Cristo. Quel "anche voi" sottolinea una volta di più il profondo legame che unisce ed assimila il discepolo al suo maestro. Il discepolo, con quel anche voi è chiamato a rivestirsi di Cristo, qui colto nel suo soffrire redentivo. I due dunque diventano una cosa sola, cosicché quanto è avvenuto nella sofferenza di Cristo avviene anche nel credente, che a lui è stato assimilato.

 

E' proprio ciò che esprime quell’equivoco "chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato ...". Chi è rappresentato in quel "chi ha sofferto"? Chi è il soggetto che soffre? La risposta corretta è ambivalente: Gesù, ma parimenti anche il credente. In realtà il "chi" sintetizza in sé la figura di entrambi, facendo dei due una sola realtà. Come dire che chi abbraccia nel nome di Cristo la sofferenza del suo vivere cristiano vive la sofferenza stessa di Cristo; e a sua volta Cristo vive nel suo discepolo, sofferente a causa del suo nome, la propria personale sofferenza. Si vengono pertanto a creare una profonda identità e un profondo vincolo tra i due che vanno ben al di là di una semplice condivisione di vita, per giungere ad una vera e propria convivenza.

 

La conseguenza di ciò è che la rottura definitiva con il peccato (che la morte sofferente di Cristo ha provocato nel Cristo stesso) si riversa, ora, pari pari, anche nel credente, per cui Paolo dirà: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo dl peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato ..... Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6,3-6.10-11).

 

Tuttavia il morire al peccato (cioè il non orientare più la nostra vita verso il suo mondo degradato e degradante in cui l'uomo ha perso e perde ogni dignità, diventando per questo meno uomo) non è fine a se stesso, ma "per non servire più alle passioni, ma alla volontà di Dio" (4,2a). Quel "per" esprime la finalità e il senso del nostro essere morti alla dimensione del peccato. Ed ecco, allora, che il nostro morire al peccato si traduce nel non servire, cioè nel non dedicare la nostra vita a ciò che per sua natura degrada ed offende l'uomo, allontanandolo da quella novità di vita, che è stata inaugurata in noi dalla risurrezione rigenerante di Cristo. "Servire alla volontà di Dio" esprime dunque il nuovo orientamento esistenziale che deve caratterizzare il vivere del credente. Questo passaggio dal servire il peccato a servire Dio è brillantemente sottolineato da Paolo: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).

 

Il v.3 si apre con un imperativo di rottura traumatica e definitiva, che è conseguenza del nostro essere stati uniti alla morte di Cristo: "Basta col tempo trascorso a soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli" (4,3). Essere morti in Cristo al peccato e al suo mondo, significa porre un Basta a questo modo di vivere che degrada l'uomo ricreato in Cristo ad immagine e somiglianza di Dio.

 

Questo nuovo modo di vivere, consacrato a Dio, crea uno stato di rottura e di contrapposizione non soltanto in noi stessi, che viviamo ancora in una natura ferita dal peccato e che ci spinge naturalmente verso di esso[18], ma anche nei confronti del mondo, che proprio per questo nostro modo di vivere non ci riconosce come suoi: "Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano" (4,4). Il vivere del nuovo credente, quindi, crea scandalo per il mondo, provocando la sua rivolta verso di lui.

 

Il duro confronto del credente con il mondo odierno, sempre più paganizzato e paganizzante, può provocare turbamento in chi ha deciso la sua vita per Cristo. Ma questi nuovi pagani o spesso cristiani ripaganizzati "renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti" (4,5). Viene qui introdotto il tema del giudizio che Dio, nel suo Cristo, ha posto sul mondo diviso in vivi e morti[19]. Il testo greco dice "i viventi[20] (zontas) e i morti". Il mondo quindi viene diviso in due grandi categorie: i viventi, cioè coloro che vivono in Cristo e partecipano con lui alla nuova vita divina che palpita in loro, e quelli che sono morti, cioè che si sono posti al di fuori dalle nuove realtà create in Cristo e, per ciò stesso, sono privi della vita.

 

Il v.7 si apre con toni escatologici, da fine del mondo: "La fine di tutte le cose è vicina". Non ci sorprende questo annuncio. Già era nell'aria e in qualche modo era stato preannunciato dai vv. 4,5-6, che se da un lato chiudono il tema dell'annuncio universale di Cristo (fatto oltre che ai viventi anche ai morti e introdotto da 3,19), dall'altro anticipano proprio il tema della fine universale.

 

Infatti, secondo la teologia e le convinzioni della chiesa primitiva del primo secolo, con la venuta di Cristo, la sua morte e la sua risurrezione, anche la storia dell'umanità era giunta ormai al suo termine e attendeva il ritorno glorioso di Cristo, che avrebbe stabilito definitivamente tra gli uomini il suo potere (1Cor 15,24-26) e inaugurato un regno di pace e di giustizia, in cui Dio "tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,4).

Questo nuovo stato di cose doveva però essere preceduto da persecuzioni, guerre, sofferenze e rovesciamento di ogni ordine umano stabilito. Sarebbe poi seguito il ritorno del Signore e il conseguente giudizio dei vivi e dei morti e, da ultimo, ci sarebbe stata la fine di tutte le cose.

 

In questo quadro escatologico ed apocalittico l'autore avverte i credenti, i viventi, della fine imminente di tutte le cose e li sprona ad una vita tutta dedita al Signore, in contrapposizione e nettamente distinta da quella dei pagani (4,2-4), i morti.

 

Pertanto, nel passo 4,7-11 viene delineato il comportamento che il credente deve tenere nell'attesa della venuta finale di Cristo e del suo giudizio che, proprio attraverso la sofferenza della persecuzione, era già incominciato da loro (4,17-19). Vedremo subito come i tratti che devono caratterizzare l'attesa del Signore siano nettamente opposti e contrastanti con quelli propri dei pagani delineati in 4,3, come nettamente contrastanti sono la risurrezione e la morte in Cristo.

 

I richiami sul comportamento da tenere si incentrano su tre punti:

 

·   v.7b: una vita improntata alla moderazione e alla sobrietà per essere indirizzata alla preghiera;

 

·   vv. 8-9: particolare attenzione, all'interno della comunità, alla carità, che si esplicita in particolar modo nell'ospitalità praticata senza risentimenti o mormorazioni;

 

·   vv. 10-11: il buon uso dei doni ricevuti dallo Spirito, che devono essere messi a disposizione della comunità per farla crescere ordinatamente nel Signore.

 

 

Il v.7b inizia con quel "Siate dunque". Da questa congiunzione di tipo conclusivo e consequenziale dipendono tutte le esortazioni contenute nei vv. 7-11; essa dice come il comportamento da tenere sia strettamente legato alla fine imminente e ad una corretta attesa della venuta del Signore. E' pertanto la coscienza che questo ordine temporale di cose è finito (in quanto associato alla morte di Cristo) che deve spingere i credenti a conformare il loro modo di vivere alla risurrezione di Cristo.

 

I primi elementi che devono contraddistinguere lo stile di vita del nuovo credente nel suo cammino verso il Cristo che viene sono la moderazione e la sobrietà nel condurre la propria vita. In altri termini egli non deve vivere in modo dispersivo e banale, rincorrendo le cose e facendo di esse la ragione del proprio vivere. Tale comportamento non è fine a se stesso, ma è la premessa indispensabile "per dedicarvi alla preghiera". Il termine greco, tradotto con "per", è "eis", che indica un moto verso un luogo e, quindi, esprime l'orientamento esistenziale rivolto verso la preghiera. Essa non va intesa come una sterile recita di formule o la partecipazione comunitaria a qualche celebrazione sacramentale come l'eucaristia; essa non si identifica né in formule né in sacramenti, ma è una preghiera che si radica nella vita e fa sì che il proprio vivere diventi preghiera. In tal senso Paolo esorta i Corinti: "Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio" (1Cor 10,31). Tale modo di vivere trova la sua giustificazione e il suo sostentamento proprio nella sacerdotalità di cui ogni credente, in virtù del battesimo e della cresima, è rivestito (2,5.9; Rm 12,1; Es 19,5-6). La finalità prima di ogni sacerdote è "offrire sacrifici spirituali a Dio graditi" (2,5). Che cosa questi siano, ci viene precisato da Paolo: "Vi esorto dunque fratelli per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale." (Rm 12,1). L'offerta quotidiana della nostra vita a Dio è atto di culto e, pertanto, preghiera per eccellenza che trasforma la nostra vita in una solenne liturgia di lode e ringraziamento a Dio.

 

Posta in questo contesto allora la preghiera diventa offerta e pertanto orientamento della nostra vita a Dio, nel quale e al quale viene consacrata.

 

I vv.8-9 sollecitano i credenti a conservare una grande carità. Il greco conosce tre termini per indicare l'amore: eros, che dice l'amore sensuale; filìa, che indica l'affetto amichevole, il rapporto di amicizia; e, infine, agapé, che parla di amore spirituale o comunque qualitativamente superiore, con cui nella chiesa si indicava l'amore di Dio verso gli uomini e l'amore tra i cristiani. Nel nostro caso il termine usato è agapé. L'amore, dunque, di cui qui si parla non è un semplice rapporto di reciproca affettuosità e rispetto, ma delinea un rapporto che si aggancia a quello che Dio tiene nei confronti degli uomini e che si è espresso nel dono totale e unico del proprio Figlio a loro (Gv 3,16). Ciò che deve qualificare, pertanto, i rapporti all'interno della comunità è quell'amore, dai tratti divini, che dice totale apertura verso l'altro, totale donazione di sé all'altro, totale accoglienza dell'altro in sé.

 

Vivere questo tipo di amore significa rendere presente, sacramentalizzare Dio in mezzo alla comunità, cosicché all'interno di essa defluisce e scorre l'amore di Dio stesso, che pone in tal modo la comunità nel suo stesso ciclo vitale, facendola sacramento vivente di sé in mezzo agli uomini. Questa agapé è dunque un qualcosa di prezioso, perché dice la presenza di Dio che qualifica il vivere della comunità cristiana. Per questo l'autore di Prima Pietro sollecita a "conservare" questa carità, che diventa il segno distintivo e identificativo proprio del vivere cristiano: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35).

Ma è proprio perché il vivere caritatevolmente significa far fluire nella propria vita la vita stessa di Dio (condividendola con Lui e facendola scorrere vitalmente all'interno della comunità), che questo colloca il credente nel ciclo vitale di Dio stesso, bruciando la povertà e il degrado del peccato, che per sua natura è l'esatto opposto del vivere in Dio.

 

Questo concetto doveva essere molto radicato nella chiesa primitiva se, al tempo in cui non esisteva ancora la confessione così come oggi la conosciamo noi[21], si considerava il compiere atti di carità uno strumento certo di perdono dei propri peccati.

 

Ma l'amore deve trovare anche espressioni concrete all'interno della comunità. Ecco, pertanto, la conseguenza: "Praticate l'ospitalità gli uni verso gli altri". Che cosa indicasse questo praticare l'ospitalità non ci è dato di sapere, ma molto probabilmente esso si riferiva a due aspetti ricorrenti: l'ospitalità nell'accogliere il credente di passaggio, proveniente da un'altra comunità, e l'ospitare nella propria casa le celebrazioni cultuali sacre[22].

 

I vv.10-11 ci introducono in un aspetto particolare di queste comunità primitive. Già verso la fine del primo secolo molte comunità erano istituzionalizzate, avevano cioè una loro propria gerarchia costituita da un vescovo, da presbiteri e da diaconi, anche se le funzioni di queste figure erano ancora ben lontane da quelle che conosciamo noi oggi e non sempre ben definite. Ma molte altre comunità, in particolar modo quelle paoline (e qui l'autore di questa lettera si sta rivolgendo proprio ad esse), erano di tipo carismatico, cioè si basavano sui doni spirituali che le persone scoprivano in sé e che mettevano a disposizione della comunità. Erano, pertanto, comunità scarsamente strutturate, coordinate da un gruppo di anziani, ma molto vivaci ed attive, in cui tutti i componenti erano personalmente e responsabilmente impegnati nella vita della comunità[23].

 

Entro questa cornice, l'autore di Prima Pietro sollecita ogni membro della comunità a vivere secondo la grazia ricevuta. La grazia ricevuta sono i doni propri dello Spirito, di cui ogni credente era rivestito. Questi doni erano chiamati carismi, dal greco caris, che significa grazia. Il vivere questi doni in seno alla comunità mettendoli a sua disposizione significava diventare sacramenti viventi di Dio in mezzo alla comunità stessa; come dire che era Dio stesso, per mezzo loro, che conduceva e sosteneva la sua chiesa. Pertanto, questi credenti avevano nelle loro mani un patrimonio che non apparteneva a loro, ma a Dio e, per loro tramite, alla comunità. Per questo Pietro li definisce "amministratori di una multiforme grazia di Dio".

 

Posti in questo contesto, ciascuno di noi, dotato del dono dello Spirito e di attitudini proprie, è chiamato a gestire i beni spirituali che ha scoperto in sé, a favore dell'intera comunità, prima tra tutte la propria famiglia, estendendoli poi all'intera comunità cristiana di cui è membro. Nessuno può dire suo ciò che ha, ma tutto deve essere posto a servizio della comunità e con essa condiviso (At 2,42-47; 4,32-35), secondo l'ispirazione e le inclinazioni proprie, sapendo che Dio, per realizzare il suo progetto di salvezza e raggiungere tutti gli uomini, ha bisogni di ciascuno di noi. Noi infatti facciamo parte di una rete infinita attraverso la quale si muove segretamente e impercettibilmente il progetto salvifico di Dio per abbracciare ogni uomo. Ognuno di noi, grazie al battesimo e alla cresima, è stato abilitato ad essere mediatore tra Dio e gli uomini, annunciatore con la propria vita della sua Parola, mettendosi al servizio di Dio e degli uomini, secondo la vocazione personale e il posto che la vita gli ha assegnato.

 

Questo impegno esistenziale speso per la comunità e l'umanità ha come meta finale quella di glorificare Dio. Come dire che il nostro impegno esistenziale, speso a favore degli altri, anche nell'umiltà del silenzio e del nascondimento, diventa un vero e proprio atto di culto e fa della nostra vita una liturgia di lode a Dio gradita. E che così sia ce lo ricorda anche la breve dossologia (rendimento di lode e gloria a Dio) con cui si chiude questa prima parte del cap.4: "... perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!" (4,11b)

 

Con i vv. 4,12-16 viene ripreso e approfondito il tema della sofferenza ingiustamente patita per l'impegno nel bene in nome di Cristo, già trattato in 3,13-18. In questi ultimi versetti (3,13-18) in particolare:

 

·   si evidenziava lo stato di beatitudine di chi era chiamato a testimoniare Cristo nella sofferenza (3,14a);

 

·   si invitava il credente a non aver paura e a non turbarsi nei confronti dei persecutori (3,14b);

 

·   santificando Cristo nei propri cuori per mezzo della testimonianza data per mezzo della sofferenza (3,15a)

 

·   ma a dare, con fermezza, testimonianza della speranza che il credente porta dentro di sé: le nuove realtà inaugurate dal Cristo morto-risorto (3,15b);

 

·   concludendo che era meglio soffrire per il bene che si faceva, piuttosto che per il male (3,17).

 

·   Il tutto trovava la sua giustificazione e la sua ricomposizione nel Cristo anch'egli sofferente per i nostri peccati, messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito (3,18), lasciando intendere con quel "Anche Cristo" come il credente fosse a lui assimilato nell'ingiusta sofferenza redentiva.

 

Vediamo, ora, come questi versetti (3,13-18) siano ripresi, meglio esplicitati e completati con 4,12-16, creando un sorta di parallelismo, che integra e approfondisce in sé i vv. 3,13-18:

 

·   L'invito al credente a non temere i propri persecutori (3,14b) si traduce, in 4,12, in un'esortazione a non rimanere sorpresi per la persecuzione di cui è vittima, come se ciò fosse una cosa strana;

 

·   lo stato di beatitudine di chi era chiamato alla sofferenza per Cristo, appena accennato da quel "beati voi!" in 3,14a, si traduce qui in una vera e propria esaltazione del credente, quasi una sorta di sua apoteosi, a cui viene dedicato un intero versetto, che richiama da vicino Mt 5,11: "Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria  e lo Spirito di Dio riposa su di voi" (4,14);

 

·   la giustificazione e la ricomposizione in Cristo sofferente di questa ingiusta sofferenza patita dal credente per Cristo stesso, appena sottointesa in 3,18 dall'espressione "Anche Cristo", diventano qui in 4,13 un esplicito parametro di raffronto e di misura: "Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare" (4,13);

 

·   la riflessione che era meglio soffrire per il bene piuttosto che per il male, accennata in 3,17, viene ora meglio esplicitata nei vv. 4,15-16a: "Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non arrossisca;". Si noti l'inversione a chiasmo: in 3,17 si parla di bene e male. Qui, in 4,15-16a, le posizioni sono invertite: si parte dalla giusta sofferenza patita da chi compie il male per arrivare all'ingiusta sofferenza per chi porta il nome di cristiano.

 

·   In 3,15a si esorta il credente a santificare Cristo nel proprio cuore attraverso la testimonianza data per mezzo della sofferenza; qui, in 4,16b si parla di glorificare Dio per questo nome, quello di cristiano. Quindi la santificazione si trasforma qui in glorificazione, cioè in un vero e proprio atto di culto spirituale che il credente compie nel sopportare le sofferenze, che in 4,13 non sono più colte come una semplice assimilazione a quelle di Cristo, ma come una vera e propria partecipazione a quelle di Cristo. La differenza tra assimilazione e partecipazione è sostanziale. L'essere assimilati a Cristo nelle proprie sofferenze significa soltanto che le nostre sofferenze ci ricongiungono a Cristo sofferente e Cristo qui diventa soltanto un parametro di confronto su cui commisuriamo le nostre sofferenze. Partecipare alle sofferenze di Cristo, invece, significa che non esistono due tipi di sofferenza, la nostra e quella di Cristo, bensì esistono soltanto le sofferenze di Cristo che noi condividiamo. In altri termini, quando il credente soffre ingiustamente per il suo nome di cristiano è Cristo stesso che vive in lui le proprie sofferenze, così che il cristiano ingiustamente sofferente diventa sacramento vivente del Cristo sofferente. Quindi non è più lui, il cristiano che soffre, ma Cristo che soffre in lui. E ciò ci riconduce ancora una volta a Paolo: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).

 

I vv. 17-18 chiudono il cap. 4 e si aprono con un aggancio al v. 4,7 e lo completano, chiudendo definitivamente il tema della sofferenza quale segno dei tempi escatologici in cui si pone il giudizio divino sugli uomini; per cui si avrà: "La fine di tutte le cose è vicina (v.7) ..... E' giunto infatti il momento in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio" (v.17a).

 

Abbiamo visto sopra come le sofferenze generalizzate sono un segno che preannuncia l'imminente fine dei tempi. Esse hanno la duplice finalità di distruggere il male e di purificare l'umanità che da esso è infetta, predisponendola a ricevere più degnamente il Signore che viene. Esse esprimono, inoltre, il giudizio di Dio che era incominciato con la venuta di Gesù, che sarà, lui per primo, provato con la sofferenza.

 

Questo aspetto della sofferenza come giudizio iniziato con Gesù viene espresso dallo stesso Giovanni Battista: "Egli (Gesù) vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile" (Mt 3,11b-12). Vediamo come Gesù è venuto a compiere un doppio battesimo, quello con lo Spirito, santificando quindi i credenti e ricollocandoli in seno a Dio; e quello con il fuoco purificatore, cioè per mezzo della prova del dolore e della sofferenza, che proviene dalla persecuzione e che si riverserà sui suoi discepoli (1Pt 1,6-7). Infatti, "pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nei granai". Ma la sofferenza, che proviene dalla persecuzione, espressa dal verbo bruciare, si tradurrà in una condanna per coloro che l'hanno provocata (1Pt 2,7-8; 3,16; 4,5.17-18). Infatti, "brucerà la pula con un fuoco inestinguibile".

 

Ecco, quindi, la conclusione del v.4,19: "Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del Creatore fedele e continuino a fare il bene" (4,19). Il testo greco più significativamente dice: "Così anche coloro che soffrono secondo la volontà di Dio, offrano le loro anime al Creatore fedele nel fare il bene (lett. in un'opera buona)".

 

In questa Prima Lettera di Pietro si è parlato del credente come di colui che è rivestito di "un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali a Dio graditi" (2,5b), ma anche come di colui che è chiamato a partecipare alle sofferenze di Cristo (4,13).

 

Queste due espressioni ricollegano direttamente il credente a Cristo sofferente sulla croce, vittima innocente e sacerdote, che offre se stesso al Padre sull'altare della croce (Eb 9,11-14), nel supremo atto di compimento della sua volontà (Lc 22,42). Proprio qui, sulla croce, Gesù affiderà nelle mani del Padre il proprio spirito (Sal 31,6; Lc 23,46).

 

Così anche il credente, proprio nella sua sofferenza nel compiere il bene, diventa partecipe dell'unico sacerdozio di Cristo che condivide con lui e che si è espresso in modo eminente proprio sulla croce, nella suprema offerta di se stesso al Padre, testimoniando nella morte di croce la sua totale sottomissione obbediente e redentrice al Padre (Fil 2,8).

 

Il soffrire secondo la volontà del Padre non deve far pensare ad un Padre sadico, che gode nel far soffrire i propri figli, bensì dice il conformarsi del credente al progetto salvifico del Padre, che prevede la morte della vecchia creazione adamitica e la rigenerazione di cieli nuovi e terra nuova. Ed è proprio da questo partorire la nuova creazione (espresso eminentemente nel fare il bene) che si produce la sofferenza (Rm 8,22-23). Ma essa è una sofferenza per la vita, poiché ogni vita che nasce, nasce nelle sofferenze della madre e nelle attese, non sempre gioiose e spensierate, del padre.

 

Questa sofferenza nel fare il bene, che dice il compiersi lento e graduale dei cieli nuovi e della terra nuova, in virtù del nostro sacerdozio, diventa offerta redentiva e rigenerativa al Padre, che qui, con espressione unica in tutto il N.T., viene definito come Creatore fedele, rimandandoci al primo capitolo della Genesi: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1,). In principio Dio, da cui tutto discende e da cui ogni vita prende forma. Ebbene, queste sofferenze, quale sacrificio offerto a Dio, Padre Creatore, diventano la forza rigenerante del Bene, da cui sgorga la nuova creazione e di cui i nuovi credenti sono le primizie, testimoni dei cieli nuovi e della terra nuova, inaugurati dal Cristo morto-risorto.

 

Questo Padre Creatore è definito con l'attributo di "fedele". La fedeltà di Dio ci rimanda al suo progetto salvifico primordiale, quando ancora "In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà" (Ef 1,4-6a).

 

C'è in tutto ciò un progetto salvifico che si sta fedelmente attuando in noi, nell'umanità e nel cosmo intero, e di cui noi facciamo parte e in cui prendono senso anche le nostre sofferenze. Esse annunciano che un nuovo mondo sta per nascere e che certamente nascerà, proprio in virtù della fedeltà del Creatore fedele.

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

 

5, 1-14

 

 

 

Premessa

 

 

Con il cap.5 si chiude la lettera di Pietro alle comunità sparse nell'Asia minore.

 

L'intero tono dello scritto è squisitamente esortativo (5,12) e si muove su di uno schema di fondo di morte-risurrezione, sofferenza-gloria, sottomissione-esaltazione, che permea l'intero scritto in profondità ed è posto in un contesto escatologico ed apocalittico.

 

La lettera ha come punto di riferimento fondamentale il Cristo morto e risorto, con cui il credente è chiamato a commisurarsi e a scoprire nel suo vivere quotidiano l'attuarsi di questa morte-risurrezione. Non a caso l'autore pone in questa sua ampia esortazione ben quattro inni cristologici, che fungono da parametro di raffronto del vivere cristiano e ne forniscono la chiave di lettura. In tal modo questo vivere diventa essere essenzialmente cristologico, cioè permeato dello stesso sentire di Cristo ("anche voi armatevi degli stessi sentimenti"- v.4,1); e cristocentrico, cioè al centro di tutta la vita cristiana ci deve stare sempre e unicamente Cristo, quale punto di riferimento costante del proprio vivere a cui rapportarsi sempre nelle proprie scelte e decisioni.

 

Si conclude, quindi, con il cap.5 il ciclo delle esortazioni rivolte dapprima a tutti, in senso generale (1,1.14; 2,13; 3,8), poi più dettagliatamente ai domestici (2,18), alle mogli e mariti (3,1.8) e, infine, agli anziani (5,1) e ai giovani (5,5a), per poi ricomprendere nuovamente l'intera comunità (5,5b).

 

 

Introduzione

 

 

Lo schema di questo ultimo capitolo è del tutto lineare e si snoda su sei punti:

 

·   Esortazione agli anziani (5,1-4), in cui primeggia la figura di Pietro, che si definisce "compresbitero" (in greco: simpresbiteros), sottolineando in tal modo il comune incarico e la sua comunione con loro;

 

·   Esortazione ai giovani (5,5);

 

·   Ultime raccomandazioni a tutti i credenti (5,8-10);

 

·   Una breve dossologia, che conclude questa terza sezione esortativa della lettera[24] (5,11);

 

·   La duplice motivazione dello scritto: esortazione e testimonianza certa e sicura, che possiede la natura di una vera e propria attestazione delle realtà cristiane in cui loro, i credenti, sono coinvolti (5,12);

 

·   I saluti finali che provengono dalla comunità di Roma e da Marco a loro, "i fedeli dispersi" (1,1) nell'Asia minore; e un invito a questi a salutarsi reciprocamente con il "bacio della carità", espressione della loro comunione in Cristo. (5,13-14).

 

Torna qui il tema pressante dell'obbedienza e della sottomissione, che permea l'intero scritto e che ha il suo esempio in Cristo. La sottomissione, svelando qui la sua vera natura, diventa un sottoporsi umile ed obbediente a Dio, fino a diventare una totale remissione di se stessi nelle sue mani misericordiose e amorevoli (5,7). A fronte di tale annientamento del credente in Dio si preannuncia la sua esaltazione finale (5,6b). Anche qui si ripete lo schema fondamentale dell'umiliazione-esaltazione, che ha le sue radici più profonde e più vere nella morte-risurrezione. Questo binomio, morte-risurrezione, ci richiama da vicino l'inno cristologico della lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11), che si sviluppa in due tempi: a) l'annientamento di Dio nel suo Figlio, che dopo aver rinunciato allo splendore della sua gloria incarnandosi, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce (2,6-8); b) tale abbassamento, che trova il suo punto culminante nella morte di croce, è fatto seguire dall'esaltazione e dalla glorificazione di Cristo: "Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi  nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre " (2,9-11).

 

In quel "Siate temperanti e vigilate" (5,8a) viene ripreso il tema della vigilanza, già trattato in 1,13, e quello della sobrietà e moderazione in 4,7. Compare qui, tuttavia, un nuovo elemento: il diavolo, che "si aggira cercando chi divorare" (5,8b). Dietro le persecuzioni e le sofferenze inflitte ai credenti ci sta, dunque, il diavolo, che cerca di abbattere l'opera di Cristo, come viene definito il credente (1,21). La lettura è chiaramente di tipo escatologico e apocalittico (non va dimenticato infatti il forte richiamo del v.4,7: "La fine di tutte le cose è vicina"). La lotta qui infatti non è più tra il credente e i pagani che non credono, ma tra Dio e satana, che ci richiama da vicino il cap.12 dell'Apocalisse.

 

Analisi e commento di  5,1-14

 

I primi quattro versetti riportano l'esortazione agli anziani, che formavano il gruppo dirigente delle singole comunità, le quali, come abbiamo visto nel commentare i vv. 4,10-11, dovevano essere di tipo carismatico. Comunità, quindi, scarsamente istituzionalizzate e basate prevalentemente sui carismi propri dei loro componenti. Il compito infatti di questi anziani non è dirigere le comunità, prevaricandole, ma sorvegliare senza spadroneggiare (5,3).

 

Il tema dei quattro versetti ruota tutto attorno alla figura di Pietro, che si definisce "compresbitero, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della sua gloria, che deve manifestarsi" (5,1). Innanzitutto Pietro si definisce compresbitero, cioè presbitero insieme a loro, sottolineando così, da un lato, la profonda unità e comunione spirituale con questi anziani; dall'altro, evidenziando la condivisione della stessa sorte e dello stesso incarico in Cristo.

 

Più complesso si fa il discorso su quanto segue. Da un lato Pietro si definisce testimone delle sofferenze di Cristo; dall'altro si dice partecipe della sua gloria. Va subito rilevato come, anche qui, torni lo schema sofferenza-glorificazione, che ha la sua radice più profonda e viva nella morte-risurrezione di Cristo. Questa si riproduce non solo nell'esistenza di Pietro (5,1), ma, come in lui, deve riprodursi anche negli anziani, con i quali Pietro è vitalmente unito in Cristo oltre che per il comune incarico (compresbitero). I vv. 5,2-4 diranno come questa morte-risurrezione dovrà attuarsi negli anziani. Tutto, ancora una volta, verte attorno a Cristo morto-risorto, posto al centro del vivere cristiano e su cui ogni vita credente viene riparametrata e confrontata.

 

Un'attenzione particolare va rivolta, a mio avviso, all'espressione "testimone delle sofferenze di Cristo". La prima interpretazione, la più appariscente e logica, sembrerebbe essere quella che Pietro, come ci viene raccontato dai vangeli della passione, sia stato testimone della passione e morte di Gesù assieme agli altri discepoli. Ma due elementi ci fanno pensare che questa espressione non debba intendersi necessariamente ed esclusivamente in tal senso. Qui si parla infatti delle sofferenze di Cristo in senso lato e non della passione e morte di Gesù, come sarebbe stato più opportuno facendo riferimento ad avvenimenti storici. Inoltre, queste sofferenze sono di Cristo e non di Gesù. Se Pietro facesse riferimento effettivamente alla sua esperienza diretta, di chi ha seguito Gesù fino al Calvario, quindi con riferimento a fatti storici, di cui egli è stato testimone diretto, l'avrebbe chiamato Gesù e non Cristo. Un appellativo questo che nella chiesa primitiva viene normalmente attribuito al Gesù risorto, adorato ormai come Dio. Parlando, quindi, di sofferenze di Cristo l'eco della passione e morte di Gesù sembra un fatto storico ormai lontano, confluito da tempo nella comune riflessione teologica.

 

Perché allora qui si parla di testimone? Come va inteso tale termine? Essere testimone delle sofferenze di Cristo, pertanto, va inteso, a mio avviso, come il rendere testimonianza nella propria vita e con la propria vita delle sofferenze di Cristo. In altri termini, le sofferenze che comportava l'essere credente e responsabile di comunità , venivano lette e sentite come un essere associato alle sofferenze e alla missione stessa di Cristo (4,13). Pertanto la vita di queste persone diventava testimonianza delle stesse sofferenze di Cristo.

 

Questa interpretazione, poi, sembra accordarsi bene con quanto segue immediatamente: "e partecipe della gloria che deve manifestarsi". La gloria di cui si parla qui è quella di Cristo che sta ormai per venire, considerato che "La fine di tutte le cose è vicina" (4,7a). L'autore, infatti, si dichiara partecipe della gloria di Cristo proprio perché è nella sua vita e con la sua vita testimone delle sofferenze di Cristo. In altri termini si rientra nelle logiche dell'intera lettera (4,13; 5,4) e della teologia paolina (Rm 6,4-11): soltanto se uniamo la nostra vita a Cristo, lasciandoci assimilare alle sue sofferenze e alla sua morte, avremo anche la garanzia di essere associati alla sua risurrezione.

Se, invece, si intendesse "testimone delle sofferenze di Cristo" in senso storico, non si capirebbe più bene come ciò possa essere anche garanzia di partecipazione alla sua gloria, considerato che molti furono i testimoni storici della passione e morte di Gesù, ma non tutti furono anche associati alla sua risurrezione.

 

Questi due parametri, del resto, "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria", formeranno il punto di riferimento dell'esortazione agli anziani: come l'autore della Lettera, che si definisce compresbitero e, quindi, strettamente unito a loro, è associato alle sofferenze di Cristo, di cui la sua vita è testimonianza, e conseguentemente alla sua gloria, così anche gli anziani lo saranno alle condizioni che vengono descritte nei vv. 5,2-4.

 

I vv. 5,2-3 formano l'oggetto dell'esortazione agli anziani: "pascete il gregge di Dio, che vi è affidato, sorvegliandolo". Il testo greco, più significativamente, dice: "Pascete il gregge di Dio, che è tra voi, sorvegliando".

 

Innanzitutto l'attenzione va posta su quel "pascete", che ci richiama da vicino (e chi ha scritto la lettera ne doveva essere in qualche modo al corrente, se abilmente ha associato la figura di Pietro, compresbitero, al verbo pascere) il vangelo di Giovanni, in cui il Gesù risorto per tre volte chiede a Pietro se lo ama e per tre volte lo sollecita a pascere le sue pecorelle (Gv 21,15-17).

Quel pascete, dunque, aggancia la funzione di quegli anziani alla missione propria di Cristo (Gv 10,1-21), che vive in loro con le sue sofferenze e con la certezza di essere associati anche alla sua gloria. Il servizio che quegli anziani svolgono nei confronti della comunità, pertanto, è un vero e proprio ministero suppletivo di Cristo, fattosi servo per gli uomini; o se vogliamo, è Cristo stesso che continua la sua missione in loro e per mezzo loro.

 

Il gregge che i presbiteri, responsabili della comunità, devono pascere, cioè servire in nome e per conto di Cristo, è "il gregge di Dio". L'espressione "di Dio" dice appartenenza. Il gregge, pertanto, non è proprietà degli anziani, ma di Dio. Ciò definisce la loro posizione sia davanti al gregge che davanti a Dio. Davanti al gregge essi si configurano come ministri del Cristo, che operano in suo nome e per suo conto e ciò giustifica la successiva esortazione rivolta ai giovani: siate sottomessi agli anziani (5,5a); davanti a Dio essi sono amministratori e responsabili di quei beni che Cristo non si è acquistato con oro e argento, ma con il suo sangue prezioso (1,18-19). In questa duplice veste essi sono chiamati a pascere il gregge di Dio.

 

Il rapporto che intercorre tra gli anziani e il gregge viene mirabilmente definito con un gioco di parole dall'autore della Lettera. Infatti al v. 5,1 si dice "Esorto gli anziani che sono tra voi (in greco en  imin)"; similmente al v. 5,2 si esorta "pascete il gregge di Dio, che è in mezzo a voi (in greco en imin). Pertanto gregge e anziani si ritrovano tutti reciprocamente compenetrati in quel unico en imin, cioè essi sono posti in stretta e profonda comunione tra loro.

 

Ma che cosa significa pascere il gregge? La risposta è data dal verbo che segue immediatamente: "sorvegliando". La funzione primaria degli anziani, pertanto, si espleta nel pascere, cioè nel sorvegliare. Il verbo greco usato per dire sorvegliare è episcopuntes, al participio presente, che indica una costanza e una persistenza di questa azione nei confronti del gregge. Ciò dice tutto l'impegno e tutta l'attenzione che questi anziani devono mettere nella loro missione.

 

Precisato che il pascere significa espletare una perseverante e attenta sorveglianza nei confronti del gregge appartenente a Dio e verso cui si attua la missione stessa di Cristo, nel cui nome questi ministri operano, vengono ora precisate le modalità con cui questo servizio di sorveglianza deve essere amministrato.

 

Lo schema letterario adottato è quello efficace della contrapposizione di comportamenti, evidenziata dal porre a confronto e accanto l'una all'altra espressioni al negativo e al positivo, in cui è ulteriormente accentuata l'opposizione dalla congiunzione avversativa "ma": "non così, ma  così". Un gioco di chiaroscuri, per meglio sottolineare il giusto comportamento da tenere, stigmatizzando invece quello negativo.

 

I comportamenti negativi qui denunciati dovevano essere quelli propri che in qualche modo colpivano comunemente questi responsabili di comunità nello svolgimento dei loro compiti:

  

·   non per forza;

·   non per vile interesse;

·   non spadroneggiando;

 

·         ma

 

·   volentieri secondo Dio;

·   di buon animo;

·   facendovi modelli del gregge.

 

Se si nota attentamente vi è un confronto tra comportamenti negativi e positivi, tra comportamenti egoistici e altruistici, che trovano la loro barriera di inconciliabilità in quel "ma" che non solo li divide, contrapponendoli tra loro, ma li rende anche incompatibili e irriducibili l'uno all'altro. Lo schema che li sottende e in cui si radicano è sempre quello unico e costante del Cristo morto-risorto, a cui tutto direttamente o indirettamente viene rapportato e su cui tutto viene commisurato e riparametrato. Al centro di tutto, dunque, ci sta sempre e unicamente il Cristo morto-risorto.

 

Gli anziani, pertanto, sono esortati a compiere un passaggio radicale dalla morte alla vita, da una visione egoistica e utilitaristica della missione a cui sono chiamati, ad una in cui essi, sull'esempio di Cristo morto-risorto, devono tradurre invece le loro vite in pane che si spezza per tutti.

Il v. 5,4 parla delle conseguenze di questo passaggio radicale, da cui traluce quello di Cristo morto-risorto: "E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce." In altri termini "nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare" (4,13). Ed è proprio a quest'ultimo versetto, 4,13, che è agganciata l'intera esortazione agli anziani per mezzo della congiunzione iniziale con cui comincia il cap.5: "Pertanto" (in greco "un"), che è stata invece saltata nella traduzione C.E.I.

 

Si noti come nel discorso rivolto agli anziani, responsabili delle loro comunità, chiamati a pascerle, non si parli più di Cristo, ma di "pastore supremo", quasi a dire che la loro missione è l'esplicitazione concreta, il proseguimento di quella di Cristo, buon pastore, che offre la sua vita per le pecore (Gv 10,11). La corona, quale riconoscimento e simbolo del servizio pastorale reso, sarà la condivisione della stessa gloria del pastore supremo a cui hanno messo a disposizione le proprie vite in funzione del suo gregge. Quindi la fedele condivisione dell'azione pastorale di Cristo comporta anche la condivisione della sua gloria. Questa corona è definita come "corona della gloria che non appassisce", in contrapposizione, ancora una volta, a quella gloria che loro, sbagliando, invece, ricercavano, approfittando della loro posizione di preminenza nella comunità.

 

Il v.5,5a si apre con un'esortazione rivolta, ora, ai giovani (gr. neoteroi) ad essere sottomessi agli anziani (gr. presbiteroi). Anziani e giovani, due realtà contrapposte nell'ambito della stessa comunità, sia per l'età che per i diversi ruoli che in essa ciascuna delle due categorie ricopriva. Ma questa contrapposizione, indicata nei nomi, anziani-giovani, in realtà è solo apparente, in quanto essa si ricompone ordinatamente nell'invito, da un lato, alla sottomissione agli anziani, e dall'altro a "rivestirsi tutti di umiltà gli uni verso gli altri" (5,5b).

 

Del resto, già abbiamo visto negli incontri precedenti (2,13.18; 3,1.7-8) come la sottomissione non è mai una umiliazione che degrada la persona, ma è una libera scelta di mettersi a disposizione dell'altro, accogliendolo in sé. In tal modo la sottomissione diventa un libero servizio di redenzione in favore dell'altro (3,1), compiuto in nome di Cristo servo sofferente del Padre (2,21-25), nella cui affermazione si trova anche il compimento della propria.

 

Al dettagliato elenco delle sottomissioni stilato dall'autore di Prima Pietro (sottomissione alle istituzioni umane, ai padroni, delle mogli nei confronti dei mariti) si aggiunge infine anche quello dei giovani nei confronti degli anziani, che chiude l'elenco.

 

L'avverbio ugualmente (gr omoios), con cui si apre il v. 5,5°, funge da rimando e da collegamento a 3,1 (Ugualmente voi mogli) e a 3,7 (Ugualmente voi mariti).  Marito e moglie sono qui visti  come i componenti fondamentali di quella comunità di base, che è la famiglia.

 

Parimenti, in 5,1 e in 5,5°, giovani e anziani sono colti come i due componenti, sembra fondamentali, della comunità ecclesiale. Che cosa significa, pertanto, neoteroi (giovani) associati ai presbiteroi (anziani) e a loro legati da un vincolo di subordinazione? In neoteroi viene indicata soltanto una differenza di età o viene sottointeso anche un ruolo di servizio all'interno della comunità stessa in collaborazione con gli anziani? Di fatto non ci è dato di saperlo. Tuttavia, da una rapida scorsa del N.T. vediamo come il termine, che compare 12 volte, sia usato prevalentemente per indicare l'età, ma in Lc 22,26 e At 5,6 sembra riferirsi ad un qualche ruolo di servizio all'interno della comunità. Luca in 22,26 dice: "... ma chi è il più grande tra voi diventi come il giovane (neoteros) e chi governa come colui che serve (diaconon)" In queste due espressioni, poste in parallelo tra loro, il giovane è colto ed equiparato a colui che serve. Nella stessa frase in Matteo (20,26) e in Marco (10,43) il termine giovane è sostituito con la parola servo (diaconos, cioè colui che è chiamato a compiere un servizio all'interno della comunità).

Inoltre, in At 5,6 si legge: "Si alzarono allora i giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori". Sembra che qui una delle funzioni riservate ai giovani all'interno della comunità fosse il servizio di sepoltura.

 

L'autore di Prima Pietro, dunque, si rivolge ai giovani (5,5a), che certamente devono essere compresi nel senso dell'età, ma considerata la stretta connessione posta tra le due categorie di persone, tra loro legate da un vincolo di subordinazione ed obbedienza, non è da escludersi che questi giovani siano anche gravati da un qualche incarico all'interno della comunità o comunque legati agli anziani da uno specifico impegno di collaborazione.

 

Torna, dunque, ancora una volta il tema della sottomissione che va colta come la ricomposizione delle varie membra, secondo le loro varie funzioni e compiti, in Cristo, sacramentato nella comunità stessa, corpo del Signore (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12.27; Ef 5,30). La sottomissione reciproca, come apparirà subito nel versetto 5,5b, diventa un forte collante dell'intera comunità, che trova il suo fondamento in Cristo, pietra viva, su cui anche noi, pietre vive, veniamo impiegate per la costruzione solida di un edificio spirituale, che è la Chiesa stessa (1Pt 2,3-5).

 

Il prevalere di persone animate da uno spirito di dominio e di prevaricazione all'interno della comunità crea spaccature, divisioni, contrasti, contrapposizioni, odii, rancori e invidie lacerando il corpo di Cristo, che è la Chiesa, che vive nella comunità (1Cor 1,10-17). Per questo Pietro sollecita, ora, l'intera comunità credente a partire da anziani e giovani, da chi ha un incarico all'interno della comunità: "Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri" (5,5b). E' interessante notare il verbo greco tradotto con rivestitevi, "encombòsaste", che letteralmente significa "mi allaccio intorno ai fianchi", mentre il suo sostantivo "encomboma" significa "grembiule da schiavi". Quel rivestitevi, dunque, assume un significato del tutto particolare e molto intenso. Non si tratta di un semplice richiamo all'umiltà, ma di un invito ad allacciare attorno ai propri fianchi il grembiule del servizio, riservato agli schiavi, che ci richiama da vicino Gv 13,4-5: "... si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse intorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto". Qui l'evangelista ci presenta il Dio, che dopo aver spogliato se stesso della propria gloria, assumendo la condizione di servo (Fil 2,7), si inginocchia davanti alla sua creatura per purificarla dalla sua colpa, facendoci capire il senso più profondo e più vero della sua missione: un servizio di redenzione speso a favore dell'uomo. Un gesto, che posto a poche ore dalla sua passione e morte, suona come una eredità spirituale lasciata a tutti i suoi discepoli: "Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi" (Gv 13,15).

 

Ecco, dunque, che il "rivestitevi tutti di umiltà" parla innanzitutto di servizio, anzi, di profondo atteggiamento di reciproco servizio all'interno della comunità e in mezzo agli uomini, sull'esempio di Cristo. E così ancora una volta Cristo diventa il parametro su cui il credente e l'intera comunità sono chiamati a commisurarsi e a confrontarsi.

 

Nel testo greco l'accento cade su quel "tutti" (gr. pantes) con cui si apre la seconda parte del v.5,5 ed è seguito immediatamente dal termine greco allelois, gli uni verso gli altri, per sottolineare come questo tutti, cioè l'intera comunità, debba al proprio interno tenere comportamenti e rapporti di reciproca disponibilità e di servizio. Ma chi sono quei "tutti"? Certamente l'intera comunità a cui Pietro si rivolge, lo lasciano intendere i vv.5,6-7. Ma ritengo che in quel “tutti” siano ravvisati in particolar modo coloro che all'interno della comunità hanno degli incarichi. Lo si arguisce sia dal contenuto delle esortazioni rivolte agli anziani e ai giovani, sia dal fatto che questo tutti è posto immediatamente accanto a queste figure, chiamate a compiere un servizio alla comunità.

 

L'esortazione a rivestirsi di umiltà in un reciproco atteggiamento di servizio viene subito motivato teologicamente: "perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili", che richiama da vicino l'inno del Magnificat, che Luca mette sulle labbra di Maria: "... Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili" (Lc1,51-52). Sono parole queste che racchiudono in sé una costante teologia della salvezza che percorre tutto l'A.T. e che trovano la loro espressione negli anawim, cioè nei poveri di Jhwh, che ripongono in Dio tutta la loro fiducia. Per questi Gesù è venuto e lo dichiara ai discepoli di Giovanni che gli chiedono se è lui il messia: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella ..." (Mt 11,5); mentre Luca, riportando le parole di Is 61,1-2, vede in Gesù colui che è stato mandato "... per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi" (Lc 4,18). Gesù, infine, ringrazia e benedice il Padre "perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt 11,25).

 

Il reciproco atteggiamento di sottomissione e di umiltà trova, dunque, la sua ragione d'essere proprio nella logica propria della storia della salvezza, che si radica nella sovranità stessa di Dio su tutte le cose. Costruire, quindi, una storia personale e comunitaria fondata sull'umiltà e sulla sottomissione significa da un lato inserirsi nel flusso proprio della storia della salvezza e dall'altro ricondurre la stessa a Dio, preparandone la sovranità, che sarà manifesta negli ultimi tempi (1Cor 15,23-28).

 

Ecco, dunque, l'esortazione conclusiva: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno" (5,6). Espressione questa che delinea il movimento di umiliazione ed esaltazione a cui Cristo si è assoggettato per primo (Fil 2,6-11) e in cui è racchiusa la stessa logica della redenzione. Conseguentemente questa logica di sottomissione trova la sua concreta attuazione nell'abbandono fiducioso del credente al Padre: "gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi" (5,7).

 

Ancora una volta, pertanto, Pietro, richiamandosi anche a 4,19, aggancia il vivere cristiano al mistero del Cristo morto-risorto, che nell'estremo gesto di sottomissione al Padre, la morte di croce, si rimette fiduciosamente nelle sue mani (Lc 22,42; 23,46).

 

Termina con questi versetti il grande tema dell'obbedienza e della sottomissione sofferente (iniziatosi già in qualche modo in 1,14 con l'espressione "Come figli obbedienti") che il credente è chiamato a vivere in vario modo nelle diverse circostanze della propria vita, rendendosi in tal modo partecipe alle quelle di Cristo e nella coscienza che in queste sue sofferenze Cristo vive le proprie, illuminate dalla luce della risurrezione.

 

I vv. 5,8-10 chiudono le esortazioni, che hanno sostanziato l'intera lettera. Essi si aprono in modo significativo con l'ultima esortazione: "Siate temperanti, vigilate", che risente del clima escatologico, apertosi con il v.4,7: "La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera", formando in tal modo una sorta di grande inclusione.

 

Il contesto, dunque, è chiaramente escatologico, da ultimi tempi, in cui le forze avverse, Dio e i suoi fedeli contro satana e i pagani, sono schierate sul campo della storia. I toni sono duri, già lo abbiamo visto in 3,15  "... siate sempre pronti alla difesa" e in 4,1 "anche voi armatevi degli stessi sentimenti", così come in 5,9 "Resistetegli saldi nella fede" dove il verbo greco, antistete, richiama il porsi contro, il controbattere. La battaglia della testimonianza del nome di Cristo inoltre crea sofferenza e morte (4,13-14) Non c'è da illudersi, quindi, poiché "Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro, cercando chi divorare". La citazione diretta del diavolo in questo contesto, fuori da ogni metafora, dice che cosa sta sotto alle persecuzioni e alle sofferenze patite dai credenti: non si tratta di una lotta ideologica tra credenti e non credenti, ma sotto a questa si sta giocando la battaglia finale tra Dio e satana, per altro già vinta nella morte-risurrezione di Cristo.

 

In questa grande battaglia escatologica, che si sta combattendo anche nei nostri giorni, sono quattro gli elementi fondamentali che devono caratterizzare il modo di vivere dei credenti: temperanza, vigilanza, saldezza nella fede, ecclesialità.

 

L'esortazione alla temperanza non ci è nuova e ci è stata già presentata sotto forma di moderazione e sobrietà nel v. 4,7, le quali si contrapponevano ad una vita dispersiva descritta in 4,3: "Basta con il tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nella dissolutezza, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli". Temperanza, moderazione e sobrietà devono caratterizzare lo stile di vita del credente in un'epoca che si sta ripaganizzando, dedita tutta al benessere materialistico, che spesso permea, senza che ce ne rendiamo conto, il nostro modo di vivere. Esse costituiscono la salvaguardia dal disperdersi nella quotidianità delle cose,  e ci predispongono a cogliere nel fluire della vita e della storia l'essenzialità del vivere cristiano, Cristo, su cui il credente deve riparametrare la propria vita, ponendolo al suo centro (Rm 12,2), così che la sua vita diventi cristologica, cioè permeata degli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5; 1Pt 4,1), e cristocentrica, cioè al centro di tutto e al di là di tutto ci deve stare solo e unicamente Cristo, punto di riferimento per ogni credente.

 

Ma uno stile di vita simile, soprattutto nel nostro tempo, richiede vigilanza. Il termine greco che la esprime è "gregoresate", cioè "state svegli", come dire non addormentatevi nelle cose della quotidianità, lasciandovi assorbire da esse. Sono temi che hanno sempre animato e sostenuto il cammino della chiesa antica e che si riflettono nella parabola delle dieci vergini stolte e sagge (Mt 25,1-13). Le sagge hanno saputo mantenere viva la lampada della loro fede nell'attesa della venuta del Signore durante il sonno di questa vita terrena; mentre le stolte si sono semplicemente addormentate, dimenticando che lo sposo stava per venire e il senso più vero e profondo della loro presenza in quel corteo nuziale: l’andare verso lo sposo per riceverlo degnamente.

 

Ma la temperanza, la moderazione e la sobrietà, sostenute da un'attenta vigilanza, non possono trovare la giustificazione in se stesse, ma soltanto in una fede convinta, che si radica sulla saldezza della Parola di Dio e in una corretta e sincera vita sacramentale. Infatti soltanto la casa costruita sulla roccia della Parola è in grado di resistere alle tempeste della vita e del mondo (Mt 7,24-27; Lc 6,47-49). La fede, quindi, che è indispensabile conoscenza del mondo di Dio, che ci proviene soltanto dalla Parola e che permea il nostro vivere quotidiano, aprendoci esistenzialmente a Cristo, deve costituire il pilastro centrale del nostro vivere credente, traducendosi in tal modo in una naturale testimonianza delle realtà divine incarnate nella nostra vita.

 

Questo nostro modo di vivere non deve mai prescindere dalla coscienza che anche i nostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse nostre sofferenze del vivere cristiano (5,9). In altri termini, il vivere cristiano non è mai un vivere privatistico la propria fede e la propria testimonianza; ma esso ha una naturale e irrinunciabile dimensione comunitaria e comunionale, cioè ecclesiale. Proprio perché uno è il Cristo, una è la fede che ci qualifica e identifica tutti. Paolo ci ricorda come la nostra comune ecclesialità si fonda proprio su Cristo, che ci ha raccolti in lui per mezzo dell'unica fede e dell'unico battesimo, facendo di tutti noi un'unica cosa in lui: "... poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo" (Gal 3,27-28).

 

La comunitarietà e la comunione del nostro vivere, quindi, ci sono garantite da Cristo, in cui tutti noi siamo una cosa sola con lui, in cui tutti noi viviamo e in cui lui ci vive tutti.

 

Il v. 5,10 chiude in modo stupendo e significativo l'intera lettera riassumendola in sé: "Il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi".

 

Questo versetto è composto da tre parti, che scandiscono in tre tempi successivi l'azione salvifica di Dio:

 

·   Il Dio   di ogni grazia,

 

·   il quale vi ha chiamati  alla (eis) sua gloria eterna   in (enCristo Gesù,

 

·   egli restaurerà, fortificherà, renderà stabili e saldi voi che avete sofferto per un breve tempo.

 

 

Come al principio della creazione Gen 1,1 pone l'immagine di un Dio creatore, che nella creazione si fa dono, così all'inizio del piano salvifico è posto Dio, che viene definito "di ogni grazia". In Lui, dunque, c'è la pienezza di quella vita donante e donata che, rivelatasi nella creazione (Rm 1,20), ha trovato la sua piena attuazione e manifestazione in Cristo, volto storico di questa grazia (Gv 3,16).

 

Questa grazia, questo dono di vita divina, che ha la sua origine in Dio stesso, si è concretizzata in una chiamata. Il verbo chiamare in greco è reso con il participio aoristo di tipo ingressivo (kalesas), che specifica come questa chiamata si pone nei confronti dell'uomo come l'inizio storico di un cammino che ha come sua meta finale quella di collocarlo nella gloria eterna, che dice la piena condivisione e partecipazione dell'uomo alla vita stessa di Dio. La congiunzione greca eis, tradotta con "alla", evidenzia infatti un movimento di moto a luogo, che ha la sua origine in una chiamata e si sviluppa in un dinamismo evolutivo trascendente, che sfocia nella vita stessa di Dio.

 

Tutto ciò avviene e accade "in Cristo Gesù". Quel "in" dice uno stato in luogo, indica quindi lo spazio entro cui avviene questo cammino evolutivo, questo dinamismo di salvezza. Tale spazio è lo stesso Cristo Gesù, che qui viene definito nella sua duplice dimensione umana (Gesù) e divina (Cristo). Questo luogo privilegiato è pertanto il Gesù incarnato-morto-risorto, sintesi e fulcro della stessa azione salvifica del Padre, che viene indicata con quattro verbi posti al futuro, che hanno per oggetto gli stessi credenti, colti nel loro soffrire per Cristo (pazontas): restaurerà, fortificherà, renderà stabili, renderà saldi.

 

Questi verbi al futuro racchiudono in se stessi la speranza cristiana e aprono il cammino dell'uomo, che ha avuto inizio con una chiamata in Cristo, al mondo di Dio. Essi dicono l'azione di Dio in Cristo e possiedono in sé i tratti stessi della vita divina. Essa infatti restaura l'uomo degradato dal peccato, facendolo cosa nuova in Cristo. Si tratta, dunque, di una nuova creazione che il Padre, per mezzo del suo Cristo, attua sull'uomo e sul creato, degradati dal peccato: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21,5). In tal modo l'uomo, reso nuova creatura in Cristo e in lui nuovamente inserito nel ciclo vitale di Dio stesso, ne condivide le sue stesse qualità: godrà della forza di Dio (fortificherà), in contrapposizione all'attuale fragilità della sua carne despiritualizzata, profondamente segnata dalla colpa originale. Tale rinnovato stato di cose possiederà la stabilità e la saldezza della stessa eternità di Dio; cioè l'uomo, rigenerato in Cristo e ricollocato in Dio, non avrà più modo di perdere nuovamente il suo rinnovato e definitivo stato di grazia, che lo ha reso, ancora una volta e per sempre, immagine e somiglianza di Dio in Cristo.

 

A fronte di un simile progetto salvifico pensato fin dall'eternità in favore dell'uomo e rivelatosi e attuatosi in Cristo (Ef 1,4-5), sgorga spontaneo e sincero dal cuore del credente un breve inno di lode e di ringraziamento, che si fa azione liturgica e atto di culto a Dio: "a lui la potenza nei secoli. Amen!".

 

Si chiude in questo modo la Prima Lettera di Pietro, rivolta ai cristiani dispersi in mezzo ad un mondo pagano, perché prendano coscienza della speranza viva e vivente che palpita in loro e ne diventino, ieri come oggi, testimoni fedeli, "sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (3,15).

 

Il v. 5,12 ci fornisce le motivazioni dello scritto e un'ultima esortazione: "Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio. In essa state saldi!"

 

Due sono i motivi di fondo che animano questa lettera e ne forniscono la chiave di lettura: da un lato essa vuole essere un'esortazione, che di fatto permea l'intero scritto. Numerosi infatti sono i verbi posti all'imperativo esortativo; dall'altro essa vuole essere un'attestazione, cioè una testimonianza garantita e certa, che questa è la vera grazia di Dio. Con questa espressione l'autore si richiama alla sua esposizione teologica e dottrinale con cui illustrava ai credenti dispersi tra i pagani le nuove realtà spirituali di cui sono rivestiti e su cui si fonda e trae forza l'esortazione. Si noti la forza dell'attestazione che si riferisce alla grazia di Dio. Essa è indicata con due termini "questa", quasi a dire che non ce ne sono altre e che pertanto essa deve essere per loro un punto di riferimento unico e saldo; "è la vera" indicando la veridicità di questa grazia, pertanto inoppugnabile e incontestabile, perché ha come autore Dio stesso.

 

Il versetto si conclude con un'ultima esortazione: "In essa rimanete saldi". Il testo greco è più efficace: "Rimanete rivolti verso di essa". La traduzione italiana dà un'idea di solida staticità in questa verità, mentre il testo greco esprime una maggiore dinamicità, che meglio lega il vivere credente a questa grazia. La vita cristiana deve essere sempre fedelmente rivolta verso la grazia di Dio, manifestatasi e attuatasi in Cristo. Si tratta, dunque, di un orientamento esistenziale impegnativo, che fa del vivere cristiano un vivere cristologico e cristocentrico e di Cristo la sua nuova forma mentis, attraverso cui vedere e pensare le cose in modo nuovo, nella stessa prospettiva di Dio.

 

La lettera si era aperta con Pietro rivolto ai fedeli dispersi nell'Asia minore e questi erano stati definiti "eletti secondo la prescienza di Dio, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del su sangue" (1,1-2). Ora essa si chiude in modo parallelo con i saluti da parte di un'altra comunità definita in due modi: coeletta (gr. sineklekte) e "che è in Babilonia". Questa comunità si trova anch'essa in qualche modo, come quelle dell'Asia minore, inserita in un contesto pagano, quello di Roma, che in ambiente apocalittico, successivamente al 70 d.C. e comunque intorno al 90-95, è stata indicata con il nome di Babilonia, luogo dell'esilio di Israele. E', dunque, quella di Roma, una comunità che si sente in esilio e immersa in un mondo pagano che già tra il 64-65 d.C. ha dovuto subire la sanguinosissima persecuzione di Nerone. Ma come quelle dell'Asia, anch'essa è stata eletta. Il termine usato è coeletta, cioè partecipe della medesima e unica elezione in Cristo. Questo forte parallelismo fra queste comunità vuole sottolineare la profonda comunione che vige tra loro e in loro. Esse sono tutte unite da un unico battesimo, da un'unica fede nell'unico Cristo, in cui tutte e tutti formano un corpo solo (Gal 3,28). Questa profonda unità in Cristo, che si fa comunione, è ulteriormente sottolineata dal doppio saluto che va dalla comunità in Roma alle comunità dell'Asia minore e da queste a loro stesse, creando in tal modo un circolo chiuso che le abbraccia tutte, in un unico abbraccio di comunione e di unità in Cristo, da cui sono state coelette. E' significativo infatti il gioco dei due verbi: "Vi saluta" e "salutatevi" (gr. aspàzetai - aspàsaste), un saluto che da Roma rimbalza in Asia e qui si diffonde, creando un unico flusso comunionale.

 

Il verbo greco che sta per salutare è aspàzomai, che è ben più intenso di un semplice saluto. Esso dice baciare, abbracciare, accogliere con affetto, accarezzare, sottolineando una volta di più il profondo legame che univa in un unico destino, Cristo, queste comunità variamente sparse nel mondo e che avveniva non "con il bacio della carità", come è stato tradotto, ma "nel bacio della carità"[25], cioè un saluto che doveva avere come cornice primaria quella stessa del bacio della carità, che dice riconciliazione nell'amore di Cristo e comune unione in lui.

Il termine greco per dire carità, già lo abbiamo trovato sopra, è agàpe, che veniva riferito all'amore di Dio e trovava la sua concreta espressione in quello del credente. Il bacio della carità, dunque, diventava una sorta di sacramentale in cui si esprimeva l'amore di Dio, riconducendo la comunione tra i fratelli, legati tra loro da questo bacio fraterno, in seno alla stessa comunione del Padre con il Figlio nello Spirito Santo.

 

 

 

[1]Le altre sei Lettere definite Cattoliche, cioè universali, sono: Seconda Lettera di Pietro, Giacomo, Prima Giovanni, Seconda Giovanni, Terza Giovanni e quella di Giuda.

[2] Con il v. 5,12 l’autore si rivolge ai cristiani dell’Asia minore sollecitandoli: “Carissimi, non disorientatevi per l’incendio scoppiato in mezzo a voi” La terminologia di incendio scoppiato e l’esortazione a non lasciarsi disorientare e confondere da quanto sta avvenendo, lascia intendere che doveva essere successo un qualcosa di improvviso e inaspettato che ha gettato nel panico quei cristiani. E ciò non fa pensare a delle semplici pressioni psicologiche a cui i cristiani erano sottoposti quotidianamente, ma ad un fatto grave che deve aver provocato un disorientamento generale, come può essere una persecuzione.

[3]Viene infatti citato solo il gruppo degli Anziani, il cui compito è di vegliare sulle comunità senza volerle spadroneggiare e prevaricare (5,3). Sembra quasi che questi Anziani abbiano il solo compito di coordinare le attività di queste comunità. Manca la citazione dei vari gradi che compongono normalmente la gerarchia propria di una chiesa istituzionalizzata: vescovi, presbiteri e diaconi.

[4]Battesimo, cresima ed eucaristia sono i tre sacramenti della iniziazione cristiana, grazie ai quali il credente è incorporato e assimilato totalmente a Cristo e reso pienamente partecipe della vita della comunità. Essi configurano il credente al Cristo morto-risorto, lo associano alla sua missione salvifica, abilitandolo a compierla. Ciò significa che il cristiano viene costituito come un altro Cristo, diventando egli stesso generatore di salvezza e cooperatore di Cristo nella realizzazione del progetto di salvezza. E questo certamente non per virtù propria, ma per quella di Cristo, che vive ed opera in lui (Gal 2,20).

Nei primi tempi della Chiesa e ancor oggi presso la Chiesa ortodossa i tre sacramenti erano e sono somministrati in una sola volta al bambino, mentre presso la Chiesa occidentale è invalso l'uso di distribuirli nell'arco della vita, accompagnando il bambino nella sua crescita fisica, psichica e spirituale.

[5]Gesù stesso, rivolto ai due discepoli di Emmaus, disse loro "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti. Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosé e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui." (Lc 24,25-27). Segno questo che già nell'A.T. Dio aveva posto dei segni ben precisi che indicavano il compiersi lento e graduale del cammino della salvezza.

[6]Il termine parenesi deriva dal greco paraineo che significa "esortare, ammonire, incoraggiare".

[7]L'inclusione è una forma letteraria che si forma ripetendo all'inizio e alla fine di un brano una stessa parola, o una stessa frase. Queste formano una sorta di parentesi che racchiudono in sé il brano, dandogli il senso che le due parentesi hanno in se stesse. Nel nostro caso le due espressioni parlano di rigenerazione che è avvenuta per mezzo della risurrezione (1,3), per cui noi dobbiamo ritenerci rigenerati dalla Parola, che possiede in sé la forza rigeneratrice della risurrezione stessa. Tutto ciò che ci sta in mezzo (vv. 1,4-22) sono la conseguenza di questa rigenerazione e va letto in questa prospettiva.

[8]La lettera agli Efesini è attribuita alla scuola paolina ed è stata scritta da autore ignoto, probabilmente un responsabile di comunità, in ambiente efesino intorno all'anno 80 d.C.

[9]In numerosi testi del N.T. Cristo viene presentato come pietra vivente, cioè fondamento solido di un nuovo edificio spirituale (Mt 21,42.44; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,32-33; Ef  2,20-22; 1Cor 3,11).

L'immagine della pietra è stata mutuata dall'A.T. Essa è il materiale con cui si costruiscono gli idoli (Lv  26,1; Dt 4,28; 28,36.64; 29,16; Sap 13,16; Dn 5,4) per cui gli dèi son chiamati anche "roccia" o "pietra" (Dt 32,31.37). Di conseguenza anche Jhwh è chiamato Roccia, l'unica vera Pietra che non teme confronti con le altre pietre (Dt 32,31). Solo Jhwh è la vera Roccia, che libera, salva ed è rifugio sicuro (2Sam 22,2; Sal 17,3; 30,4; 61,3; 93,22;). Anzi, Jhwh è chiamato con il nome proprio di "La Roccia" (Dt 32,4.15.18; Is 17,10; 30,29; Ab 1,12). Dio è la Roccia da cui Israele è stato generato (Dt 32,18). Roccia piantata in Sion è il Tempio in cui abita Jhwh abita (Is 28,16). Queste immagini veterotestamentarie nel N.T. furono rilette e ricomprese in chiave cristologica e riferite dai nuovi credenti a Cristo stesso.

[10]Il termine sacerdote deriva dal latino sacrum donare, cioè colui che dona il Sacro, Dio, agli uomini.

[11]C.E.I. 25 luglio 1993

[12]In proposito si leggano i paragrafi 48-52 della Gaudium et spes, che assimilano la famiglia alla Chiesa.

[13]Cfr Rm 8,31-39

[14]Questo breve passo di Matteo sembra essere, più che parole prese dalla predicazione di Gesù, un apposito inserto redazionale voluto dall'evangelista per rispondere alle sofferenze a cui era sottoposta la sua comunità, formata da giudeo-cristiani. Infatti, il contesto in cui questi due versetti ci collocano è quello proprio del tempo successivo a Gesù: i verbi della persecuzione sono posti al futuro, rispetto al tempo della predicazione di Gesù, mentre la causa è l'aver scelto di credere in Gesù, abbandonando il vecchio credo giudaico. Quindi anche i credenti futuri sono partecipi dello stato di beatitudine proclamato a suo tempo da Gesù, beati siete, da cui nasce un'intima e profonda gioia ed esultanza, che vincono lo stesso stato di sofferenza.

Questa contrapposizione di persecuzione-sofferenza (v.11b) e gioia esultante (v.12a), che introducono il credente in uno stato di beatitudine (v.11a) richiama da vicino la morte e risurrezione di Gesù e la sua entrata definitiva nella beatitudine eterna nell'ascensione, a cui il vero discepolo è associato per la sua stessa natura di credente.

 

[15]Si noti come le parole bene-male nei due versetti sono posti a chiasmo, cioè i termini si incrociano tra loro, quasi a dire che bene e male sono delle realtà che in questa nostra dimensione  spazio-temporale si intersecano sempre e con cui l'uomo è chiamato quotidianamente a confrontarsi in una continua lotta, che dice tensione e sofferenza, ma che trova la sua ricomposizione nella luce del Cristo morto-risorto.

[16]Il tono del testo greco (etoimoi aei pros apologhian) è piuttosto duro: pronti sempre alla difesa, tant'è che l'autore si sente nella necessità di ammorbidirlo: "Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con retta coscienza" (3,15b-16a).

 

[17]Il testo greco dice: "quanto ai peccati Cristo soffrì una volta soltanto"

[18]Cfr Rm 7,15-25

[19]Benché qui l'autore pensi al giudizio posto sui vivi e sui morti, riferendosi all'immagine di Cristo giudice universale, tuttavia gioca sull'equivoco dei termini "vivi e morti" per continuare anche qui, implicitamente, quel confronto tra credenti (i viventi) e quelli che non lo sono (i morti), che si è protrae in tutti i primi undici versetti.

[20]Si noti come i credenti, i viventi, siano indicati con il participio presente del verbo vivere, per dire come quella vita che palpita in loro non ha tempo, ma soltanto un eterno presente, che li rimanda direttamente alla vita stessa di Dio. Il verbo greco usato, infatti, è zoao che indica il vivere una vita qualitativamente superiore e ben diversa da quella biologica che tutti noi conosciamo, riferendosi così alla vita stessa di Dio, che il credente condivide in Cristo fin da subito.  

 

[21]L'attuale confessione auricolare e ripetitiva è stata introdotta dai monaci iro-scozzesi tra il VI e l'VIII sec. Essi riportarono, adattandola ai fedeli, la loro prassi conventuale di confessare direttamente al loro priore, in modo segreto e personale, le proprie colpe, che venivano da lui assolte. Inizialmente questa prassi venne osteggiata e condannata dalla Chiesa come atto di presunzione (Sinodo di Toledo, 589 d.C.), ma alla fine venne accettata con una condizionale: questa nuova prassi avrebbe avuto validità solo per i peccati privati, mentre per quelli pubblici vigeva ancora l'antica procedura penitenziale, che aveva carattere pubblico ed imponeva penitenze assai gravose che potevano durare mesi, anni ed anche tutta la vita.

[22]Erano, infatti, questi i tempi delle domus ecclesiae, case-chiesa, quando ancora non c'erano luoghi pubblici di incontro per le celebrazioni liturgiche, per cui coloro che avevano case capienti erano chiamati ad ospitare gli incontri comunitari celebrativi. I primi luoghi pubblici sorsero intorno al 150 d.C.

 

[23]Circa i carismi e il loro uso all'interno della comunità, si legga 1Cor 12,1-31

[24] L'intero scritto, come già accennato nel primo incontro, è suddiviso in tre grandi sezioni, circoscritte, la prima, dalla parola "Misericordia" in 1,3 e 2,10, formando in tal modo una grande inclusione; la seconda dalle espressioni "Carissimi" e "nei secoli dei secoli. Amen!", rispettivamente in 2,11 e 4,12; la terza, similmente alla seconda, dalle espressioni "Carissimi" e "nei secoli. Amen", rispettivamente in 4,12 e in 5,11.

[25]Questo modo di salutarsi lo troviamo anche in Rm 16,16, in 1Cor 16,20, in 2Cor 13,12 e in 1Ts 5,26 in cui si parla però di salutarsi con il bacio santo, che in 1Pt è diventato il bacio della carità, evidenziando come questo ormai fosse diventato una sorta di sacramentale che esprimeva la comunione con Dio e tra i fratelli. Lo troviamo anche nella liturgia dei primi secoli in cui il bacio faceva parte della ritualità eucaristica e si collocava o all'offertorio, ricordando la necessità di riconciliarsi con il fratello prima di presentare la propria offerta, secondo l'insegnamento del Gesù di Matteo (Mt 5,23-24); o immediatamente prima della comunione per ristabilire quel giusto clima di riconciliazione fraterna prima di accedere all'unico pane in cui tutti noi diventiamo un unico corpo (1Cor 10,16-17). Un ricordo di questo bacio della pace è rimasto anche nelle nostre celebrazioni eucaristiche sotto forma dello scambiarsi un segno di pace.