NATALE, EVENTO DI LIBERAZIONE


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Correva l'anno 56 d.C. allorché Paolo, durante il suo terzo viaggio missionario (At 18,23-21,14), compiuto tra il 53 e il 57, alla fine del suo lungo soggiorno ad Efeso, circa 3 anni (At 20,31), poco prima di imbarcarsi per la Macedonia, fu raggiunto dalla la notizia che le comunità della Galazia settentrionale gli si erano rivoltate contro (Gal 1,7; 4,16) e avevano abbandonato la verità del vangelo da lui predicata, per aderire ad “ad un altro vangelo” (Gal 1,6), sobillate da giudeocristiani giudaizzanti, che coniugavano la novità di Cristo con il giudaismo. Per Paolo fu un colpo al cuore. Non riusciva a capacitarsi come la sua comunità, a cui era affettivamente legato più di ogni altra, per l'accoglienza entusiastica che essa aveva riservato sia a lui che al suo vangelo (Gal 4,14b), lo avesse tradito e abbandonato in così breve tempo (Gal 1,6). La reazione fu pressoché immediata. Giunto, pertanto, a Filippi scrive una lettera dura, veemente, passionale rivolta a tutte le comunità della Galazia (Gal 1,2). L'unica lettera paolina che salta il passaggio del rendimento di grazie ed inizia con uno sferzante ed ironico “Tzaumázo”, “Mi meraviglio, mi stupisco”, che dà l'intonazione all'intera lettera, dai toni accorati e polemici. Una lettera che tende a convincere i Galati a ritornare a lui e al suo vangelo, passando attraverso il ricordo del loro primo fortuito incontro, in occasione di una sua malattia, che lo aveva costretto ad una inattesa sosta presso di loro (Gal 4,13), e richiamandosi alle esperienze spirituali. Essa ha come centro l'azione liberante di Cristo, che nella pienezza dei tempi nacque da una donna, sotto la Legge per riscattare quelli che erano sotto la Legge ed offrire loro l'adozione a figli (Gal 4,4-5). E Paolo, come una madre, è pronto a partorire nuovamente quei figli traviati (Gal 4,19), sollecitandoli a rimanere nella libertà guadagnata loro da Cristo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla” (Gal 5,1-2). Come siano andate le cose dopo questa lettera non ci è dato di saperlo con certezza. Probabilmente Paolo ha perso le chiese della Galazia. Infatti, mentre queste compaiono citate in 1Cor 16,1 (lettera scritta tra il 53 e il 54), alle quali rimanda la sua comunità di Corinto per la raccolta della colletta a favore della chiesa madre di Gerusalemme, queste non compaiono più in Rm 15,26 (lettera scritta tra il 57 e il 58, circa un anno dopo quella dei Galati). Inoltre, quando Paolo si reca a Gerusalemme per consegnare il frutto della colletta, tra i rappresentanti delle chiese, non compare accanto a lui il rappresentante delle chiese della Galazia (At 20,4). Una conclusione triste ed amara per delle comunità credenti e promettenti, che hanno preferito una religione fatta di rassicuranti regole, di imposizioni e dottrine piuttosto che aprirsi all'avventura, certamente più difficile e impegnativa, del servizio e dell'amore, dove l'altro viene sempre prima di te e dove l'amore di Dio passa necessariamente attraverso a quello del prossimo (Mt 25,40.45; 1Gv 4,20).

La nostra riflessione si svilupperà su tre passaggi: a) una comunità alla ricerca dell'identità perduta; b) una comunità smarrita, che non ha più la capacità di cercare; c) la proposta del Natale.

Una comunità alla ricerca dell'identità perduta

Prima della venuta di Paolo, i Galati erano estranei a Dio e asserviti a false divinità (4,8), quindi, cristiani provenienti dal paganesimo. La loro religione consisteva nell'adorazione delle forze elementari della natura (4,3.9), dalle quali erano tenuti in dura schiavitù (5,1). Prestarono ascolto con fede a Paolo (3,2.5) e fecero una profonda esperienza dello Spirito (3,2.4-5), che si manifestò in mezzo ad essi con segni prodigiosi (3,5). I Galati, quindi, diventarono autentici spirituali, guidati cioè dallo Spirito (6,1), e acquisirono la vera libertà, quella propria dei figli di Dio, mossi dallo Spirito (Rm 8,14), sottraendosi alla sudditanza di false divinità. (4,8). Ora, invece, stanno passando ad un altro vangelo (1,6) e sono così stolti che, dopo aver cominciato con lo Spirito, voglio finire con la carne (3,3), quella della circoncisione e della Legge. Il vangelo diverso, di cui qui Paolo parla, è, infatti, quello dei giudeocristiani giudaizzanti, che, pur aderendo a Cristo, non hanno saputo rinunciare a Mosè e alle prescrizioni giudaiche, assommando queste alla loro nuova fede, anzi, subordinando questa a quelle. I Galati, quindi, lasciano il vangelo predicato da Paolo per abbracciare quello giudaizzante, sottoponendosi alla circoncisione e con questa alla Legge (Gal 5,3). Il motivo di questa scelta da parte dei Galati doveva risiedere in un profondo disagio sociale, poiché erano privati di una loro identità religiosa, non irrilevante all'epoca: non erano più pagani e non erano neppure giudei, ma erano discepoli di Cristo. Una identità quest'ultima non ancora ben definita e in fase di formazione; mal tollerata sia da pagani che da giudei, non di rado perseguitata. L'accogliere un cristianesimo giudaizzato, sia pur diverso ma simile a quello paolino, doveva sembrar loro un buon affare: avrebbe assegnato loro un nuovo posto in società e una nuova identità, quella giudaica e sicuramente sottratti alle persecuzioni, considerato che il giudaismo era riconosciuto dalle autorità. Infatti, questi giudeocristiani giudaizzanti mimetizzavano la loro nuova fede nel giudaismo e invitavano i Galati a fare altrettanto, assicurando loro in tal modo una tranquillità di vita: “Quelli che vogliono fare bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo” (Gal 6,12). Anzi, insinuano che anche lo stesso Paolo predica la circoncisione. A tutto ciò l'Apostolo reagisce con durezza e in modo drastico, dapprima smentendo tale insinuazione: “Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato?” (Gal 5,11a); in secondo luogo rilevando l'incompatibilità tra la circoncisione e Cristo: “Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità” (Gal 5,2-6).

Una comunità smarrita, che non ha più la capacità di cercare

La crisi delle comunità della Galazia non era circoscritta a loro, ma un fenomeno ampiamente diffuso nel cristianesimo del primo secolo e che portò ad un conflitto interno alla stessa chiesa nascente (Gal 2,4-14; At 15; 2Cor 11). Vi erano due opposte visioni del nascente cristianesimo: chi fondava la propria fede nel solo Cristo, cogliendolo come una novità assoluta e insostituibile, era questo il caso degli etnocristiani; chi, invece, ed era il caso dei giudeocristiani giudaizzanti, cercava una sorta di compromesso tra la novità Cristo e Mosè. Le due diverse posizioni erano legate a due contrapposti modi di approcciarsi alle Scritture: chi interpretava e comprendeva Cristo partendo dalle Scritture, vedendolo come una sorta di loro compendio, ma non indipendente da esse (Mt 5,17); chi, invece, rileggeva e ricomprendeva le Scritture in chiave cristologica, ricomprendendole in funzione di Cristo, dal quale ricevevano una nuova luce e un nuovo senso.

La situazione della nostre comunità cristiane non è molto dissimile da quelle della Galazia: c'è chi comprende e vive il proprio cristianesimo all'interno della ritualità sacramentaria, dei dettami del magistero della Chiesa, legati a devozioni e culti di Santi o di Madonne di varia specie (come se questa non fosse una), sempre pronti a rincorre i messaggi che questa rilascia ai “suoi discepoli”, legati alla tradizione. Un cristianesimo che trova il suo esplicitarsi in continue preghiere o digiuni, in gruppi di preghiera o sotto diverse etichette, dichiarandone la propria appartenenza. Una fede che ha bisogno di agganci sensibili per potersi alimentare e sostenere. Un comportamento vincolato ancora alla Legge (Dieci comandamenti), che costituisce per loro la discriminante tra il bene e il male. Una religiosità legata al sensibile, non nuova e che già ai tempi di Gesù circolava, allorché, durante una festa di pasqua, folle enormi accorrevano a Gerusalemme e molti, vedendo i miracoli che Gesù compiva, credettero in lui. Ma, commenta Giovanni, Gesù non si fidava di loro, poiché la loro fede era radicata nei segni portentosi e non riuscivano ad andare oltre il segno, per coglierne il senso in esso significato (Gv 2,23-24a).

C'è chi ha per fondamento del proprio vivere Cristo, quello che si manifesta nella sua Parola di Vita, e vive il proprio cristianesimo libero da ogni aggancio sensibile, ritenendolo non indispensabile per rapportarsi con Dio, poiché il suo vero tempio è il proprio cuore dove il Tutto dimora. Alla Samaritana che gli chiedeva dove si deve adorare Dio, se a Gerusalemme o sul monte Garizim, Gesù risponde: “Credimi, donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità” (Gv 4,21-24). Anche per questi credenti la vita sacramentale ha la sua rilevante importanza nel loro rapportarsi a Dio, poiché il sacramento non è solo un incontro con Cristo, ma nel sacramento il credente è ontologicamente caratterizzato da Cristo e a lui configurato, cioè viene cristificato. Così come per essi la preghiera non è quasi mai di domanda, ma di lode e di ringraziamento, poiché per loro il pregare è un rapportarsi esistenzialmente al Padre, così da trasformare la propria vita in una liturgia di lode e di ringraziamento. Per loro Maria non ha impressa in se stessa nessuna etichetta storica o geografica, ma è soltanto la Madre di Dio, a cui essi sono stati affidati dal loro Signore (Gv 19,26) e sentono di appartenervi e l'accolgono per il ruolo che Dio le ha riservato nell'ambito dell'economia della salvezza; non sentono il bisogno di rincorrerla nei vari luoghi di apparizione, perché il vero santuario mariano è il loro stesso cuore; né spasimano per i suoi messaggi perché per loro c'è solo la Parola, che è il Tutto. Per loro Maria è una privilegiata e venerata collaboratrice di Dio alla redenzione, così come essi si sentono collaboratori e portatori di redenzione sia in virtù della loro fede, radicata nella Parola, che dei sacramenti che li hanno ontologicamente configurati a Cristo nella sua triplice funzione profetica, regale e sacerdotale.

Due diversi modi di approcciarsi a Cristo, che il concilio Vaticano II (1962-1965), di stampo squisitamente pastorale, il più grande, a mio avviso, dei 21 concili ecumenici della storia della Chiesa, ma anche il più disatteso, ha portato allo scoperto. Fino a questo concilio l'intera società civile era a struttura rigidamente cristiana cattolica e la fede dei credenti era sostenuta dalla struttura stessa della società. Ma da dopo questo concilio e del concomitante boom economico in Italia e la conseguente rapida e travolgente trasformazione della nostra società negli anni 70-80, il cristianesimo ha mostrato tutto il suo lato debole. Le coscienze dei cristiani, non adeguatamente formate, si sfaldarono, persero di capacità critica e gli stessi pastori non furono all'altezza della situazione. Sono questi gli anni in cui la nostra società si è aperta al divorzio, all'aborto, mostrandosi, ora, favorevole all'eutanasia, sia pur con i dovuti distinguo, alla liberalizzazione di certi tipi di droga, alle coppie di fatto, alle unioni civili, comprese quelle omosessuali, al matrimonio a tempo, all'utero in affitto, alle manipolazioni genetiche, all'ideologia gender, che mette in discussione l'identità stessa della persona, il tutto all'insegna dei diritti civili. Ma i diritti civili, per loro natura, sono spazi sociali di opportunità, riconosciuti e tutelati, in cui l'uomo è chiamato ad affermarsi in quanto tale. Essi, pertanto, sono deputati a riconoscere l'uomo nelle sue esigenze di bene; bene che è essenzialmente l'affermazione della sua stessa umanità, stimolandolo ad un impegno di crescita sociale in funzione del bene comune. Diritti civili, che, in quanto tali, non dovrebbero mai violare i principi naturali inscritti nella stessa natura umana e delle cose, poiché, così facendo, questi rischiano di distruggere l'uomo e con lui il tessuto sociale, in cui è inserito. Tuttavia, mai, come oggi, la famiglia, il nucleo fondamentale e fondante di ogni società, in quanto in essa si riproducono e si formano gli schemi sociali nel bambino, si elaborano e si trasmettono i valori, e si formano i futuri cittadini, è in uno stato di forte degrado se non di decomposizione. I numerosi delitti che si compiono hanno come protagonisti principali, per la maggior parte, i componenti del nucleo familiare, così che la famiglia, che per antonomasia è il luogo della vita e dell'amore, si è trasformata in luogo di morte e di violenza. Una società dove predomina con prepotenza incontrastata il potere della finanza sull'uomo, dimenticandosi che ogni attività sociale, economica e finanziaria non può mai essere rivolta contro l'uomo, ma per l'uomo.

È, ovviamente, la presente, un'analisi necessariamente molto stringata e incompleta, ma sufficiente per far comprendere come tutto ciò sia stato possibile anche per la tacita connivenza dei cristiani, che per definizione sono credenti o, quanto meno, dovrebbero esserlo. Cristiani che non sono adeguatamente preparati, spiritualmente asfittici se non morti, ma che purtroppo si credono vivi perché appartengono a gruppi, fanno del volontariato, seguono gli insegnamenti della Chiesa, vanno a messa, fanno la comunione e pregano. Ma tutto ciò è insufficiente per creare in loro una coscienza escatologica, cioè capace di una severa critica del presente, letto in una proiezione futura con riguardo ai beni ultimi e al destino dell'uomo, che si gioca qui e ora. Si dimentica che la fede nasce dall'ascolto della Parola e non dalla pratica cristiana, che dovrebbe essere, invece, conseguente e sostanziata dalla Parola, al fine di evitare di scadere in un ingannevole ritualismo, che ci fa sentire a posto nei confronti di Dio, ma forse Dio non lo è nei nostri, così come è avvenuto nella parabola lucana del pubblicano e del fariseo saliti al tempio (Lc 18,10-14). Rivolto alla comunità di Roma Paolo ricorda come “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17). Serve, dunque, un radicale ritorno alla Parola, riportandola al centro della nostra vita, che da cattolica deve tornare ad essere veramente cristiana, cioè riportare al centro del nostro vivere quotidiano Cristo, la Parola Vivente per antonomasia, l'unica in grado di far comprendere le esigenze di Dio nei nostri confronti e di far fermentare ed evolvere spiritualmente i credenti, togliendoli da quello stato soporifero e mortale, di sostanziale ignoranza, in cui sono caduti, anche per la pochezza dei loro pastori. Oggi non esiste più un pensiero cristiano, ma soltanto un pensiero umano, che sta andando rapidamente alla deriva.

La proposta del Natale

Giovanni, nel suo prologo, dopo aver contemplato il Verbo nello splendore dell'eternità (Gv 1,1-2), attesta che quel Verbo, uscito dal Padre e rivolto al Padre (Gv 16,28): “divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito da Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Paolo, nella sua lettera ai Galati gli fa eco: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4,4-7). Esorta pertanto la sua comunità: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo” (Gal 5,1-5).

Il primo passaggio per acquisire la potenza liberante della Parola in noi e lasciarci trasformare da essa è la contemplazione. Contemplazione che non è riflessione o meditazione, ma il porsi in uno stato di ascolto interiormente libero e silenzioso, accogliente, lasciando che la Parola risuoni in noi, senza la pretesa di volersene in qualche modo impossessare od usare, nella piena coscienza che non siamo noi a conformarci alla Parola, ma è la Parola che ci conforma a lei, poiché la dimensione a cui siamo chiamati non è quella della perfezione umana, ma divina. E nessuno può accedere a tale perfezione se non è la Parola che lo cambia, associandolo alla sua stessa dimensione. Gesù non è un buon esempio da imitare, ma la potenza stessa di Dio che ci chiede di lasciarci trasformare. Ridurre tutto il nostro rapporto con Dio ad una serie di pratiche religiose e di sforzi personali significa impedire a Dio di operare in noi con la pienezza della sua potenza rigenerante e trasformante. Il fallimento della missione di Gesù presso Israele (Gv 12,37) fu dovuto proprio al suo pervicace ed escludente attaccamento alla Legge e alla Tradizione.

Tuttavia, l'azione liberante di Gesù si è manifestata proprio nell'incarnazione, con la quale ha assunto in se stesso non solo la triste condizione umana decaduta e corrotta dal peccato, rendendosi fattivamente solidale con gli uomini, ma anche, in particolare, la stessa condizione di Israele, assoggettato alla Torah e alle sue prescrizioni, distruggendole sulla croce (Ef 2,14-16), così come nel suo corpo crocifisso ha distrutto l'uomo vecchio (Rm 6,6), attirandolo a sé (Gv 12,32). Dopo una lunga riflessione sul senso della Legge (Rm 7), che Paolo vede come uno stimolo al peccato e tale da farci conoscere il peccato (Rm 7,5.7-11.13) e con esso tutta la nostra fragilità, ma senza offrirci una via di salvezza (Rm 7,15-24) poiché “la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte” (Rm 7,10), Paolo attesta con fermezza che “siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non nel regime vecchio della lettera” (Rm 7,6) così che “Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Ma il processo di liberazione che si è innescato, dapprima con la promessa (Gen 12,3.7; 22,17; 2Sam 7,12-13; Gal 3,16), poi con l'incarnazione in prospettiva della morte-risurrezione, non è ancora libertà, ma un cammino che siamo chiamati a compiere, qui e ora, nella potenza di Cristo e della sua Parola rigenerante (1Pt 1,23), che non può essere ridotto ad una semplice osservanza di regole e di comandamenti, ma un cammino nello Spirito. Lo spirituale non disprezza le regole, anzi le ritiene necessarie come punti di orientamento, ma le ha superate muovendosi nella libertà dello Spirito; uno Spirito che non solo possiede in se stesso l'essenza e il senso di quelle regole, avendole ispirate, ma va oltre, facendo sperimentare al suo discepolo le profondità stesse di Dio e del suo amore (1Cor 2,10; Ef 3,17-19).

Da qui il sollecito a coniugare nella nostra vita quella libertà che Cristo ci ha procurata con la sua incarnazione in prospettiva pasquale. Soltanto se ci lasciamo guidare dallo Spirito ci qualificheremo come veri figli di Dio (Rm 8,14), non soggetti ad alcuna legge se non a quella dello Spirito. E “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge” (Gal 5,22-23). Nessuno si salva perché è stato un buon cattolico, perché ha rispettato e condiviso i dogmi e la dottrina della Chiesa, perché ha frequentato sempre i sacramenti o perché dice tante preghiere. Non si confonda la pratica cristiana con l'essere cristiani. Sarebbe un tragico errore. A riguardo del fariseo, che davanti a Dio si vantava del suo essere ligio alle prescrizioni della Legge, il Gesù lucano sentenzia che questi non fu giustificato. Solo la Parola, con la potenza dello Spirito, di cui è permeata, è in grado di renderci cristiani, dapprima indicandoci le realtà spirituali in cui siamo stati costituiti in virtù della fede e dei sacramenti; poi conformando il nostro vivere ad esse. Solo la Parola, quella Parola che si è fatta carne, è in grado di sviluppare in noi una reale crescita ed evoluzione spirituale, che dice il nostro livello di partecipazione alla stessa vita di Dio, che è pienezza di libertà liberante nell'amore.

Giovanni Lonardi