CAMMINARE IN CRISTO


Per una lettura cristiana

della vita e delle cose



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La Parola, fondamento del vivere cristiano


Giovanni apre il suo vangelo ponendo come inizio assoluto la Parola: “In principio era la Parola e la Parola era presso Dio, e Dio era la Parola. Questa era in principio presso Dio. Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa. Ciò che avvenne in lei era vita, e la vita era la luce degli uomini … E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.” (Gv 1,1-4.14). Queste parole, pregne di eternità, trovano la loro eco in Paolo, che scrivendo ai Romani afferma: “Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunci? … La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo.” (Rm 10,14.17); mentre l'autore della Prima Lettera di Pietro, rivolto alle chiese sparse nell'Asia Minore, ricorda loro come i credenti siano stati rigenerati per mezzo della Parola di vita: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,23). Gli fa eco l'autore della Lettera agli Efesini, ricordando loro il percorso che essi hanno compiuto per giungere alla fede: “In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso ...” (Ef 1,13). All'inizio della vita cristiana ci sta, dunque, la Parola di Dio. Una Parola che è carica di eternità, perché ripiena di vita divina. Per questo essa è una Parola capace di generare ad una nuova vita, perché è una Parola creatrice e potente. Una Parola che non è un semplice flatus vocis, un soffio che ci esce dalle labbra, ma è un Essere Vivente, che possiede in se stesso una potenza creatrice e trasformante. Non a caso l'autore della Lettera agli Ebrei afferma che “... la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). La Parola, quindi, è un Essere Vivente che agisce, è capace di interagire ed è efficace nel suo agire, nel senso che Essa produce ciò che dice. Il suo dire è azione, perché è il dire stesso di Dio e in Dio non vi è distinzione, come per l'uomo, tra il dire e il fare. Gli ebrei chiamano la Parola di Dio con il termine “Dabar”, che indica una cosa concreta, una cosa che si fa e si attua, una cosa che diviene. È, quindi, un concetto dinamico di Parola, che è caratteristico di Dio. Ed è questo aspetto proprio e costitutivo della Parola che viene evidenziato nel racconto della creazione, in cui per ben dieci volte è ripetuta l'espressione “E Dio disse”, fatta seguire subito dall'attuarsi di ciò che è stato detto. Il Salmista, ricordando l'azione creatrice, proclama la sua lode: “Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera” (Sal 32,6) e ne esalta la potenza salvifica, quasi preannunciando, in qualche modo, i tempi del Verbo Incarnato, inviato dal Padre (Gv 17,3.8.18.21): “Mandò la sua parola e li fece guarire, li salvò dalla distruzione” (Sal 106,20); una Parola che è luce per il credente e che lo accompagna e lo illumina nel suo cammino verso Dio: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105). La creazione, dunque, nasce dal “Dire” di Dio; dalla sua Parola sgorga l'essere della vita, che prende forma nelle cose. Ed è sempre da questa Parola che trae vita e forma la nostra fede; è grazie a questa Parola che noi siamo generati e continuamente rigenerati alla vita stessa di Dio. Senza la Parola non vi può essere la fede, poiché soltanto essa è in grado di rivelarci quali sono le esigenze di Dio e le sue pretese nei nostri confronti. È essa che ci rivela le profondità della vita divina e ci fa conoscere realtà spirituali in cui noi siamo immersi e di cui siamo permeati. È la Parola che ci consente di vivere nella verità e nella sua autenticità il cristianesimo. Nessun sacramento e nessuna pratica sacramentale o religiosa può sostituire, neppure parzialmente, la Parola. Essa costituisce non solo il fondamento essenziale del vivere cristiano, ma da essa scaturisce anche una forte spinta di evoluzione spirituale. Senza la Parola il cristianesimo si riduce soltanto ad una mera pratica religiosa, che spesso sconfina nella magia o ci dà l'illusione di essere a posto con Dio e di essere dei bravi cristiani. Il bravo cristiano non è tale perché compie una serie di pratiche religiose, ma è tale perché ha saputo conformare la propria vita a Cristo, attuando nel proprio vivere quelle realtà spirituali di cui è rivestito in virtù del battesimo. In principio, dunque, ci sta la Parola da cui tutto discende, tutto trae vita e prende forma. È Lei che opera in noi e ci trasforma, rendendoci conformi a Dio, sensibili alla sua volontà e ci spinge a rinnovarci spiritualmente, conformando spontaneamente la nostra vita alle sue esigenze, rigenerandoci alla stessa vita divina. È Lei che ci spinge a rinnovarci quotidianamente per essere santi e graditi a Dio. Noi, per la verità, siamo già santi per natura, in quanto inseriti in Cristo in virtù del battesimo, ma è soltanto la Parola che ci svela queste realtà spirituali, che sono in noi, e plasma il nostro vivere in conformità ad esse. Ecco perché non ci può essere cristianesimo senza la Parola e nessuno può definirsi cristiano senza possedere in se stesso la Parola. La Parola è per sua natura azione di Dio in noi e soltanto il contatto costante e assiduo con essa produce in noi cambiamenti inaspettati. Non si tratta di praticare nella nostra vita ciò che essa dice, la quale cosa diventerebbe pressoché impossibile per noi, poiché la Parola ci propone un livello di vita che è divino e, quindi, fuori dalla nostra portata umana. È, invece, Lei, se assunta con costanza, con semplicità e disponibilità di cuore, che trasformerà la nostra vita in vita divina, quella stessa vita di cui lei è portatrice, poiché essa è un Dabar è, cioè, azione di Dio, che opera, crea e rigenera. Ecco perché la Parola è l'elemento fondamentale e insostituibile del vivere cristiano. Ed è da essa che noi partiamo per comprendere il mondo di Dio e la risposta esistenziale che noi siamo chiamati a dare alla sua proposta di salvezza, che ci viene data attraverso la sua Parola. Sarà una scoperta di un mondo completamente nuovo, di cui non abbiamo mai sentito parlare e in cui ci addentreremo per farne il nostro mondo, lasciando che esso traspaia dal nostro modo di vivere. Non sarà un mondo fatto di precetti, di comandamenti o di dottrine, di obblighi morali o di peccati veniali e mortali. Sarà un mondo completamente diverso, un mondo che ci renderà liberi da quello finora conosciuto, poiché è lo stesso mondo di Dio, che ci incontra nella sua Parola e in essa ci tende la sua mano per farci suoi. Tutto il resto a Dio non interessa.


La Storia della Salvezza


Premessa

Forse vi sarà capitato ancora di sentir parlare della storia della salvezza, ma nessuno mai, però, ve ne ha spiegato il senso, né vi ha spiegato in che cosa essa consista e che cosa abbia a che fare con noi e come noi ne siamo concretamente coinvolti in prima persona. Certamente avete sentito parlare della storia del popolo ebreo, ma forse non ne conoscete il senso e in che cosa essa sia consistita e che cosa abbia a che fare con la più ampia storia della salvezza e in particolar modo con noi. Certamente avete sentito parlare di Gesù e sapete anche che esso, in quanto Figlio di Dio, è Dio lui stesso. Che cosa significa questo, tuttavia, non ci è ben chiaro. Forse non conoscete il perché Dio si è fatto uomo e il significato e il senso del suo incarnarsi, del suo entrare in questo mondo. Sapete che egli è morto ed è anche risorto, ma che cosa significhi per noi la sua morte e la sua risurrezione, in quale modo esse ci coinvolgono e ci interpellano direttamente, forse questo vi è meno chiaro. In che cosa sia consistita la sua morte e risurrezione e che cosa sia realmente successo, questo, probabilmente, vi è totalmente oscuro. Quale funzione, poi, abbia la Chiesa in tutto questo e come essa sia nata ci è meno chiaro ancora. Questa Chiesa, poi, è nata spontaneamente, per semplice evoluzione delle cose o perché è stata voluta da Gesù e quindi da lui fondata? Ma che cos'è veramente la Chiesa e in quale modo vi partecipiamo e che cosa significa parteciparvi e quale la nostra funzione in essa? Perché i sacramenti, chi li ha voluti, chi se li è inventati, che cosa sono e cosa ci apportano in più di ciò che già siamo? Sono veramente necessari o ci basta la Parola di Dio? Qual è il valore e il senso del battesimo, della cresima, dell'eucarestia, del matrimonio? Come questi sacramenti apportano delle sostanziali modifiche al nostro essere e al nostro vivere? Qual è il senso del nostro vivere? In ultima analisi, chi siamo veramente, dove ci troviamo e dove stiamo andando? Qual è il nostro ruolo e il nostro compito in questo mondo? Veramente Dio è così buono e pieno di misericordia da perdonare tutti o la salvezza ce la giochiamo soltanto noi in questo mondo?

In questa breve premesse ho posto alcuni interrogativi che formeranno l'oggetto dei nostri incontri e della nostra riflessione. L'intento non è quello di diventare dei bravi cristiani, che frequentano fedelmente in modo più coscienzioso i sacramenti, ma è quello di prendere coscienza di chi veramente siamo e in quali realtà spirituali ci muoviamo, cambiando radicalmente il nostro porci di fronte a Dio, alla Chiesa, a noi stessi e agli altri. L'intento è quello di modificare il nostro stile di vita, rendendolo più consono alle esigenze della Parola di Dio, che, come vedremo, non punta a fare dell'uomo un pio cristiano o un bravo credente, obbediente a Santa Romana Chiesa, ma di emanciparlo e di evolverlo ed affermarlo sempre più nella sua umanità, perché egli sia sempre più liberamente uomo e sempre più critico verso falsi modelli di umanesimo, da qualsiasi parte essi provengano.

Che cos'è la Storia della Salvezza


Per comprendere che cos'è la Storia della Salvezza dobbiamo partire dagli inizi. Nel nostro cammino ci serviremo esclusivamente della Parola di Dio, l'unica nostra fonte in grado di dirci cosa è successo veramente e cosa ci viene richiesto da Dio; che cosa Egli si attende da noi e quale risposta dobbiamo dare e qual è il senso del nostro vivere. In essa, dunque, cercheremo di trovare una risposta di senso.

La necessità di una mediazione

Giovanni agli inizi del suo vangelo afferma che “Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Vi è dunque un'impossibilità per l'uomo di vedere e di raggiungere direttamente Dio, perché le realtà che ci separano sono di tale natura da non consentire tra noi una qualche sorta di comunicazione. L'autore jahvista1, con il suo linguaggio figurato e vivace, ci racconta l'origine di questo dramma dell'incomunicabilità. Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, Dio pone alle sue porte dei Cherubini con la spada fiammeggiante per impedire qualsiasi comunicazione tra l'uomo e Dio (Gen 3,24). Un linguaggio mitico, per indicare l'irreparabile frattura tra Dio e l'uomo. Dal quel momento siamo diventati nemici di Dio e Dio ci era nemico. Significativo in tal senso è il nascondersi di Adamo ed Eva tra gli alberi del giardino, non appena si accorgano dell'avvicinarsi di Dio (Gen 3,8). L'uomo incomincia ad aver paura di Dio, lo fugge e cerca di nascondersi da Lui. Creature e Creatore sono diventati tra loro estranei. Si è creata, dunque, tra Dio e l'uomo una incomunicabilità invincibile e tale da non poter essere superata dall'uomo con le sole sue forze. Serviva, dunque, una mediazione, un punto d'incontro comune, che ci consentisse di ritrovarci e di riprendere quel dialogo interrotto nel Paradiso Terrestre. Questo punto d'incontro, questa mediazione Giovanni la indica in Gesù, il Figlio unigenito che è nel seno del Padre. La sua non è una testimonianza per sentito dire, ma di chi ha visto, sentito e toccato: “Ciò che era fin da principio2, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4). Gesù, dunque, è l'unico luogo d'incontro tra Dio e gli uomini. Egli stesso si dichiarerà come l'unica via, verità e vita, che conduce in esclusiva al Padre e senza di lui nessuno può raggiungere il Padre: “Gli disse Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Gesù, dunque, si pone come strumento esclusivo di mediazione tra l'uomo e Dio. Infatti, non dice che egli è una delle tante vie o una delle tante verità, che in qualche modo conducono a Dio, per cui una via vale l'altra, una religione vale l'altra. Del resto se così fosse, Cristo cosa sarebbe venuto a fare? Ma egli, invece, afferma in modo categorico che egli è “la” Via, “la” Verità, “la” Vita. Quell'articolo determinativo “la”, posto davanti ai sostantivi via, verità e vita definisce l'esclusività e l'unicità del suo essere mediatore. Al di fuori di lui, dunque, non vi è altra mediazione certa e sicura. Il senso di quel “la”, del resto, viene subito precisato da Gesù: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Paolo scrivendo al suo carissimo amico e stimato collaborato Timoteo, gli ricorda come “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù” (1Tm 2,5). Gesù, dunque, diviene il polo catalizzatore su cui convergono Dio e gli uomini e in lui si ritrovano e si riconciliano3. Anzi, ancor molto di più, egli è stato costituito dal Padre centro e fulcro della creazione stessa, verso il quale essa tende da sempre. Lo ricorda Paolo scrivendo alla comunità di Efeso: “poiché egli (cioè il Padre) ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà […] per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10); e ancora, rivolto alla comunità di Colossi, torna sul concetto, affermando che “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16b); così similmente Giovanni afferma che “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). Cristo, dunque, è all'origine e al centro dell'intera creazione per volontà stessa del Padre e tutto converge in lui; per questo egli è il Mediatore unico ed esclusivo per eccellenza; il punto di incontro tra Dio e gli uomini; il luogo della riconciliazione tra il Padre e noi. Il gesuita, ricercatore, scienziato, filosofo e antropologo francese Teilhard de Chardin (1881-1955) vedeva nella creazione e in ogni uomo una forte spinta evolutiva dal meno al più, dal materiale allo spirituale, dall'imperfetto al perfetto; una spinta evolutiva che punta inesorabilmente verso quello che egli chiamava il Punto Omega, cioè Cristo, il vertice dell'intera creazione e del suo compimento; un vertice che tutto ricapitola e tutto trascende.

Il primo punto d'incontro e di mediazione dell'uomo con Dio: la Creazione, primo atto rivelativo


Ma la venuta di questo Mediatore non fu immediata, così come la rivelazione, che Dio ha fatto di se stesso per mezzo suo, non fu tutta e subito. Sia la venuta di Gesù, la sua incarnazione, come la rivelazione, il manifestarsi di Dio a noi, fu un cammino lungo e graduale, durato secoli. Il primo atto rivelativo, infatti, il primo punto di contatto che Dio e l'uomo hanno in comune è proprio la creazione. Essa è il luogo della prima conoscenza e del primo incontro tra due realtà, che per loro natura sono incomunicanti. Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, ricorda come gli uomini possono incontrare e conoscere Dio proprio nella creazione: “poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità;” (Rm 1,19-20). San Tommaso d'Aquino4, nella sua quinta via, per dimostrare l'esistenza di Dio, afferma che in tutte le cose e in tutti gli esseri viventi è stata posta una legge propria. che conduce tutte le cose al loro fine ultimo. L'intera creazione, dunque, è animata, regolata da un complesso di leggi, che gli scienziati hanno scoperto e tradotto con il linguaggio che è loro proprio, quello della matematica e della fisica. Ma queste leggi, questo software, potremmo dire, che si trova in tutto e in tutti e che regola e scandisce la vita, non è nato dal caso, ma rivela e riconduce ad una Intelligenza Superiore, che nelle cose e attraverso di esse tende a dialogare con l'uomo. La creazione, dunque, è il primo veicolo che conduce all'incontro con il suo Creatore. Attraverso la creazione l'uomo può razionalmente raggiungere Dio e Dio rendersi accessibile all'uomo5. L'intera creazione, infatti, è permeata da una presenza divina, che si lascia percepire nell'essere stesso delle cose, nel loro divenire, nei loro dinamismi. Il salmista canta questo aspetto della creazione, che è il linguaggio con cui Dio parla all'uomo, un linguaggio che ogni uomo di buona volontà e intellettualmente onesto può comprendere: “I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento” (Sal 18,2). Il primo atto creativo, infatti, fu la luce: “Dio disse: <<Sia la luce!>>. E la luce fu” (Gen 1,3). Non si tratta della luce degli astri, che illuminano la terra, scandendo i ritmi del giorno e della notte e quelli delle stagioni. Questo avverrà soltanto nel quarto giorno della creazione (Gen 1,14-19). Di quale luce si tratta, dunque? La risposta ce la dà lo stesso Giovanni nella sua Prima Lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5). Quella luce primordiale, entro cui viene poi collocata l'intera creazione, è dunque Dio stesso. Una luce che è vita stessa di Dio, che si comunica e si rivela agli uomini: “In lei (nella Parola, ndr) era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Questa Luce fu possibile, tuttavia, soltanto attraverso il “dire” di Dio, cioè attraverso la sua Parola, quella Parola che Giovanni contempla, all'inizio del suo vangelo, presso il Padre (Gv 1,1-2) e per mezzo della quale “tutto è stato fatto [...], e senza di lei niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3); quella Parola che poi assume sembianze umane incarnandosi: “E la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). E' dunque da questa Parola creatrice che esce la luce di Dio e attraverso cui Dio si rivela, illuminando tutti gli uomini: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). La creazione, dunque, è posta in Dio stesso ed è resa partecipe, attraverso il dono della luce che è vita, della vita stessa di Dio. La creazione, dunque, lascia filtrare, attraverso di sé, la luce stessa di Dio. Ciò significa che la creazione ci può dire qualcosa del suo Creatore, poiché ne porta l'impronta. Tutto era incandescente di Dio. Dio stesso lo riconoscerà al termine della sua opera creativa: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno” (Gen 1,31). Dio dunque si riconosce nella sua creazione, in cui si riflette. La creazione, pertanto, diventa il primo atto di mediazione tra Dio e gli uomini; il primo punto d'incontro, attraverso il quale l'uomo può ragionevolmente raggiungere il suo Creatore e questi si lascia raggiungere dall'uomo.

La creazione dell'uomo (Gen 1,26-28)

Al vertice della creazione, al sesto giorno, Dio decreta la formazione dell'uomo: “E Dio disse: <<Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza6>>” (Gen 1,26a). Solo l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio; come dire che Dio nel creare l'uomo ha posto come modello Se stesso. In ogni uomo, quindi, è impressa un'orma, una scintilla divina; in ogni uomo vi è una identità divina. Per questo ogni uomo, indipendentemente dalla sua configurazione storica, possiede una sacralità inviolabile, che lo rende proprietà di Dio, partecipe del suo Essere. Matteo, per due volte, in 25,40.45 porrà sulle labbra del re giudice, metafora di Dio, la sentenza che rivela l'identità di Dio nell'uomo: “Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Non dice “è come se l'aveste fatto a me”, bensì “l'avete fatto a me”, creando un legame diretto tra se stesso e l'uomo e questo perché l'uomo è sua immagine, impronta di Dio stesso. Creando l'uomo Dio crea, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso, dotandolo, a differenza del resto della creazione, di intelligenza, di coscienza, di libertà, autonomia, capacità di relazione, capacità di dialogare con Lui, ma anche capacità di opporsi a Lui. Non dipende da Dio se l'uomo si salva o si perde. Dio gli ha dato i mezzi per ritornare a Lui, ma il ritornarci o meno, questo dipende solo dall'uomo. E qui Dio non può farci proprio niente. L'uomo, dunque, è padrone di se stesso, ma proprio perché non è un essere assoluto, cioè increato come Dio, ha delle regole da rispettare per poter conservare la propria dignità, di cui è stato rivestito, diversamente si autodistruggerà. Non c'è bisogno di un Dio giudice che lo castighi, poiché l'uomo riceverà la punizione automaticamente ogni qualvolta che violerà i propri limiti, inscritti nella sua natura di creatura e nella stessa creazione.

Dio, dunque, stabilisce di creare l'uomo a sua immagine e somiglianza e subito l'autore sacro commenta “maschio e femmina li creò” (Gen 1,27b). Quindi uno degli aspetti di Dio è la sua mascolinità-femminilità7. Non nel senso che Dio è uomo e donna nello stesso tempo, una sorta di androgino, ma che in lui sono presenti questi due principi vitali, capaci per se stessi di generare e donare la vita; due principi vitali che si riflettono nell'uomo e in esso prendono corpo. Quindi, Dio crea l'uomo caratterizzandolo come un essere capace, al pari suo, di generare la vita e di donarla. Infatti, Dio benedice l'uomo, rendendolo fecondo, cioè capace non solo di generare vita, ma anche di farlo abbondantemente: “Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra>>” (Gen 1,28). Non a caso, il termine benedizione in ebraico si dice berakhah, che ha la sua radice in berekh, che significa “ginocchio”, un eufemismo per indicare gli organi genitali8, simbolo di fecondità. Per questo alla benedizione divina segue sempre il comando del siate fecondi, perché la benedizione è espressione di fecondità, che caratterizza l'essere di Dio e, ora, anche dell'uomo. Ma non solo l'uomo, anche l'intera creazione è stata resa capace di riprodursi, di autogenerarsi, poiché, come per l'uomo, su di essa è stato posto il segno della fecondità, la benedizione divina (Gen 1,11-12.22). Anche la creazione, quindi, porta in se stessa un'impronta di Dio e ne rivela la presenza.

Ma l'uomo è una creatura, non un essere assoluto come Dio. È così che questi due principi assumono nell'atto creativo divino le sembianze di uomo e di donna. Soltanto quando questi due principi incarnati si uniscono tra loro, formando una sola carne (Gen 2,24), un unico essere, così come lo è Dio, soltanto allora diventano capaci di generare e di donare la vita, come Dio. C'è, quindi, nell'atto sessuale un qualcosa di sacro, perché in esso si riproduce e si testimonia quell'armonia e quella comunione originali di vita, che sono proprie di Dio e in cui Dio in qualche modo si riflette. Da qui, quindi, anche la sacralità della vita, di ogni vita, in qualsiasi modo essa si presenti, poiché essa porta in sé l'impronta divina. Ma questo dice anche come l'uomo e la donna in se stessi non sono degli esseri completi e autosufficienti, ma tendono a completarsi l'uno nell'altra e si cercano per questo completamento nella comunione, che non è soltanto di corpi, ma dell'uomo preso nella sua interezza9. Anzi, la comunione dei corpi deve essere sacramento, segno, espressione, testimonianza di una comunione più profonda, che li coinvolge nella loro totalità. Soltanto così, nella loro unità, che è e può essere soltanto comunione di amore, essi manifestano l'autenticità della loro immagine e somiglianza divine. Il donare la vita, dunque, assurge ad atto squisitamente divino, che non è proprio dell'uomo, bensì di Dio, che lo ha delegato all'uomo (Gen 2,15), come all'intera creazione (Gen 1,11-12.22). Soltanto così la vita, che viene generata, diviene testimonianza concreta di questa comunione nell'amore, che aggancia l'uomo a Dio; comunione, che si fa dono di vita e che è propria della natura stessa di Dio; essa diviene testimonianza di quel primordiale atto divino che si perpetua nell'uomo, quasi come un'eco, che risuona nel corso dei secoli. L'immagine e somiglianza, dunque, si realizza in un rapporto di comunione e di amore, proprio perché così è la natura di Dio (1Gv 4,8.16). E quando si parla di amore non si intendono sentimenti, emozioni, sensazioni o attrazioni, che aiutano e facilitano il rapporto tra l'uomo e la donna, ma che ancora non parlano di amore, poiché queste cose possono sussistere anche senza l'amore. Allora si parla soltanto di “fare sesso”, così che il corpo dell'altro è usato per il proprio personale soddisfacimento. Non c'è un Io che va verso il Tu, ma un Io che prende dal Tu per soddisfare se stesso; non c'è comunione di vita, ma soltanto congiunzione fisica. L'amore, invece, delinea degli atteggiamenti, che si radicano nella profondità dell'essere di due persone e per sua natura è donativo. L'amore, quindi, va inteso come totale apertura di sé verso l'altro; totale donazione di sé all'altro; totale accoglienza in sé dell'altro. È l'Io che va verso il Tu e ritrova se stesso nell'altro e trova la propria affermazione nell'affermazione dell'altro; è l'Io che si spende per il Tu e che trova la propria completezza nell'altro, così che il Tu diviene per l'Io il suo progetto di vita. Tutto questo nel rapporto uomo-donna è significato dalla congiunzione dell'uomo con la donna; tutto questo, allora, diviene espressione concreta di una comunione profonda, che coinvolge non soltanto due corpi, bensì due vite, in cui la comunione dei corpi testimonia e diviene sacramento, segno della comunione delle due vite. Soltanto così l'amore si fa progetto di vita e per la profondità con cui lega due persone, coinvolgendone altre, frutto di questo amore, ha bisogno di una stabilità, che tuteli tutte le persone, che sono coinvolte in questo amore, divenuto progetto di vita.

Qualsiasi uso difforme della propria mascolinità e femminilità, insite nell'uomo, porta a distorcere e a tradire quell'immagine e somiglianza divine, che è l'imprinting di autenticità originaria, che conforma l'uomo a Dio, facendone un essere divino. Seneca (4 a.C. - 65 d.C.), un filosofo pagano, contemporaneo di Gesù e anche suo coetaneo, scrivendo a Lucilio, suo immaginario discepolo, circa le funzioni primarie e fondamentali dell'uomo, asseriva: “La natura ci ha affidato il compito di aver cura di noi stessi, ma qualora tu abbia ecceduto, ecco che ciò diventa un vizio. La natura ha mescolato il piacere con necessità concrete non perché lo perseguissimo come finalità, ma affinché l'aggiunta del piacere potesse renderci più gradite le funzioni, senza le quali non possiamo vivere. Se il piacere si presenta a suo arbitrio, ecco la dissolutezza”. Già Seneca, dunque, aveva compreso, sebbene non illuminato dalla fede, che nell'uomo vi sono delle funzioni primarie, che proprio perché primarie, sono agevolate dal piacere; ma quando questo viene perseguito per se stesso, allora l'uomo tradisce se stesso e cade nella dissolutezza, degradando la sua identità di uomo, da cui deriva ogni male. Con linguaggio cristiano noi diremmo che l'uomo perde la sua identità divina, offuscando, quindi, anche la sua identità umana, costruita a immagine di quella divina, poiché si discosta dal progetto originario di Dio, che ha inscritto nella natura di tutte le cose il senso del loro esserci, indicando in questo senso la strada che esse devono percorrere per raggiungere la loro pienezza; una strada che le riconduce in Dio, da cui sono uscite. Queste regole, queste leggi, che regolano il vivere di ogni uomo e dell'intera creazione sono state rilevate e codificate con il linguaggio scientifico, che è loro proprio, dagli stessi scienziati, che della loro conoscenza ne hanno fatto una scienza.

Ci siamo soffermati su Gen 1,27-28, poiché essi forniscono una comprensione di senso dell'uomo. Se non scopriamo e comprendiamo il senso di noi stessi; se non siamo in grado di dare una lettura di senso alle cose e del nostro esserci, allora saranno gli eventi a dominarci e noi ne saremo schiavi, poiché non siamo più in grado di sviluppare un atteggiamento critico nei loro confronti, non siamo più in grado né di leggerli né di interpretarli e tanto meno di modificarne il percorso. Per questo è importante una riflessione di senso, poiché essa non solo ci aiuterà a capire e a vivere pienamente la nostra vita, ma essa riceverà senso dalla nostra stessa comprensione. Possono esserci molteplici letture della vita, ma non tutte portano la vita a realizzarsi in modo pieno e soddisfacente; altre possono essere totalmente devianti. Noi abbiamo scelto una lettura della vita, in cui si rispecchi il senso del divino, verso il quale noi stiamo andando.

Il dramma del Paradiso Terrestre (Gen 2-3)

Se il linguaggio asciutto e arido dello scrittore Sacerdotale ha relegato la creazione dell'uomo a soli 5 versetti (Gen 1,26-30), uno spazio narrativo maggiore lo ha, invece, dato la vivacità e la ricchezza di immagini proprie dell'autore Jahwista, che, alla creazione dell'uomo e al dramma da lui vissuto nel Paradiso Terrestre, dedica ben due capitoli, il secondo e il terzo della Genesi, per complessivi 45 versetti. Noi presteremo una particolare attenzione a questo racconto, non solo perché dietro il linguaggio mitico si nasconde il dramma storico dell'umanità, ma anche perché da questo racconto dipende l'intera storia di salvezza. Un racconto che ci consentirà di capire moltissime cose, tanto che personalmente lo ritengo la chiave interpretativa dell'intera storia della salvezza e tale da poter spiegare il senso stesso della risurrezione e della nostra vita.

Una premessa necessaria


Prima di iniziare va fatta una premessa. I primi undici capitoli della Genesi sono considerati dagli studiosi come appartenenti all'area del mito. Ma quando si parla di mito non deve intendersi la storiella di Cappuccetto Rosso o di Bianca Neve o di Cenerentola o di qualsiasi altra favola. Il mito10 è un fenomeno culturale, che è stato studiato a fondo, soprattutto nel passato, ed è stato definito come il linguaggio primitivo dell'umanità, attraverso il quale l'umanità primitiva racconta se stessa. Il Pettazzoni11, un grande studioso italiano, che fu tra i primi a comprendere il reale valore e il vero significato del mito, nella sua opera “Verità del mito” affermava che il mito “non è finzione né favola, ma storia vera: per il suo contenuto, in quanto esso è narrazione di fatti accaduti in una condizione antecedente e determinante la realtà attuale, e per la sua sacralità, poiché mette in moto forme sacrali utili al gruppo, attraverso i riflessi rituali”. Gli fa eco Lévy-Bruhl12, il quale, in una serie di quaderni, in cui egli teneva i suoi appunti, si chiedeva in quale senso debba essere intesa la «verità» della storia mitica e giunge alla conclusione che i miti sono storie realmente accadute, ma accadute in un tempo, in uno spazio, in un mondo diversi dal tempo, dallo spazio e dal mondo attuali, e tuttavia non meno reali. Anche per Giambattista Vico, filosofo, storico e giurista italiano, vissuto a cavallo tra il XVII/XVIII secolo, la parola greca mythos significava originariamente “racconto vero” e spiega come il ‘mito’ è la ‘verità’ degli uomini prima della nascita del pensiero astratto. Il mito non interpreta la realtà, né la descrive, ma la rappresenta. Per questo l'analisi del mito è stata spesso usata come strumento atto a gettar luce su molti aspetti della vita dell'uomo e della società. In apertura del suo libro (Cap.1) Miti, Sogni, Misteri13, Mircea Eliade14, pone una critica al concetto di mito venutosi a formare nell'epoca post-illuminista: “Che cos'è propriamente un «mito»? Nel linguaggio corrente del secolo Diciannovesimo «mito» significava tutto ciò che si oppone alla «realtà»: la creazione di Adamo o l'«uomo mascherato», come la storia del mondo raccontata dagli Zulù o la "Teogonia" di Esiodo, erano «miti». Come molti altri cliché dell'illuminismo e del positivismo, anche questo aveva struttura e origine cristiane: infatti, per il cristianesimo primitivo tutto quello che non trovava giustificazione nell'uno o nell'altro dei due Testamenti era falso: era una «favola». Ma le ricerche degli etnologi ci hanno costretto a ritornare su questa eredità semantica, sopravvivenza della polemica cristiana contro il mondo pagano. Si comincia finalmente a conoscere e a comprendere il valore del mito elaborato dalle società «primitive» e arcaiche, cioè dai gruppi umani in cui il mito costituisce il fondamento stesso della vita sociale e della cultura. E un fatto ci colpisce subito: tali società ritengono che il mito esprima la verità assoluta perché racconta una storia sacra, cioè una rivelazione transumana che è avvenuta all'alba del Grande Tempo, nel tempo sacro degli inizi ("in illo tempore"). Essendo reale e sacro il mito diventa esemplare, e di conseguenza ripetibile, poiché serve da modello e anche da giustificazione a tutti gli atti umani. In altri termini, un mito è una storia vera, che è avvenuta agli inizi del tempo e che serve da modello ai comportamenti degli uomini. Imitando gli atti esemplari di un dio o di un eroe mitico, o semplicemente raccontando le loro avventure, l'uomo delle società arcaiche si stacca dal tempo profano e si ricongiunge magicamente al Grande Tempo, al tempo sacro. Come si vede, si tratta di un capovolgimento totale dei valori: mentre il linguaggio corrente confonde il mito con le «favole», l'uomo delle società tradizionali vi scopre, al contrario, la sola rivelazione valida della realtà”.

Dopo questa necessariamente sintetica nota sul concetto di mito, ci accingiamo ora ad affrontare il tema della creazione dell'uomo e del suo dramma, consumatosi nel Paradiso Terrestre e raccontatoci dal narratore Jahwista; un dramma da cui trae origine la storia della salvezza, intesa come il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale e che farà esclamare S.Agostino (354-430 d.C.) in una delle sue omelie: “O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem” (O colpa beata, che hai meritato di avere un tale e così grande Redentore). Una felice intuizione del grande pensatore cristiano del V sec., che la Chiesa ha fatto propria nell'Exultet o Preconio pasquale, che viene proclamato nella notte del Sabato Santo.

L'intento, che qui mi propongo, non è quello di compiere un'esegesi, in senso tecnico del termine, di Gen. 2-3, la quale cosa risulterebbe complessa e laboriosa e ci devierebbe dai nostri intenti, ma una semplice traduzione e interpretazione delle immagini proposteci dal testo sacro. Ed anche qui cercando di evitare ogni pedanteria scientifica. Il nostro intento è cercar di capire che cosa ci stia dietro il racconto dei capp. 2-3. Suddivideremo questi due capitoli in cinque quadri.

Primo quadro: l'uomo assimilato a Dio (Gen 2,7)


Allora il Signore Dio modellò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente”. Sono tre i movimenti di questo versetto:

a) Dio, con un gesto simile a quello del vasaio15, forma l'uomo. L'uomo, pertanto, nasce per intervento divino. Questo dice che egli è una creatura e che non trova in se stesso la giustificazione del proprio esserci, ma questa deve essere cercata altrove. La sua origine, dunque, è divina. Ma se divina è la sua origine, l'elemento che lo costituisce e lo caratterizza è la terra o meglio lo 'aphar (ebr.), cioè l'argilla, la creta, quella parte umida, che si trova nella superficie del terreno. Questo dice che l'uomo non appartiene al mondo dello spirito, poiché la sua natura ha come elemento costitutivo la terra.

b) Il secondo movimento è il soffio vitale di Dio, che viene inalato nell'uomo. Di quale soffio si tratta? Il giovane amico di Giobbe, Eliu, nel rivolgersi a lui afferma: “Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell'Onnipotente mi dà vita” (Gb 33,4), mentre in Gv 20,22 l'evangelista ricorda come Gesù: “Dopo aver detto questo, soffiò16 su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo>>”. Il soffio di Dio, dunque, è lo Spirito Santo; uno Spirito capace di dare la vita e di assimilare l'uomo a Dio.

c) Il terzo movimento evidenzia che “l'uomo divenne essere vivente”. Di certo non si trattava di una vita così come noi la conosciamo, poiché è una vita che proviene direttamente da Dio e che porta, quindi, in se stessa i tratti salienti e qualificanti di Dio stesso. Essa potrebbe essere espressa con “pienezza di vita”, che è eternità divina, cioè vita stessa di Dio. Si si tratta di una vita divina infusa nell'uomo e che lo ha trasformato da essere di terra, e quindi caduco, in un essere assimilato allo splendore della stessa vita di Dio. In altri termini, l'uomo apparteneva al mondo di Dio, alla sua stessa dimensione. Non a caso lo Jahwista afferma che dopo il soffio divino l'uomo divenne un essere vivente. Il testo greco, qui, è molto più esplicito e dice: “e l'uomo venne generato alla vita vivente”17. L'uso del participio presente (vivente) dice la continuità e la persistenza di questa vita, ne indica la natura stessa: essa è vita di Dio; un Dio che per 17 volte nell'A.T. e 13 nel N.T. viene definito come il “Dio vivente”. Il Salmista, nel cantare la potenza del Creatore, sottolinea lo stato di splendore divino da cui l'uomo era permeato in origine: “Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato” (Sal 8,6). L'uomo, dunque, è stato creato di poco inferiore agli angeli; e ciò che lo distingue da essi è il suo essere costituito di materia, che poi è stata spiritualizzata dal Soffio divino. In questo egli è stato assimilato a Dio, fatto sua immagine e somiglianza. Egli, dunque, non è un puro spirito, come lo è invece il mondo celeste, bensì carne spiritualizzata per la potenza dello Spirito divino. Questa spiritualizzazione, cioè questa attrazione reale e concreta dell'uomo in Dio, viene espressa dal Salmista con la coronazione dell'uomo “di gloria e di onore”. “Gloria e onore”, due attributi che dicono la natura stessa di Dio, come dire che l'uomo è stato ricoperto della stessa dignità divina, pur non possedendone la natura e pur rimanendo nel suo stato creaturale. Si tenga presente questo concetto di “carne spiritualizzata”, poiché esso ricomparirà nella risurrezione di Gesù.


Secondo quadro: l'uomo vive nella vita di Dio; l'alleanza e le condizioni (Gen 2,8-9.15-17)


Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. […] Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: <<Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti di morte>>”.

Dopo la creazione dell'uomo, Dio piantò un giardino in Eden, a oriente. In una terra segnata dalle scarse piogge e da ampie estensioni desertiche, il giardino assumeva significati pieni di vita e di delizie, tanto che i persiani lo chiamarono “pardes” e i greci “parádeisos”, da cui il nostro “paradiso”. Con tale termine veniva definito un luogo di delizie e di pienezza di vita. Tale luogo è stato ritagliato in Eden18. Esso è stato posto “a oriente”, letteralmente “di fronte o davanti all'oriente” (kat¦ ¢natol¦j, katà anatolàs). Se l'oriente indica una posizione geografica, la parte est, dove sorge il sole, esso in termini simbolici assume anche il significato del luogo dove abita Dio, origine e sorgente di ogni vita. È significativo, infatti, quanto viene detto dall'Apocalisse: “Vidi poi un altro angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente” (Ap 7,2a). L'angelo che viene da oriente porta i sigilli, cioè i segni distintivi, del Dio vivente e, quindi, è un angelo che proviene da Dio, cioè dall'Oriente. Nel nostro caso si tratta di un luogo di delizie, che è posto davanti all'oriente, cioè davanti a Dio. Tutto dice, dunque, in modo metaforico e simbolico, che questo giardino ha a che fare con la vita stessa di Dio. L'uomo, dunque, trasformato in carne spiritualizzata è collocato, cioè posto, in Dio ed indica che egli gli appartiene e ne condivide la vita stessa.

Al centro di questo giardino sorgono due alberi tra loro complementari: quello della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Già l'essere posti al centro dice la centralità e l'importanza di questi due alberi, verso i quali converge l'intero giardino e sui quali, unici tra tutti gli alberi, viene posto il divieto di mangiarne, cioè di appropriarsene. L'albero nelle mitologie antiche, per il suo essere radicato alla terra, ma nel contempo elevandosi verso il cielo più di ogni altra creatura terrestre, assunse ben presto una sua sacralità perché concepito come un collegamento tra cielo e terra, tra Dio e l'uomo. All'ombra degli alberi venivano offerti sacrifici e interpellati gli oracoli. La sua sacralità ben presto divenne simbolo della stessa divinità. Il dio sumero della vegetazione Dumuzi era venerato come albero della vita; così la dea egiziana Hathor era raffigurata con un albero. La mitologia greca narra del giardino delle Esperidi, il cui albero con le mele d'oro, conferisce agli dèi l'immortalità19. Albero della vita e della conoscenza del bene e del male esprimono i due aspetti fondamentali della divinità: essa è colei che possiede la vita eterna ed è in grado di generarla continuamente e continuamente la sostiene; ma è anche colei che possiede l'onniscienza, che qui viene espressa con i suoi due estremi di “bene e male”. Si tratta di una conoscenza che dice la potenza del sapere, che non è concepito qui come un semplice atto intellettuale, bensì è inteso come potere divino sulle cose. Il conoscere, infatti, secondo il mondo ebraico non è mai un semplice apprendimento intellettuale, ma è un atto concreto, che esprime un potere su ciò che si conosce. Il mangiare di quel albero della conoscenza del bene e del male significò appropriarsi del potere stesso di Dio, il volersi sostituire a lui nel dominio del creato, il diventare padroni della propria vita, il non riconoscere più il proprio stato di creaturalità e competere con Dio stesso. In altri termini, ciò che si è consumato nel Paradiso Terrestre fu un tentativo di colpo di stato finito male. Significativo in tal senso è quanto il serpente, simbolo delle forze demoniache che si oppongono a Dio, dice alla donna: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Il serpente non ha mentito, ma ha detto il vero: appropriarsi della conoscenza del bene e del male avrebbe posto l'uomo alla pari di Dio, ne avrebbe preso il potere, sostituendosi a Lui. Ma quanto suggerisce il serpente dice anche che l'obiettivo di Adamo ed Eva era quello di diventare Dio e di mettersi al suo posto. Quindi, si trattò di un tentativo di colpo di stato. Dio, sapeva bene che creando l'uomo avrebbe creato, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso, un essere capace di collaborare con Lui, ma anche di opporglisi. Il suo intento era quello di creare un suo collaboratore a cui egli avrebbe dato il suo potere sulla creazione. Egli, infatti, lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse. Come dire, che l'uomo diveniva responsabile di quel giardino, cioè del suo rimanere o meno nella vita stessa di Dio. Dipendeva soltanto da lui e non da Dio. Se l'uomo rispettava i patti, cioè la prima alleanza della storia, che gli concedeva ogni potere sulla creazione, ponendo come unico limite l'accesso all'albero della vita e della conoscenza del bene e del male, in altri termini, rispettasse il suo stato di creaturalità, egli poteva rimanere nella dimensione divina e condividere con Dio la sua stessa vita e il suo mondo. Ma l'essersi contrapposto a Dio, rifiutando la collaborazione, volendo sostituirsi a Lui nel potere, causò anche la perdita della vita stessa: “moriresti di morte”. Il “morire di morte” indica la pena per la violazione dell'alleanza posta tra Dio e l'uomo. È significativo quel “morire di morte”. Di che cosa si muore altrimenti? È proprio questo il punto. Il morire, prima della colpa, non indicava la cessazione della vita, ma una evoluzione verso la perfezione e la pienezza di Dio. Ma l'aggiunta “di morte” indicava che la loro evoluzione non sarebbe più stata verso Dio, bensì verso la morte, cioè verso un mondo privo della vita divina. Significativa è la riflessione sulla condizione umana da parte dell'autore del libro sapienziale di Giobbe: “Se egli richiamasse il suo spirito a sé e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all'istante e l'uomo ritornerebbe in polvere” (Gb 34,14-15). Ed è ciò che è successo dopo la colpa.

Terzo quadro: il tentativo di colpo di stato; rottura dell'alleanza (Gen 3,6b-11)

prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: <<Dove sei?>>. Rispose: <<Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto>>

Questo terzo quadro si apre con Adamo ed Eva che mangiano dell'albero della conoscenza del bene e del male. Già si è visto come il mangiare simboleggia l'appropriarsi dell'albero. Un tentativo, dunque, di colpo di stato: l'uomo aggredisce Dio per appropriarsi delle sue prerogative. Non si accontenta di condividerle con lui, ne vuole l'esclusiva, vuole mettersi al suo posto. Un dramma, questo, che è raccontato, a modo suo, anche dalla mitologia greca, allorché i Titani, dominatori incontrastati della terra nei primordi dei tempi, decisero di ribellarsi agli dèi. Questa razza semi-divina prese coscienza di poter usurpare il potere dalle mani della divinità. Per tale motivo gli dèi deliberarono di punire tale arroganza. Tra i vari castighi fu comminato anche il diluvio20. Così come aveva promesso il serpente, si aprirono i loro occhi e si accorsero di essere nudi. L'aprirsi degli occhi allude alla presa di coscienza del loro stato e della loro nuova condizione di vita: si accorsero di essere nudi. Non si tratta di una nudità fisica, ma della spogliazione del loro stato di esseri spiritualizzati21. Il soffio divino, che venne inalato in loro da Dio, li aveva permeati della sua stessa vita divina, li aveva resi sua immagine e somiglianza, li aveva resi partecipi della sua vita, che essi condividevano con Dio. Questo tentativo di colpo di stato li ha spogliati di ogni qualità divina e si ritrovarono, pertanto, nudi, cioè semplice carne despiritualizzata. Nella Bibbia la nudità, infatti, è concepita come un qualcosa di specifico della condizione umana ed è indice della sua povertà e del suo decadimento22. Il feeling spirituale che legava Dio e l'uomo si è spezzato e l'uomo, prima rivestito di Dio, del suo Spirito, si ritrova ora nudo, cioè privo della vita divina, di cui era prima permeato. Paolo scrivendo alla comunità di Roma dà testimonianza della nuova condizione dell'uomo dopo la colpa originale: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). L'uomo, quindi, è divenuto carne despiritualizzata e, pertanto, soggetta al decadimento e alla morte; mentre il degrado della condizione umana testimonia lo stato di morte in cui l'uomo vive. Ora si è attuata la minaccia divina: “morirai di morte” (Gen 2,17). Il primo segno di questo distacco da Dio è la paura che si ingenera nell'uomo alla percezione della sua presenza, per cui cerca di nascondersi da Lui. C'è paura perché non c'è più intesa e perché ora Dio è percepito come un estraneo, un nemico da cui fuggire.

Quarto quadro: le conseguenze (Gen 3,16-19)

Alla donna disse: <<Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà>>. All'uomo disse: <<Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!>>”.

La minaccia divina “morirai di morte” ora assume tutta la sua concretezza: l'uomo, divenuto carne despiritualizzata, sperimenterà il degrado e la pesantezza del suo vivere, perché Dio ha tolto dall'uomo il suo Spirito vitale, che lo associava alla propria vita; e il vivere dell'uomo diviene intessuto di dolori, fallimenti, fatiche, malattie, incomprensioni, difficoltà nelle relazione umane, omicidi, odio, rancori, incapacità di amare e di relazionarsi al proprio partner, guerre ... e alla fine tornerà ad essere quello che era: polvere. Tutto finisce nel nulla. Una condizione umana disastrosa, priva di speranze, che farà esclamare a Qoelet “Vanità delle Vanità, tutto è Vanità […] Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. E' questo un agitarsi penoso che Dio ha imposto agli uomini, perché in esso fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qo 1,1.13-14).

Quinto quadro: la cacciata dalla dimensione divina (Gen 3,21-24)

Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e le vestì. Il Signore Dio disse allora: <<Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre!>>. Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita

L'uomo decaduto dallo sua condizione di vita divina e ritrovatosi carne despiritualizzata, che collocherà il suo vivere in un continuo degrado esistenziale senza speranze, viene ora rivestito da Dio non più del suo Spirito, ma di pelli di animali, equiparando il suo vivere a quello inferiore degli animali. Infatti, quando Dio creò gli animali, li trasse dalla stessa polvere del suolo, da cui è stato tratto l'uomo, ma in essi non inalò il suo Spirito di vita (Gen 2,19) come, invece, fece per l'uomo (Gen 2,7). Ora, anche l'uomo, privato dello Spirito divino è decaduto allo stesso livello degli animali, per questo Dio sancirà la sua nuova condizione, rivestendolo delle stesse pelli di animali23. La sua nuova identità non è più quella divina, ma quella degli animali. Per questo motivo l'uomo non può più rimanere nel Paradiso Terrestre, metafora della dimensione divina, e dovrà andarsene, perché non possa appropriarsi anche dell'albero della vita, cioè dell'eternità divina, che costituisce l'essenza stessa di Dio. A protezione di Dio e del suo mondo vengono posti due cherubini con la spada fiammeggiante, per impedire qualsiasi ritorno dell'uomo. Essi sono la metafora del tempo, questa dimensione difficilmente definibile, ma che con efficacia separa Dio dagli uomini, rinchiudendo questi ultimi in una sorta di carcere, da cui non si può evadere se non morendo, lasciando, quindi, qui ciò che di fatto è sempre stato il nostro carcere e il nostro guardiano: il corpo despiritualizzato. Paolo, scrivendo ai Corinti, ricorda loro proprio questo aspetto: “Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50).

Le conseguenze della caduta originale

Quanto ci è stato raccontato fin qui, con il linguaggio del mito, è la narrazione di ciò che viene definito come “colpa originale” o “peccato originale”. Sono definizioni dottrinali improprie e che possono trarre in inganno. Non si tratta, infatti, di un peccato o di una colpa in senso morale, che può essere assolta con una richiesta di perdono, con qualche atto di carità o con una confessione ben fatta. Questo avrebbe coinvolto soltanto chi l'ha commesso. Il fatto è stato ben più grave, poiché vi è stato, all'origine, come una sorta di esplosione nucleare, provocata da qualcuno, ma che ha coinvolto, suo malgrado, l'intera creazione e l'intera umanità. Questo ha cambiato lo stato delle cose e la condizione di vita, che ha coinvolto, come si è detto, non soltanto l'umanità, ma anche l'intera creazione, che per un principio di solidarietà è strettamente legata ai destini dell'uomo. Non va dimenticato, infatti, ciò che Dio disse ad Adamo: “ maledetto sia il suolo per causa tua!” (Gen 3,17) e così, similmente, quando Dio si rivolge a Noè per comunicargli le sue intenzioni di distruggere l'umanità: “Allora Dio disse a Noè: "E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra” (Gen 6,13). Anche Paolo sottolinea questo principio di solidarietà che lega ogni uomo alla creazione: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.” (Rm 8,18-21). Un principio di solidarietà che possiamo constatare anche ai nostri giorni. Il degrado ambientale, che ci circonda, è figlio di un degrado morale e spirituale che ha investito l'intera umanità. Ma pensiamo, più vicino a noi, al degrado della Campania e di Napoli, invase da montagne di rifiuti e da una arrogante criminalità diffusa, che rendono la vita di quei luoghi precaria e difficile. Pensiamo all'attuale grave crisi economica, che coinvolge l'intero pianeta, rendendo difficile e talvolta drammatica la vita di intere famiglie e di singole persone, ingenerando nelle persone ansia e preoccupazione per il loro futuro e quello delle proprie famiglie. Pensiamo al pesantissimo e indistricabile debito pubblico italiano, che rende precaria l'esistenza stessa della nostra società civile. Tutto questo non è nato dal caso, ma ha come sua fonte primaria il degrado morale e spirituale dell'uomo, di cui esso è figlio24. Il male, dunque, assume una sua dimensione universale, coinvolgendo non soltanto la creazione, ma anche l'intera umanità, raggiungendo ogni singola persona. Lo ricorda Paolo alla comunità di Roma: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). Quel “tutti hanno peccato” va inteso come “tutti sono stati raggiunti e coinvolti dal peccato di Adamo”. È l'esplosione nucleare di cui si parlava prima. E il re Davide canta questa triste condizione dell'uomo: “Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 50,7). Si tratta,d dunque, di una colpa, di una condizione esistenziale che è intrinseca all'uomo, inscritta nel suo DNA e che viene trasmessa geneticamente. Non è soltanto un fatto spirituale. La sofferenza, il dolore, i fallimenti e la morte sono realtà quotidiane tangibili da tutti. E il male, che ha preso vita da quella colpa primordiale, incomincia a diffondersi nel mondo, presentandosi sotto diversi aspetti di perversione e di degrado. Ecco, dunque, Caino e Abele, i primi due fratelli della storia dell'umanità; essi sono in realtà due prototipi, due profili di umanità: Caino è il capostipite di un'umanità pervertita dal peccato, che si è allontanata da Dio, che non tiene il suo volto alto, cioè rivolto verso Dio; egli mal sopporta il bene, perché esso è il figlio di Dio e lo sente come un rimprovero a se stesso; medita, dunque, in cuor suo la soppressione di questo bene. Dio lo redarguisce severamente: “Se agisci bene, non dovrai forse tenere alto il tuo volto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala” (Gen 4,7). Ma Caino non è più in grado di ascoltare in sé la voce di Dio e uccide Abele. Ed è così che il comportamento assassino di Caino inquinerà ancora una volta la terra, che per causa sua viene nuovamente maledetta: “Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra” (Gen 4,11-12).

Dall'altra parte abbiamo Abele. Esso è il simbolo di un'umanità, che seppur decaduta, ancora sa guardare verso Dio e Dio ancora si riflette in qualche modo in essa (Eb 11,4). È questa l'umanità che porta in sé ancora la speranza di salvezza ed è per questa umanità che Dio non abbandona definitivamente l'uomo al suo destino di morte. E Abele diverrà per questo la figura di Cristo, l'agnello innocente, vittima sacrificale e impronta di Dio (Eb 1,3; 12,24), che viene ucciso da un'umanità che, a causa del degrado spirituale e morale in cui vive, si è resa cieca e sorda a Dio e non riesce più a riconoscerlo nel bene, che è seme e impronta della presenza divina (Mt 23,35; Eb 12,24).

Ma ormai il male dilaga lentamente su tutta la terra. Lo si constata in Lamech, figlio di Caino. Egli è l'iniziatore della poligamia (Gen 4,19), rompendo il monogamico rapporto voluto da Dio (Gen 2,24) e con le proprie mogli si vanta delle sue efferatezze: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,23-24). Questo canto di tracotante vendetta lascia intravvedere come Lamech, fidandosi della sua forza e delle sue armi, non abbia più bisogno della protezione di Dio, poiché egli basta a se stesso. È la colpa originale, il comportamento di autosufficienza ricercato dai nostri progenitori in opposizione a Dio, che si perpetua nell'umanità. Esso verrà ripreso nel mito della Torre di Babele (Gen 11,1-9), in cui l'umanità, in opposizione ai comandi divini, si erge contro Dio, in un atteggiamento di sfida e di autosufficienza; è la storia di un'umanità che si sente sicura nelle conquiste del suo progresso, che oppone a Dio. Il risultato sarà quello della confusione delle lingue. L'umanità, che si dichiara autosufficiente da Dio e si ripiega su se stessa, perde la sua identità, perde il senso del suo esserci, non capisce più se stessa e non riesce più capire gli altri; viene così travolta da un vortice di disorientamento, poiché pone se stessa al posto di Dio e cade in un relativismo, che la apre al degrado esistenziale. Il male, dunque, non è più un fatto sporadico e isolato, ma coinvolge l'intera umanità e la stessa creazione e tocca il suo vertice nella triste constatazione di Dio: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: <<Sterminerò dalla terra l'uomo che ho creato: con l'uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d'averli fatti>>” (Gen 6,5-7).

Quella creazione che era uscita dalle mani di Dio incandescente di Dio e in cui Egli si rifletteva (Gen 1,31) e in cui aveva lasciato la sua impronta divina, per rendersi in essa riconoscibile a tutti (Rm 1,20), era fallita per la stupidità dell'uomo, che aveva voluto porre se stesso al posto del suo Creatore. Si spense quella luce (Gen 1,3) e sull'uomo non rimase che un ammasso di rovine, portatrici e generatrici di ogni tipo di dolore, di sofferenza e di morte.

La riscossa di Dio: la storia del peccato si fa storia della salvezza

Ma Dio non abbandona l'uomo e la creazione al loro triste destino di morte e ne tenta il recupero a sé. Ha inizio così la Storia della Salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale (Ef 1,4-7); il tentativo di Dio di ricostituire nuovamente tutte le cose in se stesso (Ef 1,10). Lo strumento di cui il Padre si servirà per attuare questo suo disegno di salvezza sarà suo Figlio, il Verbo Incarnato (Gv 1,1-2.14; Fil 2,6-11); mentre il punto culminante di questo suo progetto di salvezza sarà la morte e risurrezione dell'uomo Gesù e vedremo il perché. Paolo scrivendo alla sua comunità di Corinto presenta in modo sintetico questo progetto divino: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,20-28).

Già si è avuto sentore di questo progetto divino di recupero dell'uomo, allorché, immediatamente dopo la colpa, quando Adamo ed Eva erano ancora nel Paradiso Terrestre, Dio si rivolge ad Adamo: “Il Signore Dio chiamò Adamo e gli disse: <<Dove sei?>>” (Gen 3,9). Già da subito, quindi, Dio va alla ricerca dell'uomo perduto. Ma l'uomo si è nascosto a Dio che lo cerca. Questo nascondersi da Dio è il segno del rifiuto di Dio, della ormai sopravvenuta incapacità dell'uomo di relazionarsi con Dio, di cui aveva perso la sua identità divina, che lo qualificava come sua immagine e lo rendeva a Lui somigliante; e l'uomo si copre con delle foglie di fico (3,7b). È il suo primo maldestro tentativo di darsi un'altra dignità, una sua propria dignità, ricercandola in se stesso, in opposizione a quella che gli proveniva da Dio e che aveva perduto.

Il progetto di salvezza ideato da Dio per ricondurre l'uomo nuovamente in se stesso e restituirgli la sua originale dignità divina, ristabilendo con lui una nuova alleanza, appare per la prima volta in Noè, definito come “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio” (Gen 6,9b). Il male aveva travolto l'umanità, ma il seme salvifico della presenza divina non viene mai meno. Ed è con questo seme, che Dio non fa mai mancare in mezzo agli uomini, che Egli continua il suo progetto di salvezza. Noè, metafora dell'umanità fedele a Dio, così come lo era Abele. L'arca, metafora del progetto divino25, che punta a salvare l'umanità, rimastagli fedele, dalla distruzione del male, sono il simbolo di una nuova creazione. L'umanità uscita da questa arca divina, o per meglio dire, generata da questo progetto di salvezza, sarà una nuova umanità, così come pensata da Dio26, così come era agli inizi. E con questa umanità Dio farà un nuovo patto di amicizia, una nuova alleanza (Gen 6,18), che avrà come segno visibile l'arcobaleno, un segno di pace e di riconciliazione tra Dio e l'uomo (Gen 9,12-17). Noè e l'Arca sono lo schema simbolico del rapporto dialettico dell'uomo con Dio all'interno del progetto di salvezza. Uno schema questo che si ripeterà continuamente, in vari modi e sotto diverse forme, in tutta la storia della salvezza, fino a raggiungere il suo vertice in Cristo. Noè, Arca, Arcobaleno sono tutti simboli che prefigurano in qualche modo Cristo stesso. In Noè viene prefigurato Cristo, l'uomo giusto e gradito a Dio per eccellenza, da cui sgorgherà una nuova umanità rigenerata nello Spirito (1Pt 1,3.23), con la quale Dio stabilirà una nuova ed eterna alleanza27. Anche l'Arca prefigura in qualche modo Cristo. Egli, infatti, con la sua incarnazione e la sua morte ha assunto in sé l'intera umanità e l'intera creazione (Gv 12,32), rigenerandola nella sua risurrezione in novità di vita (Rm 6,4; 1Pt 1,3). E infine, l'Arcobaleno, che elevandosi alto nel cielo e toccando con le sue estremità la terra, veniva colto come un ponte che collegava Dio agli uomini ed era visto come la manifestazione della divinità (Ez 1,27-28) e simbolo della pace fatta tra Dio e la nuova umanità, uscita dall'Arca (Gen 9,12-17). Esso rappresenta in qualche modo Cristo, manifestazione e rivelazione del Padre28 e mediatore tra Dio e gli uomini29; strumento di rappacificazione e di riconciliazione definitiva tra il cielo e la terra30; segno della pace fatta tra Dio e l'umanità31. Con Noè si chiude la prima fase della storia della salvezza, quella che usa il linguaggio universale del mito e che è rivolta all'universalità degli uomini, per far comprendere loro come tutti sono coinvolti in questa storia di peccato e di salvezza. Come tutti sono interpellati da Dio e tutti sono chiamati a prendere posizione nei suoi confronti e come nessuno può rimanere indifferente all'appello di Dio, che iniziatosi con Noè, ora procede attraverso quattro tappe fondamentali: Abramo, Israele, i Profeti e Cristo.

La storia della salvezza: una chiamata personale, che esige una risposta esistenziale

Per la sua natura di Amore (1Gv 4,8.16), che tende a donare, comunicare e accogliere, Dio non è un essere indefinito, anonimo, sconosciuto, ma personale e punta ad un rapporto personale con l'umanità e con ogni singolo uomo, cercando di riprendere con lui quel dialogo di salvezza, che fu interrotto bruscamente nel Paradiso Terrestre. Dio, dunque, in vari modi e sotto diverse forme entra nell'habitat naturale dell'uomo, la storia, cercando di parlargli con un linguaggio a lui comprensibile e lasciandosi, quindi, raggiungere da lui nella storia. Ha così origine la lenta e progressiva incarnazione di Dio nella storia, che, passando attraverso Abramo, Isacco, Giacobbe, Israele, i Profeti, giunge, infine, nella pienezza dei tempi, al suo pieno e definitivo compimento in Cristo. Questa continuità storica dell'incarnazione, trova la sua testimonianza in Eb 1,1-3: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo”. Gli fa eco Paolo nella sua lettera ai Galati: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,5-6). Quindi l'incarnazione del Figlio di Dio, della Parola del Padre, non fu un episodio limitato, nello spazio e nel tempo, al solo concepimento di Maria, ma fu un lento e graduale incarnarsi di Dio nella storia, che richiese decine di secoli, affinché l'intera umanità ne fosse direttamente coinvolta e ne fosse direttamente interpellata. Esso apparve in forma umana soltanto nella “pienezza dei tempi”.

I primi undici capitoli della Genesi, come si è visto, parlano, con il linguaggio proprio del mito, delle origini dell'umanità e si concludono con un atto di arroganza e di sfida dell'umanità nei confronti di Dio: il racconto della Torre di Babele (Gen 11,1-10), che, da un lato, sancisce la diffusione strisciante e persistente della colpa originale, che permea e accompagna l'uomo, suo malgrado, lungo il cammino della storia; dall'altro giustifica l'intervento di Dio, che entrando nella storia, tenta il recupero dell'umanità e della stessa creazione, riportandole nella loro dimensione originale. Questo tentativo ha inizio, in termini concreti con la storia di Abramo (Gen 12,1ss)

Prima di percorrere le tappe più salienti della storia della salvezza è opportuno aprire una parentesi, che ci fornisca le coordinate per comprendere la cornice storica entro cui Dio e l'uomo si sono incontrati e per poter comprendere in quali termini questo avviene e come ciò debba essere compreso.

Come nasce l'esperienza di Dio nella storia

L’esperienza di Dio nasce da un incontro tra Dio e l’uomo nell’ambito della storia. Essa ha la sua origine nella libera iniziativa di Dio che, per mezzo di parole ed eventi, si autocomunica e si autorivela all’uomo. Dio parla, dunque, per farsi capire e cogliere dall’uomo, un linguaggio storico fatto di eventi e parole intimamente connessi. Il presupposto per realizzare questo incontro con Dio e renderlo proficuo è la disponibilità dell’uomo ad ascoltare e ad accogliere questo Dio che, per mezzo della storia e con un linguaggio storico, gli si autorivela32. Da qui l’esperienza di Dio. Questa esperienza si attua storicamente, in un primo tempo, nell'A.T. attraverso le ierofanie33, le manifestazioni cioè del sacro e del numinoso, e i Profeti, che aiutano a comprendere l’accadere degli eventi e a leggere, quindi, la storia in senso teologico, cogliendo in quei determinati eventi l'agire storico di Dio. L'esperienza di Dio, dunque, nasce da una lettura teologica della storia, che aiuta a ricomprendere gli eventi, che in essa accadono, in chiave teologica, scoprendo in essi un Dio che si autorivela, interpella l'uomo e lo spinge a prendere posizione nei suoi confronti. Due, dunque, sono gli attori della storia della salvezza, che è anche storia di autorivelazione divina: Dio, che liberamente si autocomunica all’uomo con un linguaggio che gli è proprio e a lui comprensibile, quello della storia; e l’uomo, che è chiamato ad aprirsi a Dio e rendersi a Lui disponibile. Il tutto avviene sul palcoscenico della storia.

I tempi e le tappe fondamentali della storia della salvezza

Se la storia della salvezza è essenzialmente “storia”, essa deve poter contare su degli eventi che si sono verificati nel tempo e, quindi, essa deve avere necessariamente delle date di riferimento. Ecco, dunque, sinteticamente i tempi e le tappe di questa storia, che in buona parte coincide con quella di Israele, popolo che Dio si è scelto (Es 19,5-6) e che meglio di ogni altro popolo ha saputo cogliere negli eventi della sua storia la presenza di un Dio che lo interpellava, rendendosi disponibile al suo ascolto, sviluppando una lettura teologica della sua storia, che, in questo intreccio dialogico con il suo Dio, è diventata Storia Sacra:

Nell’ambito di questa storia, così scandita, Dio si rivela in vari modi ad Israele, che, attraverso la fondamentale esperienza del deserto e successivamente per mezzo dei Profeti, riesce a coglierlo nella storia e a sviluppare varie comprensioni di Dio, passando da una fase iniziale di politeismo ad una successiva di enoteismo34 e, infine, al monoteismo. Un percorso storico, dunque, attraverso il quale Israele matura un graduale e sempre più profondo rapporto con Dio, sviluppando a livelli sempre più alti la sua spiritualità e la sua comprensione del divino, che celebra in particolar modo nei libri sapienziali.

La Rivelazione come storia ed esperienza

Il farsi della rivelazione, dunque, si attua nella storia attraverso parole ed eventi strettamente connessi; una storia che, nell’ambito di quest’ottica, non è una semplice cornice della rivelazione, ma ne diviene uno strumento e un sacramento di incontro tra Dio e l’uomo. La Rivelazione, dunque, quale autocomunicazione di Dio all’uomo, che lo accoglie, si attua nella storia e ha una natura squisitamente relazionale. Essa si sviluppa nella storia e si esprime per mezzo della stessa e trova la sua massima espressione nell’incarnazione di Gesù. Tale esperienza di Dio è possibile solo se ci si apre a Lui, donandogli fiducia, e lo si accoglie nella propria vita.

L’esperienza di Dio si fa memoria

Nella storia, che si fa evento, l’uomo esperimenta il suo rapporto con Dio e tale esperienza viene cristallizzata nella Tradizione orale, trasmessa lungo i secoli alle generazioni future; in tal modo essa si fa memoria, cioè sottratta all’oblio, e viene rivissuta per mezzo della celebrazione dei culti e delle liturgie e si fissa negli scritti. Lo scritto sacro, quindi, altro non è che la sedimentazione di questa esperienza di Dio rimasta sempre viva nel popolo d’Israele come nella comunità cristiana. Di queste esperienze se ne fa memoria nel culto e nella liturgia e per mezzo di queste, ancora una volta da noi rivissute. Pertanto, il processo di sedimentazione di questi eventi e parole nella Bibbia è il seguente:

Dopo questa breve parentesi, che precisa i termini con cui si deve intendere la storia della salvezza e il come essa si è storicamente formata, entriamo nel vivo di questa storia, soffermandoci sui quattro momenti più rilevanti che la compongono e su cui essa si fonda: Abramo, il popolo di Israele, i Profeti, Gesù.

Abramo

Se i primi undici capitoli della Genesi hanno raccontato con linguaggio mitico le origini dell'umanità, a partire dal cap.12 ha inizio la storia di Abramo (12-25), di Isacco (Gen. 21.22.24.26), di Giacobbe (Gen. 25.27-35) e di Giuseppe (Gen. 37-50), i Padri fondatori di Israele, la storia dei Patriarchi, che occuperà il restante libro della Genesi (12-50). Non si tratta di una vera e propria storia, così come noi la intendiamo, ma di una lettura teologica di questa, in cui l'autore sacro fa interagire Dio con gli uomini, cercando di cogliere il senso teologico di alcuni avvenimenti fondativi della nascita di Israele, legandone il concepimento a Dio stesso. Israele, quindi, secondo l'agiografo, non è nato da un combinarsi fortuito di avvenimenti, ma da una promessa che Dio aveva fatto ad Abramo. In altri termini, Israele ha avuto origini divine e in esso e per suo mezzo opera Dio nella storia. Il popolo di Israele, quindi, è portatore di un messaggio divino di salvezza, rivolto non solo a se stesso, ma all'intera umanità (Es 19,5-6; Tb 13,3-4).

Il contesto storico-culturale degli eventi: ciò che è realmente successo35

L'epoca in cui visse Abramo si colloca tra il XX e il XVIII sec. a.C. un tempo in cui la società era prevalentemente di tipo nomadico ed era formata da tribù, che raggruppavano numerosi clan, che si riconoscevano nel capo tribù e nel capo clan. L'economia di questi clan era formata esclusivamente dall'allevamento del bestiame e da un piccolo commercio occasionale con le popolazione con le quali essi venivano a contatto nel loro migrare. Era gente che viveva in luoghi desertici e la loro ricchezza erano le greggi, da cui potevano ricavare latte, formaggio, carni, pelli. Prodotti, quindi, di prima necessità per la sopravvivenza. Talvolta le greggi erano molto numerose, per cui si rendeva necessario cercare altri pascoli e assumere pastori da altri clan o unirsi ad altri clan. I rapporti sociali, quindi, andavano a complicarsi e si rendevano necessarie delle regole di convivenza condivise da tutti, come il non uccidere, non rubare, onorare il padre e la madre, il rispetto delle proprietà altrui, comprese le donne, il diritto di asilo e di ospitalità. Regole che non erano scritte o emanate per decreto, ma stabilite dagli anziani, che attorno al capo tribù formavano il consiglio degli anziani per gestire la comunità dei clan, di cui gli anziani erano anche capi. L'autorità del capo clan e del capo tribù erano indiscusse.

Nella dura vita del deserto le verità di fede erano poche ed essenziali: la coesione del clan attorno alla memoria dell'antenato, fondatore del clan, chiamato patriarca; la speranza in pascoli abbondanti, nella fertilità delle greggi e in una discendenza numerosa. Il dio del clan era quello dell'antenato, per cui il clan di Abramo venerava il dio di Abramo; il clan di Isacco venerava il dio di Isacco. Dai bisogni fondamentali della vita e dalla sopravvivenza del clan nasceva la speranza di una buona terra, di pascoli abbondanti, di greggi numerose, di una discendenza numerosa. L'ottenere tutto questo, che garantiva la sicurezza del clan, era legato ad una promessa che il dio dell'antenato, divenuto anche dio del clan, aveva fatto all'antenato stesso.

Il continuo migrare di queste consistenti masse di persone, sempre alla ricerca di nuovi pascoli e acqua buona per le greggi, esercitava spesso delle forti pressioni sulle frontiere dei grandi imperi già consolidati o sulle singole città in cui si imbattevano e con le quali talvolta si entrava in conflitto, che sfociava in vere e proprie battaglie per la conquista del territorio; più spesso si commerciava. Il soggiorno presso questi centri urbani non sempre era gratuito, ma doveva essere in qualche modo retribuito con oro, argento, con bestiame, ma anche con prestazioni di lavoro gratuito. Le periferie delle città o i loro dintorni erano i luoghi dove queste tribù nomadi soggiornavano durante l'inverno. Era questo il tempo del grande commercio con queste città. Ma giunta la primavera, all'apparire della prima luna di primavera, tra marzo e aprile, i nomadi si rimettevano in cammino alla ricerca di nuovi pascoli per il loro bestiame. La partenza dava inizio ad un nuovo anno ed era consacrata da un rituale, molto conosciuto da quelle popolazioni nomadi. La sera prima della partenza, si prendeva un agnello, lo si immolava, lo si mangiava con pane non lievitato; con il suo sangue venivano tinti i pali di sostegno delle tende, per tenere lontani gli spiriti malvagi e invocare la protezione del dio dell'antenato. Questo antico rituale della partenza era conosciuto presso le popolazioni nomadi con il nome di pasqua, la cui etimologia è incerta, ma sembra derivare dal verbo ebraico “pasah”, che significa saltare, danzare, passare oltre. Probabilmente con riferimento alla festa (saltare, danzare) della partenza (passare oltre).

La lettura teologica degli eventi: la chiamata di Abramo e la sua alleanza con Dio

Il racconto delle origini di Israele ha inizio con la chiamata di Abramo da parte di Dio (Gen 12,1-4). Nella storia della salvezza, infatti, l'iniziativa parte sempre da Dio e tutto ha sempre inizio con una chiamata personale, con una elezione, che trasforma il chiamato in un luogo di interazione salvifica, in cui Dio opera (Gv 15,16; Gal 1,15-16); e ogni chiamata-elezione comporta sempre per il chiamato un distacco dal proprio passato e gli imprime una spinta evolutiva verso la realizzazione piena di quel piano di salvezza, che Dio, nel suo chiamare, ha pensato per ciascun uomo; una salvezza che è il recupero dell'uomo alla dimensione divina, da cui proviene. Fondamento indispensabile perché tutto ciò si attui è la fede, che, aprendo l'uomo a Dio e accogliendolo nella propria vita, lo trasforma nuovamente in sua immagine e in sua somiglianza, rendendolo nuovamente a Lui gradito: “Abramo credette a Dio, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6; Gal 3,6). Dio, dunque, considerò Abramo, a motivo di questa fede, un uomo giusto, cioè già giustificato e in qualche modo già riscattato dalla colpa originale e per questo già santificato, cioè nuovamente appartenente al mondo di Dio. Attraverso la fede, dunque, Dio si riappropria dell'uomo e riprende quel dialogo primordiale che si era interrotto.


Ed ecco che, per la prima volta, dopo il diluvio, Dio interrompe il suo silenzio nei confronti dell'umanità e dà inizio alla storia della salvezza con una chiamata: “Il Signore disse ad Abram: <<Esci dalla tua terra e dalla tua famiglia e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra>>. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore” (12,1-4). E' questo il nucleo fondativo della promessa, che riecheggerà numerose volte e in diversi modi in tutto l'A.T.36 e che verrà ripreso e ricordato anche nel N.T., in cui Abramo, il cui nome compare ben 77 volte, è letto come il padre di tutti i credenti37 (Gal 3,7). Da questa promessa nascerà un'alleanza tra Dio ed Abramo, che impegnerà Abramo e tutta la sua discendenza ed avrà come contenuto la promessa stessa (Gen 15,1-19). Quale segno visibile di questa alleanza venne posta la circoncisione: “<<Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto>>. Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: << Eccomi: la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo38 perché ti renderò padre di una moltitudine di popoli. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne; sarò il vostro Dio>>. Disse Dio ad Abramo: <<Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell'alleanza tra me e voi. Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra di voi ogni maschio di generazione in generazione, tanto quello nato in casa come quello comperato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comperato con denaro; così la mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. Il maschio non circonciso, di cui cioè non sarà stata circoncisa la carne del membro, sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza>>” (Gen 17,1-14).
Da Abramo nasceranno due figli, Ismaele, avuto dalla sua schiava egiziana Agar (Gen 16), e Isacco, avuto da sua moglie Sara39. Sarà quest'ultimo il figlio della promessa (Gen 17,15-19; 21,1-7), da cui nasceranno Esaù e Giacobbe (Gen 25,19-34). Questi, Giacobbe, erediterà, con l'inganno, tutte le benedizioni dal padre Isacco e con le benedizioni le promesse, sancite dall'alleanza, che Dio aveva fatto ad Abramo (Gen 27,1-40). Da Giacobbe, che dopo il combattimento notturno avuto con l'angelo presso il torrente Iabbok, verrà chiamato Israele, cioè colui che ha combattuto con Dio (Gen 32,23-33; 35,9-13), nasceranno dodici figli, che saranno i capostipiti di altrettante tribù (Es 1,1-6). Uno di questi, Giuseppe, il prediletto del padre, per invidia dei fratelli venne venduto come schiavo in Egitto, dove divenne il potente viceré, che salvò l'Egitto dalla carestia e dove i suoi fratelli trovarono ospitalità e dove rimasero per quattrocento anni (Gen 15,13), proliferando fino a diventare un grande popolo (Es 1,7), che venne schiavizzato dagli egiziani, per timore (Es 1,8-14); e fu tentato anche il loro genocidio da parte del faraone, che ordinò di uccidere tutti i bambini maschi (Es 1,15-22). Si tratta, ovviamente, di una lettura teologica della storia; le cose nella realtà andarono diversamente. Ma l'agiografo, qui, è preoccupato di leggere negli eventi della storia l'agire di Dio; egli cerca di capire nel divenire della storia del suo popolo, quali disegni Dio ha sopra di lui e in quale modo il suo popolo debba rispondere ad essi. In tal modo la storia della salvezza diviene un dialogo tra Dio e l'uomo.

L'Alleanza con Dio restituisce dignità a Israele e gli dà una nuova identità

Il riscatto del popolo dall'oppressione egiziana si ebbe con Mosè. Anche in questa occasione, l'iniziativa della liberazione parte da Dio: “E disse: <<Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe>>. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: <<Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Hittita, l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora va! Io ti mando dal faraone. Fa uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!>>” (Es 3,6-10). Da questo momento si innescherà una lotta dura tra Jhwh e il faraone, narrata nel racconto delle dieci piaghe (Es 7,1-11,10), il cui compito è mettere in rilievo la potenza di Jhwh, spesa a favore del suo popolo. Questo intervento liberatore di Jhwh costituirà, successivamente, la base fondante e fondamentale dell'Alleanza tra Dio e Israele (Es 20,2), che proprio in virtù di questa liberazione e di questa alleanza, è divenuto proprietà di Jhwh. Un popolo di schiavi, quindi, privo di ogni dignità e identità, privo di futuro e di speranza, destinato all'oblio della storia, viene strappato dalla mano del faraone, condotto nel deserto, ai piedi del monte Sinai, dove Dio rivestirà questo ammasso anonimo di gente, senza storia e senza volto, con una dignità esclusiva: “Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: <<Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>” (Es 19, 3-6). Israele, quindi, diviene “proprietà divina”; egli appartiene a Dio e Dio appartiene al suo popolo e in lui si riconosce. Nasce un profondo connubio tra Jhwh e Israele, così che Israele diventerà l'impronta di Dio in mezzo ai popoli, il suo messaggero. Egli, infatti, sarà un “regno di sacerdoti”. Il sacerdote, per sua natura, è un mediatore tra l'umanità e Dio; ed è anche un datore di Sacro, un trasmettitore di Dio agli uomini; la porta, aperta nella storia, attraverso cui Dio passa per raggiungere le genti e farsi raggiungere da loro. Per questo egli è definito da Dio come “nazione santa”. La santità, infatti, è il modo di essere di Dio ed esprime la sacralità assoluta del suo Essere, che lo rende totalmente altro dagli uomini e dice tutta la distanza che intercorre tra Lui e gli uomini. Israele, quindi, è santo perché appartiene a Dio e perché il suo Creatore è Santo. La legge della Santità, che riguarda i sacerdoti ed è contenuta nel Libro del Levitico (Lv 17-26), contiene un forte richiamo agli Israeliti, perché facciano trasparire dalla loro vita quella santità di Dio, di cui sono permeati per elezione divina: “Il Signore disse ancora a Mosè: <<Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo. ….>> (Lv 11,44; 19,1-2; 20,7)”. Questa dignità divina, che ricopriva Israele e che lo faceva proprietà di Dio, venne codificata nell'Alleanza, che testimoniava il profondo vincolo che legava Israele a Dio; ma essa consentiva, nel contempo, a Dio di entrare nella storia, in modo mediato, attraverso Israele, rendendosi presente in mezzo agli uomini40. Israele, quindi, era divenuto sacramento, segno visibile di Dio in mezzo ai popoli. E Israele ebbe sempre coscienza di questa sua identità sacra e di questa sua missione rivolta a tutte le genti41.

Il profetismo, la voce di Dio in mezzo al suo popolo42

Tutto ciò, tuttavia, non rendeva immune Israele dalle infedeltà all'Alleanza. Quando Israele cedeva all'idolatria e si lasciava influenzare dalla cultura pagana dei popoli vicini o con i quali veniva in contatto, inquinando il culto di Jhwh con altri culti pagani; o lasciava che in mezzo ad esso prosperasse l'iniquità o l'ingiustizia e venisse meno la solidarietà nei confronti dei più bisognosi, allora sorgeva vigorosa la voce dei profeti, che richiamavano duramente il popolo all'Alleanza con Dio. Essi erano la coscienza del popolo e venivano percepiti come la voce di Dio in mezzo ad esso. Il profeta non parlava mai a nome proprio, ma era l'uomo di Dio per eccellenza; il suo inviato; un inviato e una voce, che spesso Israele non ascoltava, per questo veniva investito da guerre, deportazioni e carestie. Israele, infatti, percepiva queste disgrazie, alquanto ricorrenti a quel tempo, come una punizione divina per la propria infedeltà. Il profeta, di fatto, non si limitava a richiamare il popolo, stigmatizzando le sue infedeltà, ma instaurava una sorta di giudizio divino contro di lui, passando in rassegna tutti i privilegi che Israele aveva ricevuto dal suo Dio e la risposta infedele che, invece, Israele dava ai benefici ricevuti. Famosa è la requisitoria che Isaia rivolse contro il popolo per la sua condotta immorale e iniqua contro i più deboli: “Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica. Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,1-7). E similmente, molto bella è la durissima requisitoria che Ezechiele pronunciò contro Israele per le sue infedeltà a Jhwh, aprendosi all'idolatria dei popoli vicini. Egli, con una stupenda allegoria, canta l'amore e la cura che Jhwh ebbe per Israele e come questo, invece, ora, dimenticandosi del suo Dio, si prostituiva con altri dèi (Ez 16,1-63).

Un fenomeno quello del profetismo, che si riscontra, nei termini presentatici dalla Bibbia, soltanto presso Israele. Esso fa la sua apparizione nell'VIII sec. a.C. e si estende fino al V sec. a.C. I profeti erano la coscienza critica di Israele ed estendevano i loro interventi in campo sociale, alzando la voce contro le ingiustizie perpetrate dai ricchi a danno dei poveri. Criticavano duramente l'eccessivo divario tra le classi sociali, accusando quelli che accumulavano ricchezze alle spalle dei poveri e degli oppressi, approfittando della loro condizione di debolezza e di indigenza. Era sotto la loro attenzione anche la problematica religiosa. Vi era, infatti, il problema dell'idolatria e della scarsa sensibilità nei confronti della purezza del culto a Jhwh, che era costretto a condividere il culto dovutogli con altre divinità straniere. Ma vi era anche il problema di una falsa idea di Dio, che nasceva da un culto vuoto, una pietà priva di radici e da una Parola di Dio mal interpretata. Questo portava alla manipolazione di Dio, che si cercava di accontentare con qualche preghiera, con qualche sacrificio, con qualche pellegrinaggio prescritto dalla Legge, ma venivano meno tutte le altre esigenze etiche. Un culto, quindi, che non incideva nella vita quotidiana e non la modificava in modo che essa fosse gradita a Dio43. Anche la problematica politica non era trascurata dai profeti. Critiche erano mosse al modo di comportarsi del re e dei potenti nei confronti del popolo; critiche erano fatte anche alle loro alleanze con i popoli limitrofi, aprendo ai loro idoli; e soprattutto il confidare nei giochi politici e nelle alleanze anziché in Jhwh. Un profetismo, quindi, che si muoveva a 360° all'interno di Israele, ma che non risparmiava neppure le popolazioni limitrofi. Una voce quella dei profeti che spesso rimaneva inascoltata; anzi talvolta il profeta era perseguitato dai potenti o dalla sua stessa gente, che non voleva sentire le sue dure sfuriate.

La predicazione dei profeti, infatti, non era mai teorica; il profeta non predicava mai una dottrina, né faceva catechismo, ma partiva sempre da situazioni concrete, che il popolo conosceva molto bene e tendeva a trascenderle senza esaurirsi in esse. Tale predicazione, diffusa inizialmente oralmente e custodita nella memoria del popolo, fu messa per iscritto quasi subito dai profeti stessi o dai loro discepoli, che la raccoglievano man mano che veniva proferita, benché un grande lavoro di redazione generale di tutti questi scritti, variamente sparsi, sia stata fatta durante e dopo l'esilio di Babilonia (597-538 a.C.), diventando questi un punto di riferimento per la vita di fede e dottrinale di tutto il popolo.

I profeti nella storia di Israele furono numerosi, ma soltanto quindici sono i nomi e le opere pervenuteci, suddivisi, in base alla consistenza dei loro scritti e non in relazione alla loro importanza, in 3 profeti maggiori e 12 profeti minori. I loro nomi, in ordine di data in cui esercitarono il loro ministero, furono:


1) Amos (760 a.C.)

2) Osea (760-722 a.C.)

3) Michea (742- 687 a.C.)

4) Primo Isaia (740-700 a.C.), a cui appartengono i capp. 1-39 del Libro di Isaia44

5) Naum (664-612 a.C.)

6) Sofonia (640 a.C.)

7) Geremia (626-587 a.C.)

8) Abacuc (605 a.C.)

9) Ezechiele (593-570 a.C.)

10) Abdia (587 a.C.)

11) Secondo Isaia (587- 538 a.C.), a cui appartengono i capp. 40-55 del Libro di Isaia

12) Terzo Isaia (538-520 a.C.), a cui appartengono i capp. 56-66 del Libro di Isaia

13) Aggeo (520 a.C.)

14) Zaccaria (520 a.C.)

15) Malachia (433 a.C.)

16) Gioele (tra il V e il IV sec. a.C.?)

17) Giona (tra il V e il IV sec. a.C.?)


Gesù, l'evento storico-divino, che segnò una svolta nella storia


L'autore della Lettera agli Ebrei apre il suo scritto con una professione di fede e con una attestazione storica, che lega la venuta di Gesù alla storia di Israele, dando in tal modo una continuità alla storia della salvezza45, che vede in Gesù il suo definitivo compimento: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli” (Eb 1,1-3). Anche Matteo vede in Gesù il compimento delle Scritture, così che, il suo Gesù46, rivolto alle folle, dice: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Gesù, dunque, è colui di cui le antiche Scritture avevano in qualche modo parlato, per questo egli ne è il compimento, cioè colui che ha realizzato le attese, attestate in esse. Significativo, in tal senso, è l'episodio dei due discepoli di Emmaus, i quali, non avendo saputo riconoscere il Risorto, che stava camminando al loro fianco, si sentono muovere il suo rimprovero: “Ed egli disse loro: <<Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?>>. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Gesù, tuttavia, non è un personaggio mitico, legato alla fede dei cristiani o da loro inventato, ma è una realtà storica, in cui i suoi primi seguaci hanno colto l'agire stesso di Dio e ne hanno dato testimonianza con fermezza e in piena convinzione, fino al punto di testimoniarlo con la loro vita. Paolo scrivendo alle comunità della Galazia, attesta con crudo realismo: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge” (Gal 4,4). Con questa espressione si indica la doppia origine di Gesù: Gesù è Dio, perché proviene da Lui, anzi è stato proprio Lui, il Padre, ha mandarlo (Gv 5,23.36; 6,57); ma nel contempo egli entrò nella storia grazie ad una donna, in cui prese forma umana (Fil 2,6-7). Gesù, dunque, è vero uomo, ma anche vero Dio. Egli è l'immagine di Dio fattosi storia, per incontrare gli uomini nel loro habitat naturale. I suoi primi seguaci fecero esperienza della sua umanità, ma nel contempo intuirono, in qualche modo, anche la sua divinità e ne dettero testimonianza: “Ciò che era fin da principio47, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi” (1Gv 1,1-3a).

All'origine della nostra fede, dunque, ci sta non un mito, non un'ideologia, non una filosofia e tanto meno una mistificazione, bensì una concreta realtà storica, un evento storico, di cui hanno parlato non solo gli autori cristiani, ma anche alcuni autori pagani, che nulla avevano a che vedere con questo giudeo. Attestazioni in tal senso ci sono pervenute da Tacito48, il quale nella sua opera “Gli Annali” afferma che Nerone, per stornare da sé l'accusa di aver incendiato Roma, accusò i cristiani: “Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio (14-37 d.C.) era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato (26-36 d.C.); e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma” (Annale XV, 44). Una seconda testimonianza ci proviene dal “Dialogo con Trifone” di Giustino49, in cui si ricorda un avvertimento, che sarebbe stato inviato dagli Ebrei palestinesi ai Giudei della diaspora e che contiene un giudizio su Gesù: “E’ sorta un’eresia senza Dio e senza Legge da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che noi lo avevamo crocifisso, i suoi discepoli lo trafugarono nottetempo dalla tomba ove lo si era sepolto dopo averlo calato dalla croce, ed ingannano gli uomini dicendo che è risorto dai morti e asceso al cielo”50 (Tryph. CVIII, 2).
Gesù nacque nel lasso di tempo che va tra il 7 e il 4 a.C.51, all'epoca in cui la Palestina era già sotto il dominio di Roma da almeno 60 anni. La nascita e l'infanzia di Gesù ci è raccontata dai soli evangelisti Matteo e Luca, che riportano fatti completamente diversi tra loro. Quanto questi fatti siano autentici non ci è dato di sapere, sia per gli intenti chiaramente cristologici dei racconti della nascita di Gesù, sia per il concetto di storia che gli antichi avevano, che era all'esatto opposto del nostro52.

Il personaggio Gesù, così come traspare dai vangeli, non fu certamente un tipo facile da gestire, ma una sorta di rivoluzionario, non in senso sociale o politico, bensì religioso. Un personaggio che doveva aver messo in difficoltà non solo i suoi fratelli, che non credevano in lui (Gv 7,5), ma anche sua madre, che, preoccupata, ritenendolo fuori di testa, cercava di convincerlo a tornare a casa (Mc 3,21.31), mentre i suoi avversari lo consideravano come uno che straparlava (Gv 10,20) e posseduto da un demonio53. Gesù, infatti, era uno che non rispettava il sabato54, violava le leggi sulla purità55, non osservava i digiuni prescritti dalla Tradizione56, contestava sistematicamente le autorità religiose, criticava duramente la Torah orale e la disprezzava, definendola, tout court, precetti di uomini57, come dire che non valeva un fico secco. Comportamenti simili erano ritenuti dalle autorità religiose giudaiche oltraggiosi e blasfemi. Tuttavia, non vi era in Gesù il disprezzo per la Legge mosaica e per le sue tradizioni (Mt 5,17), ma egli puntava a rivitalizzarle, togliendole dai lacci di un legalismo e un ritualismo soffocante, che impedivano un sincero e autentico rapporto con Dio, riconducendole alla sincerità del cuore e della vita (Mt 5,20-47), dove si celebra il vero culto gradito a Dio58. Il suo comportamento, scandaloso per il giudaismo, in realtà era un invito a riflettere sulle vere esigenze di Dio, distinguendo le tradizioni religiose degli uomini da quella che era la sua reale volontà, sistematicamente disattesa, per dare spazio alle interpretazioni della Legge (Mt 23,1-39). Gesù, del resto, è venuto non per giudicare gli uomini né per condannarli, ma per salvarli (Gv 3,16-17), anche se la sua venuta si costituì e si costituisce in mezzo ad essi come un atto di discriminazione e, quindi, di giudizio, poiché di fronte alla sua persona, al suo annuncio, al suo operare, al suo rivelarsi l'uomo è chiamato a prendere una posizione netta: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23); non vi è neppure uno spazio per tergiversazioni, tentennamenti o indifferenze, poiché questa posizione neutra o incerta costituisce già di per se stessa un rifiuto, su cui già pesa il giudizio divino: “All'angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,14-16). E' il comportamento di tanti cristiani, che vivono ai margini del cristianesimo, quello autentico, animato dalla Parola di Dio, limitandosi ad una stanca pratica cristiana, e ritenendosi a posto, in tal modo, con Dio. Per comprendere questa intransigente posizione di Dio è necessario comprendere ciò che egli ha fatto per l'uomo e comprendere il significato e la centralità di Gesù in questa azione di Dio nei confronti degli uomini: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,16-18). Gesù, dunque, si presenta agli uomini come un dono di salvezza offerto loro dal Padre; egli è la mano tesa del Padre verso gli uomini; lo spazio salvifico in cui il Padre si incontra con essi e si riconcilia con loro. Gesù, dunque, è la risposta che il Padre dà ai problemi e agli interrogativi dell'uomo. Egli è il Dio ritornato in mezzo al suo popolo e il suo passaggio fu una presenza benefica e liberante (At 10,38). Il suo intento non era quello di salvare l'anima dell'uomo, ma di riscattare l'uomo nella sua interezza, sollevandolo dal suo degrado morale, in cui era stato ridotto dalla colpa originale. Ai discepoli di Giovanni Battista, che erano andati da Gesù per chiedergli se era lui il Messia, l'inviato di Dio, Gesù risponde citando liberamente un'espressione di Isaia: “[...] Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,4-5). Il segno, dunque, che Gesù era l'inviato di Dio e operava in nome e per suo conto, era proprio la guarigione di un'umanità degradata dal peccato, della quale ciechi, sordi, zoppi, muti, morti e poveri erano l'immagine. Essi erano la metafora di un'umanità incapace di aprirsi a Dio e di ritornare a Lui. Gesù era, dunque, venuto per creare un grande movimento escatologico dell'intera umanità per reindirizzarla a Dio; un movimento che Matteo evidenzia nel lamento di Gesù su Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Mt 23,37). I miracoli di guarigione, che egli compiva, erano il segno e la testimonianza visibile degli effetti spirituali, che avrebbe prodotto la sua risurrezione e in qualche modo essi l'anticipavano: l'uomo veniva guarito dal degrado della colpa, rigenerato in novità di vita, ricollocato in Dio, con Lui riconciliato e in Lui ricostituito nella sua dignità originale. È significativa, in tal senso, la guarigione del paralitico, presentato a Gesù perché lo guarisse (Lc 5,18-25). Gesù di fronte a questo disgraziato compie due cose tra loro strettamente legate: dapprima gli dice che i suoi peccati gli sono perdonati e poi lo guarisce, per rendere visibile in tal modo la sua guarigione spirituale. Quindi la guarigione spirituale, che è riconciliazione con Dio, si riflette nella vita dell'uomo. Il paralitico che ritorna a camminare è la metafora dell'uomo, che, spiritualmente paralizzato dalla colpa originale, dopo il suo incontro con Gesù, riprende, rigenerato a nuova vita, il suo cammino verso Dio. Non a caso Luca conclude il suo racconto, commentando come il paralitico guarito riprese a camminare glorificando Dio: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio” (Lc 5,25). Ci troviamo di fronte ad un uomo rigenerato spiritualmente e nuovamente in grado di dialogare con Dio, riprendendo con Lui quel dialogo, che si era interrotto nel Paradiso terrestre. La guarigione che Gesù opera, dunque, punta a riscattare l'uomo nella sua interezza, corporale e spirituale. Ecco perché la Chiesa, ma ancor prima Paolo (1Cor 15,12-58), crede nella risurrezione dei corpi.

A fronte di un così grande progetto divino, pensato per l'uomo fin dall'eternità (Ef 1,4-5.10), che ha visto e vede coinvolto e impegnato Dio in prima persona, non dobbiamo pensare di cavarcela nei suoi confronti con qualche messa domenicale, con qualche comunione o con qualche preghiera. Dio punta al cuore dell'uomo e lo interpella con la sua Parola nel suo vivere quotidiano; se le risposte qui sono sbagliate o insufficienti, tutto il resto non serve a nulla. Non dobbiamo commettere l'errore degli scribi e dei farisei, che si ritenevano a posto con Dio per la loro scrupolosa osservanza della Legge. Su di loro Gesù, rivolto ai suoi discepoli, disse: “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20); mentre rivolto agli scribi e ai farisei, li redarguisce duramente: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. E' venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli” (Mt 21,31b-32).

Questo, dunque, Gesù e il senso della sua venuta.

La chiave della salvezza: incarnazione, morte, risurrezione

Ci soffermiamo, ora, su tre aspetti fondamentali della vita di Gesù, che non solo hanno segnato profondamente la storia della salvezza, ma l'hanno anche operata e nei quali siamo stati coinvolti in prima persona: l'incarnazione, la morte e la risurrezione. Qual è il loro senso? In quale modo noi ne siamo stati coinvolti? Che cosa è avvenuto in questi tre eventi e in quale modo essi hanno operato la salvezza? In che cosa essa è consistita? Non faremo un trattazione storico-esegetica dei tre eventi, poiché questo richiederebbe tempi e luoghi diversi, ma andremo dritti al cuore della questione, per comprendere quanto è successo in quello che la Chiesa definisce come il secondo mistero principale della nostra fede: “Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo59.

Per comprendere il significato di questo mistero, dobbiamo fare un passo indietro e riprendere in mano il dramma del Paradiso terrestre: la caduta di Adamo ed Eva, definita come colpa originale e, in modo improprio ed equivoco, anche come peccato originale. Non si tratta, infatti, di un peccato in senso morale, cioè che attiene al comportamento dell'uomo e che lo coinvolge individualmente, ma di un evento che ha causato la rottura di un equilibrio originale, che vedeva l'uomo e l'intera creazione compartecipi della vita stessa di Dio, avvolti e permeati della luce divina e, quindi, incandescenti di Dio (Gen 1,3). Allora, si disse che fu come una sorta di esplosione nucleare, che ha coinvolto, suo malgrado, l'intera umanità e l'intera creazione, per un principio di solidarietà, che lega inscindibilmente le due realtà. Si era detto che Dio creando l'uomo soffiò su di lui e lo trasformò in un essere vivente, partecipe della sua stessa vita divina. Il soffio di Dio, infatti, altro non è che lo Spirito di Dio, che ha permeato l'uomo di Sé, associandolo alla propria vita. Si era detto anche che l'uomo, a motivo della sua posizione, che lo rendeva simile a Dio, tentò anche di porsi al suo posto (“mangiò dell'albero”) e questo tentato colpo di stato si ritorse contro l'uomo che si accorse di essere nudo (Gen 3,7), cioè spogliato della sua posizione di privilegio e da carne spiritualizzata divenne carne despiritualizzata e che Dio coperse con pelli di animali e non più del suo Spirito (Gen 3,21), per indicare la nuova condizione di vita dell'uomo, non più somigliante a Dio, bensì ridotto ad uno stato di animalità, privato, quindi, dello Spirito divino. Infatti, quando Dio creò gli animali, prese della creta come per l'uomo, ma non vi soffiò il suo Spirito di vita (Gen 2,19), così che l'animale rimase legato alla terrestrità e il suo destino non fu Dio, bensì la polvere da cui è stato tratto, essendo privo dello Spirito divino. Ora, anche l'uomo, privo dello Spirito divino, si autoridusse ad uno stato di animalità, così che Dio sentenziò che l'uomo, alla pari degli animali, sarebbe morto di morte (Gen 2,17; 3,4) e che, quindi, sarebbe tornato non più a Dio, bensì alla polvere da cui fu tratto (Gen 3,19). L'uomo, quindi, da carne spiritualizzata e partecipe della vita divina, divenne carne despiritualizzata, destinata alla polvere. L'obiettivo di Dio, ora, era quello di recuperare l'uomo alla sua dimensione originale. Tutto questo, dopo un lungo periodo preparatorio durante il quale Dio tenta di riallacciare i rapporti con l'uomo (A.T.), viene realizzato nel suo Figlio, che attua in sé il disegno del Padre e lo fa attraverso tre momenti fondamentali: l'incarnazione, la morte e la risurrezione.

Attraverso l'incarnazione Dio non solo entra nella storia e si incontra direttamente con gli uomini, cercando di riprendere quel dialogo interrotto nel Paradiso terrestre, ma assume su di sé anche la natura umana corrotta dal peccato (2Cor 5,21). Paolo descrive questo momento nella sua lettera ai Filippesi: “egli (Gesù), pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8); e con la natura umana decaduta, per un principio di solidarietà che lega i due, assume su di sé anche l'intera creazione, anch'essa sottoposta alla corruzione del peccato: “essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa” (Rm 8,20). E Dio in Gesù vive questo stato di decadenza e di peccato, che caratterizza la condizione umana; sperimenta il male e il degrado della sua caducità (Eb 4,15); si incontra con essa, con pubblicani, peccatori, prostitute, con zoppi, ciechi, sordi, paralitici, con i poveri, con i morti e con l'incredulità, che è il segno di un orgoglio disperato, che crede nell'autosufficienza e nell'autoriscatto dell'uomo; tutta una lunga categoria di persone, questa, segnate e condizionate profondamente dalla colpa originale e che vivono nella loro carne lo stato di corruzione causato da questa colpa e che di fatto è espressione di morte, per cui il vivere dell'uomo si è trasformato in un lento e graduale morire, che sfocia nell'ultimo atto della morte fisica. Paolo testimonia questa triste condizione umana scrivendo alla comunità di Roma: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). E' l'esplosione nucleare di cui si parlava, che con le sue radiazioni mortali penetra in profondità ogni uomo e lo distrugge dall'interno, riducendolo ad uno stato larvale. Da questo momento il vivere dell'uomo si trasforma in una lenta e lunga agonia. Le conseguenze di questa decadenza sono menzionate da Paolo, che le definisce “le opere della carne”: “Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio60” (Gal 5,19-21). Dio, nell'umanità di Gesù, ha assunto su di sé tutto questo e lo ha vissuto e sperimentato su di sé, rendendosi solidale con gli uomini (Rm 8,3b; Eb 4,15) e riaccendendo in essi la speranza.

L'incarnazione è, pertanto, il primo momento del piano di Dio per recuperare l'uomo a sé: Dio, entrando nella storia, si riveste e fa propria la carne decaduta di Adamo. Il secondo passo è la morte di Gesù. Essa non fu soltanto una morte personale, così come può essere quella dell'uomo, ma universale. Dio, infatti, rivestendosi della carne adamitica decaduta, portò questa sulla croce e con questa l'intera umanità e l'intera creazione; e morendo non solo sperimentò nella propria carne l'effetto del peccato, la morte (Rm 5,12; 6,23a), ma con la sua morte ci ha morti tutti quanti. Il Gesù giovanneo dà testimonianza di questo momento: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Gli fa eco Paolo nella sua Lettera ai Romani: “Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm 6,6); similmente, l'autore della prima lettera di Pietro: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1Pt 2,24a). Su quella croce, dunque, non ci è salito soltanto Gesù, ma l'intera umanità e la stessa creazione, che con-morirono “con”, “in” e “per mezzo” di Gesù. La morte di Gesù, dunque, ha posto fine alla vecchia umanità adamitica e alla vecchia creazione, decadute a causa del peccato. In Gesù, rivestito della vecchia carne corrotta dal peccato, perché privata dello Spirito di Dio, morì il vecchio Adamo e con lui le nefaste conseguenze della sua colpa sull'intera umanità e sull'intera creazione. L'autore della Lettera agli Ebrei ricorda questo momento: “[...] è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9,26c).

Se l'incarnazione ha consentito a Dio di assumere su di sé la condizione dell'uomo, corrotta dal peccato e posta sotto il segno della morte, la morte di Gesù ha posto fine alla vecchia creazione adamitica, corrosa dal peccato e destinata alla corruzione. Incarnazione e morte di Gesù, tuttavia, non sarebbero state sufficienti a riscattare l'uomo e a riconsegnarlo alla vita di Dio, poiché esse parlano soltanto di fine di un certo modo di essere dell'uomo e della creazione, ma non lo aprono alla speranza di una nuova vita in Dio e tantomeno lo riconducono a Lui. Non va mai dimenticato che l'obiettivo della storia della salvezza è quello di recuperare l'uomo alla dimensione divina, in cui l'uomo era nato e da cui, poi, se ne uscì. Quindi, se l'azione di Dio si fosse limitata ai primi due momenti, incarnazione e morte, l'uomo non avrebbe mai potuto accedere alla vita di Dio, che, all'origine, gli era propria. Proprio su questo punto, Paolo, rivolto a quelli della comunità di Corinto, che dubitavano della risurrezione, affermava: “Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. […] ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1Cor 15,14.17). Serviva, dunque, per completare l'opera, un terzo momento indispensabile: la risurrezione di Gesù, che non fu una sorta di risuscitazione dalla morte, come avvenne per Lazzaro, il quale, poi, morì nuovamente; ma fu una vera e propria ri-creazione, una vera e propria rigenerazione dell'uomo Gesù in Dio per mezzo della potenza dello Spirito, come ci testimonia lo stesso Paolo: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-4). Lo Spirito di santificazione è lo Spirito di Dio, che ha assimilato a Dio stesso l'uomo Gesù, che fu rigenerato e ricostituito nuovamente come suo Figlio nella gloria di Dio61, che è vita stessa di Dio, quella gloria, che egli ebbe da sempre presso il Padre. Significativo, in tal senso, è quanto dice il Gesù giovanneo, rivolto al Padre: “E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,5).

Gli effetti visibili della risurrezione

Vediamo, ora, da vicino in che cosa è consistita la risurrezione e che cosa ha prodotto in Gesù e qual è il suo significato. Già si è detto che essa non fu un semplice ritornare in vita di Gesù, come avvenne per Lazzaro, ma fu una trasformazione del suo essere, che da semplice carne despiritualizzata, posta quindi sotto il segno del peccato e della morte, divenne carne spiritualizzata, per la potenza dello Spirito Santo, che è azione trasformante e rigenerante di Dio e che imprime in quella carne la vita stessa di Dio (Rm 1,4)62. L'uomo Gesù, quindi, fu, con il suo corpo spiritualizzato, assimilato alla vita stessa di Dio nella pienezza del suo essere. Ciò che avvenne nella risurrezione è esattamente ciò che Dio fece quando creò il primo uomo Adamo: soffiò con la potenza del suo Spirito su Adamo e questo divenne un essere vivente (Gen 2,7), cioè carne spiritualizzata e posta, quindi, nella dimensione stessa di Dio e partecipe della sua vita. Così il Padre, ora, per mezzo della potenza del suo Spirito, generatore di vita, investì il corpo mortale di Gesù e trasformò quella carne adamitica, cioè despiritualizzata a causa della colpa originale, di cui Gesù era rivestito, in carne spiritualizzata e, quindi, ricondotta nella dimensione divina, così come lo era Adamo nei primordi dell'umanità. In altri termini, Gesù divenne il nuovo Adamo, ricreato, o meglio, rigenerato e ricostituito in Dio, come lo fu il primo Adamo. Con la risurrezione dell'uomo Gesù, Dio, dunque, ha concluso il ciclo salvifico, recuperando a sé, in modo stabile e permanente, l'intera umanità e l'intera creazione, così come lo era nei primordi. Si è trattato, in definitiva, del progetto di una nuova creazione, che venne attuata per mezzo di Cristo e in lui ricapitolata, come suggerisce l'autore della Lettera agli Efesini: “per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10). Significativo quanto Giovanni attesta nella sua grandiosa visione nell'Apocalisse: “Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé. […] Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più” (Ap 20,11; 21,1). Il cielo e la terra che scompaiono sono la metafora della vecchia creazione, assoggettata alla corruzione; mentre i cieli nuovi e la terra nuova sono la metafora della nuova creazione, che fu generata nella risurrezione di Gesù. Giovanni, poi, prosegue presentando, per immagini e per simboli, gli effetti della nuova creazione, sufficientemente intuibili: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare (simbolo del male) non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>> […] Mi mostrò poi63 un fiume d'acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello64. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell'albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione65. Il trono di Dio e dell'Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 21,1-5; 22,1-5).

Vediamo, ora, da più vicino quali effetti ha concretamente prodotto la risurrezione di Gesù, o meglio, la trasformazione del suo corpo mortale in un corpo spiritualizzato. Innanzitutto, dopo la sua risurrezione, nessuno più riesce a riconoscere Gesù, neppure i suoi discepoli, che lo hanno fedelmente seguito da alcuni anni e con lui hanno convissuto; ma sarà sempre lui a farsi riconoscere66. È questo il primo segno, che qualcosa è avvenuto in lui e tale da renderlo inconoscibile nel suo aspetto storico precedente e umanamente irraggiungibile, così che alla Maddalena, che cerca di trattenerlo, dirà: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17)67. Il secondo momento ci viene testimoniato dagli stessi discepoli, che chiusi nel cenacolo, per paura dei Giudei, se lo vedono comparire in mezzo a loro68 . È un corpo, quindi, che oltrepassa i muri e che nessun bunker è in grado di fermare. Non si tratta di un fantasma o di una apparizione sul fac-simile di quelle mariane. È Gesù stesso che attesta che è lui in persona, “in carne ed ossa”, e a riprova di ciò chiede ai suoi discepoli impauriti di dargli da mangiare (Lc 24,37-39); è un Gesù in tutta la sua concretezza corporea e che porta in se stesso ancora i segni delle ferite dei chiodi e si lascia raggiungere e toccare dai suoi discepoli (Lc 24,39; Gv 20,25-27). Ma è anche un Gesù che, ormai, non si può più trattenere poiché egli appartiene ad una dimensione diversa da quella umana (20,17a). È un Gesù, che risorge a Gerusalemme, dove era stato seppellito, ma invita i suoi a recarsi in Galilea dove egli li incontrerà (Mt 28,7.16; Mc 16,7). Ma tra Gerusalemme e la Galilea vi sono oltre 150 Km, una distanza che non è percorribile in poche ore, considerati i mezzi di trasporto e le strade dell'epoca. Ma nel contempo egli si fa vedere a molte persone, variamente sparse in località diverse (1Cor 15,3-8). E tutto ciò nell'arco di pochi istanti. È, dunque, un corpo che si muove alla velocità della luce e che non obbedisce più alle leggi della storia. Significativo, infine, è il mangiare il cibo che i suoi gli hanno offerto (Lc 24,41-43). Si tratta di cibo umano, corruttibile, come si combina, dunque, con un corpo che è spiritualizzato e, quindi, incorruttibile? Un corpo che è già nella dimensione di Dio? È questo il punto più interessante per noi, poiché lascia intendere chiaramente che tutto ciò che viene a contatto con questo corpo e avvolto e permeato da questo corpo, viene a sua volta trasformato nella stessa identità di quel corpo; viene a lui assimilato. Da quel corpo, dunque, promana una forza e una energia trasformante, che si irradia sull'intera creazione e sull'intera umanità, che si lascia raggiungere dal Risorto.

Gli effetti dell'incarnazione, morte e risurrezione di Gesù su di noi

Dopo aver meditato gli eventi che si sono prodotti in Gesù, la loro dinamica e la loro portata universale, ci chiediamo, ora, in quale modo essi ci coinvolgono e in quale modo ci interpellano individualmente e, dunque, quale risposta siamo chiamati a dare. Sono eventi questi che non possono essere trascurati o ai quali si possa rispondere con l'indifferenza, poiché essi sono realtà, che si pongono di fronte a noi e ci spingono a prendere esistenzialmente posizione nei loro confronti. La nostra risposta può essere negativa, rifiutandoli o rimanendo più semplicemente indifferenti ad essi o ignorandoli; può essere positiva, aderendo esistenzialmente alle realtà spirituali che essi hanno generato in ciascuno di noi. Esse sono già presenti in noi e noi ne siamo già pienamente coinvolti e permeati. Ora dobbiamo renderci conto di quanto è successo in noi e in quale modo ne siamo coinvolti, così da poter conformare il nostro vivere ad esse, perché il progetto salvifico del Padre, manifestatosi e attuatosi nel suo Cristo, non vada perduto; se così fosse, ne saremo individualmente responsabili, giocandoci in tal modo la nostra salvezza. Non pensiamo di cavarcela con qualche messa dominicale, con qualche comunione, con qualche preghiera, in genere interessata, o con qualche pia pratica cristiana o rincorrendo i vari santuari mariani variamente sparsi per il mondo, poiché queste cose, pur in se stesse apprezzabili, sono risposte del tutto insufficienti e inadeguate e, per questo, del tutto irrilevanti ai fini salvifici. Dio punta sempre diritto al cuore dell'uomo ed è questo, al di là di ogni pratica pietistica, che egli vuole riconquistare a Sé. È ciò che si gioca nel cuore dell'uomo che determina l'indice di gradimento di Dio nei nostri confronti.

Sono realtà spirituali, ma non per questo meno reali, meno vere e meno efficaci; sono realtà in cui siamo stati coinvolti già con l'incarnazione di Dio, che, assunte le sembianze dell'uomo Gesù, ha assimilato nella sua umanità anche la nostra, legandoci inscindibilmente al destino di suo Figlio e coinvolgendoci, nostro malgrado, nel suo progetto di salvezza, che ha nell'incarnazione, morte e risurrezione di suo Figlio i suoi tre pilastri fondamentali. In questi siamo stati, fattivamente e indipendentemente dalla nostra volontà, coinvolti individualmente e di fronte ai quali siamo chiamati a dare la nostra risposta personale a livello esistenziale. Ma in quale modo ciò è avvenuto e che cosa ciò comporta per noi? La risposta a questi interrogativi viene data da Paolo nella sua Lettera ai Romani: “Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo anche con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio” (Rm 6,3-13). A queste sollecitazione fa eco la Lettera ai Galati, scritta da Paolo un anno prima di quella ai Romani (57/58 d.C.) e della quale, quest'ultima, è uno sviluppo dottrinale e teologico: “Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,16-25). Morti, quindi, al vecchio Adamo e rigenerati in Cristo ad una nuova vita, siamo diventati nuove creature, chiamate a vivere per Dio. Un nuovo stile di vita, pertanto, deve caratterizzare il nostro modo di vivere, un vivere che obbedisce non più alle logiche dell'uomo vecchio, ma a quelle dello Spirito, che ci permea in virtù del battesimo, che ci ha consacrati a Dio. L'autore della Lettera ai Colossesi, scrivendo alla sua comunità, indica qual è il nuovo stile di vita, che la deve animare: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Sciita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi ed eletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,1-17). E così anche l'autore della Lettera agli Efesini, rivolto alla sua comunità, che dopo aver ricevuto la chiamata alla santità, che è vita in Dio e per Dio, continuava a vivere come prima, come se nulla fosse avvenuto: “Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. [...] Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile. Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo. Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,1-3.17-32). Siamo, dunque, permeati da una vita nuova, segnata dallo Spirito e in virtù del battesimo siamo stati compenetrati da Cristo, ci siamo rivestiti di lui come di un abito nuovo, siamo stati cristificati e diventati nuove creature in lui. Tutto questo comporta un impegno a vivere secondo le logiche dello Spirito, che non significa disprezzare le cose materiale o distaccarci da esse, poiché anche di queste cose siamo fatti e queste fanno parte della nostra natura; si tratta soltanto di dare ad esse il giusto valore, tenendo presente che siamo in cammino verso l'eternità, che già vive in noi e di cui già, fin d'ora, noi facciamo parte. Il Libro del Levitico esorta il popolo ebraico, che Dio aveva definito sua proprietà, popolo di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6), ad essere santo: “Il Signore disse ancora a Mosè: Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,1-2). Essere santi significa vivere della vita di Dio, che si è manifestata nella sua Parola; e noi santi lo siamo già in virtù della fede e del battesimo (Rm 1,7), che ci ha inseriti in Cristo e con lui in Dio (Col 3,3). Già facciamo parte della vita di Dio e siamo stati inseriti nel ciclo della vita Trinitaria, che è essenzialmente vita di amore. Il nostro compito, dunque, non è diventare santi, poiché già lo siamo69. Si tratta, invece, di prendere coscienza, attraverso la Parola di Dio, di queste nuove realtà divine, che sono state inserite in noi e di cui siamo permeati, e conformare ad esse il nostro modo di vivere, tenendo uno stile di vita tale da non profanarle. Paolo scrivendo alla comunità di Roma, la esorta: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Due cose sottolinea qui Paolo: da un lato non bisogna lasciarsi attrarre dall'andazzo comune, ma assumere un atteggiamento critico; dall'altro, è necessario che rinnoviamo il nostro modo di vedere e di pensare, conformandolo all'uomo nuovo che è in noi. Ciò che è in grado di operare in noi questa trasformazione e questa continua rigenerazione è solo e unicamente la Parola di Dio, che, rivelandoci le nuove realtà spirituali che vivono in noi, ci indica anche le esigenze di Dio nei nostri confronti e quale risposta, a livello esistenziale, Dio si attende da noi.

Questa è la ricchezza spirituale, che Dio ci ha donato e di cui ci ha fatto partecipi per mezzo di Gesù, il nuovo Adamo, il capostipite di una nuova umanità, ricreata e rigenerata dallo Spirito, effuso su di noi nel battesimo. Una ricchezza, la cui portata e dimensione, noi possiamo conoscere solo attraverso la Parola di Dio. Una ricchezza che Gesù, morente sulla croce, ha lasciato in eredità alla nuova comunità credente70, che ha confermato e consacrato a sè con il suo Spirito dopo la risurrezione71. I vangeli terminano, infatti, il loro racconto lasciando intravvedere come l'attività salvifica di Gesù e la sua parola fossero state prese in eredità dai suoi discepoli, che, costituitisi in comunità credenti, formarono le prime cellule di quella che sarà, poi, la Chiesa72. La Chiesa, quindi, pur nella sua fragilità umana, diviene l'erede e il proseguimento storico dell'attività salvifica di Gesù. Non a caso, ogni storia della chiesa inizia con la descrizione dell'attività di Gesù e del suo contesto storico, per poi proseguire da qui, quasi in modo impercettibile, alla formazione della prima chiesa e al suo rapido diffondersi. Non mancano, tuttavia, testi di storia della chiesa che, concependo la chiesa come il nuovo Israele ed erede in Cristo delle promesse, che Dio gli ha fatto e dell'Alleanza che egli stabilì con il suo popolo, iniziano il loro studio a partire dal V sec. a.C., epoca questa in cui Israele ritornò dall'esilio babilonese (597-538 a.C.), dando origine al giudaismo e al nuovo assetto culturale e religioso, in cui Gesù è nato e in cui è sorta anche la chiesa.

La Chiesa nasce a Gerusalemme ed è caratterizzata da tre eventi fondamentali e fondanti:

La Chiesa, nata all'interno del Giudaismo, era inizialmente considerata come una sua nuova setta. Gli stessi giudeocristiani, cioè giudei convertiti al cristianesimo, si consideravano ancora appartenenti al Giudaismo e soggetti alla legge mosaica. Ancora non si era compresa la vera natura di Gesù, considerato dai giudei e dai giudeocristiani come un semplice rabbi o un profeta, ma non superiore a Mosè. Del resto anche i seguaci del Battista consideravano il loro maestro superiore a Gesù. Sarà il successivo approfondimento e la ricomprensione della persona di Gesù, della sua predicazione e della sua opera alla luce della risurrezione, che portò anche a comprenderne la vera natura divina. Nell'arco di pochi anni, la Chiesa delineò una sua propria identità, entrando, ben presto in conflitto con il Giudaismo, venendo da questo perseguitata. I giudei e i giudeocristiani furono un elemento di notevole disturbo nei confronti del nascente cristianesimo, proprio per la loro difficoltà di distaccarsi completamente dal giudaismo e di concepire Gesù come vero Dio e Messia. Di questo sofferse moltissimo Paolo, che alla questione dedicò i capp. 9-11 della sua lettera ai Romani, scritta intorno agli anni 57/58. Si venne a creare all'interno del nascente cristianesimo un conflitto tra la chiesa di Gerusalemme, considerata la chiesa madre, e quella di Antiochia73, formata da etnocristiani, cioè da convertiti provenienti dal mondo pagano. La grave divergenza tra le due chiese, che rappresentavano due mondi di provenienza del cristianesimo, si ricompose ufficialmente, ma non nei fatti, nel primo “concilio” della storia, quello di Gerusalemme (49 d.C.), testimoniato sia dal cap. 15 degli Atti degli Apostoli che da Paolo nella sua Lettera ai Galati (2,1-10).

Una chiesa nascente che dovette confrontarsi duramente anche con il mondo culturale e sociale romano ed ellenistico, in cui era nata e si muoveva.

Il cristianesimo ebbe una rapida diffusione in tutto il mondo allora conosciuto, favorito in questo dalla compattezza, dalla stabilità e dall'uniformità dell'ambiente sociale e culturale del mondo antico, nonché dall'unità linguistica, il greco della koiné, che le conquiste di Alessandro Magno, prima, e l'affermazione dell'Impero romano, poi, avevano creato e che facilitarono il raggiungimento di tutti i popoli e la comprensione universale del nuovo annuncio. La rapida diffusione fu favorita anche dalla grande estensione della rete stradale, creata da Roma (circa 378.000 Km), e che collegava tutto l'Impero, per favorire il rapido spostamento dell'esercito e gli interscambi commerciali tra tutte le popolazioni dell'Impero.

Proprio per facilitarne la diffusione e la comprensione, il Nuovo Testamento fu scritto in lingua greca, così come Paolo scrisse in greco. A testimonianza di tale diffusione si pensi alla Bibbia ebraica, tradotta, intorno al II° sec. a.C., in greco ad Alessandria di Egitto, dove vi era una fiorente comunità di ebrei, che ormai non comprendevano più l'ebraico, ma molto bene il greco. Fu un evento eccezionale, se si pensa alla sacralità della lingua ebraica, pensata come la lingua di Dio. Questa traduzione, che è stata accolta anche dalla Chiesa cattolica, viene tuttora denominata “la LXX” (La Settanta)74.

La stessa lingua della Chiesa dei primi quattro secoli fu il greco della koinè. Sarà papa Damaso I°, che intorno al 380, introdurrà la lingua latina nella liturgia della Chiesa occidentale. Fu sempre papa Damaso, che in questo periodo, affidò la traduzione della LXX a S. Girolamo. Nacque così la Vulgata, la Bibbia tradotta dal greco in latino, che da questo momento formerà la lingua ufficiale della chiesa d'occidente, mentre il greco rimarrà la lingua ufficiale della chiesa d'oriente. Sarà anche per queste differenze linguistiche e culturali, che si creeranno delle incomprensioni tra le due grandi chiese.

Alcune brevi linee di storia della Chiesa

Di seguito vengono tratteggiate alcune linee fondamentali della storia della chiesa, che l'hanno caratterizzata nel corso della sua storia.

Chiesa antica (I – VI° sec.)

Questo periodo è caratterizzato da una iniziale conflittualità con l’impero romano, che trovò il suo vertice nelle grandi persecuzioni (250-305) di Decio (249-251), Valeriano (253-260) e Diocleziano (284-305), ricompostasi poi con l’avvento della svolta costantiniana (313), che integrò la Chiesa nella struttura stessa dell’impero, dandole in tal modo una rilevanza sociale fino ad allora sconosciuta. Qui la Chiesa, uscita dalle catacombe, incomincia a darsi una propria organizzazione interna, che risente della struttura imperiale e sarà tale da prenderne il posto quando, a partire da Costantino (11 maggio 330), gli imperatori abbandoneranno Roma e si stabiliranno a Costantinopoli.
E’ l'epoca delle grandi eresie e dei grandi concili
75, il periodo in cui la Chiesa, venuta a contatto diretto con il mondo culturale greco, si interroga sui contenuti della propria fede, approfondendoli teologicamente e dottrinalmente, definiti e codificati dai quattro grandi Concili di Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451). E’ il periodo in cui nasce il monachesimo (250)76.

L’epoca antica finisce nel VI° con il papa Gregorio Magno (590-604), mentre l’ultimo imperatore cristiano fu Giustiniano (482-565).

Chiesa medievale (VI° - XV° sec.)

La fine dell’Impero romano (476) fu segnata dalle invasioni barbariche. In questo contesto la Chiesa non solo ha fatto da mediatrice tra le macerie dell’Impero e le nuove popolazioni del Nord, ma ha assorbito in se stessa queste nuove energie, trovando in esse una nuova linfa vitale, da cui nascerà, poi, il Sacro Romano Impero (800 d.C.), che coinvolgerà sempre più la Chiesa nel pantano del potere temprale e nella terrestrità, che avrà il suo apogeo con Innocenzo III (1198-1216). E’ il periodo dei vescovi principi, dei papi guerrieri, delle lotte per l’investitura, di una sfrenata rivalità per il potere conteso tra imperatori e papi, che si chiuderà con il “Concordato di Worms” del 23 settembre 1122, tra papa Clemente II ed Enrico V.

E’, ancora, il periodo della grande spaccatura della Chiesa d'Occidente con quella d’Oriente (1057), consumatasi in reciproche scomuniche.

Fu un lungo periodo, di quasi dieci secoli, in cui la Chiesa, gradualmente, perse sempre più la propria identità originaria e, conseguentemente, il senso della sua missione spirituale fino a provocare una reazione che sfociò nella Riforma luterana, che per la prima volta vide divisa l'Europa cattolica.

Chiesa della Riforma e Controriforma (XVI° - XVIII° sec.)

La Chiesa che si affacciava alle soglie del XVI secolo fu una chiesa impantanata nel potere temporale e preoccupata prevalentemente a consolidarlo in una lotta sfrenata tra famiglie nobiliari per assicurarsi il pontificato e privilegi derivanti dal potere e dalla ricchezza. Il vertice di questa dissolutezza morale, in cui la Chiesa perse oltre che la propria dignità anche la propria identità, venne toccato dal papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, 1491-1504).

In un clima e in un ambiente così corrotti nacquero spontanei, per reazione, movimenti spiritualisti che puntavano ad una riforma generale della Chiesa e ad una sua moralizzazione. "Pro reformatione Ecclesaie Dei in capite et in membris" fu lo slogan di questi movimenti, che affondavano le loro radici nella profonda religiosità popolare, sostenuta dall'Osservanza degli Ordini dei Mendicanti e dei Benedettini. All'interno di questi movimenti vanno ricordate figure innovatrici come quella di Girolamo Savonarola, Caterina Fieschi, Paolo Giustiniani ed altri ancora.

La profonda e tormentata sensibilità morale e spirituale di Lutero spinse questo monaco agostiniano contro la dissolutezza di Roma. Il suo tormento interiore, rimasto inascoltato, lo portò a sfidare Roma con le 95 tesi affisse alla cattedrale di Wittenberg. La rivolta riformatrice di Lutero contro Roma si diffuse rapidamente in tutta la Germania, fino a spaccare l'Europa cattolica, per la prima volta nella sua storia, in due parti contrapposte.

La Chiesa rispose con una Controriforma, nata più per contrastare la Riforma protestante che per una propria esigenza interna, anche se questo elemento non mancò.

I tratti della Riforma e Controriforma, quest’ultima codificata dal Concilio di Trento (1545-1563), furono caratterizzati dalla polemica, dall'apologia e da un sostanziale rapporto di forza, che ha radicato le due parti sulle loro posizioni, lacerando la Chiesa e l'Europa e creando in essa due anime contrapposte che ancor oggi, a fatica, si tenta, inutilmente, di riconciliare.

Chiesa moderna (XIX° - ad oggi)

Con l’avvento della Rivoluzione francese e la nascita dell’Illuminismo tutto il vecchio mondo europeo, sorto dalle rovine dell’impero romano, è percorso da una nuova ventata portata dalla luce della Ragione. Tutto viene posto sotto critica e al vaglio della Ragione.

Anche la fede e le sue fonti, fino ad allora accettate supinamente, per autorità dottrinale, vengono sottoposte ad una dura critica.

È l’epoca delle grandi trasformazioni sociali e delle lotte di classe, della formazione definitiva degli stati europei; l’epoca della “Rerum novarum”, promulgata il 15 maggio 1891 dal papa Leone XIII (1878-1903), con la quale la Chiesa, per la prima volta, prese posizione sulle questioni sociali, inaugurando la sua dottrina sociale; è il periodo della formulazione delle grandi teorie economico-sociali, che travolgeranno il mondo e lo porteranno a confrontarsi con due guerre, spaccandolo tra due ideologie, tra due grandi visioni della storia, della società e dell’uomo: capitalismo e comunismo.

Un’epoca in cui la Chiesa, quasi superata dagli eventi stessi, è chiamata a dare delle risposte a se stessa e al mondo, che attorno a sé sta cambiando in rapida evoluzione, con ritmi fino ad allora sconosciuti. Una grande risposta e una sfida ai nuovi tempi venne dal Concilio Vaticano II (1962-1965), che cambiò il volto della Chiesa, rendendo partecipe e protagonista della vita stessa della Chiesa il mondo laicale e aprendosi al mondo in genere. Un Concilio che, con le sue grandi aperture e le sue grandi visione della storia, della società e della vita, ha colto di sorpresa e impreparata la Chiesa stessa e che oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, essa l'ha, in via di fatto, sostanzialmente disatteso e rinnegato.

Al di là della storia della Chiesa (cenni di ecclesiologia)

La Chiesa, tuttavia, non è soltanto un'istituzione religiosa e sociale, che possiede una sua storia e una sua propria configurazione storica. Una storia fatta da uomini con tutti i loro limiti, ma che, tuttavia, nulla tolgono alla santità e alla sacralità congenite della Chiesa, proprio perché essa ha le sue radici in Cristo e, per suo mezzo, in Dio, di cui condivide la vita e ne è sacramento, cioè segno storico efficace. Per questo essa è ontologicamente santa. Essa possiede, pertanto, anche una dimensione spirituale, che si riflette nella sua stessa struttura storica e che va soggetta ad una lettura e ad una comprensione teologica. Come Gesù, infatti, di cui è la prosecutrice e ne incarna lo Spirito e dal suo Spirito è condotta, possiede anche lei una doppia natura, umana e divina. Ed è entro tale cornice che la Chiesa e il suo operare vanno colti, letti e interpretati; voler escludere uno dei due elementi, che costituiscono la natura della Chiesa, significa pregiudicarsi ogni possibilità di comprensione delle realtà ecclesiali. Ora, se la dimensione storico-umana della Chiesa è sotto gli occhi di tutti e conosciuta da tutti, non così è la sua dimensione divina, che la permea e la caratterizza.

Quando si parla di Chiesa la nostra mente corre alla Gerarchia ecclesiastica, il Papa, i Vescovi, i Sacerdoti e i Religiosi che, pur rappresentando la Chiesa, tuttavia non la esprimono pienamente.

Si rende, quindi, necessario definire il termine "Chiesa".

Il termine deriva dal greco "ek-kaleo" che si significa "chiamare da". La chiesa, pertanto, nella sua prima accezione etimologica, si potrebbe definire come una "assemblea di convocati" dalla Parola. In tal senso essa si richiama a quel movimento escatologico, che Gesù ha promosso nel corso della sua missione terrena (Mt 23,37): la raccolta dell'intera umanità, rigenerata dallo Spirito per mezzo della Parola e del battesimo, resa conforme al volere di Dio e costituita nuovamente sua immagine e somiglianza. Un grande movimento escatologico, dunque, che punta a riorientare l'intera umanità verso Dio e a ricollocarla in Lui, qualificandola nuovamente come sua proprietà, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6); un'umanità resa nuovamente capace a rispondere alle esigenze di Dio.

Il termine Chiesa, inoltre, è la traduzione greca (ekklesia) di quello ebraico "Qaal", che indica la comunità del popolo di Israele, raccolta ai piedi del monte Sion per celebrare l'accoglienza dell'Alleanza, sancita dal dono della Legge. Per l'antico Israele, quando si parla di "Qaal" si intende, quindi, l'esperienza di una comunità convocata attorno alla Parola e che dalla Parola e dal suo ascolto viene qualificata e continuamente generata.

La Chiesa, pertanto, è una realtà che, generata dalla Parola (1Pt 1,23) e dall'evento Gesù Cristo, morto e risorto, si ritrova attorno ad essi per trarne sostentamento e un continuo rinnovamento nello Spirito (Rm 12,2); mentre dalla Parola e da Cristo, acquisisce una sua nuova identità, quella di uomini appartenenti a Dio e a Lui consacrati e nel cui vivere si riflette la vita stessa di Dio, che è vita essenzialmente di amore, vita che si è fatta dono per tutti in Cristo, un dono che è divenuto salvezza per tutti. Il vivere dei suoi membri è, pertanto, un vivere da persone consacrate, che Paolo definisce “santi”, cioè partecipi della vita stessa di Dio, che dimora in essi e in essi si esprime. Ogni membro della Chiesa, pertanto, nel suo vivere genera salvezza, poiché in lui vive ed opera Cristo (Gal 2,20). È significativo quanto recita il canone 204 del Codice di Diritto Canonico77: “I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo”. In virtù del battesimo, dunque, ogni credente, è stato incorporato a Cristo, cristificato, cioè permeato di Cristo, così da essere un tutt'uno con lui, condividendone il triplice ufficio: sacerdotale, profetico e regale. Ogni credente, pertanto, con il battesimo è stato costituito sacerdote, che nella sua accezione etimologica significa “colui che dona il sacro” e in questa sua funzione si costituisce anche mediatore tra Dio e gli uomini (Eb 5,1). Per suo mezzo Dio raggiunge gli uomini e questi in lui possono trovare Dio; punto, quindi d'incontro tra Dio e gli uomini, chiamato ad offrire e a consacrare se stesso e il mondo a Dio per mezzo di Cristo, di cui è rivestito, così che la sua vita diviene luogo di offerta e di culto a Dio (Rm 12,1), così come Cristo fu ed è il luogo d'incontro tra Dio e gli uomini; lo spazio storico entro cui il Padre tende loro la sua mano con gesto amico e salvifico. Il secondo ufficio, che il credente condivide con Cristo, è quello profetico. Il profeta, in senso biblico, è colui che parla a nome e per conto di Dio, parla a suo favore, costituendosi in mezzo al suo popolo come la voce stessa di Dio. Esso assume la funzione della coscienza critica degli uomini, testimoniando e lasciando trasparire attraverso la sua vita le esigenze di Dio. Il profeta, quindi, è colui che porta in se stesso la Parola di Dio, ne diviene una sorta di tabernacolo vivente, in cui risuona la voce stessa di Dio, così che ogni uomo possa trovare in lui Dio, così come Cristo fu la voce del Padre in mezzo agli uomini e il suo operare fu quello stesso del Padre (Gv 14,9-11). E, infine, il credente riveste l'ufficio regale. La regalità nell'antico Israele era concepita come una funzione di servizio spesa a favore del popolo, in nome e per conto di Dio. Il popolo d'Israele era stato definito ai piedi del Sinai come proprietà di Dio (Es 19,5) e, quindi, il re fungeva da amministratore del popolo, che apparteneva a Dio e di cui egli doveva rispondere a Dio. La natura autentica, quindi, della regalità non è il potere da esercitare sugli uomini, bensì il servizio per loro, nella coscienza che tutto ciò che viene fatto all'altro lo abbiamo fatto a Cristo (Mt 25,40.45), così come Gesù ha fatto della sua vita un servizio di redenzione per tutti gli uomini, facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,5-8) e la sua regalità viene proclamata ad Israele proprio nel momento in cui egli stava per offrire la sua vita per esso (Gv 19,14-15).

Nel N.T. l'espressione Chiesa assume vari significati e dimensioni, che Paolo suggerisce nelle sue lettere:

Chiesa, come comunità di discepoli e credenti, assume l'accezione molto ampia di "Chiesa universale", che abbraccia tutti i credenti in Cristo, indipendentemente dal loro collocarsi storico, culturale e geografico.

Chiesa come espressione di "Comunità locale": chiesa di Corinto, di Tessalonica, di Roma, ecc. Una comunità, quindi, qualificata dal suo assetto storico, geografico e culturale.

Chiesa come "Chiesa domestica", che si raduna nelle "domus" e che in esse trova i suoi spazi vitali di incontro e di celebrazione liturgica, accompagnati dall'ospitalità, dall'accoglienza e dalla familiarità.

Sono queste le tre dimensioni con cui la Chiesa si presenta nel suo assetto storico e che scandiscono i ritmi del proprio vivere e del proprio relazionarsi. Essa, infatti, non è un fatto individuale, ma sociale, comunitario, in cui ognuno è chiamato, per la propria competenza, ad edificare questo grande edificio spirituale, formato da pietre spirituali e viventi, metafora del credente (1Pt 2,5).

La Chiesa si pone nella storia quale segno e strumento efficace di Dio e, in quanto tale, rimanda ad un’altra realtà: Cristo, che essa, per mezzo della Parola e del Sacramento, perpetua nel tempo e lo fa incontrare agli uomini di ogni epoca. Nella storia essa si fa, quindi, spazio e sacramento d’incontro tra Dio e gli uomo, senza avere la presunzione del monopolio di Dio e della salvezza, e senza credere di esprimere pienamente Dio e l’uomo, poiché lo Spirito, che anima la vita del credente e della Chiesa, è come il vento, che “soffia dove vuole e ascolti la sua voce, ma non sai da dove viene e dove va; così è ognuno che è nato dallo Spirito>>” (Gv 3,8).

Parola e Sacramento sono i due poli entro cui si muove l'azione salvifica della Chiesa e quella propria di ogni credente. Essi sono l'espressione visibile, concreta e storicamente raggiungibile della salvezza, attraverso i quali Dio opera e continua ad operare e nei quali ancor oggi ogni uomo può ritrovare e incontrare Dio. Quanto all'importanza e alla fondamentalità della Parola, già si è detto all'inizio di questa riflessione e a questo si rimanda (pagg. 1-2). Quanto ai sacramenti, va spesa una parola a parte.

Quando parliamo di sacramenti, nella nostra mente si delineano i singoli sacramenti, che la nostra tradizionale dottrina ci propone. Ma dove trovano essi la loro origine? Quale giustificazione dare al loro esserci?

Alla base del sacramento ci sta Cristo stesso, che si qualifica, con la sua incarnazione, quale sacramento del Padre, cioè segno visibile di Dio; ci sta la Chiesa, che è sacramento vivente di Cristo, che da essa è mediato nella storia e, grazie ad essa, continua la sua missione nel mondo, proponendo continuamente agli uomini il suo messaggio di salvezza.

I singoli sacramenti sono, pertanto, radicati in Cristo e si esprimono nella Chiesa e attraverso ad essa, divenendo concreta attuazione della salvezza, una sorta di sua storicizzazione. Per loro mezzo si rende, ancora una volta, efficace l'opera stessa di Cristo, che per mezzo di essi opera salvezza, accorpando e configurando a sé ogni credente. Nella Chiesa tutto è segno del Cristo morto e risorto e ogni segno dice la vita stessa della Chiesa.

I sacramenti, quindi, trovano la loro origine in Cristo stesso, che con la sua incarnazione giustifica e inaugura la sacramentalità della salvezza. Essi sono fondati nelle azioni simboliche di Gesù, testimoniateci dalla Scrittura, e ne prolungano l'attività salvifica. Non sono, quindi, opere inventate dalla Chiesa, ma in essi risuona l'opera salvifica di Cristo. Il sacramento deriva l'intera sua forza dall'azione redentrice di Cristo, di cui ne è l'espressione, l'attuazione e l'applicazione concreta.

Cristo è sempre presente là dove si celebra un sacramento e in esso vi opera. Cos’è, dunque, un sacramento? Quale il suo proprium?

I Sacramenti potrebbero essere definiti come azioni proprie della Chiesa, che attualizzano in mezzo all'assemblea il mistero di Cristo, sviluppando su di essa un'azione di consacrazione e di configurazione a Cristo stesso. Essi consentono, pertanto, il prolungarsi dell'azione salvifica di Cristo nella storia, facendo sì che essa continui ad essere una storia si salvezza e di dialogo con Dio.

I sacramenti, che la Tradizione della Chiesa ha definito nel tempo, sono giunti a noi in numero di sette e coprono, scandendola, l'intero arco della vita. Essi sono il Battesimo, la Cresima o Confermazione, l'Eucaristia, la Penitenza o Riconciliazione, il Matrimonio, l'Ordine sacro e l'Unzione degli Infermi o Estrema Unzione. I Sacramenti toccano tutte le tappe della vita e tutti i suoi momenti più importanti e più significativi. Essi l'abbracciano interamente e la consacrano a Dio, così che ogni credente viene santificato e reso partecipe della vita stessa di Dio, a Lui associato e, per mezzo di Cristo, a Lui incorporato. Ogni credente, per loro virtù, viene configurato a Cristo, reso sua proprietà e a Dio appartenente.

Battesimo, Confermazione ed Eucaristia sono definiti come i sacramenti dell'iniziazione cristiana, poiché il credente con essi viene configurato e associato indelebilmente e definitivamente a Cristo (Battesimo), chiamato a testimoniarlo nella propria vita e con la propria vita (Confermazione), trovando nel corpo e nel sangue di Cristo il suo nutrimento spirituale, che lo sostiene nel suo cammino verso il Padre (Eucaristia). I restanti sacramenti sono azioni che consacrano la scelta vocazionale propria di ogni uomo, agganciandola a Cristo, così che il vivere credente viene reso santificante e salvifico (Matrimonio e Ordine Sacro) o lo soccorrono nelle sue difficoltà e nelle sue fragilità (Riconciliazione e Unzione degli Infermi).

Termina qui il nostro breve e necessariamente sintetico cammino di riflessione sulla Storia della Salvezza. In essa ci troviamo direttamente coinvolti e siamo chiamati fin d'ora, nostro malgrado, a dare la nostra risposta esistenziale, che per noi credenti in Cristo e a lui configurati per mezzo della Parola e del Battesimo, diventa giocoforza una risposta di fede, cioè di piena adesione esistenziale alle esigenze di Dio, rivelate nella sua Parola. Una vita quella credente che, conformata alla Parola, trova la sua naturale espressione nella Pasqua stessa del Cristo, morto e risorto, a cui siamo stati associati in virtù del battesimo (Rm 6,3-4), così che il nostro vivere diventa un vivere pasquale, cioè un continuo passare da morte a vita, dalle logiche del vecchio Adamo a quelle del nuovo Adamo; un vivere che annuncia la morte di Cristo, a cui è stato crocifisso il nostro uomo vecchio (Rm 6,6), e ne proclama la sua risurrezione, con la quale si testimonia il nostro camminare in novità di vita (Rm 6,4), secondo le logiche dello Spirito e non più della carne (Gal 5,16-17), nell'attesa della sua venuta (1Ts 5,23).

Maranatha! Vieni Signore Gesù (Ap 22,20).


Amen.

                                                                                                                                                                                                            Giovanni Lonardi



N O T E

1Secondo Julius Wellhausen (1844-1918), noto biblista e orientalista, la Bibbia è nata dalla composizione di quattro Tradizioni: quella Jahwista, sorta intorno al X sec. a.C. nel Regno di Giuda, così denominata perché Dio era chiamato con il nome di Jahweh; quella Elohista, sorta intorno all'VIII-VII sec. a.C. probabilmente nel Regno del Nord; essa è così definita perché Dio è chiamato con il nome di El o Elohim. Vi è poi la Tradizione Deuteronomista che si ritrova quasi totalmente nel quinto Libro del Pentateuco, il Deuteronomio. Venne fissata per iscritto, probabilmente quasi subito dopo la distruzione del Regno del Nord (722 a.C.), da parte dei Leviti, rifugiatisi nel Regno di Giuda, e ha subito continui sviluppi fino all'esilio babilonese (597 e 587 a.C.). Vi è infine la quarta e ultima Tradizione, quella Sacerdotale, sorta in epoca postesilica (538-450 a.C.). Essa costituisce, probabilmente, il testo su cui si è basata la riforma di Esdra e da cui nacque il Giudaismo intorno all'anno 395 a.C. Questa tesi è ancor oggi sostenuta e condivisa dalla maggior parte degli studiosi.

2Il principio di cui Giovanni parla qui è un principio storico, cioè la persona stessa di Gesù, che lui percepisce come la presenza di Dio in mezzo agli uomini e la fonte primaria della Rivelazione divina. All'inizio della nostra fede, dunque, non ci sta un'ideologia o una filosofia, ma un evento storico, in cui si fonda la nostra fede.

3 Cfr. Rm 5,10; 2Cor 5,18-19; Ef 2,14-16; Col 1,20.22.-

4San Tommaso d'Aquino (1225-1274), filosofo e teologo eminente, vissuto nel XIII sec., il secolo d'oro della scolastica, sosteneva che non esiste nessun conflitto tra ragione e rivelazione, poiché queste non sono che due vie d'accesso alla conoscenza della verità, la quale è soltanto una. La filosofia è autonoma nell'oggetto e nel metodo ed il suo compito è quello di indagare in modo il più possibile rigoroso l'universo fisico, la struttura dell'uomo e la totalità dell'essere e delle perfezioni trascendentali. Oggetto della teologia, invece, di cui San Tommaso difende il carattere di scientificità, sono i contenuti della rivelazione, la quale è stata offerta all'uomo per sostenerlo nella conoscenza delle verità per lui indispensabili, ma che sono irraggiungibili mediante il solo ausilio della ragione. Egli rifiuta la prova ontologica dell'esistenza di Dio proposta da Sant'Anselmo, perché essa presuppone la fede. In contrapposizione egli propone le sue cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio sono, sinteticamente, le seguenti: 1) Ogni potenza è a sua volta atto di un'altra potenza, non potendo ciò procedere all'infinito, deve necessariamente esistere un primo atto il quale non sia potenza, vale a dire Dio, motore immobile. - 2) I fenomeni ne causano degli altri e sono contemporaneamente causati. Poiché non è possibile che ci sia una serie infinita di cause efficienti, deve esserci necessariamente una causa prima, e questa causa è Dio. - 3) Le cose sono contingenti, vale a dire possibili, non necessarie, ed esistono in forza di cose che sono anch'esse contingenti. Ma se tutte le cose fossero solamente possibili, non esisterebbe nulla. Deve perciò esserci un qualcosa di non contingente, di necessario. - 4) Tutti gli enti finiti possiedono un grado maggiore o minore di perfezione, ne consegue l'esistenza di un ente perfettissimo “che è la causa dell'esistenza, della bontà e di qualsiasi perfezione di tutti gli altri enti”. - 5) L'universo opera secondo un fine che non è casuale. “Dunque c'è un essere intelligente che ordina le cose naturali al loro fine.”

5Antonino Zichichi, nel suo libro “Perché io credo in colui che ha fatto il mondo”, afferma che non esiste alcuna scoperta scientifica che possa essere usata al fine di mettere in dubbio o di negare l'esistenza di Dio e che
proprio Galilei, scopritore del principio d'inerzia, della relatività e delle prime leggi che reggono il creato, era credente e considerava la scienza uno straordinario strumento per svelare i segreti di quella natura che porta le impronte di Colui che ha fatto il mondo. Così che le conquiste della scienza non oscurano le leggi divine, ma le rafforzano, contribuendo a risvegliare lo stupore e l'ammirazione per il meraviglioso spettacolo del cosmo, che va dal cuore di un protone ai confini dell'universo. Nessuna scoperta scientifica ha messo in dubbio l'esistenza di Dio.

6Il termine “immagine” è reso in ebraico con “selem”, che viene usato in genere per indicare una somiglianza fisica e, quindi, potrebbe essere tradotto con “riproduzione plastica”. Questo, in ultima analisi, il senso di “immagine”. Il termine “somiglianza”, invece, è reso con il sostantivo “demût”, che indica una rassomiglianza concreta e insieme generale. Complessivamente, quindi, l'espressione “a nostra immagine e a nostra somiglianza” significa che Dio ha fatto “una riproduzione plastica somigliante a se stesso”. In altri termini, Dio, creando l'uomo, ha creato, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso.

7Giovanni Paolo I, conosciuto come papa Luciani, il cui pontificato durò soltanto 33 giorni dal 26 agosto 1978, in una delle sue catechesi che teneva il mercoledì, affermava che Dio non è solo padre, ma è anche madre. Questa affermazione creò un grande sconquasso tra i teologi; ma in realtà contiene in sé una profonda verità. Dio, infatti, non possiede i limiti umani del maschio o della femmina, dell'uomo e della donna, del padre e della madre, ma Egli è tutto questo allo stesso tempo. Ci è padre perché ci ha generati e ci è madre perché ci ha partoriti e con cura ci assiste con la sua Provvidenza e la sua Parola. Dio è tutto e in lui non ci sono limiti.

8Cfr. Franco Festorazzi, La Bibbia e il problema delle origini, Edizioni Paideia, Brescia 1967.

9Platone, nel suo Simposio, per spiegare l'origine dell'attrazione tra uomini e donne e, quindi, dell'eros, fa raccontare al commediografo Aristofane il seguente mito: “Un tempo - egli dice - gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v'era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all'antica perfezione”. In altri termini, inizialmente Dio creò l'essere umano come se stesso, maschio-femmina. L'uomo, secondo Platone, agli inizi era un androgino, perfetto in se stesso e racchiuso nella sua beatitudine; non aveva bisogno di niente. Era, quindi, come Dio. Ma di questa suo stato di pienezza e di beatitudine era geloso Zeus, che divise l'uomo in due e l'androgino divenne uomo e donna. Per questo essi sono attratti l'uno verso l'altra alla ricerca della perfetta unità originaria.

10Il mito fu studiato sotto diversi aspetti, che ne mettevano in luce, di volta in volta, le diverse sfaccettature. Vi fu un approccio filosofico, per cui il mito racchiude e cerca di comunicare delle verità profonde che governano l'uomo e l'umanità; vi fu del mito anche una lettura meramente naturalistica che vedeva nei personaggi raccontati nel mito soltanto della forze della natura; il mito fu letto anche da un punto di vista storico. Questo metodo di approccio cercò di leggere dietro il linguaggio fantastico, inteso come modo di esprimersi dell'umanità primitiva, la testimonianza di questa umanità circa eventi che essa ha vissuto e che rappresenta con questi racconti fantasiosi, ma realmente accaduti. Vi fu anche un approccio psicologico secondo il quale il mito risponde ad un bisogno dell'uomo, che si interroga su se stesso e sulle realtà circostanti.

11Raffaele Pettazzoni (1877-1959) fu il padre fondatore in Italia della storia delle religioni e fu il primo titolare della cattedra di Storia delle Religioni istituita in Italia presso l'Università di Roma (1924). Egli chiama la storia ad occuparsi delle religioni e da questa mediazione nasce la disciplina "Storia delle religioni", in cui la religione viene vista essenzialmente come un prodotto storico, un prodotto dell’umana creatività. Formatosi culturalmente nell'ambito dello storicismo, Pettazzoni gettò un ponte fra un importante settore degli studi antropologici, quello dei fenomeni religiosi, e gli studi critico-storici.

12Lucien Levy-Bruhl (1857-1939), fu un filosofo, sociologo, antropologo ed etnologo francese. I suoi studi sociologici sulla mentalità dei popoli primitivi hanno esercitato un forte influsso sulla cultura occidentale contemporanea.

13L'opera è edita dalle Edizioni Lindau, Torino e scaricabile dal sito:

http://www.cristinacampo.it/public/mircea%20eliade%20miti%20sogni%20misteri.pdf

14Mircea Eliade (Bucarest 1907 - Chicago 1986) si laureò in lettere nella sua città natale. Fu uno storico delle religioni e scrittore rumeno. Uomo di vastissima cultura e di straordinaria erudizione. Grande viaggiatore, parlava e scriveva correntemente in otto lingue. Dal 1928 al 1932, all'Università di Calcutta, approfondì i suoi studi sull'India, soprattutto sotto l'aspetto religioso; in seguito insegnò metafisica all'Università di Bucarest e, dal 1946 al 1949, tenne corsi all'Ecole des Hautes Etudes della Sorbona. Si trasferì nel 1956 negli Stati Uniti, dove divenne titolare della cattedra di storia delle religioni all'Università di Chicago. Fu il fondatore della rivista di studi religiosi «Zalmoxis». Fra i suoi numerosi saggi: "Mito e realtà" (1974) e "Il mito dell'eterno ritorno" (1975), usciti presso Rusconi. La sua attività ufficiale dal 1957 fu quella di professore della storia delle religioni presso l'università di Chicago, città in cui morì nel 1986. Fu una delle personalità più note e influenti del '900.

15In Egitto era conosciuto il gesto del dio vasaio Hnum, che modellava l'uomo sul suo tornio.

16Il verbo con cui si dice che Dio soffiò, sia in Gen 2,7 che in Gv 20,22 è identico: “™nefÚshsen” (enefísen, soffiò) ed è esclusivo di questi due passi.

17Il testo greco della LXX dice: “kaˆ ™gšneto Ð ¥nqrwpoj e„j yuc¾n zîsan” (kaì eghéneto o ántzropos eis psichén zôsan) (Gen 2,7).

18Il significato del termine Eden è controverso tra i vari autori. C'è chi lo fa derivare dal sumerico “edin” o dall'accadico “edenu”, che significa steppa, aperta campagna, luogo pianeggiante. Altri la fanno derivare dalla radice ebraica 'dn, che ha il significato di abbondanza, gioia. Ed è probabile che quest'ultimo sia il significato di Eden, perché nella mente dello Jahwista era proprio ciò che voleva trasmettere al suo lettore: un luogo di delizie e di pienezza di vita. Un luogo, quindi, dalle dimensioni divine.

19Cfr. la voce “Albero” in Manfred Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1990.

20Il racconto mitico del diluvio universale e di singoli uomini eletti salvati da esso si trova presso molti popoli. Secondo l'epopea di Gilgamesh, il dio Ea mise in guardia Utnapishtim dal diluvio inviato sull'umanità per punizione e gli comandò di costruirsi un'arca, mettendo a bordo di questa il seme di ogni essere vivente. Similmente si legge nel mito di Deucalione e Pirra, gli unici che scamparono al diluvio, perché Prometeo aveva consigliato loro di costruirsi una cassa munita di chiusura, con la quale, dopo nove giorni approdarono, sul monte Parnaso. I salvati dalle acque hanno in genere la funzione di portare una nuova civiltà e una nuova salvezza, così come i bambini esposti in ceste di vimini e abbandonati alle acque dei fiumi, come accade per il re Sargon, consegnato alle acque del fiume Eufrate; così come accadde per Mosè e, similmente per Romolo e Remo, che furono esposti sul Tevere in un tino simile ad una culla. - Cfr. la voce “Arca” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici; op. cit.

21L'essere nudi, cioè spogliati delle prerogative divine, che riduce l'uomo ad uno stato di carne despiritualizzata e, quindi, corrotta, introducendolo in uno stato di degrado esistenziale e di morte, lo troviamo, pari pari, nell'inno cristologico riportato da Paolo nella Lettera ai Filippesi, in cui si dice che il Figlio di Dio, pur essendo di natura divina e, quindi, rivestito della sua gloria, svuotò se stesso, cioè si spogliò dei suoi attributi divini per rivestirsi della natura umana, corrotta e degradata dal peccato (Fil 2,6-8). Questo passaggio da stato divino a stato umano, da vita divina a vita umana, da vita eterna a morte, è quanto successo ai nostri progenitori. Dio, dunque, per riscattare l'uomo, ha ripercorso il dramma della despiritualizzazione imposto all'uomo dalla sua colpa. Da qui Dio partirà per recuperare l'uomo a Se stesso.

22Cfr. la voce “Nudo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (Al). Nuova edizione rivista e integrata 2005. Cfr. anche la voce “Nudità” in Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; op. cit.

23Nel linguaggio biblico l'abito, che si indossa, indica sempre simbolicamente uno stato di vita e ne è la sua metafora. Il cambiare abito dice il cambiamento di una nuova condizione di vita. - Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; op. cit.

24Ponendo, infatti, come unico punto di riferimento il relativismo morale, ogni scelta non ha più come punto di riferimento i valori guida, che sono dei principi positivi che regolamentano il vivere dell'uomo e della società e che sono indisponibili all'uomo, perché intrinseci alle logiche stesse della vita e della natura stessa, è giocoforza che si decada in un personalismo permissivistico, che spinge soltanto a soddisfare il proprio egoismo personale o di gruppo. In tal modo si perde il senso del bene e del male e non si riesce più distinguerli tra loro. Si ritiene bene ciò che invece è male e viceversa. Divorzio, aborto, matrimoni gay, coppie di fatto, eutanasia, manipolazioni genetiche e quant'altro sono definiti conquiste sociali di civiltà. In realtà sono logiche perverse, di cui non si avverte la gravità, ma che distruggono lentamente e in modo irreversibile il tessuto sociale e morale sia della famiglia che, di conseguenza, della società. Si scambia per libertà e per democrazia il permissivismo, che invece è un elemento disgregativo e degenerativo sia dell'individuo, come persona, che della società e delle sue espressioni fondamentali e vitali come la famiglia. Questo modo degenerato e degradato di vivere e di relazionarsi con la vita e le cose è frutto della colpa originale, la quale è tale non solo perché è sorta all'origine dell'umanità, ma anche perché essa è all'origine di ogni altra colpa morale, individuale o collettiva che sia, e continuamente genera ogni forma di perversione. Soltanto la luce della parola di Dio è in grado di smascherare questa forza pervertitrice e di far prendere coscienza all'uomo del male che sta devastando, a sua insaputa, la sua vita. Paolo nella sua Lettera ai Romani, scritta tra il 57 e il 58, dipinge il modo di vivere della società pagana, che non aveva ancora conosciuto Cristo (Rm 1,18-31). Il quadro che ne risulta è esattamente sovrapponibile al nostro, con l'aggravante da parte nostra che noi abbiamo conosciuto per duemila anni Cristo e lo abbiamo, oggi, rifiutato.

25L'arca infatti è stata voluta da Dio ed è stata eseguita da Noè (Gen 6,22) su progetto stesso di Dio (Gen 6,14-16). Essa, dunque, fa parte di un progetto divino di salvezza. La meticolosità con cui vengono indicate le misure e la qualità del legno con cui essa deve essere costruita, indicano la sua origine divina.

26Il cap.9 che descrive i termini dell'alleanza di Dio con Noè ripetono sostanzialmente Gen 1,26-31. Segno questo che qui si sta parlando di una nuova creazione, ricostituita su di un nuovo patto di alleanza.

27Cfr. Lc 22,20; 1Cor 11,25; Eb 9,15; 12,24.

28Cfr Lc 10,22; Gv 1,18; 5,20; 10,30; 14,7.9-11; Ef 1,19-20.

29Cfr. Gv 14,6; 1Tm 2,5; Eb 8,6; 9,15; 12,24.

30Cfr. Rm 3,25; 5,10.11; 2Cor 5,19; Col 1,19-22

31Cfr. Lc 24,36; Gv 14,27; 20,19.21.26b; Rm 5,1; Ef 1,7; 2,14a.17; 2Ts 3,16

32Cfr La costituzione dogmatica Dei Verbum, §§ 1-5

33Quando si parla di ierofanie o di teofanie non bisogna intendere tali manifestazioni di Dio o del Sacro in senso letterale, come una sorta di reale e concreta apparizione, sulla falsariga di quelle mariane, in cui Dio dice, comanda o preannuncia. Di fatto, Dio non ha mai detto né fatto niente. È la riflessione teologica, che gli autori sacri pongono su determinati eventi storici e l'interpretazione che essi ne danno, che rendono l'evento in se stesso sacro e portatore di un messaggio divino, che interpella l'uomo. Tuttavia, non si tratta di fantasie, ma di ispirazioni divine, di intuizioni, di illuminazioni che spingono l'autore sacro a cogliere in quei determinati eventi l'agire di Dio e ci testimonia ciò che lui ha compreso. Circa l'ispirazione divina delle Scritture, la Tradizione apostolica, recepita dai Padri della Chiesa, parla apertamente che Dio è l’autore principale delle Scritture in quanto le ha ispirate; mentre gli agiografi, cioè gli scrittori sacri, sono considerati strumenti nelle mani di Dio. Del resto la stessa Parola di Dio afferma che “… che tutta la Scrittura è ispirata da Dio” (2Tm, 3,16) e che “…non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono quegli uomini” (2Pt 1,21) . Ci troviamo, comunque, di fronte a degli scritti che, seppur ispirati da Dio, sono stati, tuttavia, composti da esseri umani, che li hanno stesi secondo il loro modo di vedere e di comprendere le cose, condizionati dalla cultura del loro tempo. La nostra, infatti, è una Parola incarnata, con tutti i limiti che l'incarnazione in un determinato contesto culturale può portare con sè. Le Scritture, pertanto, vanno lette, interpretate e comprese correttamente e mai lette pedestremente. Un problema questo che si poneva già nei primissimi decenni della Chiesa. Ce ne dà testimonianza l'autore della Seconda Lettera di Pietro: “[...] come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt 3,15b-16).

34L'enoteismo è una fase intermedia tra il politeismo e il monoteismo. Esso si distingue per il fatto che pone al di sopra di molti dèi un dio soltanto, che in genere è il dio protettore ereditato dai padri. Abramo si trova in questa fase.

35Cfr. A. Hari, E. Lafont, A. Rebré, C. Wiéner, M. Wirth, Alla scoperta della Bibbia, cammino di un popolo, storia di un libro; l'Antico Testamento. Volume I, Edizioni Elle Di Ci, Leumann (TO), 1990; Cfr. anche la voce “Nomadi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Srl, Casale Monferrato (AL), 2005.

36Cfr. Gen 12,5-7; 13,15-16; 15,18; 22,17; 26,3-4; 28.13-14; 32,13; 41,49; Es 32,13; Dt 1,10; 28,62; 1Cr 27,23; Sir 44,21; Ne 9,23; Dn 3,36

37Paolo svilupperà sul significato della figura di Abramo una sua teologia, che spiega in quale rapporto sia Abramo nei confronti di Cristo e nei confronti di ogni credente in Cristo. Per Paolo, infatti, Cristo è il pieno e definitivo compimento delle promesse che Dio aveva fatto ad Abramo, il suo punto di arrivo; mentre per ogni credente Abramo è la figura del vero credente, che si è fidato di Dio anche quando tutto gli dava contro. Sulla questione cfr. Rm 4 e Gal 3.

38Per il mondo semitico e quello antico in genere il nome di una persona o di una cosa non indica quella persona o quella cosa, ma è quella persona o cosa. Il nome, infatti, esprime l'essenza stessa della persona e delle cose. Il cambiare nome dice una radicale trasformazione di quella persona, a cui, in genere, è legata una chiamata e una missione da compiere; ma dice anche la profonda appartenenza a chi ha imposto un nome nuovo sul chiamato.

Sul significato del nome cfr. la voce “Nome” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; e la voce “Nome, Imposizione del Nome” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia; opp. citt.

39Paolo scrivendo alle comunità della Galazia, regione posta al centro dell'attuale Turchia, ricorderà questo episodio, che interpreta come un'allegoria delle due alleanze: quella del Sinai e quella che si è attuata in Cristo: “Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar - il Sinai è un monte dell'Arabia -; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. Sta scritto infatti: Rallègrati, sterile, che non partorisci, grida nell'allegria tu che non conosci i dolori del parto, perché molti sono i figli dell'abbandonata, più di quelli della donna che ha marito. Ora voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. E come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora. Però, che cosa dice la Scrittura? Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera. Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera” (Gal 4,22-31)

40Cfr. Ez 20,41; 28,25; 39,1; Ml 1,11;Sal 45,11; 76,15.

41Cfr. 2Sam 22,50; 1Cr 16,24; Sal 9,12; 17,50; 56,10; 95,10; 104,1; 107,4; Is 12,4;

42 Sulla questione cfr. José Luis Sicre, Profetismo in Israele, Edizioni Borla, Roma, 1995

43 La formalistica osservanza della Legge caratterizzò sempre il comportamento religioso di Israele. Le stesse critiche, infatti, che i profeti mossero ad Israele, saranno riprese da Gesù e rivolte contro il sistema religioso giudaico (Mt 15,8; Mc 7,6; Lc 18,9-14); Matteo, con accento molto duro e polemico, enumererà nel cap.23 del suo vangelo, diverse accuse che andavano a colpire una religiosità e un culto , che rispettava la forma della lettera, ma violavano sistematicamente la sostanza della Legge. Anche Paolo, nella sua Lettera ai Romani, si scaglierà contro il perbenismo religioso di Israele, che andava orgoglioso della Legge, di cui si vantava nei confronti degli altri popoli, sentendosi superiore ad essi, ma che violava sistematicamente (Rm 2,1-6.17-29).

44Sotto il titolo di Libro di Isaia, composto da 66 capitoli, si raccolgono tre scritti diversamente datati, che appartengono a tre autori di tre diverse epoche. Il primo è Isaia, gli altri due, profeti anonimi si richiamano a Isaia e ne continuano in qualche modo il pensiero. Per questo sono stati raccolti in unico libro.

45Giovanni nell'Apocalisse ha una grande visione: “attorno al trono, poi, c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d'oro sul capo” (Ap 4,4). Il trono raffigura la sovranità e il potere di Dio, mentre i ventiquattro vegliardi rappresentano i dodici capostipiti, da cui nacquero le dodici tribù d'Israele, e i dodici apostoli da cui nacque il nuovo Israele. Essi sono raccolti attorno al trono tutti assieme senza distinzione, quasi fossero un'unica emanazione del potere divino, e rappresentano l'intera storia della salvezza, colta non più come antico e nuovo testamento, ma come un unico atto salvifico di Dio, scandito in due tempi, l'uno preparatore dell'altro.

46Quando si parla di “Gesù di Matteo” o “Gesù di Marco o di Luca o di Giovanni”, si intende parlare dell'unico evento Gesù, così come percepito ed elaborato dalla teologia di ogni singolo evangelista. Si parla, quindi, di prospettive teologiche di singoli evangelisti. Non a caso, infatti, si parla di “Vangelo secondo Matteo o secondo Marco, ecc.”. Con questa espressione si intende dire che ogni evangelista ha elaborato, per proprio conto e in funzione della sua comunità e in risposta ai problemi che questa poneva, una sua visione e una sua comprensione di Gesù.

47L'espressione “Ciò che era fin da principio” si riferisce alla persona di Gesù.

48Il grande storico romano Tacito (54-119), pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia, scrisse attorno al 112 i suoi 16 libri di Annali, che narrano la storia romana dalla fine del principato di Augusto (14 d.C.) alla morte dell’imperatore Nerone (68).

49Il filosofo e martire cristiano Giustino intorno all’anno 160 scrisse un Dialogo col giudeo Trifone, con il quale perseguiva lo scopo di dimostrare che il cristianesimo era la naturale continuazione dell’ebraismo. L’opera è strutturata in forma di un dialogo tra l’autore e l’ebreo Trifone, nel quale, secondo alcuni, è ravvisabile il noto Rabbi Tarphon. La finzione letteraria del dialogo è probabilmente l’eco di una reale discussione avvenuta tra i due ad Efeso nel 135. Quanto qui riporta Giustino circa il trafugamento del corpo di Gesù da parte dei discepoli, attesta ciò che scrive lo stesso Matteo nel suo vangelo: “Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo: <<Signore, ci siamo ricordati che quell'impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: E' risuscitato dai morti. Così quest'ultima impostura sarebbe peggiore della prima!>>” (Mt 27, 62-64). Matteo aggiunge anche da dove è nata questa diceria: “Mentre esse (le donne) erano per via, alcuni della guardia giunsero in città e annunziarono ai sommi sacerdoti quanto era accaduto. Questi si riunirono allora con gli anziani e deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo: <<Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa verrà all'orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia>>. Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi” (Mt 28,11-15)

50Vi sono altre attestazioni da parte di altri autori non cristiani sulla reale esistenza di Gesù, come in Giuseppe Flavio, Plinio il Giovane, Svetonio, Adriano, Marco Aurelio, Epitteto, Galeno, Frontone, Luciano di Samosata, Celso. Esse, però, si limitano a parlare dei cristiani, seguaci di un certo Cristo. In essi non vi è la testimonianza diretta su Gesù, come figura storica. La testimonianza storica extrabiblica più importante che abbiamo è quella di Tacito. - Cfr. la voce “Gesù Cristo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

51Secondo il racconto di Matteo: “Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s'infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi” (Mt 2,16). Ora sappiamo dalla storia che Erode il Grande morì nell'anno 4 a.C., quindi, se è vero che egli fece uccidere i bambini dai due anni in giù; ciò significa che Gesù all'epoca in cui vi fu “la strage degli innocenti” doveva avere all'incirca due anni, posto che la strage sia avvenuta nell'anno della morte di Erode. Gli studiosi, comunque, oggi datano la nascita di Gesù tra il 7 e il 4 a.C. Quando Gesù morì, quindi, doveva aver avuto intorno ai 37/38 anni.

52Per noi, figli del positivismo illuminista, della scienza e della tecnica, la storia è formata da fatti, luoghi e date scientificamente determinate e, quindi, provate. Per gli antichi, al contrario, la storia è una testimonianza e una trasmissione dei contenuti e dei significati dei fatti, per cui se i fatti non rispecchiavano esattamente il contenuto o quello che gli storici antichi volevano mettere in rilievo, il fatto veniva modificato o sostituito con un altro di invenzione dello storico, per lasciar trasparire chiaramente il contenuto e il senso dell'avvenimento. In altri termini, gli storici oggi si occupano del corpo della storia, mentre quelli antichi si occupavano della sua anima. Pertanto, quando si affrontano i vangeli è necessario chiedersi sempre che cosa l'evangelista con quel racconto intendeva dirci. Il loro intento, infatti, non è quello di darci una corretta biografia di Gesù, né tantomeno farci la cronaca o la storia del suo tempo, bensì essi ci danno una testimonianza di fede. In altri termini, essi sviluppano una riflessione di fede su Gesù, secondo una loro comprensione teologica dell'evento Gesù, adattandola e finalizzandola alle esigenze del loro tempo e a quelle delle prime comunità credenti, di cui erano probabilmente responsabili. I vangeli, quindi, non sono né biografie, né cronaca, né storia, bensì una testimonianza di fede su un personaggio di nome Gesù, i cui primi discepoli e credenti si convinsero che fosse il Messia atteso, l'adempimento delle promesse, che Dio fece ad Abramo, l'uomo atteso e annunciato dagli antichi profeti, il Figlio di Dio stesso e Dio lui stesso. E ci credettero al punto tale da sacrificare la loro vita. Una testimonianza diretta in tal senso ci viene da 1Gv 1,1-4.

53Cfr. Gv 7,20; 8,48; 8,52; 10,20

54Cfr. Mt 12,1-8.10-12; Mc 2,23-28; 3,1-5; Lc 6,1-5.6-10; 13,10-14; 14,1-4; Gv 5,10-11; 7,23; 9,14.16;

55Cfr. Mt 15,1-2.11.20; 23,25; Mc 7,2-5.15; Lc 11,39-41;

56Cfr. Mt 9,14-15; Mc 2,18-19; Lc 5,33-34;

57Cfr. Mt 15,9; Mc 7,7.

58Cfr. Mt 23,37; Gv 3,3-8; 4,21-24; Rm 12,1-2

59Il primo mistero si riferisce alla Trinità e viene così dottrinalmente formulato: “Unità e Trinità di Dio”. Il concetto di mistero nell'ambito del cristianesimo va inteso come una realtà spirituale che non è raggiungibile, non almeno pienamente, dalla nostra mente e con le nostre sole forze e la cui pienezza si nasconde in Dio e attiene all'azione divina, da cui è sgorgata e sgorga la nostra salvezza.

60Va tenuto presente che Paolo qui intende colpire non tanto la singola azione, frutto della fragilità umana, quanto, piuttosto, la persistenza nella vita del nuovo credente di certi comportamenti e tali da creare in lui uno stile di vita scandaloso, denunciando in tal modo un orientamento esistenziale sbagliato, che urta contro le esigenze del suo essere in Cristo. L'espressione che Paolo usa per indicare coloro che compiono tali cose è “t¦ toiaàta pr£ssontej” (tà toiaûta prássontes). L'uso del participio presente che qui Paolo fa (prássontes) indica un continuare a fare. Il verbo “pr£ssw” (prásso), infatti, non significa soltanto fare o compiere, ma anche agire, occuparsi di, attendere a, darsi pensiero per, operare per, lavorare per. Esso indica, quindi, un orientamento esistenziale tale da caratterizzare uno stile di vita incompatibile con la novità di vita portata da Cristo.

61Il fatto che Paolo precisi che Gesù fu costituito Figlio di Dio nel momento della risurrezione non deve scandalizzare. La venuta del Figlio di Dio sulla terra, infatti, ha modificato strutturalmente e dinamicamente la Trinità. Dal momento che il Figlio, coeterno al Padre e per questo Dio lui stesso, è entrato nella storia e ha assunto su di sé i connotati umani, che nella risurrezione furono divinizzati, cioè assimilati a Dio, la composizione della Trinità è mutata: non più Padre, Figlio e Spirito Santo, bensì Padre, Risorto e Spirito Santo. In altri termini, il Figlio, divenuto il Gesù della storia, venne ricostituito nella risurrezione nuovamente Figlio di Dio per la potenza dello Spirito Santo, nella sua nuova forma di Risorto. Non a caso il Gesù giovanneo invoca il Padre perché gli restituisca e lo reintegri in quella gloria che aveva fin dall'eternità come Figlio (Gv 17,5); ma ciò glielo chiede non come Figlio di Dio, bensì come Gesù, il Dio che si è fatto carne e ha rinunciato a tutte le sue prerogative divine, che ora chiede al Padre di ricomporre in Lui, come era fin da principio (Fil 2,6-11). Ma vi è di più. Morendo e risorgendo, Gesù ha associati tutti i credenti a sé e li ha inclusi in se stesso (Gv 12,32; Col 1,13; 3,3), per cui ora i rapporti trinitari sono diventati, in qualche modo, “quadrinitari”, cioè Padre, Risorto, Spirito Santo e, nel Risorto, tutti i credenti che sono diventati figli nel Figlio e in lui partecipi della stessa vita divina.

62Sulla questione del come i morti risorgono e in che cosa consista la risurrezione, Paolo, scrivendo alla sua comunità di Corinto, afferma: “Ma qualcuno dirà: <<Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?>>. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere. E Dio gli dá un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. Non ogni carne è la medesima carne; altra è la carne di uomini e altra quella di animali; altra quella di uccelli e altra quella di pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un'altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile”43si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale” (1Cor 15,35-44a).

63Vengono ora qui riproposte le stesse immagini del Paradiso terrestre: il fiume e l'albero della vita, la cui fecondità è simboleggiata dal suo continuo fruttificare tutto l'anno. La storia della salvezza, dunque, si apre con un giardino, da cui l'uomo esce; e si chiude con un giardino, in cui l'uomo viene ricondotto da Dio. Tra il primo e il secondo giardino si colloca l'intera storia della salvezza, che vede il tentativo di Dio di ricondurre l'uomo e l'intera creazione in se stesso.

64È il simbolo della vita divina che come un fiume, che sgorga da Dio stesso, pervade e permea l'intera nuova creazione.

65Paolo nella sua Lettera ai Romani attesta che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1)

66Cfr. Mt 28,17; Lc 24,16.36-43; Gv 20,14; 21,4

67Numerosi scienziati e studiosi, dopo aver analizzato la sindone, il lenzuolo che aveva ricoperto il corpo di Gesù dopo la sua morte, hanno affermato che quell'immagine impressa non sembra essere stata formata dal sangue, bensì da una bruciatura, quasi ci fosse stata una sorta di esplosione nucleare, una energia irradiante. Se così è, allora è da pensare che nella risurrezione il corpo di Gesù ha subito una trasformazione atomica, nel senso che gli atomi che componevano il suo corpo sono esplosi, generando una grande energia, che ha impressa una bruciatura al lenzuolo, che lo avvolgeva. Il suo corpo, pertanto, divenne un corpo rivestito e permeato di energia e come tale sottratto ad ogni legge fisica.

68Cfr. Lc 24,35-47; Gv 20,19.26

69Quando la Chiesa proclama una persona santa, non la fa santa, ma ne riconosce pubblicamente la santità di vita e la indica ad esempio per tutto il popolo di Dio.

70La scena di Gesù morente sulla croce, che affida a Giovanni Maria, sua madre, facendone nel contempo figlio (Gv 19,26-27), è la metafora di un Gesù che affida a Giovanni la comunità credente, di cui egli è figlio, cioè ne fa parte e di cui diviene responsabile (“E da quel momento il discepolo la prese con sé”); e con essa Gesù lascia anche la ricchezza della sua eredità spirituale e del suo insegnamento. Quanto avviene in questa scena sul Calvario ai piedi della croce, è una sorta di investitura, che viene fatta su Giovanni, che la sua comunità considera come il vero erede spirituale di Gesù. - Cfr. A.Poppi, I Quattro vangeli, commento sinottico, Edizioni Messagero di S.Antonio, Padova 1997; Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma 2008.

71Cfr. Gv 14,26; 15,26; 16,7.13; 20,22; At 2,1-4

72Luca completa il suo racconto evangelico con gli Atti degli Apostoli, che raccontano le prime vicende della chiesa nascente, per dire come l'attività di Gesù prosegue nella chiesa. Così Matteo conclude il suo racconto con i vv. 28,18-20, che sono un'investitura solenne dei discepoli, chiamati a proseguire l'attività missionaria di Gesù. Anche Giovanni lascia intravvedere, nei racconti delle apparizioni, il proseguo dell'attività di Gesù nei discepoli (Gv 20,20-23); mentre il cap. 21, aggiunto successivamente e di scuola giovannea, vede nel racconto della pesca miracolosa, compiutasi gettando le reti sulla parola del Risorto, l'attività della chiesa.

73La questione verteva sulla circoncisione degli etnocristiani, cioè convertiti provenienti dal paganesimo. I giudeocristiani, che si riconoscevano nella chiesa di Gerusalemme, ritenevano che questi, per aderire al cristianesimo, dovessero essere circoncisi e, quindi, assoggettarsi alla legge mosaica. Una simile posizione avrebbe inficiato la novità della figura di Cristo, il suo messaggio e la sua stessa missione, mentre il cristianesimo si sarebbe perduto nei numerosi e complessi meandri del Giudaismo. Ciò avrebbe significato che la salvezza dipendeva ancora dalla legge di Mosè e non più da Cristo. Paolo dovrà lottare duramente contro questa posizione del giudeocristianesimo, rappresentato dalla chiesa di Gerusalemme.

74 La traduzione della Bibbia ebraica in greco è avvolta da una leggenda, la cui finalità è dare credibilità e sacralità alla traduzione stessa. L'origine della traduzione è narrata leggendariamente dalla Lettera di Aristea a Filocrate. Secondo tale racconto, il sovrano egiziano ellenista Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) in persona commissionò alle autorità religiose del tempio di Gerusalemme una traduzione in greco del Pentateuco per la nuova biblioteca di Alessandria. Il sommo sacerdote Eleazaro nominò 72 eruditi ebrei, sei scribi per ciascuna delle dodici tribù di Israele, che si recarono ad Alessandria e vennero accolti con grande calore dal sovrano. Stabilitisi nell'isola di Faro completarono la traduzione in 72 giorni in maniera indipendente. Al termine del lavoro comparando fra loro le versioni, si accorsero con meraviglia che le rispettive traduzioni erano identiche.

75I primi quattro grandi concili ecumenici furono quelli di Efeso (325), che definì la consustanzialità tra il Padre e il Figlio, combattendo l'eresia ariana; Costantinopoli (381), che definì, sempre contro Ario, la divinità dello Spirito Santo; Efeso (431) e Calcedonia (451) definirono la doppia natura di Gesù, umana e divina nel contempo, contro le eresie di Nestorio (Efeso) e di Eutiche (Calcedonia).

76I concili di Nicea e Costantinopoli definiscono la natura della Trinità, decretando la consustanzialità del Figlio con il Padre e, quindi, la sua natura divina (Nicea); mentre quello di Costantinopoli definisce la natura divina dello Spirito Santo. Gli altri due concili, Efeso e Calcedonia, sono cristologici, in quanto decretano la doppia natura, umana e divina di Cristo.


77Con la costituzione “Sacrae disciplinae leges” del 25 gennaio 1983 Giovanni Paolo II promulgava il nuovo Codice di diritto canonico, conformandolo alle nuove aperture e alle nuove esigenze del Concilio Vaticano II (1962-1965). Veniva così sostituito il vecchi codice del 1917, che risultava ormai decisamente superato e non più adeguato alle nuove realtà e al nuovo spirito venutisi a creare dopo il Concilio.