PADRE  NOSTRO

 

Mt 6, 9b - 13

 

 

 

Scarica File PDF

 

 

 

 

IL  TESTO[1]

 

 

 

Pertanto voi pregate così: <<Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno,

sia fatta la tua volontà,

come in cielo anche in terra;

dài a noi oggi il nostro pane, quello del giorno che verrà;

e rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori;

e non introdurci nella prova, ma liberaci dalla perversione ... >>.

  

 

 

Introduzione

 

 

Gli Scritti neotestamentari ci hanno tramandato di questa preghiera due forme molto diverse tra loro. Una, quella matteana (6,9b-13), molto ricca ed elaborata, che risente di un sitz im leben di tipo liturgico e che affonda le sue radici nella liturgia ebraica; l'altra, quella lucana (11,2-4), molto sintetica, essenziale, scarna al punto tale da dubitare che si tratti, a nostro avviso, di una vera e propria preghiera, quanto piuttosto di una indicazione di temi fondamentali che devono animare e sostanziare la preghiera e della loro priorità: prima le esigenze di Dio e poi quelle degli uomini; vedremo poi come queste siano tra loro concatenate.

 

Il contesto in cui si inserisce il "Padre nostro" lucano infatti, a differenza di quello matteano, è di tipo didascalico; ricorrono qui insistentemente i termini propri dell'insegnamento: Giovanni e Gesù sono implicitamente presentati come maestri, in quanto soggetti del verbo insegnare (didascw); i discepoli (maJhtwn, maJhtaV) e i verbi dell'insegnamento (didaxon, edidaxen), fatti seguire immediatamente dalle parole di Gesù: "e disse loro:<<Quando pregate, dite ... >>" (Lc 11,2a); queste parole, quindi, poste in questo contesto, si qualificano come un impartire un insegnamento. Il Gesù lucano, pertanto, non insegna una preghiera, ma definisce priorità e contenuti del pregare, indicando anche il tipo di rapporto e di relazione che intercorrono tra la divinità e l'orante, invitato a rivolgersi a Dio direttamente con il nome di Padre.

 

Proprio per la sua scarna essenzialità la preghiera lucana sembra rispondere meglio all'insegnamento originale di Gesù[2], che sintetizza e ricapitola in essa i punti fondamentali e qualificanti della sua predicazione, facilitandone in tal modo la memorizzazione e la trasmissione[3].

 

Totalmente diverso è il contesto matteano in cui si inserisce il "Padre nostro". Esso è innanzitutto posto all'interno del primo grande discorso di Gesù (5,1-8,1), che funge da collettore di loghia attribuiti a Gesù, una sorta di antologia elaborata da Matteo. Il contesto immediato è il modo corretto di praticare la giustizia. Elemosina, preghiera e digiuno sono i tre temi fondamentali che sostanziano la pietà ebraica e quella della cristianità primitiva. Il leit motiv è pertanto come porsi in relazione e comunione con Dio in modo da essere a Lui graditi ed accetti: al centro di tutto ci devono stare le esigenze di Dio e non quelle dell'uomo.

 

Ecco dunque il "Padre nostro" che soddisfa a queste esigenze e si pone come esempio del nuovo modo di pregare e di relazionarsi a Dio, colto non più come un'anonima entità trascendente lontana dalle esigenze degli uomini, ma come un Dio che in Gesù si è fatto vicino a loro e su di loro si china con fare materno, mostrando il suo volto affabile e umano di Padre.

 

Il "Padre nostro" matteano risente nella sua forma, come si è detto sopra, dell'ambiente liturgico giudaico e trae, a nostro avviso, la sua origine e formazione proprio da questo. Non si può quindi parlare di una preghiera originale, sgorgata dall'inventiva e dalla spiritualità di Gesù, quanto piuttosto di una rielaborazione e una sintetica ricomposizione di preghiere già esistenti nel culto ebraico[4]. Ciò testimonia come il pregare di Gesù non fosse stato un qualcosa che si contrapponeva al suo mondo, ma, al contrario, si radicava profondamente nella tradizione stessa del suo popolo[5], dando ad essa un senso completamente nuovo (Mt 5,17). La sua originalità e il suo nuovo significato vanno ricercati, da un lato nella novità stessa della predicazione di Gesù e del senso della sua missione, dall'altro in quel porsi direttamente in relazione a Dio, colto esclusivamente come Padre nel senso di Abbà[6], cosa inaudita per il pio ebreo, che intende la sua relazione con Dio-Padre in termini di Creatore-creatura, re-suddito, padrone-servo[7], vedendo in Dio prevalentemente un'Autorità assoluta a cui si deve obbedienza.

 

La struttura e il suo simbolismo

 

La struttura del "Padre nostro" si compone essenzialmente di due parti qualificate sia da una diversità di soggetti che le abitano, il Padre e noi, sia dalle diverse richieste in esse contenute. Il tutto ruota attorno ad un soggetto principale, il Padre, che funge da perno centrale attorno a cui tutto si muove, tutto trova la sua giustificazione e in cui tutto si ricompone.

 

L'apertura della preghiera con l'espressione "Padre nostro che sei nei cieli" funge da intonazione introduttiva all'intera invocazione, e già qui preannuncia che essa si suddividerà in due parti: l'una riguardante le esigenze del Padre ("che sei nei cieli"), l'altra riguardante le esigenze proprie dell'uomo, colto in termini comunitari e interelazionali ("nostro").

 

La figura del Padre pertanto viene qualificata da due elementi fondamentali che verranno poi sviluppati nel corso dell'intera preghiera, ma con ordine inverso: "nostro" e "che sei nei cieli".

L'attributo "nostro" definisce la relazione primaria che intercorre tra il Padre e il noi e troverà la sua precisazione nella seconda parte della preghiera; mentre il "che sei nei cieli" rivela la natura divina di questo Padre e indica tutta la distanza che intercorre tra il Lui e il noi. Questo aspetto occuperà la prima parte.

 

Il rovesciamento dell'ordine con cui si sviluppa la preghiera ricalca in qualche modo lo svolgimento delle dieci Davarim, i dieci comandamenti: i primi tre riguardano le esigenze di Jhwh (Es 20,3-11), i successivi sette definiscono le relazioni tra gli uomini (Es 20,12-17). Questo ordine rispecchia i due comandamenti fondamentali su cui poggia l'intera Torah e che Gesù stesso evidenzierà nel suo dialogo con il fariseo, sottolineando la stretta relazione che intercorre tra i due: "Gesù gli rispose: <<Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente[8]. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso[9]. Da questi comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti>>" (Mt 22-37-40). Da questa priorità ricordata da Gesù e dal parallelismo che egli pone tra i due comandamenti si evince come l'amore per Dio e per il prossimo, pur ponendosi su piani completamente diversi, tuttavia sono tra loro strettamente connessi al punto tale che l'uno non può sussistere senza l'altro. Una posizione questa che anche Giovanni riprende nella sua prima lettera e ricorda alla sua comunità: "Se uno dicesse: <<Io amo Dio>> e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: Chi ama Dio, ami anche il suo fratello" (1Gv 4,20-21).

 

Il prima Dio e poi noi oltre che indicare l'ordine delle cose e la priorità delle esigenze, che necessariamente vanno rispettate, considerata la distanza che separa Dio dall'uomo, dice anche come le esigenze primarie dell'uomo trovano il loro compimento e la loro soddisfazione nel rispetto delle esigenze divine, poiché l'esigere di Dio è sempre in funzione e a favore dell'uomo.

 

Da ultimo, una considerazione va posta sul numero delle richieste. Matteo ne elenca sette, di cui tre riferite a Dio (la santificazione del suo nome, la venuta del suo regno e il compimento della sua volontà); e quattro riguardanti l'uomo (il dono del vero pane, il perdono dei propri debiti, l'evitarci la prova e la liberazione dal Peccato, che come vedremo per Matteo è il rinnegamento della propria fede in un contesto di prova).

 

Il simbolismo dei numeri, considerata l'estrazione culturale di Matteo, non va, a nostro avviso, trascurata. Il sette è qui dato da un tre più quattro. Il tre ricorda l'inizio, ciò che sta di mezzo e la fine, e quindi il compiersi pieno e perfetto di un'azione, che ha la sua origine in Dio stesso. Dice pertanto la perfezione di un compimento. Come dire che i tre elementi che compongono questa prima parte (santificazione del nome, venuta del regno e compimento della volontà) costituiscono il compiersi pieno e perfetto del disegno salvifico di Dio a favore dell'uomo, la cui risposta si fa culto esistenziale a Dio e si manifesta storicamente in un suo impegno perché tale progetto si compia; in esso l'uomo trova la sua piena realizzazione come uomo, così come pensato da Dio nei primordi dell'umanità stessa, in cui Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31).

Il numero quattro allude alla totalità cosmica: quattro infatti sono i venti principali, quattro i punti cardinali, quattro le stagioni, quattro sono gli elementi che compongono il mondo conosciuto (fuoco, acqua, terra, aria). Il quattro quindi simbolicamente definisce la totalità[10]. Le quattro richieste (il dono del pane, il perdono dei propri debiti, l'evitarci la prova e la liberazione dal Peccato) di questa seconda parte sono pertanto colte da Matteo come gli elementi costitutivi e fondamentali che definiscono la nuova comunità messianica, la quale alle esigenze del suo necessario sostentamento terreno affianca anche quelle delle relazioni sociali fondate sull'amore misericordioso e quelle della perfezione spirituale, che introducono ad una vita di relazione con Dio e ne preludono la pienezza.

Il sette dice la pienezza, il compimento realizzato, la perfezione. Dio infatti termina la sua opera e la porta a compimento soltanto nel settimo giorno, che benedice, rendendolo fecondo di vita, e consacra, riservandolo a se stesso, trasformandolo nel luogo della sua abitazione (Gen 2,1-3). Matteo, pertanto, vede in queste sette richieste (tre più quattro), che hanno come cornice strutturale e filo conduttore l'agire del Padre che si intreccia con quello dei figli, la pienezza e la completezza del vivere cristiano, permeato dalla presenza del Padre, che non abbandona mai i suoi figli nel loro cammino quotidiano verso di Lui, secondo la sua promessa: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20b).

 

 

Il commento

 

 

"Padre nostro che sei nei cieli"

 

 

Il Padre, principio di una nuova creazione, in cui ci vede figli

 

Come la creazione, scandita in sette giornate, inizia con "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1), ponendo all'origine di tutto Dio ("In principio Dio"), da cui tutto discende, prende forma e vita (1Cor 8,6), così la nostra preghiera, (ma forse è meglio chiamarla "relazione di comunione con Dio") pone all'inizio il Padre, colto nella sua trascendenza ("che sei nei cieli") immanente ("nostro"). Anche qui questa preghiera si snoda in sette richieste che qualificano l'uomo come una nuova creazione, ponendolo in una nuova posizione e relazione nei confronti di Dio, non più chiamato con tale nome, ma con quello più semplice, immediato e familiare di Padre, il nuovo nome di Jhwh. Vedremo in seguito come è proprio tale nome di Padre che rivela la nuova creazione avvenuta in Cristo, in cui l'intero cosmo e l'intera umanità, strettamente solidali tra loro, sono posti.

 

Il concetto di Dio come Padre nell'A.T.

 

Benché il concetto di Dio come Padre, che è nei cieli[11], non sia sconosciuto al mondo dell'A.T., tuttavia esso non è mai inteso in senso di paternità diretta o adottiva, ma è soltanto un'immagine, una sorta di metafora per descrivere una relazione con un Dio sentito esclusivamente come un'autorità, che ha cura affettuosa del suo popolo e a cui si deve obbedienza (Is 5,1-7). Ed è proprio l'obbedienza, intesa come scrupolosa osservanza della Torah (Es 24,3.7; Dt 5,27), che qualifica Israele come figlio all'interno dell'Alleanza, per cui Jhwh ne è Padre.

 

La paternità di Dio tuttavia è intesa talvolta anche in senso proprio di un Dio che ha generato Israele a partire dalla promessa fatta ad Abramo fino alla sua entrata nella terra promessa (Dt 32,7-14): "Così ripaghi il Signore, popolo stolto e insipiente? Non è lui il Padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? ... La Roccia che ti ha generato tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato" (Dt 32,6.18). Jhwh dunque è il Padre di Israele in quanto ne è il suo ideatore e creatore. In tale contesto il rapporto di paternità-figliolanza si fonda sul concetto di Creatore-creatura. Va tuttavia rilevato che il concetto di Dio come Padre è sempre stato del tutto marginale nell'ambito della fede ebraica[12], che non ne ha mai fatto un suo caposaldo.

 

Il concetto di Dio come Padre nel N.T.

 

 

Gesù non rinnegherà questa idea di Dio come Padre, formatasi lungo la storia veterotestamentaria e da lui ereditata dalla Tradizione ebraica, ma ne cambierà radicalmente il contenuto e, di conseguenza, ciò influirà sulla relazione stessa con Dio, la cui paternità nel N.T. è posta al centro e a fondamento delle nuove relazioni con Dio stesso, aprendo nuovi spazi ed orizzonti al concetto di figliolanza.

 

Gesù si rivolgerà a Dio chiamandolo "Padre mio", ma non in senso metaforico o figurativo bensì reale, lasciando trasparire un suo rapporto con Dio del tutto particolare, unico ed esclusivo, così da creare imbarazzo e scandalo presso i suoi stessi interlocutori: "Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio" (Gv 5,18).

 

La paternità di Dio nei confronti di Gesù trova la sua origine ancor prima della creazione del mondo e di ciò Gesù sembra averne pienamente coscienza[13]. Si tratta pertanto di una coeternità con il Padre nel quale Gesù trova la sua identità, mentre in lui si rispecchia quella del Padre in una reciproca compenetrazione divina[14], così che l'operare di Gesù è lo stesso operare del Padre[15] e vedere, conoscere, amare e onorare Gesù è vedere, conoscere, amare e onorare lo stesso Padre[16]. Gesù pertanto è il volto storico del Padre, il luogo storico privilegiato in cui il Padre abita, vive e si muove nella dimensione storica (Gv 16,32b), interpellando gli uomini nel loro stesso habitat naturale, spingendoli, nel Figlio, a prendere posizione nei suoi confronti. Il rapporto che intercorre tra i due è di totale e pieno amore reciproco[17], così che il Padre si consegna nelle mani del Figlio, dandogli ogni potere[18]: "Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa" (Gv 3,35), mentre il Figlio si abbandonerà nelle mani del Padre (Lc 23,46), restituendogli al termine della sua missione terrena lo Spirito (Gv 19,30b[19]) che lo ha sempre accompagnato e in cui e per mezzo del quale Gesù ha sempre operato (Lc 4,1.16-21).

 

Padre e Figlio costituiscono tra loro, in buona sostanza, una unità inscindibile, pur nella loro diversità e distinzione di persona e di azione, per cui il Padre non è il Figlio, né il Figlio è il Padre.

Vediamo ora come questo rapporto e questa relazione, che si muovono all'interno della comune ed unica divinità, non sono chiusi in se stessi, né fine a se stessi, ma si muovono in funzione e a favore dell'uomo. In altri termini la relazione tra Padre e Figlio è estesa, condivisa e compartecipata, in Cristo, anche all'uomo.

 

Lo lascia intendere Gesù nel suo rivolgersi alla Samaritana. Questa lo interpella sul luogo in cui bisogna adorare Dio (Gv 4,19-20); Gesù le risponde che "né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre ... ma i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Gv 4,21.23). Già qui Gesù abbandona il tradizionale concetto di Dio indicato dalla Samaritana e lo sostituisce per ben tre volte con quello nuovo di Padre. In Gesù, quindi, l'uomo non si trova più di fronte ad un Dio variamente definito nell'A.T. come El o Elohim (la Divinità), El Elyon (il Dio Altissimo), El Sadday (il Dio Onnipotente o della Montagna), El Olam (il Dio Eterno), El roi (il Dio che vede), El Hai (il Dio vivente), El Kanna (il Dio Geloso) o il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe o il più conosciuto Jhwh, nomi in cui si rispecchiano le varie esperienze che l'umanità veterotestamentaria ha fatto di Dio, ma con quello più semplice, unico, immediato e familiare di Padre, che l'uomo ha conosciuto in Gesù. In Gesù dunque Dio perde il suo anonimato e il suo volto dalle numerose ed ambigue sfaccettature per assumere quello unico e inequivocabile di Padre, che nel suo Figlio ama l'uomo e con il Figlio prende dimora presso di lui (Gv 14,23), così che egli, il credente, diventa la nuova dimora del Padre insieme al Figlio (1Cor 6,19). In tal modo Padre, Figlio e credente formano una cosa sola, uniti in un unico flusso di amore (Gv 14,20) in cui tra Padre, Figlio e credente non esistono più segreti e ambiguità, poiché tutto ciò che Gesù ha saputo dal Padre lo ha rivelato a noi e ce ne ha fatti partecipi (Gv 15,15).

Gesù stesso è dono di amore del Padre all'uomo, così che egli, Gesù, si presenta a noi come il volto storico di questo amore (Gv 3,16).

E' un Padre che non abbandona l'uomo, ma per mezzo del suo Figlio gli manda il Consolatore, il cui compito non è solo di fargli comprendere e ricordare tutte le verità insegnategli da suo Figlio (Gv 14,26; 15,26), ma anche di condurlo alla verità tutta intera, alla pienezza della verità (Gv 16,13).

 

In tal modo il credente ha finalmente ritrovato in Gesù, volto storico del Padre e luogo della sua dimora e della sua rivelazione, la sua originaria e primordiale paternità, quando Dio, il Padre, nello splendore della prima creazione ha fatto risuonare il suo decreto creativo: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza ... allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue nari un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (Gen 1,26a.2,7). Un uomo che aveva perso la sua originaria identità di figlio, ritrovandosi nudo (Gen 3,7a), spoglio cioè della stessa vita divina, di cui era stato reso partecipe con il soffio vitale di Dio, rimanendo rivestito della sola animalità (Gen 3,21). Ma l'uomo ritroverà nuovamente questo soffio vitale, che lo ricostituirà figlio di Dio nel Cristo risorto, per mezzo del quale Dio soffia nuovamente sull'uomo e nuovamente lo rende essere vivente: "Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo, ...>>." (Gv 20,22).

 

In tal modo l'uomo ricreato in Cristo, in lui accorpato per mezzo della fede e del battesimo, acquisisce di diritto la filiazione divina: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4,5). E proprio perché figli "noi non abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma abbiamo ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre" " (Rm 8,15-16).

Grazie a questa filiazione divina, l'uomo diventa erede delle promesse della gloria messianica. Infatti, "Se siamo figli, siamo anche eredi : eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria." (Rm 8,17).

Nello splendore di questa seconda creazione, compiutasi nel Cristo risorto, l'uomo è stato quindi ricostituito nuovamente figlio di Dio, a Lui rigenerato e reso nuovamente compartecipe della sua vita divina così che Gesù, rivolto alla Maddalena, la sollecita: "... va dai miei fratelli e di' loro: <<Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro>>" (Gv 20,17b). Gesù ha quindi condiviso con noi suo Padre e noi siamo divenuti in lui veri figli di Dio e non in senso metaforico, ma veri figli nel Figlio: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente!" (1Gv 3,1a)

 

Una figliolanza questa che non è accaduta per caso o come conseguenza secondaria della risurrezione, ma essa costituisce la centralità del progetto salvifico del Padre, pensato fin dall'eternità e attuato sulla croce: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, ... nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,4-5.7).

 

... nostro

 

Questo semplice aggettivo possessivo qualifica e definisce la figura stessa del Padre, ponendolo in una stretta relazione con il “noi”, secondo soggetto di questa Preghiera. Tuttavia  il termine “nostro” non dice soltanto una semplice relazione, ma indica anche una duplice dimensione: l’appartenenza e la relazione comunitaria.

 

La dimensione relazionale

 

Già l’espressione “Padre”, attribuita a Dio, definisce e qualifica Dio come il principio generatore generante e implicitamente lo pone in stretta relazione con il generato in un rapporto di figliolanza. Dio dunque è per sua natura “Relazione” e lo è fin dall’eternità in quanto coeterno con il Figlio[20], che reclama tale coeternità per se stesso insieme al Padre[21]. Una relazione che si qualifica squisitamente sul piano dell’amore[22], un amore che al di là di ogni sentimentalismo è essenzialmente atteggiamento e comportamento, e definisce l’amante come colui che è totalmente aperto e accogliente verso l’amato, come colui che si fa dono per l’amato. Questa relazione amorosa tra amante e amato si pone su di un piano di reciproca compenetrazione, così che i due sono una cosa sola[23].

 

 

 

 

 

L’appartenenza

 

 

Questa relazione che qualifica il rapporto tra Padre e Figlio fin dall’eternità è stata estesa anche all’uomo in Cristo e per mezzo di Cristo. Tale estensione infatti trova la sua origine e la sua giustificazione in un progetto divino coeterno a Dio Padre: “In lui ci ha scelti (in Cristo) prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). Un disegno che fu tenuto nascosto da sempre e che fu preordinato prima dei secoli e fu finalizzato alla nostra glorificazione, cioè alla nostra partecipazione alla vita stessa di Dio, che è Padre, è Figlio ed è Spirito Santo (1Cor 2,6-7) e ha trovato la sua piena manifestazione e attuazione nello stesso Cristo.

 

Già nelle prime pagine della Genesi vediamo come Dio, per suo decreto (Gen 1,26), assimila l’uomo a se stesso, rendendolo partecipe della sua stessa vita e della sua creazione (Gen 1,27-28; Sal 8,5-6), che gli affida (Gen 2,15b; Sal 8,7-9) e con lui fin da subito stabilisce un’alleanza: egli vivrà e potrà rimanere nella stessa vita divina, in cui è stato collocato (Gen 2,15a) se e in quanto rispetterà il comando che gli viene dato e che gli ricorda il suo stato di creaturalità e di dipendenza (Gen 2,15-17). Un’alleanza che verrà disattesa e violata dall’uomo, per questo egli verrà posto fuori dalla dimensione divina (Gen 3,23) e perderà la sua immagine e somiglianza con Dio, assumendo per contro quella di uno stato di animalità, di cui viene rivestito (Gen 3,21).

Ma Dio non abbandona l’uomo al suo triste destino e fin da subito lo cerca e lo rincorre: “Dove sei?” (Gen 3,9) e gli rivela, sia pur velatamente, il suo progetto di salvezza (Gen 3,15), che gradualmente e nascostamente si attua nella storia: il recupero dell’uomo alla sua primordiale condizione in cui egli, in quanto immagine e somiglianza di Dio, condivideva la stessa vita divina.

 

Ed ecco che quest’uomo, diventato ora popolo, schiavo in Egitto e privo di ogni dignità, si ritrova ai piedi del monte Sinai dove Dio, dopo averlo liberato, stabilirà con lui una nuova alleanza e gli darà una nuova identità, affidandogli una nuova missione: “Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.” (Es 19,5-6).

 

Dio definisce Israele sua proprietà, indicando con ciò l’appartenenza di Israele a Dio e al suo mondo. In quanto sua proprietà Israele condivide gli stessi destini di Dio, mentre nell’Alleanza Dio si associa a Israele definendolo “mio popolo” (Es 3,7) per questo egli è “una nazione santa”, cioè a Lui consacrata e partecipe della sua Santità, che indica la peculiare qualità stessa della vita di Dio. E per Israele la santità di vita, cioè il conformarsi esistenzialmente alle esigenze di Dio espresse nella Torah, sarà sempre un imperativo costituzionale e fondamentale del suo essere e rimanere proprietà divina, cioè appartenente a Dio: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2; 11,45). E Israele avrà sempre profondamente impresso nella propria coscienza questo carattere di appartenenza divina. Non a caso le espressioni “nostro Dio” o “vostro Dio” ricorrono nell’A.T. ben 212 volte la prima e 170 la seconda.

 

Ma il significato di questa appartenenza divina assumerà contorni più netti con la venuta di Gesù. C’è innanzitutto un affidamento dell’uomo e con lui, per un principio di stretta solidarietà[24], dell’intera creazione a Gesù da parte del Padre[25], un affidamento che ha la sua origine in una elezione primordiale, ancora prima della creazione del mondo (Ef 1,4a). Secondo il progetto di Dio, dunque, noi gli apparteniamo da sempre e la missione di Gesù è quella di ritornare al Padre la sua proprietà, senza che niente di questa vada perduto[26]. Per questo Gesù l’affida allo stesso Padre perché la custodisca (Gv 17,11b.15). Il compito di Gesù dunque è quello di recuperare in se stesso (Gv 12,32) non solo l’uomo, ma con l’uomo, in stretta solidarietà, anche l’intera creazione per poi ritornarli al Padre integralmente rigenerati nello Spirito (1Cor 15, 28), così com’erano nei primordi; nel progetto divino infatti Gesù doveva essere ed è il punto di convergenza e di ricapitolazione dell’intero universo creato (Ef 1,9-10).

 

Il progetto di affidamento nella sua pratica attuazione avviene in due momenti fondamentali: da un lato l’accoglienza trasformante di Gesù nella sua parola[27], colta quale elemento primario di rivelazione e veicolo operante di salvezza, dall’altro un’intima unione comunionale alla sua vita espressa in quel cibarsi di lui[28] e in quel rimanere in lui (Gv 15). La finalità di tale affidamento è una incorporazione dell’affidato in Cristo, così da farne una sola cosa con lui e in lui (Gv 6,56) e per mezzo di lui con il Padre (Gv 14,23; 17,20-24) , così che tutti siano nuovamente una cosa sola in Dio (1Cor 15,28), come era nei primordi della prima creazione, quando Dio constatò che quanto aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31). Paolo esprimerà questa profonda unità dell’uomo a Cristo, in lui rigenerato, affermando: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Gal 2,20).

 

Nell’espressione “Padre nostro” è dunque racchiusa tutta la storia della salvezza, che racconta il lento e graduale accorpamento dell’intero cosmo e di ogni suo abitante[29] a quel Dio-Padre da cui tutto è nato e defluisce (Gen 1,1) e che in Gesù, sua Parola vivente ed operante, ci rivela e nuovamente attua ed efficacemente ristabilisce la sua paternità sull’intero cosmo e nei nostri confronti, ricollocandoci nella sua stessa vita divina, condivisa con noi in Cristo e per Cristo (Gv 20,17b). In quel “nostro” dunque viene professata l’estensione della vita di Dio all’intera umanità, così che noi siamo suoi e Lui ci appartiene in una reciproca compenetrazione, che lega i nostri destini a quelli di Dio e, in Gesù Cristo, Dio lega i suoi a quelli dell’intera umanità (Gv 17,21-22).

 

La relazione comunitaria

 

L’estensione all’uomo della Vita stessa di Dio, che per sua natura è relazione d’amore, e la sua reale compartecipazione a tale Vita in Cristo e per Cristo, impone al credente di incarnare nella propria esistenza tale mistero di Vita e di Amore comunionali, che lo compenetrano profondamente nel suo essere e lo spingono similmente verso l’altro, ricreando nelle sue relazioni comunitarie quel circolo di amore trinitario che vive e palpita in lui (Gv 17,26).

L’uomo in Cristo e per Cristo infatti è stato ricreato ad immagine e somiglianza di Dio, così che egli è diventato in lui una nuova creatura[30]. Una nuova realtà si è innestata nell’uomo che è chiamato ad incarnarla e renderla visibile nella propria vita. Infatti “egli (Cristo) è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Cor 5,15); Paolo dunque ci testimonia come la nostra vita ha subito un profondo e radicale riorientamento che ci ha assimilati al Cristo morto-risorto e in lui ci ha incorporati a Dio, così che noi siamo diventati nuove creature: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.” (2Cor 5,17); pertanto “se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.” (Rm 14,8).

Ed è in virtù di questa profonda, radicale e trasformante compenetrazione del vivere cristiano con la vita comunitaria e comunionale di Dio, che il credente è chiamato a sacramentalizzarla, cioè ad attuarla visibilmente, nella propria vita di relazione.

 

Espressione vivente e certa della sacramentalizzazione di questa vita divina in noi è la carità (1Gv 3,14-18).

 

Che sei nei cieli: cielo e terra sono i due elementi primordiali della creazione usciti dal primo atto creativo di Dio (Gen 1,1), per cui cielo è tutto ciò che non è terra e terra tutto ciò che non è cielo. Non vi era un confine preciso, che invece viene costituito soltanto nel secondo giorno della creazione: “<<Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque>>.  Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno” (Gen 1,6-7). Il firmamento fu pertanto l’elemento separatore delle acque che sono sopra il cielo da quelle che sono sotto il cielo, ma nel contempo individua anche i confini stessi tra il cielo e la terra e gli spazi che apprtengono all’uno e all’altra. Il firmamento si identifica con il cielo stesso (Gen 1,8a) il quale contiene in sé gli elementi essenziali che servono a tutte le creature terrestri per poter alimentare la propria vita, come l’acqua, la neve, la pioggia, la rugiada, la brina, il fuoco, la polvere, la grandine, la manna, il vento, il sole, la luna, le stelle, le nubi, il tuono, i fulmini[31]. Il cielo è pertanto concepito come uno scrigno dove Dio tiene i suoi tesori per la vita dell’uomo sulla terra (Dt 28,12). Da esso viene ogni benedizione per la terra e per l’uomo[32], così come la maledizione o la punizione delle colpe si manifestano con la chiusura del cielo[33]. Dal cielo dunque viene la vita o la morte, poiché esso è il luogo della dimora stessa di Dio[34], anzi Dio spesso è identificato con il cielo stesso[35].

Ma se nell’A.T. il cielo è il luogo esclusivo di Dio a cui l’uomo non può in alcun modo accedere, indicando tutta la distanza che separa i due[36], così non è nel N.T. per il quale la dimensione celeste è estesa anche agli uomini che accolgono Dio nella loro vita e la decidono per Lui (Mt 5,3.10.19), così come chi si chiude a Dio viene escluso dal suo regno celeste (Mt 5,20). L’uomo quindi è chiamato a lavorare e ad impegnarsi per le cose che contano e ad accumulare i suoi tesori per il cielo[37], luogo della sua futura dimora[38], in cui è già stato trasferito in Cristo[39] e da cui riceve ogni benedizione spirituale (Ef 1,3).

Uomo e Dio, Cielo e Terra non sono più separati tra loro, ma trovano la loro rappacificazione e il loro punto di ricongiunzione in Cristo stesso (Col 1,20), la vera porta e la vera via che conduce al Padre che è nei cieli (Gv 14,6). Grazie dunque a Cristo noi siamo diventati concittadini dei santi e familiari di Dio stesso (Ef 2,19) e le porte del cielo ci sono state riaperte, così che il cielo non è più l’esclusiva e irraggiungibile dimensione divina di Dio. Il Padre, che viene collocato nei cieli, diventa pertanto il luogo della nostra dimora e costituisce la viva speranza che attende il credente (Col 1,5). Dal Padre, in Cristo e per Cristo, infatti siamo stati generati alla stessa vita divina e costituiti come suoi figli adottivi ed eredi della sua stessa vita (Ef 1,4-5; Gal 4,4-7) e a Lui apparteniamo. Rivolgersi pertanto a Lui con il nome di “Padre che abita nei cieli”, significa da un lato confessare la sua divinità e la sua santità, cioè tutta la distanza che ci separa da Lui, e implicitamente la nostra appartenenza a tale dimensione, racchiusa tutta nel nome di Padre celeste.

 

Sia santificato il tuo nome: dopo l’invocazione iniziale che traccia le linee essenziali che demarcano i rapporti e le distanze intercorrenti tra noi e Dio, qualificato nella sua accezione di Padre, cioè fonte primaria da cui tutto proviene e in cui tutto trova il suo fondamento e origine, ponendoci conseguentemente in una relazione filiale e comunionale nei suoi confronti, che non è senza conseguenze per il noi, seguono tre esortazioni rivolte direttamente a Dio. Esse sono costituite da tre verbi, due posti al passivo (¡giasq»tw, genhq»tw), uno all’attivo (™lqštw) e da tre sostantivi che formano il tema di fondo di ogni singola invocazione (Ônom£, basile…a, qšlhma); sia i verbi che i sostantivi girano attorno ad un unico e ripetuto aggettivo possessivo, che in qualche modo li qualifica e li raggruppa tutti: sou (tuo/tua; lett. “di te”). Per cui si avrà: 

 

 

                               i verbi                 i nomi           l’aggettivo

                                                          tematici          possessivo

 

·         ¡giasq»tw      tÕ Ônom£           sou

·         ™lqštw           ¹ basile…a         sou

·         genhq»tw        tÕ qšlhm£          sou

 

 

Il verbo passivo nel linguaggio biblico pone Dio come attore principale dell’azione propria espressa dal verbo. Fulcro centrale di ogni invocazione pertanto è esclusivamente Dio, poiché tutto (verbi, sostantivi e aggettivi possessivi) fa riferimento a Lui. Si noti come soltanto il verbo centrale (™lqštw) è posto all’attivo, quasi come logica della santificazione del nome divino. In altri termini la santificazione produce l’accadere del regno.

I temi che compongono le tre invocazioni, poi, non sono soltanto giustapposti l’uno accanto all’altro, ma costituiscono uno sviluppo concatenato e dipendente l’uno dall’altro. Nella prima posizione infatti viene posto la santificazione del nome di Dio, che trova la sua attuazione e piena manifestazione nel compimento del suo regno, entro il quale Dio colloca la sua presenza e rivela la sua identità; tale regno è caratterizzato dal compiersi sovrano della sua volontà. L’uno non può sussistere senza l’altro.

 

La prima invocazione che la comunità credente rivolge al Padre è che “sia santificato il tuo nome”.

 

Che cosa significhi santificare o santità o santo è concetto che abbisogna di approfondimento. Va detto subito che soltanto Dio è Santo[40], anzi Egli è il Santo per eccellenza[41] e per ciò stesso è fonte di ogni santità[42] e sua propria esclusiva è l’azione della santificazione[43]; mentre quando questi vari livelli vengono attribuiti all’uomo essi sono solo una partecipazione e una risposta esistenziale alla Fonte primaria di ogni santità e di ogni azione santificatrice[44], di cui l’uomo beneficia e riflette in se stesso, ritornandola a Dio, il vero e unico Santo santificante[45]. La santificazione operata dall’uomo su se stesso, sulle cose e su Dio dice la sua partecipazione e il suo accesso alla vita divina e si concretizzava nell’A.T. da un lato nel non contaminarsi con le cose impure o purificarsi dalle impurità subite, così che in tale caso la santificazione diveniva sinonimo di purificazione, che contiene in sé un intrinseco concetto di separazione: l’uomo nella purificazione doveva liberarsi, infatti, dalle contaminazioni, distaccarsi dai culti idolatrici e dalle negromanzie e da tutto ciò che lo poteva rendere inidoneo al suo rapporto con Dio[46]. Dall’altro lato, il santificarsi e il santificare dell’uomo è sinonimo di conformare la propria vita alle disposizioni e alle esigenze divine, attraendo all’interno di tali esigenze anche le realtà nelle quali l’uomo è chiamato a vivere[47].

Mentre il santificare il nome del Signore significava riconoscere che il Signore è Dio (Is 29,23).

 

La santità di Dio ha la sua radice primaria nel fatto che Egli è il totalmente diverso dagli uomini[48]; essa costituisce pertanto il parametro che misura tutta la distanza che Lo separa da questi, così che quando Dio santifica l’uomo lo avvicina a Se stesso, rendendolo in qualche modo partecipe della sua irraggiungibile diversità e facendolo simile a Sé. Da questo concetto di santità come diversità, come l’essere tutt’altro dall’uomo e dal creato, nasce l’idea di consacrazione; essa dice separazione ed elezione ed è l’atto con cui Dio riserva in modo esclusivo per Se stesso l’oggetto della sua consacrazione, acquisendolo alla dimensione che gli è propria[49]. Non a caso infatti il primo atto che Dio compie nei confronti del suo popolo liberato dalla schiavitù d’Egitto è quello di donargli una nuova identità, facendolo sua proprietà, agganciandolo pertanto ai suoi destini eterni e facendolo partecipe della sua vita, per questo lo definirà nazione santa: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6).

 

La santità pertanto esprime una misteriosa potenza legata e che lega al mondo divino persone, cose e istituzioni. Santo perciò è ciò che appartiene a Dio e non all’uomo. La santità dunque diversifica e separa i due mondi, l’umano dal divino, così che i due non si possano confondere. Tale separazione tuttavia non è un limite invalicabile, ma diventa il presupposto per l’estensione della santità anche al di là del limite, trasformandosi in attrazione e poi in condivisione della santità stessa. Da qui nasce il concetto di sacro, che da un lato dice separazione dal profano, ma dall’altro afferma l’esclusività della cosa consacrata, decretandone la proprietà divina; uno spazio dunque riservato a Dio, il cui limite è invalicabile (Es 19,12.23). La santità pertanto è essenzialmente riservata a Dio, cioè colui che è il totalmente diverso dall’uomo. Per questo la santificazione da parte divina è un comunicarsi di Dio all’uomo, un condividere e un compartecipare il proprio mondo e il proprio stato di vita all’uomo stesso, così che questo viene santificato, cioè attratto nella dimensione divina.

 

Per sua natura Dio è Santo, anzi egli è il Santo per eccellenza ed è chiamato e conosciuto in Israele come “il Santo”[50] ed è proclamato tre volte Santo da Isaia (Is 6,3), che ne descrive la gloria e la potenza cosmica (Is 6,1-11), mentre di fronte a tanta maestosa santità egli si sente un peccatore impuro e un uomo fragile. Tale santità divina opera sulla terra con la gloria, cioè manifestandosi come potenza di amore che opera la salvezza, attraendo l’uomo nel mondo di Dio e rendendolo compartecipe della sua gloria e del suo potere (Sal 8,5-9).

 

Questa santità divina si manifesta in mezzo al popolo e agli uomini con suoi segni propri dai quali Israele viene santificato. Un primo segno qualificante è il sacerdozio, che diviene in Israele il centro diffusore della santità divina, il punto di intermediazione tra Dio e gli uomini. Il sacerdote infatti è l’uomo chiamato, eletto da Dio e che Dio si riserva, rendendolo santo, per donarsi agli uomini[51] (Eb 5,1). Per questo il sacerdote appartiene a Dio ed è attratto nella sua santità, a Lui consacrato. Emblematicamente il sommo sacerdote portava sul capo una lamina d’oro con scritto sopra “Santo per Dio”.

Un altro segno di presenza della santità di Dio in mezzo al popolo fu il nazireato (Nm 6,1-21)[52], cioè l’atto di consacrazione perpetua o temporanea di una persona, uomo o donna, a Dio (Nm 6,2). Durante tale tempo egli apparteneva totalmente a Jhwh (Nm 6,8).

Alto segno della presenza della santità di Dio sono gli oggetti a Lui consacrati per il suo culto; così come l’Arca, su cui dimora la presenza di Jhwh e da cui Egli parla a Mosé e al suo popolo. E similmente il Tempio dove dimora la presenza gloriosa di Jhwh (1Re 8,10-12; Ez 10,4). Esso è il luogo dell’incontro tra Dio e il suo popolo e nel quale Dio lo avvolge nella sua santità gloriosa.

Altro segno sono ancora le offerte e i sacrifici poiché esprimono l’atto di comunione tra Dio e il suo popolo per mezzo delle quali il popolo consacra a Dio il suo lavoro e il suo mondo. In qualche modo l’uomo per mezzo di queste offerte offre e consacra se stesso a Dio con azione propria sacerdotale (Rm 12,1).

Altro segno della presenza della santità divina in mezzo al popolo sono le festività, quali spazi di tempo riservati a Dio. Primo tra tutti il sabato, assunto quale segno che lega Dio al suo popolo e suo spazio di comunione con Jhwh (Ez 20,20). Le festività dunque sono la consacrazione del tempo, che è lo spazio entro cui l’uomo vive e si muove e in cui, proprio attraverso la celebrazione rituale degli eventi di salvezza, trasforma in luoghi salvifici per gli uomini di ogni tempo[53].

 

Se questa è la santità essa non è mai un luogo statico di contemplazione, ma possiede in se stessa un forte dinamismo relazionale che tende a coinvolgere (Lv 19,2) e che ha come soggetti principali Dio, quale fonte primaria di ogni santità santificante, e l’uomo, quale soggetto capace di relazionarsi esistenzialmente con il suo Dio. In tal modo la santità di Dio nel suo manifestarsi diventa per l’uomo l’indicativo di salvezza (Es 6,6-8; Lv 11,45), mentre la risposta dell’uomo a tale indicativo, a questo mostrarsi della santità divina, diventa l’imperativo di salvezza[54]. Si viene quindi a creare un rapporto vincolante tra Dio e il suo popolo, una sorta di dialogo storico-salvifico che si attua da un lato nella manifestazione di eventi salvifici (Es 6,6-8; 7,5; 14,4) in cui il popolo vede l’intervento del suo Dio a suo favore, dall’altro la conseguente risposta dovuta da Israele[55]. Questo aspetto relazionale e coinvolgente della santità, che è azione salvifica di Dio, presuppone da un lato il manifestarsi di Dio all’uomo e dall’altro la capacità dell’uomo di accogliere in sé il rivelarsi del suo Dio e di rispondere esistenzialmente alla rivelazione (Lv 11,44-45; 19,2). L’invocazione pertanto che la comunità credente rivolge a Dio, suo Padre, “che sia santificato il tuo nome” è un’esortazione perché Dio si riveli e si manifesti Santo in mezzo agli uomini. Il nome, infatti, per il mondo orientale e semitico esprime l’essenza e la natura stessa della persona ed è sinonimo di persona.

La santità pertanto si esprime nella rivelazione della potenza di Dio in mezzo al suo popolo e agli uomini (Sir 36,3), che in tal modo lo riconoscono nella sua santità (Es 7,5; Sir 36,4). Questo suo manifestarsi dice la glorificazione stessa di Dio nella sua potenza e nelle sue opere (Sir 36,5; Is 26,15). Ed è proprio nel N.T. che la rivelazione del Padre trova il suo vertice in Cristo, che glorifica il Padre, manifestandolo con la sua opera e la sua sottomissione a Lui, mentre il Padre glorifica il Figlio, rivelandosi in Lui, una rivelazione che troverà la sua piena manifestazione nella stessa risurrezione di Gesù, a cui Gesù allude quando chiede di essere glorificato dal Padre (Gv 12,23.28; 14,13; 17,1)[56].

 

Il “sia santificato il tuo nome”, quindi, è un’invocazione della comunità credente che esorta il Padre a manifestarsi a tutti gli uomini, così come loro, i credenti, hanno saputo cogliere il rivelarsi del Padre nel Figlio. La natura quindi di questa invocazione, come quelle successive, è missionaria e troverà la sua attuazione nell’accadere del Regno di Dio in mezzo agli uomini.

 

Venga il tuo regno: quando si parla di regno si ricorre a parametri storici, politici e geografici che definiscono un determinato spazio terrestre in cui, in modo organizzato, regna un sovrano riconosciuto che impone la sua autorità sul suo territorio e i suoi abitanti. Questo sovrano, tuttavia, per quanto potente, è sempre a sovranità limitata, politicamente e geograficamente ben definita, mentre il suo potere è scandito dal tempo. Ma quando parliamo di regno di Dio le cose cambiano radicalmente. Va subito detto che attribuire a Dio un regno è del tutto improprio e inadeguato e di fatto non si può parlare di regno di Dio, poiché tale presunto regno è inesistente. Sottolinea giustamente il Panimolle[57]: “Nella sacra Scrittura incontriamo assai di frequente le locuzioni “Jhwh regna”, “Il regno di Dio”, “Il Signore è re”. Evidentemente si tratta di un linguaggio simbolico e analogico per esprimere verità e realtà divine partendo dall’esperienza del mondo umano, nel quale il governo, il dominio, il potere, la signoria sono esercitati in modo eminente dai monarchi, dai re, dai reggitori dei popoli. Con tali espressioni concernenti la regalità divina la Bibbia vuole insegnare e rivelare che Dio è il supremo sovrano e dell’universo”[58].

 

Che cosa significhi “regno di Dio” e che cosa esso sia va desunto unicamente dalla Scrittura. Non è nostra intenzione qui fare la storia dello sviluppo del concetto di “regno di Dio”  nell’ambito delle Scritture, ma soltanto si vuole coglierne il senso all’interno del N.T.

 

Sia il vangelo di Matteo che quello di Marco pongono nei loro primi capitoli l’annuncio del Regno: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino” (Mt 3,2; 4,17) e similmente Marco: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). In entrambi i casi l’annuncio del regno sta alla base dell’esortazione “convertitevi”. Ciò significa che il regno presuppone da parte nostra un radicale cambiamento dei parametri che solitamente sostengono il nostro modo di ragionare e di vedere le cose e richiede un riorientamento esistenziale, poiché diversamente non ci è possibile coglierlo. Giovanni, in termini più espliciti, afferma “se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio" (Gv 3,3). In altri termini, se non sposiamo le logiche di Dio questo regno è per l’uomo inaccessibile. Per questo Marco conclude la sua esortazione alla conversione con il “credete nel vangelo”. Si noti come Marco non dice “credete al vangelo”, bensì “credete nel vangelo”.  La preposizione “nel” (gr. en to) designa uno stato in luogo, per cui il credere deve nascere, svilupparsi e muoversi nell’ambito del Vangelo. In altri termini la nostra fede deve collocare il nostro vivere, in tutte le sue espressioni, nel Vangelo, che è la rivelazione del mistero di salvezza che Dio ha pensato per gli uomini. Se dunque il regno esige un così radicale cambiamento esistenziale da parte dell’uomo ciò significa che in esso si muovono logiche totalmente diverse, sconosciute all’uomo, ma rivelate nel Cristo. Il Gesù giovanneo infatti ricorda che “il mio regno non è di questo mondo; ... il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36); per questo l’uomo deve sapersi rigenerare non più secondo le logiche carnali, ma secondo quelle dettate dallo Spirito Santo (Gv 3,5a), l’unico in grado di collocarci nella dimensione stessa di Dio; diversamente non vi si può accedere (Gv 3,5b).

 

Rileviamo ancora come l’annuncio del regno è accompagnato da una concomitante guarigione dalle varie infermità e malattie che affliggono l’uomo e come proprio da queste guarigioni si evince che il regno di Dio si è fatto vicino all’uomo[59]. Questo fa capire come il regno possiede in sé una potenza capace di rigenerare l’uomo ad una vita nuova, aprendolo ad una nuova dimensione fino ad allora sconosciuta e che trova la sua piena manifestazione nella risurrezione di Cristo; così che le guarigioni prodotte dall’annuncio del regno sono una sorta di anticipazione e prefigurazione di quanto sarebbe avvenuto nell’uomo con la risurrezione di Gesù (1Pt 1,3). In essa è stato inaugurata una nuova creazione nel cui ambito è collocato il credente (Col 1,13). L’annuncio accolto del regno produce dunque una rigenerazione vivificante nell’uomo capace di trasformarlo[60].

 

Quali dimensioni abbia questo regno e in che cosa esso consista ci viene prospettato da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole.” (Rm 14,17-19). Innanzitutto Paolo evidenzia come questo regno non è una questione “di cibo o bevanda”, cioè non ha nulla a che vedere con le realtà umane che conosciamo ed esula completamente dai nostri parametri storici, così che “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50); per questo “né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio.” (1Cor 6, 9b-10)[61]. Questo regno dunque non ha dimensioni spazio-temporali, ma si colloca su di una diversa dimensione e va ricompreso nell’ambito degli spazi stessi di Dio: infatti “è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” e, quindi, chi conforma il proprio vivere su queste logiche realizza pienamente se stesso ad ogni livello, sia umano che divino e appartiene pienamente a questo regno, anzi ne è un servitore. Un regno quindi che non è definibile con parole umane, che nascendo dal contesto della nostra esperienza difficilmente riescono a superarla. Esso si identifica con la potenza stessa di Dio, proprio perché il “regno di Dio non consiste in parole, ma in potenza.” (1Cor 4,20). Tale regno pertanto è la dimensione stessa di Dio e ha a che fare con la sua stessa vita divina. Conformarsi pertanto alle esigenze di Dio, che si sono manifestate nel Cristo, ci rende partecipi di questa indefinibile e ineffabile dimensione, che ha trovato tuttavia la sua piena manifestazione e attuazione storica in Gesù e in esso si identifica. È significativo infatti quando la gente, rivolta a Gesù che entra in Gerusalemme su di un asino, lo acclama dicendo: “Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11,10), mentre similmente Luca definisce Gesù come il re che viene (Lc 19,38) e Giovanni vede nella crocifissione di Gesù la sua regale intronizzazione, anzi proprio nella passione Gesù rivela pienamente la sua regalità[62].

 

La santità di Dio, dunque, si manifesta e si rivela nel Cristo morto-risorto ed è proprio in questo suo rivelarsi che accade il regno di Dio ed esso si rende vicino agli uomini al punto tale che gli uomini, rigenerati in Cristo, vi possono accedere e vi appartengono. Pertanto l’invocazione della comunità rivolta al Padre “venga il tuo regno” esorta il Padre a rendere riconoscibile a tutti gli uomini la sua presenza in mezzo ad essi, quale presenza di santità, cioè presenza di vita divina rivelatasi in Gesù e resasi accessibile a tutti in Cristo e per Cristo. Da qui la necessità di conformarsi esistenzialmente ad essa (Rm 12,2), quale realtà già in essere, anche se non ancora pienamente e definitivamente compiuta, ma tuttavia già capace fin d’ora di rigenerare il credente alla vita stessa di Dio in cui è già stato trasferito in virtù della sua fede (Col 1,13).

 

Sia fatta la tua volontà: anche in questa invocazione (che non contiene in sé nessun senso fatalistico), così come nella prima, il verbo è posto al passivo. Attore principale di questa azione di accadimento e compimento dunque è Dio stesso, cioè il Padre che opera per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Siamo giunti pertanto all’ultimo passaggio: dalla santità divina, che dice la natura stessa di Dio, manifestata all’uomo in Cristo, sgorga il regno di Dio, cioè la sua azione rigeneratrice nei confronti dell’uomo e del creato. In tale regno, che è dimensione divina, ora la comunità credente sollecita il Padre ad attuare la sua volontà, portando in tal modo a compimento l’azione santificatrice e rigeneratrice intrapresa nel Cristo per mezzo dello Spirito Santo. L’azione apocalittica[63] partita dal Padre, attuatasi in Cristo, vera apocalisse del Padre e del suo prestabilito disegno di salvezza, assume ora un tono decisamente escatologico[64]: che l’azione intrapresa (già iniziata, ma non ancora pienamente e definitivamente compiuta) sia ora portata a compimento. È dunque sempre il Padre, per Cristo e in Cristo, l’attore primario dell’azione santificatrice, redentrice e salvifica.

 

C’è dunque un disegno, un progetto salvifico prestabilito[65], pensato da Dio ancora prima della creazione del mondo e che trova la sua attuazione in Cristo, azione storica del Padre, per mezzo dello Spirito. L’autore della lettera agli Efesini ne dà un ampio squarcio nel suo stupendo inno cristologico: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l'ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria.” (Ef 1, 3-14).

 

Tale progetto, originato nel mistero di amore del Padre fin dall’eternità, attuato e manifestato in Cristo per mezzo dello Spirito Santo e al quale ogni uomo è chiamato a partecipare ed è esistenzialmente e fattivamente coinvolto, trova il suo definitivo compimento e il suo epilogo nella morte e risurrezione di Cristo, dalle quali tale compimento e tale epilogo hanno avuto il loro inizio fino al loro definitivo esaurimento, quando la storia sfocerà nell’eternità di Dio. Paolo, in una stupenda visione escatologica, ce ne dà testimonianza nella sua prima lettera ai Corinti: “ ... Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.” (1Cor 15,23-28). Questa sottomissione cosmica al Padre per mezzo di Cristo non ha da intendersi come un’imposizione vittoriosa del giogo divino sull’uomo, ma come un ricondurre le cose al loro stato primordiale, quando Dio vide che ogni cosa che aveva creato era molto buona (Gen 1,31).

 

L’invocazione esortativa della comunità credente rivolta al Padre, “sia fatta la tua volontà” sollecita il Padre al pieno compimento del suo progetto di salvezza, così che quanto inaugurato con il regno trovi infine la sua definitiva attuazione e il suo compimento.

Non a caso l’intera rivelazione, che ha il suo vertice nel Cristo morto-risorto, si chiude in modo significativo con la voce dell’intera comunità credente che invoca la venuta del suo Signore, verso il quale è orientata: Marana tha, Vieni Signore Gesù (Ap 22,20b), poiché solo in questo momento l’invocazione “sia fatta la tua volontà” troverà il suo Amen.

 

Se da un lato il “sia fatta la tua volontà” sollecita il compiersi definitivo del progetto salvifico divino, proiettato in un forte dinamismo escatologico che sintetizza in sé anche le altre due precedenti invocazioni, dall’altro tale sollecitazione al compiersi possiede in se stessa un risvolto morale, che interpella l’uomo nel suo farsi storico e lo spinge a prendere posizione di fronte all’accadere di questa volontà e a dare quindi la sua risposta esistenziale. L’uomo, infatti, e ancor più il credente saranno misurati sul fare (Mt 7,21), cioè sul loro conformarsi esistenzialmente alle esigenze di Dio storicamente espresse nella persona di Gesù e nella sua Parola. Ed è proprio in questa sua conformazione esistenziale alle esigenze del regno che l’uomo dà spazio da un lato al regno stesso e dall’altro santifica il nome di Dio, cioè ne rende testimonianza e ne dà affermazione in seno alla comunità umana e a quella credente. Questa conformazione dell’uomo alle esigenze divine non va letta come un assoggettamento schiavistico ad un Dio padrone, ma è la conditio sine qua non per accedere alla vita divina stessa e ricreare in se stessi quell’immagine e somiglianza divine originariamente perdute, stabilendo in tal modo un nuovo legame parentale con Dio e il suo mondo (Mt 12,50; Mc 3,35; Ef 2,19).

 

come in cielo così in terra: questa espressione chiude la prima parte del Padre nostro e le assegna una forte valenza escatologica e universalistica. Essa ci richiama in qualche modo alla prima creazione in cui Dio creò il cielo e la terra (Gen 1,1) nei quali Egli vide l’attuarsi pieno della sua volontà e il riflettersi della sua luce (Gen 1,3) : “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.” (Gen 1,31) Ogni cosa dunque era incandescente di Dio. Ma l’atto di ribellione dell’uomo precipitò l’intera creazione nella corruzione (Rm 8,20), poiché anch’essa privata dello Spirito di Dio che l’assimilava, assieme all’uomo, al mondo divino. Ma Dio non abbandonò l’uomo al suo triste destino e concepì un progetto salvifico che puntava a recuperarlo insieme al cosmo alla loro originaria bellezza attraverso la loro rigenerazione nella morte e risurrezione di Cristo. Ecco pertanto il prospettarsi di cieli nuovi e terra nuova, vaticinati da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplati da Giovanni nell’Apocalisse (Ap 21,1a). Ci fu dunque una volontà salvifica originaria (Ef 1,9), che si attuò in un progetto: “il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”  (Ef 1,10).

Le tre invocazioni pertanto costituiscono una pressante esortazione della comunità credente verso il suo Dio affinché compia definitivamente il progetto salvifico, nascosto nel mistero della sua volontà fin dall’eternità, ma rivelato e attuato nel suo Cristo (Ef 1,4-10). Un progetto che non riguarda soltanto l’uomo, ma l’uomo collocato nel suo contesto cosmico. Per questo “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13) e per questo “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-22). Pertanto l’espressione “come in cielo così in terra” non va limitata soltanto al “sia fatta la tua volontà”, ma abbraccia l’intera triade di invocazioni[66], dando in tal modo alla preghiera escatologica cristiana una dimensione universalistica, poiché l’attuarsi del disegno salvifico, pensato da Dio fin dall'eternità, coinvolge sempre l’uomo nella sua interezza non soltanto personale, ma anche, per un principio di solidarietà, cosmica.

 

Dacci oggi il nostro pane quotidiano: con questa invocazione Matteo introduce la seconda parte del Padre nostro. Se i vv. 9-10 vedono come attore principale ed esclusivo il Padre[67], punto di riferimento verso il quale converge la comunità credente, in questa seconda parte l’attore principale è la comunità stessa colta nei suoi rapporti interni, ma strettamente posti in relazione con Dio. Il Padre è dunque il punto centrale attorno al quale ruota l’intera vita comunitaria e con il quale essa si rapporta nelle relazioni intracomunitarie, qualificate proprio da questo particolare rapporto. La figura del Padre pertanto non è mai un qualcosa che si pone al di fuori della vita comunitaria, ma si intreccia con essa e dà senso al suo vivere e al suo esserci.

 

Il pane costituiva nell’antichità l’elemento base e indispensabile dell’alimentazione[68] e sovente nell’A.T. era preso come sinonimo di cibo in genere[69]. Per la sua importanza nell’alimentazione e la sua centralità del vivere, a cui è associato, il pane diviene talvolta, nell’ambito della riflessione sapienziale, metafora di particolari condizioni esistenziali dell’uomo[70]. Esso spesso si accompagna assieme all’acqua, così che pane ed acqua simbolicamente costituivano il minimo indispensabile per il sostentamento del povero e del popolo in genere[71]; meno frequente è l’abbinamento del pane con il vino, che compare soltanto 12 volte in tutto l’A.T. con riferimento a situazioni particolari, che richiamano l’abbondanza o il privilegio e comunque non estendibili al comune nutrimento del popolo[72]. Il pane è il frutto di una vita attiva ed operosa, saggiamente condotta[73] e strumento anche di carità verso gli indigenti, che rende l’uomo gradito a Dio[74]. Il pane sovente è colto come oggetto di benedizioni (Es 23,25) e strumento, a sua volta, di particolari benedizioni e attenzioni divine verso l’uomo[75]. Espressione della vita e del sostentamento dell’uomo, il pane assume una sua sacralità all’interno dei rituali e del culto divini[76], divenendo anche sinonimo di sacrifici offerti a Jhwh, che sono definiti come il “pane di Dio”[77]. Ma la sublimità del pane veterotestamentario tocca il suo vertice nella promessa che Dio fa al suo popolo nel deserto e che contiene in sé scenari messianici inattesi e insospettabili, che soltanto la riflessione sapienziale riuscirà in qualche modo ad intuire, ma non ancora chiaramente a dipanare[78]: “Allora il Signore disse a Mosè: <<Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi …>>” (Es 16,4a). Il popolo si nutrirà di questo pane celeste, figura di un altro pane che Dio ha in serbo per i suoi fedeli. Un pane che proviene da Dio e sul quale Egli detterà le sue regole e le sue condizioni per potersene cibare (Es 16,4b-5), per far comprendere al popolo come la vita e il suo sostentamento dipendono da Dio.

Nel N.T. il pane attenua notevolmente la sua concretezza del vivere quotidiano, benché essa non venga rinnegata[79], per assumere prevalentemente sfumature simboliche e metaforiche fino a identificarsi con la persona stessa di Gesù e segno della sua viva e reale presenza.

 

Il termine pane compare per la prima volta nel N.T. come l’oggetto di prova per Gesù (Mt 4,3; Lc 4,3), che deve scegliere tra un facile messianismo e il compiere in diverso modo la volontà del Padre, rinunciando alle sue prerogative divine[80]. Il pane diviene anche motivo di preghiera da parte della comunità, che riconosce in tal modo come tutto provenga da Dio e tutto sia suo dono (Mt 6,11; Lc 11,3). Come per l’A.T. , proprio per la centralità che ricopre il pane nella vita dell’uomo, esso diviene anche metafora e motivo di esemplificazioni nei racconti evangelici[81]. Esso diviene il segno della partecipazione del Regno di Dio (Lc 14,15) e dell’abbondanza dei tempi messianici[82]; ma sarà soltanto in Giovanni che questo pane acquisirà il suo significato più vero e profondo e si rivelerà come il vero cibo per il credente, assumendo le fattezze della carne e del sangue di Gesù stesso, pane che si spezza per tutti, e in qualche modo prefigurato nell’episodio veterotestamentario della manna[83]. Ma la verità di questo pane si disvela pienamente nell’ultima cena, dove Gesù con la potenza della sua Parola crea una sorta di identificazione tra il pane e la sua persona, legando ad esso la sua reale presenza[84], così che il gesto dello spezzare il pane diviene una sorta di sinonimo della cena del Signore (Lc 24,35). E a questo gesto sono legate le prime comunità credenti, un gesto che è diventato il comune linguaggio per indicare la celebrazione rituale e cultuale dell’ultima cena[85].

 

In questo breve ed essenziale excursus biblico sul pane, necessariamente incompleto, possiamo rilevare l’evolversi della significazione del pane da semplice cibo-base dell’uomo, che lo sostiene e lo nutre quotidianamente, a simbolo di realtà celesti che trovano il loro definitivo compimento nella persona stessa di Gesù, passando attraverso un lento e graduale cammino simbolico-metaforico trasformatore, ma senza mai perdere la sua primaria identità di fondamentale nutrimento quotidiano per l’uomo, da cui anche la nuova significazione mutua parte del suo nuovo significato.

 

Matteo si inserisce in questo contesto di nuova significazione del pane, che sembra, a nostro avviso, privilegiare rispetto a Luca, che invece si sofferma sulla necessità quotidiana del pane, come alimento corporale dell’uomo e dove il termine pane sta per nutrimento in genere. Il suggerimento ci viene offerto dalla diversa impostazione testuale delle due formule molto simili tra loro, ma profondamente diverse per l’uso del verbo didomi e le due espressioni avverbiali semeron e katz’emeran. Di conseguenza diverso significato va attribuito anche all’espressione epioùsion.

 

Analisi testuale

 

tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion       d…dou   ¹m‹n    tÕ kaq' ¹mšran:     (Lc 11,3)

 

tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion       dÕj     ¹m‹n     s»meron:                (Mt 6,11)

 

Notiamo come Luca ponga il verbo didomi all’imperativo presente (didou). L’uso del presente in greco dà all’azione un senso di contingenza e di continuità nell’oggi, un oggi che si protrae nel tempo (katz’emeran). Il verbo al presente pertanto esprime un’azione durativa, evidenziando il compiersi dell’azione, la cui durata tuttavia non si esaurisce nell’azione stessa[86], ma viene perpetuata nell’oggi proprio dall’espressione temporale to katz’emeran, che potremmo tradurre con “di giorno in giorno”[87]. Il senso pertanto della frase lucana è fortemente legato all’oggi, colto nel suo dinamico divenire quotidiano che qualifica il pane, legandolo alle strette e contingenti necessità quotidiane proprie dell’uomo. Non v’è dubbio pertanto, a nostro avviso, che Luca quando qui parla di pane intende riferirsi al cibo, colto come un dono proveniente dal Padre, da cui la vita stessa dell’uomo dipende nelle sue necessità. La radicalità dell’oggi oltre che essere evidenziata dall’espressione verbale katz’emeran è rafforzata anche dalla teologia propriamente lucana dell’oggi, quale luogo privilegiato in cui si compie l’azione salvifica di Dio[88].

 

Diversa è la prospettiva di Matteo. Il verbo didomi qui è posto all’imperativo aoristo (dos), un aoristo che, a nostro avviso, è di tipo ingressivo; una ingressività che gli viene assegnata dall’avverbio temporale semeron (oggi); tale avverbio se da un lato radica nel presente l’azione del dono (oggi), dall’altro le assegna un punto di partenza lontano (dos). Questo donare pertanto viene visto come un’azione puntuale nel tempo (aoristo), colta nel suo punto iniziale[89] che si protrae nell’oggi (ingressività). A cosa dunque pensa Matteo con questa invocazione? Considerando che si tratta di un’azione che si pone nel passato e da lì trae la sua origine, ma che continua anche nell’oggi, sembra di poter concludere che qui Matteo stia pensando al pane dell’ultima cena del Signore. Tale riferimento sembra essere rafforzato da quel semeron. L’invocazione matteana infatti prevede che questo dono non sia dato a piene mani tutti i giorni o in qualsiasi momento, ma soltanto semeron, cioè solo per oggi, perché non si tratta di un pane atto a soddisfare una fame corporale più volte al giorno, ma un pane di comunione che lega e fonde l’intera comunità con il suo Signore ogni giorno, facendo delle due realtà una cosa sola (1Cor 10,17); un pane che è stato dato dal Padre per la vita del mondo (Gv 6,51). Questa unicità del dono, ristretta all’oggi, richiama molto da vicino l’episodio della manna, là dove Jhwh, rivolto a Mosè dice: “<<Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno …>> (Es 16,4a) e questo per far capire al popolo come quel pane è un dono esclusivo di Dio e come la sua vita dipenda esclusivamente da Lui. Non è un dono di cui si possa abusare, farne incetta, riempire i granai e farne commercio. È un pane legato strettamente all’oggi dell’uomo e finalizzato al suo sostentamento nell’oggi, poiché il domani è soltanto nelle mani di Dio. è un pane che va ricercato pertanto nei ristretti confini dell’oggi dove si trova Jhwh, che cammina con il suo popolo. “Io sono colui che sono”, una definizione del suo nome e della sua natura che dice presenza nell’oggi, una presenza che non è quotidianità, non è cioè presenza scontata che si ripete stancamente, ma va ricercata e invocata, poiché “Il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero” (Sal 144,18). Un dono quindi che si rende presente ogni giorno e si fa nutrimento spirituale per l’uomo che lo cerca. Il pane invocato da Matteo pertanto non è cibo per il corpo, ma forza spirituale che sgorga dal pane eucaristico e che deve sostenere la comunità credente lungo il difficile cammino della fede e della testimonianza. Tale senso viene sostenuto anche nei versetti successivi (Mt 6,25-34), dove l’evangelista invita i suoi discepoli a non spendere il loro tempo in una affannosa ricerca delle cose materiali, ma ad anteporre ad esse la ricerca dei beni spirituali; non una ricerca proiettata nel futuro o aperta ad esso, ma una fatica spesa nell’oggi, poiché il domani avrà già la sua pena. Forse c’è in questa invocazione un richiamo e un monito da parte dell’evangelista alla sua ricca e benestante comunità, troppo sicura di se stessa e troppo occupata nei beni materiali, proiettata troppo verso il futuro alla ricerca di nuovi spazi per ampliare le proprie ricchezze e renderle sicure, legando la sicurezza della propria vita ad esse[90]. Questo slancio verso il futuro probabilmente faceva loro dimenticare la ricerca del vero pane, che si fa presente nell’oggi del cammino dell’uomo. Non a caso infatti Matteo chiuderà il cap. 6 con  l’invito a cercare “ … prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà gia le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,33-34). L’esortazione è molto forte e radica il vero discepolo nel presente del suo oggi, dove cercare e testimoniare il regno di Dio. Non a caso il verbo cercare è posto al presente e non a caso il Gesù matteano invita il giovane ricco a liberarsi delle sue ricchezze per poter seguirlo (Mt 19,16-22). Anche qui tutti i verbi sono posti al presente. È nell’oggi che l’uomo deve porsi e spendersi nella ricerca del pane del cielo e lo deve invocare dal Padre, poiché tale pane non è scontato.

 

Stabilite le diverse posizioni di Luca e Matteo circa il pane, materiale per Luca ed eucaristico per Matteo, rimane ora da precisare il significato di quel ™pioÚsion (epiousion), che va letto all’interno dei rispettivi contesti lucano e matteano.

 

Il termine è particolarmente raro, anzi esclusivo di Matteo e Luca e non si trova né nella LXX né in tutto il N.T. Lo stesso Girolamo, autore della Vulgata, evidenzia la particolarità del termine sconosciuto sia al greco letterario che parlato e riportato soltanto in un papiro del V sec. in cui il significato rimane comunque incerto[91]. Secondo i diversi autori[92] l’espressione ™pioÚsion ha una doppia possibile derivazione etimologica da epi-einai, che letteralmente significa sono sopra, sto sopra; e da epi-ienai, che significa mi avvicino, avanzo, sono imminente e, aggiunto al sostantivo giorno, indica il giorno seguente o che verrà. Nella prima derivazione etimologica (epi-einai) il senso è statico e riconduce all’esserci qui nell’oggi; nella seconda (epi-ienai), invece, il senso è dinamico e travalica i ristretti confini dell’oggi per proiettarsi nel futuro. Lo stesso Girolamo nel tradurre i due versetti Mt 6,11 e Lc 11,3 a fronte dell’identico testo greco (tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion) propone due soluzioni diverse legate probabilmente al senso che i rispettivi evangelisti hanno voluto dare:

 

·         panem nostrum supersubstantialem (da nobis hodie) (Mt 6,11)

 

·         panem nostrum cotidianum (da nobis cotidie) (Lc 11,3)

 

In Matteo il termine tÕn ™pioÚsion viene tradotto da Girolamo con supersubstantialem, che letteralmente significa ciò che va al di là della sostanza stessa del pane. Secondo Girolamo quindi sembrerebbe che Matteo parli non tanto del pane materiale, ma di una realtà che, pur legata alla substantia panis che si attua nell’oggi (hodie), la travalica e la sovrasta proprio perché è super, rimandando il credente a realtà future, che in qualche modo già si attuano nell’oggi. Così facendo, a nostro avviso, Girolamo con questo supersubstantialem, che è una sorta di traslitterazione latina del termine greco (epi = super; ousion = substantialem), dà, forse senza avvedersene, un senso dinamico al termine senza violarne l’altra etimologia dal senso più statico. Con questa traduzione, quindi, Girolamo sembra soddisfare entrambi i significati di epiousion.

Tuttavia, a nostro avviso, il termine tÕn ™pioÚsion in Matteo va legato etimologicamente a epi-ienai, con riferimento al pane che verrà e che già è presente nell’oggi (semeron). Molto similmente i Sinottici, raccontando l’ultima cena, riportano concordemente la seguente espressione di Gesù: “In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”[93] (Mc 14,25). Notiamo qui come Gesù dà un senso escatologico al bere il vino nell’oggi della sua passione e proprio in riferimento al vino presente parla di un vino nuovo che si pone nel futuro compiuto del Regno di Dio. Anche qui il vino diviene il segno presente di una realtà futura che già è iniziata proprio da quel vino che la richiama, proiettando il credente nei tempi nuovi che la risurrezione di Gesù sta per inaugurare. Personalmente ritengo che non è da escludersi che Matteo nella sua invocazione “TÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion dÕj ¹m‹n s»meron:”  (Mt 6,11) abbia voluto dare questo senso escatologico, un’escatologia che parte da un punto preciso e ben circostanziato definito da quel aoristo ingressivo “dos” e che si evolve in ogni giorno (semeron) verso il suo pieno compimento. C’è pertanto in quel pane un dinamismo che trae la sua origine e la sua vitalità nell’ultima cena, simbolicamente indicata da quell’aoristo ingressivo “dos”, e si compie nell’oggi, in ogni oggi fino alla pienezza dei tempi. Il Gesù matteano infatti è venuto per dare pienezza e compimento (Mt 5,17) all’A.T. una pienezza che si è compiuta in lui, ma non ancora definitivamente compiuta. Tale pienezza e compiutezza parte da Gesù, ma troverà la sua definitiva realizzazione nel Regno dei cieli. Tale pane, definito da Matteo come l’ epiousion evidenzia questo cammino dinamico che si attua e si compie nell’oggi, ma che nel contempo lo supera verso la meta finale dei cieli nuovi e della terra nuova, dove tutto ciò che qui ha avuto il suo inizio troverà là il suo definitivo compimento e dove il simbolo viene sostituito dalla realtà qui significata nei ristretti spazi dell’oggi temporale.

 

Ben diverso è il contesto in cui si muove Luca, che con quell’imperativo presente (didou), rafforzato dall’espressione temporale katz’emeran, lega il pane alla necessità del presente, che si reitera di giorno in giorno, proprio come il bisogno di nutrimento corporale dell’uomo. E Girolamo, a nostro avviso, sa cogliere bene il pensiero di Luca e non traduce più il termine epiousion con supersubstantialem come ha fatto in Matteo, ma si limita a tradurre con il termine latino cotidianum, rafforzato a sua volta dall’avverbio cotidie, dando in tal modo un senso di contingenza reiterata nel tempo e ad esso strettamente legata, che nasce, si muove e si esaurisce nel tempo, proprio come il vivere dell’uomo e le sue esigenze fisiche e corporali in genere.

 

Pertanto con questa invocazione “dacci oggi il nostro pane quotidiano” Matteo sembra voler esortare la sua ricca ed opulenta comunità, che certamente non aveva bisogno di invocare da Dio il proprio quotidiano nutrimento corporale, ad alzare lo sguardo verso un altro pane, che se da un lato ha tratto la sua origine da quaggiù (dòs), dall’altro è comunque intimamente e profondamente legato alle cose di lassù (epiousion) dove è incamminata la stessa comunità, che ha aderito alla nuova fede. Infatti, non a caso, sarà proprio questo concetto della prevalenza dell’importanza delle cose di Dio su quelle più contingenti dell’uomo che costituirà la conclusione del cap. 6 : “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.” (Mt 6,33) Matteo quindi stabilisce un ordine delle cose e dei valori all’interno di una comunità, che proprio a motivo delle sue ricchezze, aveva delle serie difficoltà a seguire fino in fondo il cammino del suo Maestro[94].

 

Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori: La seconda parte del Padre nostro si era aperta con l’invocazione dell’intera comunità, rivolta verso l’unico Padre, affinché le facesse dono del vero pane, fondamento e ragione della sua unità (1Cor 10,17). Qui il rapporto era Padre-Comunità, fondata sull’unico pane e in esso radicata e da esso qualificata. Ora, al v. 12,  il rapporto si arricchisce di altri soggetti colti nella loro dinamica individuale: il Padre, il noi comunitario con le sue intrarelazioni, qualificate da creditori e debitori. Il legame tra loro è strettissimo e interdipendente, a tal punto che non si può pensare all’uno senza gli altri. Un rapporto che potremmo definire a cascata: Padre-noi - noi-debitori nostri.

 

Il v. 12 è strutturato su di un parallelismo che gira attorno a quel æj kaˆ (così anche) e che divide il versetto in due parti accomunate tra loro dallo stesso verbo e dagli stessi vocaboli. Pertanto l’espressione è così strutturata:

 

       kaˆ     (su)       ¥fej           ¹m‹n                        t¦ Ñfeil»mata ¹mîn,

 

æj kaˆ

 

kaˆ    ¹me‹j    ¢f»kamen     to‹j Ñfeilštaij ¹mîn  (t¦ Ñfeil»mata)

 

 

Vi è corrispondenza di soggetti (Tu-Noi), stessi sono i verbi (perdona-perdoniamo), vi è corrispondenza tra i destinatari dell’azione del verbo (a noi – ai nostri debitori), unico è l’oggetto su cui si compie l’azione del verbo (i debiti). Già in questo gioco letterario di strette corrispondenze l’autore racchiude il significato teologico profondo del suo messaggio, che viene ulteriormente accentuato ed esaltato dalle due particelle æj kaˆ (così anche); queste riproducono, quasi clonano, accentuandone il legame, la prima parte con la seconda, rendendole tra loro inscindibili, ma dicono anche come la seconda parte si radica e trova la sua giustificazione e la sua motivazione più vera e profonda nella prima.

 

Il linguaggio di questa esortazione è strettamente giuridico: il verbo afihmi, che significa assolvere, rimettere, lasciar andare, lasciar perdere; l’oggetto del contendere ofeilhmata, i debiti; e infine ofeilhtai i debitori ai quali è destinata l’azione legale. Questo linguaggio richiama da vicino il tema del tribunale e del giudizio che in esso si compie. E forse Matteo, unico a riportare la visione del giudizio universale (Mt 25,31-46), pensa proprio a questo. L’autore è un ebreo che scrive a dei giudeocristinai, ed essi pensano il loro rapporto con Dio come il rapporto tra padrone-schiavo, re-suddito. Non a caso infatti è proprio Matteo, unico tra gli evangelisti, a raccontare la parabola del servo malvagio (Mt 18,23-35), quale eco e dispiegamento proprio di questo v. 12. In questa parabola ricorrono gli stessi autori e la stessa dinamica dei rapporti presenti nel v. 12: re-servo debitore; servo debitore con servo debitore. Nella parabola la conclusione è identica a quella dei vv. 6,14-15 che si pongono anch’essi a conclusione e specificazione del v. 12, quasi un suo commento : “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,35); mentre i vv. 6,14-15 concludono, riportando forse un detto di Gesù: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15).

                                                                                       

Molto significativi, infine, sono i due verbi ¥fej e ¢f»kamen, entrambi posti all’aoristo: il primo all’imperativo-esortativo, il secondo all’indicativo. Innanzitutto unico è il verbo che accomuna in se stesso due diversi soggetti, tra loro separati da una distanza incolmabile: il Padre e la comunità credente. Entrambi soggetti di un’unica azione: il perdonare, nel senso di rimettere pienamente ogni debito, cancellandolo definitivamente, senza più tenerne conto. È questo il senso del verbo greco afihmi usato da Matteo. I verbi poi sono posti entrambi all’aoristo, che per sua natura indica un’azione puntuale e ben circostanziata nel tempo. L’autore quindi con quell’¥fej (perdona) pensa ad un evento da cui si è originato e continua ad originarsi il perdono per tutti: l’evento della croce, il cui senso e significato più profondi furono anticipati nell’ultima cena: “perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28). Dalla croce dunque è sgorgato il perdono generale di ogni colpa e la redenzione di ogni uomo[95] così che Paolo con fare solenne e decretativo esclama: “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Tutto dunque il Padre nel suo Cristo e per suo mezzo ha lasciato perdere, di tutto non ha più tenuto conto, tutto ha perdonato e cancellato e l’umanità così perdonata e associata alla morte-risurrezione di Gesù è stata in lui associata anche alla nuova vita divina. In quell’ ¥fej pertanto vi è racchiusa una forza, una potenza generativa divina, che non solo rinnova l’uomo, facendolo una nuova creatura in Cristo, ma in lui lo genera e lo assimila anche alla stessa vita di Dio, escludendolo da ogni condanna futura.

 

Strettamente connesso all’ ¥fej (perdona) e da questo generato è il verbo ¢f»kamen (perdoniamo). Anche questo verbo è posto all’aoristo, ma si noti bene come esso è posto all’aoristo indicativo. In altri termini esso possiede in sé un senso terminativo e iterativo nel contempo. Infatti ¥fej è un aoristo ingressivo, che esprime un preciso punto di partenza posto nel passato (la croce) e possiede in se stesso una forza espansiva e tale da riprodursi in quel ¢f»kamen; in tal modo quest’ultimo verbo diviene il punto di arrivo (terminativo) di ¥fej e, legato ad un’azione passata da cui origina, si perpetua in un continuo presente (iterativo). Ciò significa che l’¢f»kamen è strettamente conseguente a quel punto iniziale, ¥fej, che lo ha originato e che persistentemente gli fornisce una forza propulsiva ed espansiva nel tempo. Ed essendo essi posti entrambi all’aoristo significa che il perdono del Padre, attuato nel Figlio morto-risorto, e il perdono del credente riscattato dal sangue di Cristo, hanno entrambi una comune origine che si pone come evento puntuale nel tempo: la croce, quale strumento e origine di ogni perdono. A Pietro, che gli chiedeva quante volte doveva perdonare, Gesù rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18,21-22), cioè sempre, proprio perché quel perdono originatosi dalla croce è unico e irrepetibile ed è in particolar modo espansivo e dice riconciliazione definitiva tra Dio e gli uomini e gli uomini tra di loro. Per questo non vi può essere vero perdono e vera riconciliazione con il Padre se il credente, investito da tale perdono, non riesce a trasmetterlo agli altri, proprio perché il perdono-riconciliazione-rigenerazione è la nuova realtà di cui il credente è rivestito, la nuova dimensione in cui è chiamato a vivere e a cui deve conformare il proprio vivere. Uscire da questa dimensione divina del perdono perché non si vuol perdonare, significa non farne più parte ed estromettersi di conseguenza dalla dimensione della vita divina stessa. Perdonati, pertanto, i credenti sono chiamati a perdonare, cioè a travasare sugli altri quell’amore perdonativo e redentivo da cui sono stati pervasi abbondantemente e in cui sono immersi. L’¢f»kamen, proprio perché originato dall’¥fej e in esso radicato, ne possiede la medesima natura divina e quindi capace di assolvere, di rimettere la colpa e di riconciliare il perdonato con se e con Dio. Non a caso il Risorto in Giovanni, apparendo ai discepoli nel cenacolo li saluta dicendo “Pace a voi” per ben tre volte in pochi versetti (Gv 20,19-26) e proprio in questo contesto di pace donata alita su di loro lo Spirito di vita, rendendoli capaci di riconciliazione per gli uomini (Gv 20,21-22). Con il dono della pace, generata nella sua morte-risurrezione, Gesù attua la riconciliazione perfetta e definitiva tra Dio e gli uomini e fa testimoni e portatori di questo perdono riconciliante i suoi discepoli, chiamati, attraverso il dono dello Spirito, a farsi a loro volta diffusori e portatori in mezzo agli uomini di questa riconciliazione, sancita dallo Spirito. Il perdono pertanto diventa il segno visibile e la testimonianza più vera della risurrezione stessa. Per questo il perdono negato al proprio fratello diventa il rifiuto implicito e il disconoscimento del perdono della croce di cui noi siamo mandatari: <<Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi>> (Gv 20,21). Proprio in virtù di questa stretta e concatenata unità comunionale tra il perdono divino (¥fej) e quello credente (¢f»kamen), viene a stabilirsi conseguentemente una diretta corrispondenza tra il perdono donato dal Padre in Cristo per mezzo dello Spirito e quello offerto dal credente a tutti gli uomini, suoi simili. Tale perdono divino, che il credente porta in sé ed è chiamato a farlo transitare proprio attraverso di sé verso gli altri, diventa la misura sulla quale anche lui sarà misurato e che viene espresso in quel æj kaˆ, che costituisce il solido aggancio tra il perdono divino e quello credente e la loro dinamica e profonda relazione.

 

E non introdurci nella prova, ma liberaci dalla perversione: con questa ultima invocazione Matteo chiude la preghiera della comunità rivolta al Padre. È un’esortazione finale, direi estrema, quasi un ultimo appello che la comunità lancia al Padre. L’intonazione è da ultimi tempi: i verbi usati sono tra loro contrapposti non soltanto nel significato (non introdurre ma liberare), ma anche da quel ¢ll¦ (ma), alludono in qualche modo ad una situazione da cui si cerca di fuggire; così come i due sostantivi peirasmÒn (prova) ponhroà (malvagità, perversione) ci conducono verso la prova finale (1Pt 1,6-7), quella escatologica, molto sentita tra le comunità del primo secolo, in attesa della venuta finale del Signore, che doveva passare prima attraverso il fuoco purificatore della sofferenza e del dolore e dove la stessa adesione a Cristo sarebbe stata messa in discussione[96]. Ultimi tempi nei quali l’intera comunità si sente coinvolta direttamente; per due volte infatti il pronome ¹m©j (noi) viene riportato nel versetto ed è posto all’accusativo, in quanto oggetto passivo delle azioni espresse dai verbi; segno che la comunità si trova a vivere situazioni di difficoltà per cui invoca da un lato una particolare attenzione da parte del Padre perché le eviti di esservi sottoposta, mentre dall’altro lo esorta a liberarla dalla caduta, cioè dalla perdita della fede. Gesù infatti si interrogherà proprio su questo aspetto della fede al suo ritorno nella gloria (Lc 18,8)[97]. Si noti come sia peirasmÒn che ponhroà sono posti al singolare e non al plurale. Quindi Matteo qui non fa riferimento a delle prove in genere, che accompagnano il normale vivere degli uomini o al male, che caratterizza lo stato di decadenza della condizione umana, bensì ad una prova presa in senso assoluto (davanti al sostantivo non vi è nessun articolo determinativo) e quindi la prova per eccellenza, che non ha neppure bisogno di essere specificata, tanto era attesa e temuta nel primo secolo e che anche l’Apocalisse (Ap 7,14) e la Prima di Pietro (4,12-19) ricorderanno; mentre al contrario il sostantivo poneroj è preceduto da un articolo determinativo segno che Matteo pensava ad un pericolo specifico, che in qualche modo era legato alla prova: la perdita della fede, definita come una perversione da cui essere liberati (¢pÕ toà ponhroà). Va tenuto presente infine come nell’intera invocazione del Padre nostro ci sia una forte tensione escatologica: si invoca la santificazione del nome di Dio, cioè la rivelazione e la manifestazione della presenza divina agli uomini; così come il Regno di Dio si instauri definitivamente nella storia, ponendo termine a quelli degli uomini, attualizzandosi infine pienamente la sovrana maestà e potenza del Padre, nonché il suo progetto di salvezza nell’intero universo, così che tutto sia nuovamente una cosa sola nel Padre (1Cor 15,23-28); mentre l’invito alla comunità matteana si fa pressante perché sollevi lo sguardo dalle cose terrene per rivolgere la sua attenzione verso le realtà celesti, significate nel pane eucaristico.

 

Ma a cosa pensa Matteo mentre formula quest’ultima invocazione? A che cosa fa riferimento? Come legge le difficoltà a cui è sottoposta la sua comunità? Vi sono in questa frase due verbi, uno al congiuntivo e l’altro all’imperativo (e„senšgkVj -  ràsai) posti entrambi all’aoristo, il quale indica un fatto ed un’azione ben precisi e circostanziati nel tempo. A quale fatto l’evangelista allude? La situazione di prova e di difficoltà in cui versa la comunità matteana, che sta consumando la sua rottura con il giudaismo, a seguito della quale i nuovi credenti sono perseguitati ed espulsi dalla sinagoga e di conseguenza dalla comunità ebraica, decretandone di fatto la morte civile (Gv 9,22; 12,42), riporta l’autore agli eventi drammatici della passione e morte di Gesù e che ora in qualche modo si sta estendendo alla chiesa nascente. L’assimilazione dello stato di persecuzione e di sofferenza per la testimonianza della nuova fede alla passione e morte di Gesù è dato proprio dal tempo verbale, l’aoristo, che lega e accomuna tra loro i due verbi, che esprimono una sorta di contemporaneità e un’identità di azione, per cui il soffrire della comunità è il soffrire di Gesù[98]. Benché il soffrire si collochi nell’oggi della comunità, tuttavia esso con l’aoristo è posto al passato, quasi che fosse una realtà già superata e non presente. In verità Matteo con questo gioco verbale tra passato e presente, coglie il soffrire per la prova come un fatto già storicamente avvenuto e circoscritto (la croce di Gesù) e che ora si ripropone estendendosi alla comunità credente, imprimendone in tal modo il sigillo di autenticità: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,18-20).

Ma vero è anche che in quest’ultima invocazione risuonano in qualche modo le stesse parole che Gesù rivolge al Padre nel Getsemani: “E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: <<Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!>>.” (Mt 26,39.42). Così la comunità credente, proiettata ormai in una dimensione escatologica, prega e si rivolge al Padre di Gesù e suo (Gv 20,17) con la stessa invocazione del suo Maestro: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! - Non introdurci nella prova”;  “Però non come voglio io, ma come vuoi tu! - ma liberaci dalla perversione”, fedeltà quindi e adesione piena e sempre pronta al disegno salvifico del Padre.

 

Verona, 22 maggio 2007                                                           

                                                                                                                      Giovanni Lonardi


 

[1] Il testo italiano è stato da me tradotto dall’originale greco di Nestle-Aland, Nuovo Testamento Greco-Italiano, XXVII edizione, Ed Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma 1996.

[2]Nell'ambito della critica letteraria una delle regole che guidano l'esegeta è quella di preferire la lezione più breve a quella più lunga, poiché chi copia tende, là dove il testo è troppo sintetico al punto di risultare poco chiaro, ad ampliarlo per chiarirlo meglio e renderlo più facilmente raggiungibile.

[3]Cfr A.Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Ed. Messaggero di S.Antonio, Padova 1998 - pagg. 451-452

[4]La prima parte del "Padre nostro" si ritrova quasi integralmente nella preghiera del Qaddish (Santificato), la preghiera della santificazione del sabato e delle festività che proclama la santità e la grandezza di Jhwh. Essa è la preghiera che ha segnato la formazione spirituale dell'ebreo e ne esprime l'anima religiosa più sincera e profonda. La si può pertanto definire come la dossologia più importante della liturgia ebraica (cfr A.R. Carmona, La Religione ebraica, Storia e teologia, Ed. San Paolo srl,  Cinisello Balsamo (MI) - 2005 -  pag 556.

La seconda parte si ritrova nella Shemoneh eshreh (Diciotto) o preghiera delle Diciotto benedizioni (cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, pagg. 116-117).

[5]Cfr. la voce "Preghiera" in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica", Ed. Paoline Srl, Cinisello Balsamo (MI) 1988.

[6]Fu Gesù e in seguito Paolo a introdurre il concetto di Padre in termini molto familiari e affettuosi definendolo con l'espressione  confidenziale di "Abba", che potremmo tradurre con papà, caro papà o paparino mio (cfr. Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6), mentre Ef  2,19 definisce i nuovi credenti come "familiari di Dio".

[7]Cfr. il titolo "Paternità" in Abraham Cohen, Il Talmud, Edizioni Laterza, Bari 1999; in Ortensio da Spinetoli, Matteo, Ed. Cittadella Editrice, Assisi 1998 e in A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.

[8]Cfr  Dt 6,5

[9]Cfr  Lv 19,18

[10]Cfr.  M.Lurker, Dizionario delle Immagini e dei simboli biblici, Ed. Paoline - Cinisello Balsamo, MI - 1990.

[11]L'espressione "Padre nostro, che sei nei cieli" o "Padre nostro celeste" sembra essersi formata già prima della distruzione del tempio (70 d.C.), benché il suo uso fosse limitato e occasionale. Le testimonianze più antiche di tale espressione sono attribuite al rabbino Jochanan ben Zaccaj, che ritiratosi nel 70 d.C. a Jamnia o Yavne fonda con un gruppo di suoi discepoli il primo nucleo di quello che sarà il futuro giudaismo rabbinico. La sua attività si colloca tra il 10 e il 90 d.C. Matteo, contemporaneo di Jochanan, cita numerose volte nel suo vangelo l'espressione "Padre nostro celeste" o "che sei nei cieli" probabilmente, conoscendo la vis polemica di Matteo contro il giudaismo, in diretta polemica con questo rabbino. Sia Gesù che Matteo, dunque, non inventano nulla di nuovo, tuttavia attribuiscono a questa espressione un significato e un senso totalmente nuovo e rivoluzionario (Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, op. cit.).

[12]Sul concetto di Jhwh come Padre si cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica ..., op. cit.

[13] Cfr. Gv 6,46; 8,38.42; 17,5.24b

[14] Cfr. Gv 10,30.38; 14,10a.11; 14,20; 17,21

[15] Cfr. Gv 5,17.19; 8,28; 12,49-50; 14,10b

[16] Cfr. Gv 5,23; 8,19; 14,7.9.24; 15,23

[17] Cfr. Gv 8,49.54b; 10,17; 12,28; 14,31

[18] Cfr. Gv 10,18; 13,3a; 16,15; 17,2; Mt 11,27a; 28,18; Lc 10,22a

[19]La traduzione di questo versetto, proposta dalla CEI, è la seguente: "E, chinato il capo, spirò". Tuttavia il testo greco recita: "kai klinaV thn kejalhn paredwken to pneuma", che tradotto letteralmente significa: "Dopo aver reclinato il capo, restituì lo spirito". Questa restituzione dello Spirito, più che uno spirare fisico, acquista in Giovanni un alto valore teologico. Preceduto immediatamente dall'affermazione di Gesù: "E' compiuto" (telestai) sta ad indicare che sulla croce Gesù ha portato a pieno compimento il disegno del Padre e pertanto la sua missione terrena può dirsi pienamente riuscita e terminata (Giovanni nella crocifissione di Gesù più che un fallimento vede la sua intronizzazione regale). Per questo, ora Gesù restituisce lo Spirito al Padre, quello Spirito che lo ha sempre accompagnato lungo tutto il suo percorso storico e in lui ha operato il compimento, che Gesù constata sulla croce: telestai . Tuttavia, quel "paredwken to pneuma" assume in Giovanni  anche un secondo significato (in Giovanni spesso la stessa parola assume significati diversi nello stesso contesto), quello di "trasmettere lo Spirito". Ci troviamo dunque di fronte ad una vera e propria effusione dello Spirito Santo, che assegna alla morte di Gesù in croce un valore redentivo e rigenerativo per l'intera umanità.

La seconda effusione dello Spirito (Gv 20,21-23), che il Risorto aliterà sui suoi discepoli, accompagnandola sia ad un saluto inaugurale di Pace che alla consegna della missione ai discepoli dice, da un lato, l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini  nel Risorto stesso ("Pace a voi"), dall'altro, annuncia come nei discepoli continuerà la sua missione, sia pur ora in modo sacramentale e mediato, ma per questo non meno reale e meno efficace. In altri termini la Chiesa è la nuova incarnazione del Risorto, in cui egli continua la sua opera in mezzo agli uomini lungo il cammino della storia.

[20] Gv 17,5; Rm 15,6; 2Cor 1,3; 11,31; Ef 1,3; Col 1,3; 1Pt 1,3.

[21] Gv 1,1-3; 8,28.42.58; 13,19; 16,27-28.30; 17,8

[22] Gv 3,35; 5,20; 10,17; 15,9; 17,26; 1Gv 4,8.16;

[23] Gv 10,30; 14,9-11; 17,11; 17,21-22.

[24] L’atto creativo di Dio, benché scandito in sette giornate (Gen 1,1-31), va colto come un unico atto che ingloba in sé l’intera creazione e trova il suo vertice e compimento nel settimo giorno (Gen 2,1-3). Vige dunque all’interno della creazione un principio di stretta solidarietà che lega ogni creatura al resto del creato, così che ogni atto compiuto da ogni singola creatura si riverbera sull’intero creato. Di conseguenza, è inevitabile, quando si parla dell'uomo, fare riferimento anche alla creazione. Tra i due, infatti, vige un profondo legame di solidarietà testimoniato fin da principio. Innanzitutto la creazione dell'uomo viene posta nel sesto giorno, quale vertice della creazione stessa alla quale l'uomo è strettamente legato non soltanto per natura, ma anche da responsabilità nei suoi confronti. Dio infatti gli affida il giardino perché lo coltivi e lo custodisca (Gen 2,15), ma anche perché domini sui pesci del mare e gli uccelli del cielo (Gen 1,27-30). E dopo la colpa "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra ... la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra" (Gen. 6,12-13). La terra, dunque, l'intero cosmo sono profondamente vincolati in solido tra di loro, così che le colpe dell’uno coinvolgono, suo malgrado, anche l’intero cosmo, che subisce la stessa sorte dell’uomo. Anche Paolo, similmente, riprenderà tale concetto nella sua lettera ai Romani in cui sottolinea come "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio ... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm 8, 19-21). Il destino dell'uomo è quello della creazione, di cui l'uomo è la parte più elevata. Ed è proprio per tale principio di solidarietà che la colpa adamitica coinvolgerà l’intera umanità: "la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Rm 5,12); "per la caduta di uno solo morirono tutti"; ma proprio grazie a questa solidarietà e universalità, la grazia di Dio ha nuovamente pervaso l'intera umanità: "molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in virtù di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini" (Rm 5,15). 

[25] Cfr. Gv 3,35; 13,3a; 17,2.6.9

[26] Cfr. Gv 6,39; 10,28; 17,12; 18,9

[27] Cfr. Gv 1,12; 5,24.38; 8,31.51; 12,48; 14,23-24; 15,3.7; 17,6-8.14

[28] Cfr. Gv 6,35.50-51.53-56

[29] Gv 6,44; 12,32; 1Cor 15,23-28

[30] Sul tema dell'immagine Paolo sembra sviluppare una sorta di sillogismo teologico, partendo da Cristo, immagine di Dio, per arrivare all'uomo in cui l'immagine di Dio si attua soltanto in Cristo.

 

Paolo, pertanto, parte affermando che:

 

·         La vera immagine di Dio è Cristo, egli infatti "è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" (Col. 1,15); e ancora "... perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio" (2Cor 4,4). Paolo, dunque, afferma che Cristo è la vera immagine di Dio.

·         In secondo luogo, svelando il segreto piano di Dio sull'uomo, Paolo afferma che noi siamo sempre stati pensati e voluti ad immagine di Cristo: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo" (Rm 8,29) e ancora: "E noi tutti ... riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2Cor 3,18).

·         In terza battuta, Paolo conclude, di conseguenza, che solo così, cioè solo in Cristo, l'uomo può dirsi veramente immagine di Dio: "Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova ... ad immagine del suo Creatore" (Col. 3,10).

 

Con questo sintetico ragionamento, Paolo afferma che l'uomo è recuperato nuovamente come immagine di Dio, ma ciò si attua solo attraverso Cristo, nuova immagine di Dio. Non più, quindi, in maniera diretta, come lo fu nei suoi primordi, ma mediata.

Questo essere nuovamente immagine di Dio, per mezzo di Cristo, in quanto a lui configurati nel battesimo, comporta un risvolto etico: far corrispondere con le scelte di vita la nuova realtà impressa in noi dal battesimo. In Cristo, infatti, siamo diventati nuove creature, da lui rigenerate ad una vita nuova, che comporta un rinnovato modo di agire anche nei nostri rapporti sociali, caratterizzati dall'amore.

E proprio perché ormai siamo nuove creature, dobbiamo porre un continuo impegno nel nostro rinnovamento esistenziale, per adeguarci alla nuova realtà che vive in noi. In tal senso, Paolo ci sollecita ad un nuovo stile di vita, tutto sacerdotale, tutto liturgico: "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo,ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,1-2).

 

Tale immagine di Dio, a cui siamo stati configurati in Cristo, acquisisce anche una coloritura escatologica: "E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste" (1Cor 15,49). Sarà, quindi, soltanto questo il momento in cui si compirà e apparirà pienamente il nostro essere configurati a Cristo, immagine di Dio, volto del Padre, e per questo noi pure, come nei primordi, nuovamente immagine e somiglianza di Dio, in Cristo. Solo allora si rivelerà la nostra vera natura di figli di Dio, quando saremo, assieme alla creazione, liberati definitivamente dalla corruzione (Rm 8,19-25).

[31] Per l’elenco dei fenomeni citati, collocati nel cielo, cfr. Sal 76,18; Ger 10,13; 51,16; Gen 27,28.39; 19,24; Dn 3,60; 4,12; 7,2; Gb 38,29; Gb 37,11; 134,7; Is 55,10; Ger 10,13; 51,16. Sal 77,24.26; Sap 13,2; Zc 2,10

[32] Cfr. Gen 27,28; 49,25; Dt 28,12; Tb 8,5; 9,6b; Ml 3,10; At 14,17.

[33] Cfr. 1Re 8,35; 2Cr 6,26; 7,13; Sir 48,3; Ag 1,10.

[34] Cfr. Dt 26,15; 1Re 8,30.39.43.49; 2Cr 6,21.30.33; 20,6; 30,27; 2Mac 2,39; Is 66,1; Sal 2,4; 102,9; 114,3; 122,1; Gen 28,17;  Is 63,15;

[35] Cfr. 1Mac 3,18.19; 4,10.40.55; 16,3; 2Mac 3,15.34; 8,20; 9,4.20; Sal 74,6; Dn 4,23; 13,9;

[36] Cfr Is 55,8-9

[37] Cfr. Mt 6,20; 7,21; Col 3,1-2.

[38] Cfr. 2Cor 5,19; Fil 3,20; Col 1,5; 1Pt 1,4.

[39] Cfr. Col 1,13; Ef 2,6; Eb 12,23.

[40] Gs 24,19; 1Sam 2,2; Sal 98,9

[41] 2Mac 14,36

[42] Cfr. Lv 11,44; 19,2; 21,23; 22,16; 2Cr 7,16; 2Mc 2,17; Sir 33,9

[43] Cfr. Es 31,13; Lv 21,8.15.23; Ez 20,12; 37,28; Sir 33,9.12;

[44] Cfr. Es 22,30; Lv 11,45; 19,2; Lv 20,26; 21,7.26; Dt 33,3; Sal 33,10; Sap 18,9.

[45] Cfr. Es 20,8; Lv 11,44; 20,7; Nm 11,18; Dt 5,12; Gs 3,5; 7,13; 1Cr 15,12; 2Cr 5,11; 23,6; Ne 13,22; Is 29,23; Ger 17,22.24;

[46] Cfr. Lv 11,44; 16,19; 20,1-7; Nm 11,18; Gs 3,5; 7,12-13; 1Cr 15,12; 2Cr 5,11; 23,6

[47] Cfr. Es 20,8; Lv 20,8; Dt 5,12; Ger 17,22.24.27; Ez 20,20; 44,24. – Un simile concetto di santificazione delle realtà corporee attraverso un’azione sacerdotale propria di ogni credente viene espresso da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.” (Rm12,1); mentre nel versetto successivo viene delineata l’azione santificatrice propria attraverso la quale l’uomo si santifica: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Si noti come anche qui il concetto di santità comporta un “non conformarsi” e quindi un separarsi da una realtà che può contaminare o in qualche modo intralciare il proprio rapporto con Dio, che per sua natura è il Totalmente Diverso e Altro.

[48] Cfr. Is 40,25; Os 11,9;

[49] Cfr. Lv 20,26; Nm 6,5; 16,5.7; 2Re 4,9; 2Cr 7,16; 2Mc 1,25; Sir 45,4.

[50] “Il Santo” o “Il Santo d’Israele” è un’espressione tipica di Isaia che ricorre 28 volte, ma ricorre anche in altri libri dell’A.T. come in 2Re 19,22; Gb 6,10; Sal 8,19; Pr 9,10;  Sir 4,14; 23,9; 43,10; 47,8; 48,20; Ab 1,12; 3,3.

[51] Il termine sacerdote significa “datore del sacro”.

[52] Il termine nazireato e nazireo deriva dall’ebraico nazir, cioè consacrato, che deriva a sua volta dal verbo nazar che significa principalmente separarsi dagli usi comuni. I doveri fondamentali del nazireo, codificati nel cap. 6 dei Numeri, si possono sintetizzare nel divieto di bere bevande inebrianti, come il vino, e rinunciare alla vite e a tutti i suoi derivati (uva, uva passa, vinacce); deve farsi crescere i capelli per tutto il tempo del voto; deve tenersi lontano dai morti. Ne caso in cui qualcuno sia morto vicino ad un nazireo si prescrivono per questo particolari riti di purificazione. Anche per la conclusione del nazireato sono previste complesse cerimonie: vengono offerti numerosi sacrifici; la chioma del nazireo poi viene tagliata e bruciata nel fuoco insieme ai sacrifici perché non venga profanata. Dopo altri riti ancora il consacrato viene autorizzato dal sacerdote a bere il vino. Anche nel N.T. sembra essere ancora viva questa particolare forma di consacrazione, se ne trovano tracce in At 21,23 e lo stesso Paolo sembra aver abbracciato per qualche tempo il nazireato (A7 18,18). Cfr. il lemma “Nazireo, Nazireato” nel Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Ed. Piemme Spa, Casale Monferrato (AL) 2005

[53] Circa il concetto di Santità e di Santo cfr. il lemma Santità in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.

[54] Cfr. Lv 20,8.26; 21,6-7; Nm 15,40

[55] Non a caso quando Dio si relaziona al suo popolo, esigendo da lui una sua conformazione esistenziale alle esigenze divine, prepone l’evento salvifico fondamentale: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es 20,2; 29,46; Lv 11,45; 25,38; 25,55; 26,13; Nm 15,41). Il dono gratuito della salvezza offerta al suo popolo è il modo di Dio di mostrarsi santo in mezzo al suo popolo e di fronte ai suoi nemici (Es 14,4).

[56] Circa il tema della glorificazione intesa come manifestazione della santità di Dio che si rivela in Cristo e dalla quale  Cristo trae la sua, cfr. anche Gv 7,39; 8,54; 11,4; 12,16; 13,31-32; 15,8; 16,14; 17,5.10; 21,19.

[57] Salvatore Alberto Panimolle fu professore di esegesi e filologia neotestamentaria presso l’Università di Sassari; professore di teologia biblica nella Pontificia Università gregoriana  di Roma.

[58] Cfr. la voce “Regno di Dio” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, edizioni paoline, op. cit.

[59] Cfr. Mt 4,23; 9,35; 10,7-8; 11,5-6; 12,8; Lc 7,22; 9,2.11; 10,9.

[60] Cfr. 1Cor 4,15b; 1Pt 1,23

[61] Cfr. anche Gal 5,19-21; Ef 5,3-5.

[62] È significativo infatti l’episodio della presentazione di Gesù sofferente al popolo da parte di Pilato: “Era la Parascéve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: "Ecco il vostro re!". (Gv 19,14). Giovanni sottolinea che era verso mezzogiorno, cioè l’ora della pienezza della luce, la pienezza cioè della rivelazione che manifestava la regalità di Gesù proprio nella sofferenza e morte.

[63] L’aggettivo “apocalittica/o” deriva dal verbo greco “apokaluptein” che significa rivelare. Quindi azione apocalittica significa “azione rivelatrice”; mentre il termine apocalisse significa rivelazione.

[64] Il termine “escatologico”, dal greco escaton, significa cosa ultima e che ha a che fare, quindi, con la fine dei tempi. Nel nostro caso l’invocazione “sia fatta la tua volontà” esorta il Padre a portare a termine l’azione intrapresa.

[65] Cfr. At 2,23; 4,27-28; Rm 3,25; Ef 1,9.

[66] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli ... , op. cit.

[67] Questa prima parte della preghiera infatti si apre con il riferimento esplicito al Padre ed è seguita da un triplice “sou” (tuo).

[68] Cfr. Sir 29,21; 34,21

[69] Cfr. Gen 3,19; 28,20; 41,54-55; 47,12-13; Dt 10,18; Tb 1,17; 4,16; Gb 22,7; Sal 104,6; 2Re 25,3;  Lam 1,11.

[70] Cfr. Sir 15,3; Sal 41,4; 79,6; 101,10;  Pr 4,17; Sap 9,5; Sir 23,17; Is 30,20.

[71] Gen 21,14; Es 23,25; Nm 21,5; 1Sam 25,11; 30,11; 1Re 18,4; 22,27; 2Re 6,22; 2Cr 18,26; Ne 13,2; Pr 25,21; Sir 15,3; 29,21; Is 3,1; 33,16; Ez 4,17; 12,18.

[72] Cfr. Gen 14,18; Gdc 19,19; 1Sam 16,20; Ne 5,15; Tb 4,17; Sal 103,14-15; Pr 9,5; Qo 9,7; Ag 2,12.

[73] Cfr. Pr 31,27; 28,19.

[74] Cfr. Tb 1,17; 4,16; Gb 22,7; Pr 25,21; Is 58,7.10; Ez 18,7.16

[75] Cfr. Sal 126,2; 131,15; 145,7; Sir 45,20; Zc 10,1.

[76] Cfr. Es 29,23; 34,18..25; Lv 23,20; 24,27;  Nm 28,17; 1Cr 23,29.

[77] Cfr. Lv 21,6; 22,25.

[78] Cfr. Sap 16,20-21: “Invece sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso si adattava al gusto di chi l'inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava”.  Per comprendere la profondità della verità di questo pane piovuto dal cielo dobbiamo aspettare l’avvento di Gesù che darà l’autentica interpretazione dell’episodio della manna, riferendolo a se stesso: “<< […] Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>” (Gv 6,48-51)

[79] Cfr. Mc 6,8; Lc 9,3; 11,5; Gv 6,26; Gv 13,18; 2Ts 3,8.12.

[80] Cfr. Fil 2,6-8

[81] Cfr. Mt 7,9; 15,26; 16,11-12; Mc 7,27; Lc 11,11; 15,17.

[82] Cfr. Mt 14,20; Mc 6,43; Lc 9,17; Gv 6,13

[83] Cfr. Gv 6,1-59

[84] Cfr. Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19.

[85] Cfr. At 2,42.46; 20,7; 1Cor 11,23.26;

[86] Cfr. Antonino Alessio Neri, Lingua e civiltà dei greci – Grammatica, Ed. G. Principato Spa- Milano 1987

[87] Cfr. la voce kata in L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Soc. Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1993

[88] Cfr. Lc 2,11; 4,21; 5,26; 12,28; 13,32.33; 19,5.9; 22,34.61; 23,43.

[89] Cfr. Antonino Alessio Neri, Lingua e civiltà ..., op. cit.

[90] È probabile che il pane invocato da Matteo nel suo vangelo non faccia riferimento a quello materiale poiché Matteo si rivolge ad una comunità in cui l’abbondanza scorre senza problemi. Non avrebbe senso pertanto insegnare a tale comunità a chiedere a Dio il nutrimento quotidiano. L’intento di Matteo qui è proprio quello di distogliere la sua comunità dalla ricerca dei beni terreni per rivolgersi a quelli spirituali, simboleggiati dal pane eucaristico.

[91] Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992

[92] Cfr. G. Rossé, A. Poppi, Ortensio da Spinetoli, L. Rocci, opere citate.

[93] Ho preferito la citazione di Marco in quanto fu il primo evangelista e fonte privilegiata da cui Luca (22,18) e in particolar modo Matteo (26,29)  attinsero nelle loro composizioni.

[94] Il racconto del giovane ricco, riportato da Matteo in 19,16-24 e da cui Gesù trarrà la conclusione di quanto sia difficile per un ricco salvarsi, sta a dimostrare proprio questa difficoltà della comunità matteana.

[95] Cfr. anche Ef 1,7; Col 1,20.

[96] Cfr. Mt 24,1-31; Mc 13,1-31; Lc 21,1-28.

[97] Cfr. anche Lc 8,13; 22,32; At 14,21-22; Ef 6,16;Col 1,23; 2,4.6-7; 1Ts 3,5; 2Tm 4,7; 1Pt 5,8-9.

[98] Cfr. At 9,4; 22,7; 26,14 in cui il Risorto si rivolge a Saulo, persecutore di cristiani, chiedendogli perché lo perseguitasse. Altra forma di identità tra Gesù e il discepolo la troviamo in Gal 2,20 e successivamente in Mt 25,40.45.