PENTECOSTE
TEMPO DELLO SPIRITO
“Dopo questo, io
effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo
e diverranno profeti i
vostri figli e le vostre figlie”
Gl 3,1a
Premessa
La Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione “Dei Verbum” ai §§ 15a e 16a attesta che «L'economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare profeticamente (cfr. Lc 24,44; Gv 5,39; 1Pt 1,10) e a significare con diverse figure (cfr. 1Cor 10,11) l'avvento di Cristo, redentore dell'universo e del regno messianico. […] Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo».
In
altri termini il Nuovo Testamento ha le sue radici nell'Antico
Testamento, mentre quest'ultimo assume significati propedeutici e
pedagogici nei confronti del primo (DV § 15c). Vi è dunque una
stretta interconnessione tra i due Testamenti, che in ultima analisi
altro non sono che un unico atto salvifico di Dio scandito in due
tempi: preparazione e compimento1.
Si
rende pertanto necessario ripercorrere questi tempi della salvezza
per ottenere una visione completa dell'agire salvifico di Dio nella
storia umana, che, proprio per questo agire divino,
diviene storia della salvezza che interpella ogni credente.
La nostra riflessione sulla Pentecoste si snoderà in cinque momenti: a) le radici veterotestamentarie della Pentecoste; b) aspetti teologici della Pentecoste ebraica; c) le infedeltà all'Alleanza e la promessa di tempi nuovi segnati dallo Spirito; d) dalla Pentecoste ebraica a quella cristiana; e) Pentecoste, tempo dello Spirito, dimensione del nuovo credente.
Per poter comprendere il significato della Pentecoste ebraica è necessario comprendere il significato che gli ebrei attribuivano, e tuttora attribuiscono, alle festività.
Le festività ebraiche sono rigorosamente scandite dal calendario che forma una sorta di architettura sacra del tempo in cui si colloca la vita del popolo, proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6). Le feste hanno per l'ebreo la funzione di ricordare gli eventi salvifici del passato, che, attraverso la ritualizzazione, vengono attualizzati e resi raggiungibili anche per le generazioni presenti, cosicché esse ne sono in qualche modo protagoniste, direttamente coinvolte e chiamate a dare la loro risposta esistenziale. Le feste innescano pertanto un dinamismo di stimolazione spirituale, che viene settimanalmente alimentato dalla festività dello Shabbath. Esse quindi costituiscono per il pio israelita il momento di un incontro salvifico con Jhwh, rafforzando il suo rapporto non solo con Lui, ma anche con i suoi Padri. Ogni festa diviene pertanto un memoriale in cui, attraverso il rituale liturgico, il passato si fa presente, coinvolgendo in un'unica azione salvifica l'intero Israele. Ogni festività si radica dunque negli eventi della storia della salvezza.
La Pentecoste come festività ebraica nasce soltanto dopo l'insediamento ebraico in Palestina (1200 a.C.); il termine sorge tardivamente presso l'ebraismo ellenizzato (II sec. a.C.) e letteralmente significa “cinquantesimo” (pentekosté), sottinteso “giorno” (eméra).2 Questa festa, legata al mondo agricolo proprio di una popolazione sedentaria, fu mutuata quasi certamente dai Cananei, presso i quali era usanza molto diffusa presentare le primizie alle loro divinità. Come è avvenuto per la Pasqua, festa nomadica, anche la Pentecoste, o festa delle Settimane (hâg šâbu'ôt), fu riallacciata, anche se molto tardivamente, alla storia della salvezza e associata ad un rituale proprio, riportato in Lv 23,15-21. La festa venne legata al tempo in cui gli Israeliti giunsero al Sinai tre mesi dopo l'uscita dall'Egitto (Es 19,1).I tre mesi che separano l'Egitto dal Sinai, la Pasqua dalla Pentecoste, in Lv 23,15 vengono ritualizzati nelle più significative “sette settimane”. Il sette dice perfezione, mentre la settimana, tempo di sette giorni, richiama in qualche modo quella della creazione genesiaca, anch'essa portata a compimento nel settimo giorno, giorno che Jhwh consacrò a se stesso (Gen 2,2) e in cui collocò ai piedi del Sinai il suo popolo.
Sette settimane infatti è il lasso di tempo che porta a compimento l'opera di Jhwh, che, iniziata con la Pasqua in terra d'Egitto, trova il suo perfezionamento nel cinquantesimo giorno ai piedi del Sinai dove un popolo di schiavi, privo di ogni identità e dignità, viene rivestito di un’identità nuova e di una nuova dignità, associate ad una missione e strettamente legate al dono della Torah: «Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti» (Es 19,5-6).
Ciò che era non-popolo è diventato popolo di Dio. Ci si trova dunque di fronte ad una nuova creazione, che ha la sua origine nel sangue dell'agnello pasquale e il suo compimento ai piedi del Sinai, dove Israele diviene nuova creatura generata dalla potenza di Jhwh, operante nell'Alleanza, che si esprime nella Torah. Esso fu dunque un popolo liberato e chiamato a servire il Signore in mezzo alle genti (Es 9,13; 10,3; Sal 95,3; Tb 13,3-4).
Ma questa dignità e questa nuova condizione di vita vennero perdute da Israele. La riflessione sapienziale lamenterà questo stato di cose: «Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito. L'ho abbandonato alla durezza del suo cuore, che seguisse il proprio consiglio» (Sal 80,12-13).
Le defezioni di Israele dalla Torah e il suo rapporto con Jhwh vennero drammatizzate in Osea: Israele è una prostituta, che genera figli di prostituzione (Os 1,2), i cui nomi molto significativi sono «Non-amata, perché non amerò più la casa d'Israele, non ne avrò più compassione» (Os 1,6) e «Non-mio-popolo, perché voi non siete mio popolo e io non esisto per voi» (Os 1,9). Un popolo che in Ezechiele viene paragonato ad un ammasso informe di ossa inaridite (Ez 37), metafora del popolo in esilio a Babilonia per le sue ripetute infedeltà (597-538 a.C.), ma che lo Spirito del Signore farà rivivere: «Egli aggiunse: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell'uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”. Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.» (Ez 37,9-10).
Ancora una volta dunque Israele è restituito alla sua dignità originale, non più attraverso la consegna della Torah, bensì per mezzo dello Spirito di Jhwh e della promessa di una nuova creazione: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio.» (Ez 36,24-28 ).
Ne aveva dunque parlato Ezechiele e lo aveva detto anche Gioele: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3,1a). Ed ecco, circa otto secoli dopo, la voce di un altro Profeta, che porta in sé il Respiro di Dio, annuncia al suo popolo: “«Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato. All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: «Questi è davvero il Profeta!»” (Gv 7,37c-40).
E la promessa divenne dono. Racconta infatti Luca nei suoi Atti degli Apostoli: «Mentre i giorni della Pentecoste stavano per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi» (At 2,1-4). La scena che qui Luca dipinge ha tratti teofanici (rombo dal cielo, vento gagliardo, lingue di fuoco), che richiamano in qualche modo il luogo teologico di Es 19,16-18 dove Jhwh diede a Israele la Torah, stabilendo con lui un'Alleanza. Luca in tal modo crea una sorta di parallelismo tra quella scena e questa, dove, similmente al popolo radunato attorno al monte pervaso dalla presenza di Jhwh, i discepoli sono radunati nella casa che lo Spirito ha riempito di sé e che, nel linguaggio sinottico, simboleggia la chiesa. E come ai piedi del Sinai Israele venne costituito popolo di Dio qualificato dal dono della Torah e dall'Alleanza, così anche qui i nuovi credenti sono costituiti nuovo Israele, qualificato dal dono dello Spirito più volte annunciato dai profeti. Questa scena viene a cadere proprio sul finire dei giorni della Pentecoste ebraica, lasciando intendere che ormai questo tempo si sta concludendo per lasciare spazio ad un nuovo tempo segnato non più dal dono della Torah, ma da quello dello Spirito.
La Pentecoste segna pertanto il tempo dello Spirito e inaugura i tempi escatologici in cui si colloca la nuova creazione nata dalla Pasqua. In essi già vive, anche se non ancora in modo pieno e definitivo, la nuova comunità dei credenti, che Paolo definisce con una perifrasi “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio” (Rm 8,14a) e si muovono secondo le logiche dello Spirito, conformando il proprio vivere alle sue esigenze e i cui frutti sono «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge» (Gal 5,22-23).
La comunità credente si costituisce dunque nella Pentecoste, che è la medesima dimensione di Dio poiché è dimensione dello Spirito, come il luogo storico in cui lo Spirito dimora: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1Cor 3, 16). Ma ancor di più, ogni credente cristificato nel battesimo non è più lui che vive, ma lo Spirito del Risorto vive in lui (Gal 2,20); per questo egli non si appartiene più: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?» (1Cor 6,19). In quanto il credente è pienamente avvolto, permeato e compenetrato dallo Spirito, la sua vita è ontologicamente e spiritualmente orientata a Dio, per la potenza dello Spirito che vive e opera in lui: «Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,7-8).
Tuttavia il credente, pur collocato nella dimensione dello Spirito e appartenente a Dio, vive ancora in una condizione profondamente segnata dal peccato, che si oppone alla Legge dello Spirito: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me» (Rm 8,18-21). Questa sofferenza, che Paolo chiama “le doglie del parto” (Rm 8,22a) e a cui è associata anche l'intera creazione, è testimonianza di una nuova realtà spirituale che già vive in noi e in cui noi siamo coinvolti e che ci chiede di essere generata anche nel nostro vivere quotidiano, nell'attesa che anche il nostro corpo venga riscattato dalla corruzione per mezzo di quello Spirito, che ci è stato dato come caparra della nostra gloria futura (Ef 1,13-14): «Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati.» (Rm 8,18-24).
Giovanni Lonardi
BIBLIOGRAFIA
R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Editrice Marietti, Genova, 2002.
A. Rodriquez Carmona, La religione ebraica. Storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005.
Ch. L'Eplattenier, Atti degli Apostoli, commento pastorale, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996.
Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 2005.
M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.
1Significativa in tal senso è la visione che Giovanni ha nella sua Apocalisse: «Attorno al trono, poi, c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d'oro sul capo» (Ap 4,4). Il trono simboleggia il potere assoluto di Dio, attorno al quale sono schierati, senza soluzione di continuità, ventiquattro vegliardi, quasi una sorta di emanazione divina; le loro vesti infatti sono candide, il colore della divinità. Essi rappresentano i due tempi della storia della salvezza significati nei dodici figli di Giacobbe, capostipiti dell'antico Israele, e nei dodici apostoli, capostipiti nel Risorto del nuovo Israele.
2Il termine “Pentecoste” compare soltanto due volte in tutto l'A.T.; in Tb 2,1 dove viene associato espressamente alla festività ebraica delle Settimane, e in 2Mac 12,32. Entrambi i libri sono datati al II sec. a.C.