A P P U N T I

 

D I

 

MORALE SOCIALE

 

 (Elaborazione dei miei appunti)

 

 

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Premessa

 

 

Una questione che si pone al credente è se la fede ha attinenza con le varie espressioni della storia o se, invece, vada considerata come una questione che riguarda la stretta sfera privata di ogni uomo.

 

La risposta va ricercata nella definizione che si dà al di Regno di Dio. Se lo si intende come una mera realtà trascendente, allora perde di senso per la storia che viene, invece, sentita come una terra d'esilio e di pellegrinaggio, luogo estraneo e di sola transizione. Se, invece, lo si intende come una realtà, sia pur essa spirituale, ma già presente nella storia, allora esso intreccia l'uomo lungo il suo cammino e lo interpella nell'ambio della storia e già in essa pretende una risposta dall'uomo.

 

In tale prospettiva il Regno di Dio diventa una realtà facente parte della storia e la storia, a sua volta, diventa il luogo privilegiato d'incontro tra Dio e gli uomini che, proprio attraverso la storia, raggiunge l'uomo e lo spinge ad una decisione esistenziale nei confronti del Regno di Dio, decisione che lo coinvolga integralmente già fin d'ora: "Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15).

 

In questa prospettiva il Regno di Dio si pone all'uomo come indicativo di salvezza, mentre l'imperativo di salvezza sta nella risposta che l'uomo deve dare con la sua vita, ora, in questa dimensione spazio-temporale: dare un nuovo senso e un nuovo orientamento alla propria vita, sostanziato e motivato dalla fede, cioè dal mio decidermi esistenzialmente per Dio, dal mio tenermi esistenzialmente aperto e attento alle sue esigenze già fin d'ora.

 

Tale Regno, pertanto, è una realtà spirituale già presente nella storia e la coinvolge interamente. Quindi, il cristiano è chiamato a non vivere con lo sguardo al cielo, ma a radicarsi nella storia, poiché le realtà di cui vive e in cui è immerso sono qui presenti, nel suo habitat naturale: la storia.

 

Significativi, in tal senso sono gli Atti degli Apostoli: "Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? ... Allora tornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi" (At 1, 11a.12a), mentre Matteo sottolinea: "Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20b).

 

Quindi, le realtà celesti non si pongono fuori dalla storia, ma si trovano nel suo ambito: "Io sono con voi tutti i giorni"; realtà, quindi, che ci accompagnano nella storia. Infatti, anche i discepoli, tolto lo sguardo dal cielo, tornarono a Gerusalemme.

 

In questo senso interessarsi al Regno significa interessarsi alla storia e rimanervi radicati.

 

Pertanto, a seconda di come si intende il Regno (realtà totalmente trascendente che nulla a che fare con la storia; o, invece, realtà presente nella storia che ci interpella in essa e ci spinge ad una risposta esistenziale) ne nasce una spiritualità disincarnata o, invece, radicata nella storia.

 

Un altro aspetto che richiede una riflessione è il concetto di Salvezza. Come la si deve intendere? Salvezza dell'anima, per cui è bene che il cristiano non si immischi nelle cose di questo mondo perché lo corrompono; oppure come salvezza integrale, cioè della persona nella sua interezza ed integrità. In questo caso l'uomo è coinvolto in ogni sua dimensione spirituale e materiale, verticale e orizzontale, compreso, quindi, anche il suo habitat naturale: la storia.

 

Del resto Gesù stesso si interessa all'uomo nella sua totalità storica e spirituale; ogni miracolo di Gesù punta a recuperare l'uomo nella sua integrità, restituendogli la dignità perduta con il peccato, significato nella malattia che invalida l'uomo sia nei suoi rapporti con Dio che con i suoi simili. In tal senso si ricordi la guarigione del paralitico a Cafarnao di Mc 2,1-12: la riconciliazione dell'uomo con Dio ("Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati") si rende visibile nella guarigione fisica che consente al paralitico di riprendere i suoi rapporti con il resto degli uomini e con Dio. E' l'uomo salvato integralmente.

 

Una salvezza, pertanto, che si muove nell'ambito della storia in modo sacramentale, cioè incarnata nella storia e, in tale ambito, raggiunge ogni uomo nella sua interezza e integrità.

 

A fronte del Regno di Dio e della Salvezza proposta all'uomo, un altro aspetto da considerare è la risposta dell'uomo.

 

Tale risposta può essere quella dell'amore, che si attua nella storia concretamente. Questo amore sacramentato nella storia si chiama carità, cioè l'incarnazione dell'amore di Dio nel mio agire concreto e storico e che, attraverso di me, raggiunge ogni uomo.

 

Tale amore storicamente può assumere vari aspetti, anche quelli sociali, economici , politici, ecc. Proprio in tal senso l'enciclica ... afferma che "la politica è un modo esigente di vivere la carità".

 

L'orizzonte entro cui va considerata ogni cosa è quello sacramentale che ha la sua matrice e il suo motore nel Cristo stesso: Dio è entrato nella storia e qui nella storia si è interessatoagli uomini, alle loro vicende e ne ha condiviso le sorti.

 

Il Dio dei cristiani è un Dio incarnato; egli, con la sua incarnazione, ha assunto su di sè la storia e i destini dell'uomo, riscattando il suo vivere e il suo operare, così che l'uomo e la sua storia sono stati totalmente assorbiti in Lui ("Quando sarò innalzato attirerò tutti a me" - Gv. ).

 

E' sempre Giovanni, infine, che nel racconto della Samaritana fa dire a Gesù che i veri adoratori che il Padre cerca sono quelli che lo adorano in spirito e verità (Gv 4,23). La ricerca e l'adorazione del Padre, pertanto, non è più limitato nel tempio, ma ovunque c'è l'uomo. Quindi, è la storia il luogo sacro in cui Dio opera e consacra l'uomo nella sua dimensione storica e in ogni sua espressione.

 

 

INTRODUZIONE ALLA GAUDIUM ET SPES

 

 

 

La Gaudium et Spes è la costituzione pastorale sulla "Chiesa nel mondo contemporaneo" del 7 dicembre 1965.

 

Essa ebbe un percorso piuttosto travagliato, testimoniato, da un lato, dalle quattro elaborazioni che subì prima della sua approvazione finale; dall'altro, da un capovolgimento di metodologia di impostazione: si partì inizialmente con l'affermazione di alcuni principi da cui dedurre tutte le considerazioni, ma si preferì, poi, porsi in ascolto della storia e del mondo. Una scelta decisamente saggia che ha dato una svolta radicale alla riflessione.

 

Il documento, composto da un Proemio e una Esposizione introduttiva, si suddivide in due parti per un complessivo di 9 capitoli (4 nella prima parte e 5 nella seconda).

 

I titoli del testo sono i seguenti:

 

•     Parte Prima: La Chiesa e la vocazione dell’uomo

 

•     Cap. I    : La dignità della persona umana

•     Cap. II   : La comunità degli uomini

•     Cap. III  : L'attività umana nell'universo

•     Cap. IV : La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo

 

•     Parte Seconda: Alcuni aspetti più urgenti

 

•     Cap. I    : Dignità del matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione

•     Cap. II   : La promozione del progresso e della cultura

•     Cap. III  : Vita economico-sociale

•     Cap. IV : La vita della comunità politica

•     Cap. V  : La promozione della pace e la comunità dei popoli

 

•     Conclusione

 

La costituzione dogmatica è un testo che prospetta un nuovo porsi della Chiesa  nella storia; non più di chiusura e di difesa nei confronti del mondo (Periodo della Riforma e dell'Illuminismo), bensì di apertura e solidarietà sulle orme di Cristo, che con il mondo ha condiviso la storia e il suo destino per mezzo dell'incarnazione (Fil. 2,6-11).

 

La GS rappresenta un cammino di maturazione della Chiesa nei confronti del mondo ed affonda le sue radice in una nuova autocomprensione che la Chiesa ha sviluppato su se stessa nella LG.

 

 

 

La dignità della persona umana

 

 

 

 

 

Premessa

 

A partire dall'Umanesimo e Rinascimento, epoca in cui a seguito della scoperta del mondo dei classici e della conseguente formazione di una cultura pagana contrapposta a quella religiosa, l'uomo ha sviluppato una forte capacità critica, che lo ha portato ad una nuova presa di coscienza del suo "Io", delle sue capacità e del suo mondo, scoprendo in sé delle nuove potenzialità. Scopre, quindi la sua centralità e la propria importanza come persona che sente libera e capace di autonoma decisione.

 

Ora, quasi precorrendo l'Illuminismo, l'uomo prende coscienza della realtà e della società e delle sue dinamiche, per cui i poveri e i ricchi non ci sono perché questa è la volontà di Dio, ma perché la società poggia su di un perverso meccanismo che condanna alcuni e favorisce altri.

 

A fronte di queste inique disuguaglianze e allo svolgersi della vita sia individuale che sociale, l'uomo deve interrogarsi sul suo impegno nei confronti delle realtà sociali e storiche che lo interpellano e lo pressano.

 

Tali problematiche vennero affrontate a vari livelli: politico, economico e cristologico-salvifico, a seconda della prospettiva da cui fu guardata la realtà.

 

Va da sé che l'ottica privilegiata per il cristiano è quella dell'evento pasquale, cioè del Cristo morto-risorto e del dono del suo Spirito.

 

 

Una constatazione e una considerazione

 

 

La Chiesa, postasi di fronte al mondo e alla sua storia, si è lasciata interpellare da loro. Fu così che ha rilevato l'enorme cambiamento sempre in fase di rapido divenire, favorito da una scienza e da una tecnica sempre più accelerate da nuove e continue scoperte. Potremmo dire che fino alla metà circa del XX° sec. l'umanità si era scostata di poco dalla scoperta del fuoco e della ruota, ma dalla seconda metà dello stesso secolo, è esplosa un'enorme evoluzione che l'ha spinta verso la Luna e a conquiste impensabili fino a qualche decennio prima.

 

Si pensi, poi, ai grandi movimenti di masse umane a cui stiamo assistendo ancor oggi, che dal terzo mondo stanno letteralmente invadendo l'Occidente e alle conseguenze che da tutto ciò derivano: nuove culture, nuove religioni, nuovi modi di pensare la vita si sono rovesciati, quasi improvvisamente, sull'Europa, impattando con una realtà a loro quasi completamente sconosciuta e creando forti tensioni e disagi.

 

Tutto ciò ha provocato delle rapide e incontrollate trasformazioni sociali, creando non pochi squilibri sia a livello sociale che individuale: difficoltà a ritrovarsi, necessità di ristrutturare le proprie identità, disagi esistenziali che sfociano in stati di inquietudine, segni questi di una realtà che sta rapidamente cambiando e che denunciano una difficoltà di adattamento. L'uomo sta correndo pazzescamente, come mai ha fatto nella sua storia, ma denuncia anche una forte difficoltà a mantenere un'adeguata evoluzione spirituale corrispondente.

 

La Chiesa, partendo dall'evento pasquale, ritiene di poter dare una risposta soprattutto là dove la sola razionalità non è in grado di darla o ha sostanzialmente fallito. Essa si dichiara competente sull'uomo e sulle sue esigenze morali e spirituali. Propone, quindi, un'ampia visione della storia che, a partire dalla creazione, arriva fino all'avvento di Cristo in cui tutto l'universo è ricapitolato  e in cui l'uomo trova il suo senso. E', dunque, una visione essenzialmente cristologica o, per meglio dire, cristocentrica

 

L'uomo, in quanto tale, ma ancor più alla luce del Cristo risorto, è un valore in sé e per sé indipendentemente dal suo collocarsi storico, dalla sua cultura, dalla sua posizione sociale o quant'altro. Il suo valore è intrinseco, contrariamente alla visione economica che considera l'uomo in relazione alla sua capacità economica, al suo possedere o alla sua capacità di consumare. Tutto viene visto secondo una cultura dell'avere e non dell'essere. E' questa sostanzialmente una visione marxista che racchiude l'uomo all'interno della storia e ne fa un fenomeno economico, risolvendo tutti i suoi problemi nell'ambito del benessere raggiunto, una volta tolti gli ostacoli economici e sociali che glielo impedivano.

 

La Chiesa, invece, segue una diversa antropologia, imperniata non sull'economia e sulle logiche dell'avere, bensì sulla Bibbia e la Rivelazione. Essa, pertanto, evidenzia la fragilità dell'uomo, segnato dalla colpa, ma che trova nel Cristo risorto la vittoria sul peccato e la soluzione alla sua fragilità, acquisendo un nuovo senso della storia e di se stesso.

 

In Gesù la Chiesa indica il Dio fatto uomo, che proprio nella sua umanità ha condiviso la sorte e i destini dell'uomo, mentre nella risurrezione lo ha associato nuovamente a Sé, aprendolo alla speranza. Anche per questo l'uomo ha un valore intrinseco: esso fa parte, ormai, dell'umanità di Dio.

 

Anche per quanto riguarda la socialità, quale elemento essenziale dell'uomo, essa viene riferita all'uomo redento e come valore nettamente positivo e indispensabile per la sua crescita e maturazione. In essa si proietta e si riproduce la stessa vita trinitaria a cui l'uomo è già fin d'ora associato in Cristo. Una visione questa altamente riscattante e ben diversa da quella di Rousseau che vede, invece, la socialità dell'uomo come un qualcosa che viene dopo di lui: l'uomo è un individuo singolo che, solo in un secondo momento, perché costretto dalle necessità, si mette insieme ad altri rinunciando alla sua libertà.

 

E' questa una visione individualistica dell'uomo: esso si affaccia alla realtà sociale solo per se stesso e per i suoi interessi da soddisfare. In fondo questa è una visione liberalistica, secondo la quale ognuno si muove spinto dai propri interessi, ma che questi siano soddisfatti non dipende da lui, ma dall'andamento di mercato il quale, pertanto, condiziona necessariamente l'uomo, ma che a sua volta è condizionato dagli interessi di altri uomini. Quindi, secondo tale visione, tutta la vita ha una base squisitamente economica in cui tutto viene regolato secondo rigide logiche di capitale e di valutazioni quantistiche. Tale società, pertanto, si qualifica come una massa individualistica di persone che guardano a loro stesse senza alcuna responsabilità verso gli altri.

 

Contrariamente, la Chiesa afferma che la socialità è una  forza positiva interna all'uomo, inteso come valore, e lo spinge alla responsabilità verso l'altro, che diventa un valore per me.

 

Nel primo caso, quindi, avremo una visione egoistica della socialità; in questo secondo, invece, una altruistica e valorizzante. Nel primo caso scarico cerco un appagamento dei miei interessi a spese degli altri; nel secondo caso, l'altro diventa un mio problema di cui mi devo prendere cura. Nel primo caso abbiamo Caino che rinfaccia a Dio di non essere lui il custode di suo fratello; nel secondo abbiamo il buon samaritano che si fa carico dell'altro. Sono due tipi di socialità tra loro inconciliabili e irriducibili.

 

Questa socialità parte da una nostra presa di coscienza di noi stessi che si attua nelle scelte e nell'incontro con gli altri. Infatti, lo scegliere è sempre un determinarsi per ciò che si è colto come valore attuabile per me.

 

Essa si muove sempre nell'ambito del conosciuto; infatti, senza conoscenza non c'è possibilità di scelta, così che la scelta diventa condizionata dalla conoscenza. Una conoscenza che è un cogliere in modo avvertito e dipende anche dal mio essere (quidquid recipitur ...). L'accorgersi, pertanto, dipende anche da come siamo noi, dalla nostra storia, dalla nostra educazione, cultura e maturità. Ma che cos'è che ci può dare una piena e ricca conoscenza di noi stessi? E' l'altro con cui mi incontro e in cui mi riconosco e, grazie al quale, io posso esprimermi e comunicarmi, comunicazione intesa come dono e arricchimento reciproco.

 

 

La Chiesa di fronte al mondo

 

 

Quale comunità di credenti, la Chiesa è nel mondo e ne condivide le sorti, con lui cammina e lo fa fermentare nello Spirito di Cristo. Essa ne diventa l'anima che lo vivifica: "I cristiani sono nel mondo come l'anima nel corpo" (Lett. a Diogneto).

 

La Chiesa con la sua parola, illuminata dal Cristo risorto, è chiamata a rispondere agli interrogativi e alle esigenze dell'uomo. Essa con il suo annuncio dà la risposta sul senso del vivere e su quello del morire, soddisfando in tal modo le domande di senso dell'umanità, che rischiara nella sua dignità e la apre a nuove dimensioni di valore e a nuove prospettive, offerte dal Vangelo e dalla Parola , di cui la Chiesa si fa portatrice e annunciatrice.

 

Il Vangelo, benché storicamente e culturalmente contestuato, porta in sé valori che superano ogni barriera spazio-temporale, estendendosi in ogni tempo, offrendo, di volta in volta, sempre nuove visioni e interpretazioni della storia, ogni storia, valorizzando ogni epoca e l'uomo di ogni epoca.

 

Il Vangelo viaggia con l'uomo nella storia e ne svela, di volta in volta, il senso. Esso è annuncio universale che tende ad accomunare ogni uomo nell'unica comunità del Padre e che affonda le sue radici in quel movimento escatologico di raccolta di tutti gli uomini, riorientandoli verso Dio.

 

L'azione della Chiesa, contrariamente a quanto pensava Marx sulla religione, non spinge l'uomo al di fuori della storia o ad isolarsi da essa, bensì lo impegna nella storia così da diventare in essa il sacramento vivente di Dio, consacrandola e santificandola con il proprio vivere di persona consacrata e consacrante.

 

L'impegno esistenziale, a cui ognuno è chiamato nel corso della propria vita, diventa lo spazio di testimonianza e di impegno cristiano mirante alla santificazione di quella realtà in cui si è impegnati.

 

Il battesimo ci mette in grado di operare questa azione santificante e consacrante, così che, quando assumo su di me un impegno, esso diventa da me santificato in virtù del mio stato di vita. In tal senso Paolo afferma: "Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vie ed opera in  me" (Gal 2,20). Io, dunque, sono sacramento vivente di Cristo, chiamato a cristificare la realtà in cui sono chiamato a vivere.

 

In tale orizzonte il Vangelo va vissuto in funzione della realtà in cui mi trovo e quale risposta alle interpellanze che mi provengono da "quella realtà". Questa va capita, interpretata e illuminata da una Parola a sua volta capita e interpretata secondo le esigenze della realtà specifica, così da diventarne una risposta efficace, chiarificatrice e orientatrice.

 

In tale ambito, dunque, la fede rimotiva e illumina il credente nel suo impegno a cui è chiamato nella vita, di volta in volta.

 

La Chiesa stessa nella sua missione è stata avvantaggiata dal progresso nella storia e dalla molteplicità delle culture che in essa vi si incontrano, dalle quali continuamente è interpellata e la spingono ad approfondire la ricchezza del Vangelo e la sua comprensione che, pertanto, è stimolata dagli eventi della storia stessa.

 

In questo dialogo con la storia, da cui è interpellata e stimolata ad approfondire la Parola, la Chiesa offre all'uomo una determinata visione e comprensione di se stesso, della sua socialità e delle sue espressioni, costituendosi per lui contributo e dono di crescita.

 

 

 

RAPPORTO TRA CHIESA E POLITICA

 

 

 

 

Premessa

 

Il termine politica (gr. polis) rimanda al governo della città. Essa è l'arte di gestire il potere all'interno di una determinata società. In tale ambito, il partito, come strumento di gestione del potere, ha attinenza con la politica. Per politica, quindi, si intende tutto ciò che concorre alla gestione di una certa realtà.

 

L'atteggiamento politico non è mai indifferente, poiché inerisce al mio modo di essere, di pensare e agire; anzi, il mio modo di vivere è già in sé un modo di fare politica; così come il mio modo di pormi di fronte alla realtà e alla vita. In tal senso "fare politica" esprime il mio modo di agire. In questo senso la Chiesa "fa politica", perché orienta il vivere individuale e sociale, benché questo non vada inteso come impegno diretto, poiché, in tal caso, ci sarebbe una gestione di potere.

 

Anche nell'A.T. Dio "fa politica" quando si oppone al faraone e innesca con lui un braccio di ferro per la liberazione del suo popolo. "Fa politica" quando conduce Israele nel deserto per provare la sua fede, per aiutarlo a crescere nel dialogo con Lui, per aprirlo alla fiducia nei suoi confronti. "Fa politica" quando lo conduce ai piedi del Sinai e stabilisce un'Alleanza con lui, costituendolo "sua proprietà, regno di sacerdoti e nazione santa". Dio "fa politica" quando ricorre a tutti i mezzi per realizzare il suo disegno di salvezza. Il suo stesso progetto di salvezza, che inizia con la prima creazione e fino alla risurrezione del suo Cristo, è un "far politica", cioè una gestione della storia basato sul dialogo con l'uomo per ricondurlo nuovamente presso di sé. Tutto ciò che è progetto e la dinamica che si sviluppa per la sua attuazione è un "far politica".

 

Così la fede in Dio porta a vivere in un certo modo la vita in tutte le sue espressioni, così che il mio vivere la fede è un "far politica", è la mia politica, cioè un certo modo di gestire e
Gesù stesso nel suo annuncio "fa politica" poiché per suo mezzo offre all'uomo nuove prospettive di vita a cui conformare la propria esistenza e ne indica le modalità di attuazione.

 

 

La politica di Gesù

 

 

Gesù apre la sua missione con un annuncio radicale: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). E' un invito a prendere posizione, a vedere le cose da una nuova prospettiva: quella di Dio e su questa scommettere la propria vita.

 

Benché più volte provocato dai suoi avversari a prendere posizione nei confronti degli invasori romani (v. sulla liceità del tributo a Cesare) o a manifestarsi finalmente come messia, prendendo in mano la situazione politica e religiosa (v. la folla che lo cerca per farlo re), Gesù rivendica per la sua missione un carattere esclusivamente religioso, evitando di rimanere coinvolto in un messianismo politico che caratterizzava le attese dei suoi connazionali. Infatti, dopo che Pietro lo ha riconosciuto come messia (Mc 8,29b), egli deluderà tali attese con il ricorso al pensiero della sua passione, sottolineato per ben tre volte (Mc 8,31; 9,30 e 10,33), anzi mette ben in chiaro che la sequela comporta rinnegamento e croce (Mc 8,34).

 

Così pure, quando tra i suoi discepoli si radica il convincimento di un messianismo politico del loro maestro (v. la discussione sul chi è il più grande nel regno e la richiesta dei due figli di Zebedeo), Gesù risponde loro ponendo davanti a sé la figura del servo sofferente di Jhwh.

 

Infine, davanti a Pilato, che gli chiede se lui è re, Gesù afferma che la sua regalità non è di questo mondo (Gv 18,36).

 

In tal modo Gesù dà concretezza alle attese messianiche della sua gente, ma ne offre una diversa prospettiva: non un messia politico o militare, bensì spirituale: egli è venuto per il disperso gregge di Israele per radunarlo e ricondurlo a Dio (Mt 23,37).

 

Tuttavia, nonostante il suo affermarsi come messia in senso religioso e come sofferente servo di Jhwh, Gesù compie gesti e parole politici: offre a tutti un Padre unico in cui riconoscersi tutti fratelli; l'interpretazione della legge fatta con autorità; il dichiararsi "completamento" della Legge e dei Profeti; la sua autorità che mette in discussione quella degli scribi e farisei; le critiche rivolte ai sacerdoti e al Tempio. Da questo punto di vista la missione religiosa di Gesù acquisisce anche una valenza politica che avrà anche delle conseguenze drammatiche (infatti, i capi del popolo complottano contro di lui e cercano di farlo morire).

 

La sua stessa morte desacralizza il potere: egli, infatti, muore perché ha dato la preminenza alla sua coscienza e alla fedeltà a se stesso, alla sua missione e a Dio. In tal modo l'autorità degli uomini viene sconfitta proprio da questa fedeltà: è meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. In tal modo l'autorità umana, vista come espressione di quella divina, viene desacralizzata, cioè non è più conforme alla volontà di Dio perché non è riuscita a coglierla in Gesù, che ne era l'espressone per eccellenza.

 

Gesù, ancora, suggerisce comportamenti come conseguenze di scelte politiche (lo scegliere Dio al posto degli uomini; il sostituire le proprie logiche umane con quelle di Dio): egli indica la strada della diconia; del primo che deve porsi al servizio dell'ultimo per farlo crescere. Egli propone, dunque, delle relazioni nuove che promuovono la crescita dell'uomo. Egli stesso, del resto, si è fatto come uno di noi per farci come lui e per questo ha rinunciato alla sua gloria per assumere una natura di schiavi, corrotta dal peccato, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce (2Cor 8,9 e Fil 2,6-11).

 

Pertanto, pur non dando una impostazione politica e rivoluzionaria alla sua missione, tuttavia Gesù incide anche politicamente, cioè sui rapporti individuali e sociali, aprendoli a nuove e diverse prospettive e comprensioni. Non c'è, quindi, estraneità politica nella missione religiosa di Gesù; ma, benché non vi sia un coinvolgimento diretto, tuttavia egli ha una incidenza rilevante al punto tale che i suoi avversari hanno deciso di sopprimerlo.

 

 

La Chiesa e la sua azione politica

 

 

Come per il suo Cristo, la Chiesa si dichiara estranea al potere di qualsiasi forma o entità; ma la sua missione, il suo insegnamento, la sua testimonianza incidono sul potere e lo orienta e ciò proprio per la salvezza che annuncia e che investe l'uomo interamente in ogni sua espressione.

 

Il contributo che la Chiesa offre nella GS è quello della dignità dell'uomo e della sua affermazione e ciò non è indifferente alla politica, che sull'uomo esprime il suo potere.

 

Alle comunità cristiane spetta l'azione promozionale della persona e il saper leggere la realtà promuovendo azioni di riscatto e di modifica della realtà, finalizzandola all'affermazione e alla crescita dell'uomo nella sua concretezza e completezza.

 

La Chiesa si rende presente all'interno della cultura e della società innanzitutto con l'annuncio del Vangelo, quale fonte ispiratrice di autentici valori umani, poiché il Vangelo parla all'uomo nella sua interezza, aprendolo a prospettive di speranza, aiutandolo a leggere la storia e la propria vita secondo l'ottica di Dio. Di tali valori le comunità cristiane devono farsi carico operando incisivamente sulla realtà sociale.

 

In tal senso, si consideri, ad esempio, che ogni persona è un valore in sé e per sé, indipendentemente dai suoi svantaggi sociali o personali; per questo, all'interno della società, vanno promosse strutture di tutela e di valorizzazione di questi svantaggiati.

 

Il Vangelo, pertanto, non dà suggerimenti pratici sul come risolvere i problemi, ma propone dei valori da cui, poi, mutuare e sviluppare soluzioni concrete, nella coscienza che queste non sono mai definitive, ma sempre perfettibili e adattabili continuamente secondo le esigenze storiche del momento. Tali valori, pertanto, chiedono una continua rilettura e interpretazione per poter essere sempre meglio attuati e storicamente concretizzati.

 

La Chiesa e le sue comunità, pertanto, devono affrontare la realtà con una mentalità di "riserva escatologica", cioè con la coscienza che la storia è proiettata in avanti e solo alla sua fine troverà il suo definitivo compimento, mentre nel presente essa è soggetta ad un continuo divenire e ad una continua rilettura e rifacimento. Questo deve portare ad un atteggiamento critico verso soluzioni che possono essere ( e sono) perfettibili sia perché nate all'interno della storia, e quindi soggette al divenire, sia per la limitatezza e la fragilità dell'uomo.

 

In tale prospettiva, le azioni che possono influire politicamente sono l'annuncio dei valori evangelici, opere di promozione sociale che mirano a valorizzare l'uomo nella sua crescita e nella maturazione della sua coscienza, la testimonianza dei valori evangelici, cioè la loro incarnazione nella propria vita in determinate realtà sociali.

 

La Chiesa, pertanto, ha squisitamente religiose e spirituali, benché, come abbiamo visto, essa incide, in modo indiretto, anche politicamente. Tuttavia, si possono creare situazioni in cui essa è chiamata ad impegnarsi anche direttamente, schierandosi politicamente.

 

In passato, lungo il corso della sua storia, la Chiesa ha esercitato anche un'azione politica diretta, benché questa si qualificasse non per vocazione e missione, ma per supplenza. Oggi, comunque, tutto ciò è stato ampiamente superato e la Chiesa ha ripreso la missione che le è congeniale: l'annuncio del Vangelo e l'affermazione dell'uomo e della sua dignità, in particolar modo là dove questi siano lesi. Essa, in tal senso, si costituisce quale segno di protesta, di contestazione e di opposizione sollecitando le coscienze più sensibili e spingendo a riflettere i violatori dei diritti dell'uomo. E', comunque, sempre, un'azione che non è mai direttamente politica.

 

 

Il cristiano e la politica

 

 

Il compito della Chiesa è quello di promuovere la dignità dell'uomo, anche per vie di fatto, attraverso apposite e adeguate istituzioni o strutture.

 

Ma se da un lato la Chiesa, per sua intima vocazione non è chiamata a "fare politica" in senso stretto, dall'altro spetta al cristiano intervenire direttamente nella politica secondo le proprie capacità e competenze, testimoniando e promuovendo per suo mezzo e in essa i valori evangelici.

 

Il Vangelo, infatti, propone dei valori inerenti all'uomo e alla sua salvezza in senso globale, coinvolgendo l'uomo anche nei suoi aspetti terreni, quali anticipatori delle realtà future. Spetta, pertanto, al cristiano attuarli secondo il proprio stato di vita; in tal senso, l'azione politica diventa importante per l'attuazione dei valori evangelici e può costituire un valido supporto ad essi.

 

In tal senso, la comunità cristiana è caratterizzata da vari carismi, per cui ognuno, secondo il carisma che gli è donato, darà concretezza a tali valori. Ma l'attuazione di tali valori, specialmente in politica, non è mai una cosa semplice e scontata, ma richiede la formazione di una buona sensibilità a tali valori, supportandoli con adeguate preparazione e cultura., tenendo sempre presente, soprattutto, che la politica è un modo esigente di vivere la carità.

 

 

Coscienza cristiana e realtà economica

 

 

L'economia è un fatto rilevante e fondamentale all'interno di ogni società e la coinvolge interamente, raggiungendo ogni suo singolo componente; pertanto, di fronte a tale fenomeno può sorgere la questione su quale sia forma di economia più consona alla persona umana, affinché questa non venga degradata ad oggetto economicamente valutato.

 

Il parametro di raffronto è sempre Cristo e il suo Regno.

 

E' evidente che il Vangelo non è competente in termini di economia, ma lo è per ciò che concerne l'uomo e le sue esigenze.

 

L'economia (gr  oikos - nomos) la potremmo definire, sia pur in senso non strettamente tecnico, un'attività che cerca di venire incontro ai bisogni dell'uomo e in questo essa sviluppa una incessante ricerca del benessere stesso dell'uomo, per mezzo della sua stessa attività.

 

L'uomo, infatti, cerca di modificare e adattare la natura e le cose alle proprie esigenze. Numerosi ed enormi sono i beni che la natura e la terra offrono agli uomini, ma essi non sono tutti immediatamente e direttamente utilizzabili per le necessità dell'uomo, per cui hanno bisogno di essere modificati e adattai opportunamente. Nasce, così, il lavoro quale forza trasformante e organizzante. Esso diventa, talvolta, una lotta contro la natura che viene piegata, proprio per mezzo del lavoro, alle esigenze dell'uomo.

 

Ma nell'ambito del lavoro, l'uomo scopre la sua incapacità a svolgerlo da solo per cu è costretto a rivolgersi ad altri che lo coadiuvino nei suoi intenti. Ne nasce, pertanto, un'organizzazione sociale finalizzata a determinati obiettivi.

 

Le difficoltà del lavoro sono uno stimolo ad ulteriori conquiste e crescita; non a caso, infatti i latini affermavano che "inopia acuit ingenium". Esso, pertanto, diventa un severo educatore dell'uomo e lo impegna in una continua lotta contro le difficoltà. Non è pensabile, infatti,  un lavoro esente dalla sofferenza e dai sacrifici. La stessa Genesi ce lo ricorda e ne fa una condizione essenziale del lavoro dell'uomo: "Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo ... Spine e cardi produrrà per te ... con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gn 3, 17-19). Fa parte, quindi, dell'uomo il lavorare nella sofferenza. Ciò è un segno della sua decadenza e della sua fragilità.

L'economia, nell'ambito delle varie attività umane, si pone come scienza autonoma che non ha nulla ha a che fare con la libertà dell'uomo. Infatti essa è stata organizzata con leggi economiche e matematiche le cui conseguenze sono imputabili solo alle sue dinamiche interne.

 

Marx non si dichiara, però, d'accordo con tale assunto e afferma, invece, che bisogna cambiare l'economia da cui ogni espressione individuale e sociale deriva. Cambiare, quindi, l'economia per cambiare la condizione dell'uomo.

 

Contrariamente a Marx, il Liberalismo ritiene che ciò che muove l'uomo e tutta l'economia sia l'interesse stesso dell'uomo. Questo è il vero motore! Ma anche vero che un interesse lasciato libero a se stesso tende ad affermarsi in modo sfrenato, sfociando fatalmente in forme egoistiche che portano l'uomo al suo degrado e decadimento, causando vaste aree di sofferenza, dolore e morte.

 

Quindi alla base del Liberalismo si pongono gli interessi e gli egoismi individuali. Da ciò ne consegue un ampio riconoscimento della proprietà che uno si è creato ed ha conseguito. Ma all'interno di questi egoismi e interessi si annida la necessità, proprio per salvaguardare tali interessi e la loro proprietà, di mettere a disposizione il proprio capitale in una libera concorrenza di mercato per farlo fruttare e salvaguardarlo almeno dall'inflazione e dal suo deperimento. Quindi, il mio interesse personale è costretto ad aprirsi agli interessi degli altri. In tal modo le esigenze sociali diventano il mio interesse.

 

In questo gioco, però, di libero mercato si muovono spesso egoismi sociali che si incarnano nelle corporazioni, che mirano solo a salvaguardare i propri interessi sulle spalle degli altri.

 

Fatte queste premesse, cioè no al marxismo in quanto capitalismo di Stato che annichilisce le esigenze vitali dell'uomo, subordinandolo totalmente alla società; e no al Liberalismo in quanto sfrenato capitalismo individuale, basato sugli egoismi ed interessi strettamente personali spesi a danno degli altri, non ci rimane, allora, che tornare alla domanda iniziale: qual’è la forma di economia che meglio si addice all'uomo, che gli consenta di soddisfare le proprie esigenze senza, per questo, diventare alienato?

 

La risposta certo non è semplice né immediata. Ma, forse, facendo un rapido excursus storico sul fatto economico e sul suo pensiero potremmo vedere la sua evoluzione e i tratti più importanti e positivi che possono, poi, alla luce del Vangelo, diventare propositivi per il nostro pensiero economico.

 

Nell'antichità l'economia era subordinata alle esigenze dell'uomo: provvedere quanto gli serviva per condurre una vita dignitosa. Oggi, invece, la finalità dell'economia è il profitto, cioè l'interesse che personalmente ricavo dal mio investimento: la ricchezza, quindi, per la ricchezza.

 

Nell'ambito dell'economia greca l'uomo libero e titolare di diritti era quello che possedeva delle proprietà. In tale prospettiva l'economia non poteva essere che agricola e terriera. Ma l'espansione della Grecia sul mare ha modificato il tipo di economia: da strettamente legata alla terra passò al commercio, in cui il valore degli oggetti perde di concretezza, lasciando ampli spazi alla voracità dei commercianti. Ecco, dunque, con il commercio aprirsi enormi possibilità di ricchezze e di arricchimento. L'esigenza, ora, non è più il soddisfare i propri bisogni primari, ma accumulare e in ciò si vedono le grandi vie di accesso al potere.

 

Due grandi pensatori del tempo, Platone ed Aristotele, riflettono sull'economia.

 

Platone, pur non abolendo la proprietà privata, tuttavia le pone dei limiti.

 

Quanto ad Aristotele, va detto che il suo pensiero ha influenzato quello cristiano. Per Aristotele i beni materiali sono finalizzati alla realizzazione armoniosa di se stessi. In tale prospettiva egli non vede bene il commercio che spinge l'uomo a possedere le cose. Il possesso per Aristotele non è mai qualcosa di assoluto, ma è un possedere per condividere ed ha sempre a che fare con le esigenze degli altri. Quanto al commercio, egli lo ammette, ma limitatamente al baratto, cioè allo scambio di beni. Ma ben presto dal baratto si passa al denaro, cioè l'attribuzione di un valore virtuale ad un oggetto quale il denaro, conchiglie, metalli, ecc. Il denaro, poi, stabilisce una giustizia commutativa, cioè per un oggetto io ti do un pari valore in denaro, e inoltre consente una riserva di valore.

 

Quanto agli interessi sul denaro, Aristotele non li vede bene, poiché il denaro prestato, a differenza di altri oggetti, non si deteriora (ovviamente Aristotele non aveva ancora il concetto di inflazione che è, appunto, una erosione del potere di acquisto del denaro). L'interesse, invece, era consentito solo in caso di investimenti, in cui poteva anche essere perduto. Questi concetti passeranno anche al cristianesimo.

 

Il pensiero ebraico vede in termini positivi i beni materiali che concepisce come dono di Dio, segno della fedeltà di Dio e di quella dell'uomo verso Dio. Essi sono un segno della sua benedizione. Ma l'esperienza si è incaricata di smentire questa visione buonistica della vita. Tale passaggio drammatico ad una diversa lettura della vita e dei suoi aspetti positivi e negativi avviene nel libro di Giobbe che la Bibbia si premura di presentare come un "uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male" (Gb 1,1). Di fronte a tanta drammaticità che si è rovesciata improvvisamente su di un uomo giusto e timorato di Dio, si è cercato di rifare una nuova lettura della vita, della povertà e della ricchezza. Ecco, dunque, che i poveri diventano i "poveri di Jhwh", cioè coloro che confidano nel Signore, loro aiuto e loro scudo.

 

Una particolare attenzione, nell'ambito del pensiero ebraico, va data al possedimento della terra e dei beni in genere.

 

Per l'ebreo la terra era un dono di Dio offerto all'uomo (l'ebreo, infatti, quando parla di terra corre con la sua mente alla Terra promessa, dono di Dio per eccellenza). Essa, pertanto, non è mai vista come proprietà assoluta dell'uomo. A ricordarlo c'è il libro del Levitico che impone il riposo sabbatico nello sfruttamento della terra ogni sette anni (Lv 25,1), mentre ordina la restituzione della terra e dei beni al suo originario possessore ogni cinquant'anni (Lv 25,8.13). Questa visione del Levitico sembra, però, essere stata più un'utopia che una realtà, considerate le gravi sperequazioni e le profonde ingiustizie sociali che esistevano all'interno del popolo di Israele e così severamente stigmatizzate dai vari profeti (Isaia, Amos, Geremia, ecc.). Chi è povero, pertanto, non gli rimane che confidare nel Signore.

 

Nel N.T., invece, i beni, pur non condannati, vengono indicati come pericolosi perché possono offuscare il proprio rapporto con Dio fino a farlo morire. In tal senso significativa è la parabola proposta da Gesù, quella dell'uomo che accumula nei propri granai e che propri nell'accumulo dei beni trova la sua sicurezza e il suo appagamento.

Non meno significativa, poi, la parabola del ricco Epulone che, immerso nel suo traboccante benessere, non si accorge del povero Lazzaro. E così dicasi pure del giovane ricco, che rinuncia alla sequela di Gesù perché il suo cuore era troppo legato ai suoi beni e induce Gesù a fare un'amara considerazione: "E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che un ricco entrare nel Regno dei cieli" (Mt 20,24).

 

La soluzione è lo staccarsi dai propri beni, il riorientare il proprio cuore a Dio e il condividere con gli altri, come avvenne per Zaccheo.

 

Gesù, pertanto, invita a non farsi tesori sulla terra dove ladri e ruggine  consumano, ma nei cieli, poiché l'attaccamento ai beni rende insensibili agli altri e ai valori spirituali.

 

Lo stile di vita nuova proposto dal cristianesimo è presentato negli Atti degli Apostoli: "La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede avevano un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune" (At 4,32).

 

 

I beni nel pensiero cristiano e laico

 

 

Benché non in modo sistematico e approfondito, tuttavia i Padri della chiesa si sono spesso occupati del rapporto uomo-beni. Di seguito, sinteticamente, riportiamo i punti essenziali comuni a tutti i Padri, sia greci che latini:

 

•     Nell'ordine della creazione, e quindi nel piano di Dio, i beni della terra intera devono essere disponibili per tutti gli uomini.

•     Dove si hanno contemporaneamente situazioni di ricchezza e indigenza, vi è presente anche una situazione di ingiustizia; per cui il ricco, che trattiene la sua ricchezza o tende ad accumularne ancor di più, è ingiusto; è un ladro che detiene ciò che ne piano di Dio non gli appartiene.

•     La malizia del furto e dedotta dalla malizia dell'avidità e dell'avarizia: se è peccato non dare del proprio, è peccato, a maggior ragione, togliere beni agli altri

 

La stessa dottrina sulla proprietà e sui problemi morali ad essa connessi si trova in S.Tommaso (1224-1274). Bisogna ricordare che a quel tempo non era ancora nata  l'idea di proprietà privata e perciò non esisteva neppure il termine di proprietà, sostituito con l'espressione "possessio", che è un puro dato di fatto e non un titolo di proprietà, che invece doveva essere ricercata altrove.

 

S.Tommaso parla di "rem aliquam quasi propria possidere", infatti, il possesso come dominio assoluto è solo di Dio; nessun uomo può arrogarsi tale dominio. Dio solo è veramente padrone di ogni cosa sulla terra, il cui solo uso viene dato agli uomini perché tali beni siano adoperati e fatti fruttificare.

 

In questo quadro S.Tommaso pone la questione se è lecito all'uomo possedere in proprio qualche cosa. La risposta viene data è positiva: è lecito e necessario sostanzialmente per tre ragioni:

 

•     perché l'uomo adoperi e metta frutto i beni con maggior cura;

•     per evitare la confusione che ne nascerebbe da una mancanza di assegnazione, che porterebbe il bene a deperire;

•     perché meglio si mantenga la pace sociale.

 

La base della legittimità del possesso privato sta, dunque, nella finalità sociale del miglior uso. E' peccato, per S.Tommaso, l'acquisire dei beni con l'intento di escludere gli altri dal loro godimento.

 

Quanto all'attività commerciale, S.Tommaso ritiene che una cosa acquisita ad un certo prezzo non può essere rivenduta ad un prezzo superiore; ciò sarebbe un ingiusto arricchirsi sulle altrui necessità. Il commerciante, invece, potrà aumentare il prezzo soltanto per quel tanto che gli è necessario per il suo sostentamento e quello della propria famiglia.

 

Conseguentemente alla scoperta dell'America e dei flussi commerciali instauratisi, i moralisti spagnoli hanno dato origine a trattati di economia con riferimento alla morale. Questi studiosi appartengono ai grandi ordini monastici e alcuni loro confratelli sono consiglieri del re, pertanto essi sono bene informati sullo stato delle cose del loro tempo e, quindi, ben in grado di sviluppare trattati di economia e morale.

 

Un tema da loro affrontato è la questione del "giusto prezzo", cioè qual è il giusto prezzo da pagare per la merce? Questo comportava una comprensione della dinamica del commercio, sia pur limitata per quel tempo.

 

Il commercio, inteso come scambio, era considerato positivamente in quanto distribuzione dei beni, per i quali era previsto un giusto guadagno tale da consentire un dignitoso vivere da parte del commerciante e della sua famiglia. Immorale, invece, era considerato un commercio finalizzato al guadagno e all'arricchimento. Esso era sentito come giustizia commutativa, cioè uno scambio alla pari tra merce e merce, merce e soldi.

 

Ma qui si pone una questione: su quale base si deve valutare il valore del prodotto e, quindi, il giusto prezzo? Prezzo giusto è quello che si forma sul mercato, è, sostanzialmente, un prezzo popolare.

 

Elemento di valutazione erano un insieme di circostanze:

 

•     l'acquisto del prodotto con anticipazione di denaro o con il prodotto ancora sull'albero o nella stalla, il prezzo era inferiore rispetto ad un prodotto già definito e pronto all'uso.

•     La richiesta di mercato può modificare in più o in meno i prezzi. Molta richiesta con scarsa disponibilità di merce, fa lievitare i prezzi, come vale, del resto, per il suo contrario.

•     In caso di monopolio il prezzo viene fissato autonomamente, indipendentemente dall'andamento del mercato. Questo era, come lo è oggi, condannato. Infatti, apposite leggi vietano l'accumulo di capitali e di beni che determinino di fatto situazioni di monopolio (leggi anti-trust).

 

Il giusto prezzo è quello stabilito tra il minimo e il massimo all'interno del mercato.

 

Oggi, tuttavia, il prezzo non può più essere lasciato liberamente al gioco di mercato perché ci sono posizioni troppo forti ed altre, invece, che ne subiscono l'influenza. Proprio in tal senso Paolo VI affermava che il prezzo bisognava sottrarlo al gioco di mercato, per dare più spazio alle economie più deboli.

 

Un notevole cambiamento economico avviene , da un lato, con le grandi scoperte di nuove terre, che si accompagnavano con il progresso scientifico e tecnologico che consentiva la costruzioni di navi capaci di attraversare gli oceani; dall'altro, l'interesse commerciale per le nuove spezie e i metalli preziosi (oro, argento). Si cercano nuove vie di navigazione e di commercio, come la scoperta di quella delle Indie che porterà l'Italia ad una forte decadenza commerciale, poiché l'asse di interesse si era spostata nel nuovo continente.

 

Se da un lato queste nuove scoperte portarono grandi arricchimenti, dall'altro si da avvio all'inflazione, cioè ad un gonfiamento dei prezzi finalizzato ad un maggior guadagno; nascono i nuovi poveri e porterà rapidamente la Spagna al decadimento. Infatti, la Spagna, beneficiaria prima delle scoperte, campava sullo sfruttamento delle grandi ricchezze senza darsi pensiero a produrre beni al proprio interno, per cui, una volta esauriti tali beni, si ritrovò povera e decaduta dalla sua grandezza.

 

Proprio durante questo periodo di grandi scoperte, nasce il Rinascimento, che pone al centro dell'interesse l'uomo in cui si sviluppa una nuova sensibilità e una sconosciuta capacità critica. L'uomo scopre una sua nuova autonomia di pensiero e si vede come la misura di tutte le cose.

 

Conseguente al Rinascimento e alla conquistata autonomia di pensiero che si esprime nella critica, nasce lo spirito della Riforma protestantica, finalizzata ad un rinnovo spirituale di una Chiesa, adagiata nei lussi rinascimentali e impantanata in un degrado morale semplicemente vergogno e che non trova paragoni nella storia.

 

Interessante è il pensiero di Calvino che imposta l'economia sulla religione.

 

Fondamentale per il pensiero di Calvino è la predestinazione. Dio, nella sua assoluta libertà e nei suoi imperscrutabili disegni, ad alcuni dà la salvezza, mentre ad altri la nega. L'uomo, tuttavia, fin d'ora, può intuire a quale categoria egli appartiene in base alla prosperità o meno della propria vita presente. In tal senso Calvino si richiama al pensiero ebraico che vedeva nella ricchezza una benedizione di Dio.

 

Da tale visione ne esce un uomo dalla vita austera e morigerata, dedito all'accumulo e alla ricchezza, intesa come benedizione di Dio e segno, quindi, di una predestinazione di salvezza.

Un altro aspetto che influisce sull'economia è la concezione dell'uomo che è moralmente e interiormente corrotto e questo porta a sfiduciare l'uomo, incapace di produrre pensieri positivi e lo spinge a confidare soltanto in Dio.

 

In questa rivoluzione economica vengono spazzati via i numerosi balzelli medievali e al loro posto vengono introdotte nuove logiche di mercato.

 

Altro aspetto, in questo risveglio morale dell'uomo, è il pensiero di Cartesio che evidenzia il primato della razionalità in cui il mondo è concepito come una realtà mossa da molte cause, la si pensa misurabile nella sua estensione e che si muove in base a leggi precise. Si va verso una concezione sempre più scientifica e sempre meno religiosa del mercato.

 

Per Hobbes è l'egoismo la forza motrice dell'umanità in cui "homo homini lupus"; lo Stato deve porsi di mezzo quale forza che stempera tale aggressività.

 

I Fisiocratici (dal gr. jusis arkh = potere della natura), contrapposti al volontarismo, danno spazio alla sapienza della natura che con i suoi ritmi e le sue leggi tutto governa e tutto conduce al suo giusto fine. La loro regola è quella di "lasciar fare" alla natura; tanto più la si asseconda, tanto più ci si arricchisce. La natura, pertanto, e l'agricoltura, attività umana che avvicina l'uomo alla natura e ne fa vivere i ritmi, acquistano importanza fondamentale.

 

Contraria alla Fisiocrazia è il Volontarismo che sinonimo di manipolazione della natura, di trasformazione, industrializzazione. E' l'uomo che si impone alla natura e la modella e la sfrutta secondo le proprie esigenze. Nulla è lasciato al caso e tutto è organizzato e finalizzato a scopi ben precisi.

 

 

L'industrializzazione

 

 

Così, preceduto da riflessioni filosofiche che aiutano l'uomo a maturare la coscienza del proprio valore e gli infondono una grande fiducia nelle proprie capacità, arriva il XIX sec. che è testimone di grandi trasformazioni tecnologiche, che modificheranno radicalmente secolari modi di vivere e di pensare, lanciando l'uomo in un'avventura tecnico-scientifica che in questi ultimi anni ha assunto sviluppi esponenziali, ma che contiene in sè un grave pericolo: allo sperticato sviluppo scientifico e tecnico non corrisponde un'adeguata crescita spirituale e morale.

 

Gli elementi che caratterizzano questo profondo mutamento all'interno della società sono le scoperte tecnologiche che cambiano il modo di produrre, modificando i ritmi di lavoro e il concetto stesso di lavoro, non più concepito come uno strumento di sostentamento per l'uomo, bensì diventa una forma di asservimento e di alienazione dell'uomo, divenuto strumento funzionale alla produzione. Egli non vale più come persona, ma viene misurato e quantificato in base alla sua efficienza.

 

Nasce la macchina a vapore, che trova grande favore in Inghilterra, ricca di miniere di carbone e di industrie e che favorirà lo sviluppo industriale.

Tale sviluppo porta anche a grandi spostamenti di popolazioni: dai campi alle città, che trovano improvviso sviluppo, a cui non corrisponde, però, un adeguato e ordinato piano di urbanizzazione. La città, pertanto, assume aspetti di massificazione di persone che, strappate dalla loro terra e dalle loro tradizioni, vivono profondi stati di alienazione, di frustrazione, perdita di identità culturale.

Le grandi migrazioni verso l'industria produce, ben presto, una eccedenza di manodopera e, pertanto, i salari sono bassi. Il processo produttivo, radicalmente mutato con l'introduzione della nuova tecnologia, viene razionalizzato al fine di renderlo più efficiente. La produzione viene parcellizzata in singole fasi operative, ognuna delle quali viene affidata ad un gruppo di operai, specializzati in tale fase. Ciò porta ad una ripetitività dell'azione e, quindi, rapido apprendimento della singola operazione, ma anche frustrazione, abbassamento di attenzione e, di conseguenza, grande esposizione al rischio infortunio.

 

Secondo Adam Smith (1723-1790) per incentivare la produzione va valorizzato l'operaio e riconosciuto economicamente per la sua prestazione. Alla base di ciò c'è l'incentivazione e il riconoscimento dell'attività privata, l'affermazione dell'individuo sugli altri. Ci si apre, quindi, ad un egoismo individuale e sociale in cui ciò che conta è l'interesse personale.

 

Alla base, quindi, di tutta l'attività umana e del mercato c'è l'affermazione dell'interesse personale che spingendoti a fare il tuo bene ti porta a fare, di conseguenza, il bene di tutti. Ma si badi bene che questo "altruismo" è in realtà inficiato da un profondo egoismo che, nel porgerti agli altri, ti porta ad imbrogliarli. Infatti, in quel tuo porgerti non cerchi il bene dell'altro, ma soltanto il tuo. L'altro, pertanto, viene strumentalizzato e usato per i tuoi fini.

 

Questa è la base del Liberalismo, che postula l'affermazione dell'individuo e dei suoi interessi in un libero mercato in cui allo Stato viene riconosciuta un'attività di mero controllo e regolamentazione.

 

E' da rilevare, tuttavia, che se tale sistema di mercato favorisce, da un lato, l'affermazione e la valorizzazione dei singoli individui, creando flessibilità di produzione, dall'altro, non tutela affatto la parte debole, che viene sempre più ghettizzata. Il Liberalismo, pertanto, diventa un sistema selettivo, in cui l'uomo viene valutato economicamente e in base alla sua efficienza. Nasce, quindi, l'uomo mercificato la cui prestazione segue le leggi del mercato come per qualsiasi altro prodotto.

 

In questo libero mercato si pone, ancora, la vendibilità del prodotto in funzione della richiesta di mercato e della disponibilità del prodotto stesso sul mercato. Altro elemento che ne determina la vendibilità è la concorrenza, che regola il flusso stesso dl mercato scatenando competitività e forte aggressività.

 

Il mercato, tuttavia, per quanto libero possa essere necessita, comunque, di correttivi da parte dello Stato e della politica attraverso un sistema legislativo, fiscale e contributivo. Tali correttivi, aumentando o diminuendo il prelievo, fanno variare le disponibilità di spesa e di investimento e, quindi, il flusso di capitali e di consumo dei beni.

 

Altro correttivo di mercato è la politica monetaria la quale, per mezzo del tasso di sconto (prime rate), fa variare il costo del denaro, rendendolo più o meno facilmente raggiungibile e, di conseguenza, regolamentando investimenti e consumi. Un costo del denaro a buon mercato porta ad un suo maggior uso e questo spinge all'inflazione. Viceversa, un costo elevato porta ad un uso parsimonioso e oculato del denaro con conseguente diminuzione dei consumi e raffreddamento della produzione disincentivazione degli investimenti con, talvolta, drammatiche conseguenze sull'occupazione.

 

 

  

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

Gli interventi della Chiesa nel campo delle realtà sociali si sono sviluppati ininterrottamente dai primi secoli del cristianesimo fino ai nostri giorni. Infatti, l'impatto del Vangelo con le diverse culture e i diversi modelli di società ha spinto le comunità cristiane a misurarsi con i problemi della convivenza umana e a prendere posizione nei confronti di ideologie o pretese di potere che in qualche modo toccavano la dignità dell'uomo e le sue esigenze.

 

Tuttavia, gli interventi della Chiesa, per quasi diciannove secoli, furono frammentari ed estemporanei, sostanzialmente delle toppe a questioni che sorgevano di volta in volta.

 

Sarà solo in epoca moderna, grazie all'avvento della società industriale, che avrà inizio una formulazione del magistero sociale più oculata, attenta e sistematica, dando origine così alla dottrina sociale della Chiesa. In altri termini la Chiesa non si accontenta più di dare qualche suggerimento o qualche indicazione in risposta a situazioni contingenti, ma elabora un suo pensiero sociale e produce un vero e proprio corpus di principi dottrinali e di orientamenti operativi.

 

Questo nuovo corso della Chiesa ha inizio con l'enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), una sorta di magna charta del pensiero sociale della Chiesa e punto di riferimento costante in materia di lavoro ed economia; numerose le encicliche che si agganciano a questa o ne fanno riferimento. Questo nuovo corso, poi, si sviluppa lungo i secoli fino alla Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II.

 

I documenti più significativi che hanno segnato la storia del pensiero sociale della Chiesa in quest'ultimo secolo sono, senza volerli citare tutti:

 

•     Rerum novarum (1891) di Leone XIII

•     Quadragesimo anno (1931) di Pio XI

•     Radiomessaggio di Pio XII per 50 della Rerum novarum (1941)

•     Mater et Magistra (1961) di Giovanni XXIII

•     Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII

•     Gaudium et Spes (1965) Vaticano II

•     Populorum progressio (1967) di Paolo VI

•     Octagesima adveniens (1971) di Paolo VI

•     Sollecitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo II

•     Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II

                                        

Questa dottrina sociale della Chiesa si qualifica come un insegnamento occasionale del Magistero che viene, di volta in volta, aggiornato a seconda delle situazioni che si sviluppano nel corso della storia. Esso consiste in una lettura, alla luce della Parola di Dio e del pensiero cristiano, della storia e dei suoi avvenimenti, con cui la Chiesa si imbatte lungo il cammino del tempo.

 

L'insegnamento, in genere, si sviluppa sulla ripresa di documenti precedenti, in occasione di loro anniversari, e viene aggiornato attraverso una rilettura della storia e degli avvenimenti del presente.

 

E' il caso della Rerum Novarum, edita per la prima volta da Leone XIII nel 1891. Essa venne ripresa da Pio XI nel 1931 con il documento Quadragesimo anno in occasione dei 40 anni; viene ricordata nel Radiomessaggio di Pio XII nel 1941 in occasione del cinquantesimo; viene richiamata da Giovanni XXIII nel 1961 in occasione dei 70 anni con il documento Mater et Magistra; successivamente ricordata da Paolo VI nel 1971 con l'enciclica Octagesima adveniens, a 80 anni della Rerum Novarum; ed infine ripresa ancora nel 1991 da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, in occasione dei cento anni del documento leonino.

 

 

La svolta storica del pensiero sociale

 

 

A partire dalla Rerum novarum di Leone XIII (1891) e fino a Giovanni XXIII il pensiero sociale della Chiesa si sviluppava in modo deduttivo, cioè partendo da principi filosofici o elaborati dalla tradizione cristiana attraverso i quali si dava una lettura dei fatti, riconducendoli a tali principi.

 

Con Giovanni XXIII e la sua Mater et Magistra (1961) c'è un radicale cambiamento di lettura della storia: non più dai principi alla storia, bensì da questa alla elaborazione dei principi. Non è un semplice cambio di prospettiva, ma uno spostamento di valori e, soprattutto, di interessi. Ciò sta ad indicare un nuovo orientamento della Chiesa che prelude ad una sua apertura alla storia e all'uomo, uscendo dalle barricate innalzate prima contro la Riforma e poi contro l'Illuminismo. Tale apertura sarà sancita, poi, dal Vaticano II (v. LG e GS).

 

E' un approccio alla realtà, quello operato da Giovanni XXIII, simile al metodo della JOC (Jeunesse Ouvrière Chretienne): "Vede, Giudicare, Agire".

 

Il metodo deduttivo, ormai, si era rivelato inadeguato a rispondere ad una realtà in continua e rapida evoluzione. Infatti con il metodo deduttivo si parte da una riflessione su principi consolidati precedentemente. Questo presuppone una realtà in lenta evoluzione, così che non è importante capire il perché di ciò che accade o dove si sta andando, ma il dare delle risposte in cui adattare i nuovi fatti. Ma se la realtà è in rapida evoluzione bisogna, allora, passare ad una diversa prospettiva: il metodo induttivo. Ciò presuppone una intelligenza della storia, una lettura e una comprensione degli avvenimenti che vi accadono, cercando di intuirne l'orientamento, al fine di delineare delle nuove linee di scorrimento, indicare nuove strade da percorrere.

 

Quindi, con tale metodo si parte da un'analisi del presente per risalire ai principi evangelici e tradizionali. Ciò significa che è la storia che interpella il Vangelo e la Tradizione della Chiesa, costringendo ad una continua ricomprensione di questi, sondandone le profondità e facendone emergere le continue ed inesauribili ricchezze.

 

E' un metodo, inoltre, che potremmo definire ecumenico, universale perché è aperto a tutti, anche ai non cristiani, proprio perché parte da dati oggettivi, che fanno parte dell'esperienza di tutti e in cui tutti si ritrovano. Da qui, quindi, si può partire per un dialogo comune.

 

Dall'analisi dei fatti si possono rinvenire all'interno della società e delle sue istituzioni delle "Strutture di peccato", cioè situazioni distorte che, ormai, si sono consolidate per cui ne escono frutti distorti. Da ciò discende la necessità di interventi su tali strutture. Ecco, quindi, l'importanza di una politica che nasca da una coscienza sensibile ai valori umani ed evangelici, che consentono una lettura corretta dei fatti e inquadrano l'uomo nella sua giusta dimensione.

 

 

Alcuni  documenti

 

 

La Rerum novarum fu pubblicata da Leone XIII il 15.5.1891. E' la prima vera magna charta del pensiero sociale della Chiesa. E' stato un riferimento obbligato in materia di lavoro e di economia fino ad oggi; un documento continuamente citato e ripreso dai vari interventi del Magistero ecclesiastico nel campo sociale.

 

Al centro sta la drammatica situazione operaia creatasi nei primi decenni della rivoluzione industriale. L'enciclica denuncia l'inefficace e ingiusta soluzione socialista sulla proprietà privata. Analizza i fondamenti della soluzione cristiana alla questione sociale e indica qual è il ruolo specifico dello Stato in merito. Propone la dignità della persona umana quale criterio base per orientare l'azione politica e legislativa. Illustra e incoraggia la funzione del sindacato e dell'associazionismo operaio cristiano.

 

La Populorum progressio, edita da Paolo VI il  26.3.1967, immediatamente dopo il Vaticano II. Essa fu originata, da un lato, dalla presenza nel Vaticano II dei Vescovi delle nazioni terzomondiali ed emergenti, che chiedevano attenzione ai problemi di cui queste giovani nazioni erano afflitte; dall'altro dai viaggi apostolici che Paolo VI ha compiuto in America Latina, India, Africa, Australia che hanno sviluppato nel pontefice una particolare sensibilità verso questi popoli poveri e sfruttati dall'Occidente.

 

E' un'enciclica rivolta non solo ai "soliti" Vescovi, Sacerdoti e Religiosi, ma anche ai fedeli di tutto il mondo cattolico e a tutti gli uomini di buona volontà dando, in tal modo, un ampio respiro universale, veramente cattolico. E' un'enciclica rivolta al mondo, esplicando in tal modo, un'autorità morale che forse la Chiesa mai ha avuto nella sua storia.

 

"Lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace". Attorno a questo fortunato slogan di Paolo VI si sviluppa l'intera enciclica su una duplice analisi: la prima sullo sviluppo integrale dell'uomo storico e le cause sociali che lo ostacolano; la seconda sullo sviluppo solidale dell'umanità e le condizioni per garantirlo. Alla base di tutto sta un pensiero: "Il mondo è malato. Il suo male risiede più che nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli".

 

La struttura si sviluppa in una introduzione, due parti e un appello finale:

 

•     Nell'introduzione rileva come la questione sociale ha acquisito una dimensione mondiale, di cui ogni coscienza deve tenere conto.

 

•     Nella prima parte si espongono i dati del problema: squilibrio crescente nelle condizioni generali di vita tra i popoli sviluppati e quelli in via di sviluppo. Spiega, poi, la concezione cristiana di sviluppo. Esso non si riduce alla semplice crescita economica, ma, per essere autentico, deve coinvolgere integralmente l'uomo in ogni suo aspetto e ogni uomo. E' quello che l'enciclica definisce "umanesimo plenario". Per arrivarvi si devono tener presenti alcuni principi che sono anche vere e proprie linee d'azione: a) destinazione dei beni a vantaggio di tutti; b) una proprietà privata che non deve violare i diritti degli indigenti e dal cui godimento non devono essere esclusi gli altri; quindi un suo uso a vantaggio di chi si trova nel bisogno e, se ne corre il caso, fino all'espropriazione; c) riforme audaci senza giungere alla rivoluzione, programmi e pianificazione, culturalizzazione dei popoli,ecc.

 

•     Nella seconda parte si parla della destinazione dei beni, che ha dimensioni universali. La Terra è data a tutti e non soltanto ai ricchi. Nessuno può trattenere il superfluo per sè fin tanto che c'è chi si trova nell'indigenza. Il possesso dei beni trova il suo limite nella povertà e nei bisogni degli altri. Lo sviluppo solidale con l'intera umanità risuona in tutta questa seconda parte. Uno sviluppo che deve essere integrale, cioè deve investire ogni uomo nella sua interezza anche morale, spirituale e culturale. Questo suggerisce una politica di scambio e non solo di esportazione verso i paesi più poveri. Il mercato, pertanto, deve essere più  equilibrato poiché, oggi, esso è determinato dai paesi tecnologicamente e culturalmente più avanzati, così che i poveri rimangono sempre più ghettizzati nella loro povertà. E' necessario, perciò, che i paesi poveri siano dotati di strutture adeguate (tecnologia e cultura) per poter sfruttare le proprie risorse. Occorre permeare di equità le relazioni commerciali internazionali, solo così le parti possono trovare adeguate soddisfazioni di scambio che permetta loro di vivere dignitosamente e camminare aperti alla speranza e fuori dall'umiliante e degradante solco della disperazione. Il consenso delle parti deve muoversi in un libero scambio, che si realizza soltanto quando tra i due parteners c'è una sostanziale parità di forze. Per arrivare a ciò bisogna anche rimuovere gli ostacoli dei nazionalismi  e del razzismo che chiudono l'uomo in se stesso o lo ghettizzano nella disperazione. Alla base di tutto ci sta la carità, quale completamento della giustizia.

 

La P.P. vede, poi, nello sviluppo l'elemento base per la pace, definito come l'altro nome della pace.

 

Ai tempi dei due "Blocchi" la pace si basava sull'equilibrio delle armi e del terrore e si scaricavano le tensioni sulle nazioni deboli del Terzo mondo, spostando, pertanto, il confronto armato tra le due superpotenze sui Paesi in via di sviluppo, che divenivano il ricettacolo degli armamenti obsoleti o di nuova sperimentazione. Essi, quindi, diventavano cavie e vittime.

 

L'enciclica sollecita, inoltre, affinché i beni dei Paesi più ricchi vengano trasferiti a quelli più poveri per riequilibrare le sorti, così che tutti possano avere le stesse opportunità.

 

Tale sollecito, tuttavia, è stato superato dalla scoperta e dalla presa di coscienza che il mondo è un sistema chiuso e che le risorse disponibili (acqua, petrolio, legname, minerali, ecc.), pertanto, non sono illimitate; queste, pertanto, vanno misurate. Unitamente a tale scoperta, si è incominciato a prendere coscienza dell'impatto ambientale che il consumismo sfrenato ha sull'ambiente, al punto tale da pregiudicarlo (inquinamento, buco nell'ozono, ecc.).

 

Non è più sufficiente trasferire, pertanto, dei beni ai Paesi poveri, ma bisogna rivedere il proprio tenore e stile di vita che sono diventati incompatibili con il nostro habitat naturale.

 

E' la mentalità che deve, quindi, cambiare. Si deve passare da una mentalità consumistica, che si pone sempre al di là delle esigenze primarie dell'uomo, ad una mentalità di vita più sobria e austera. La nuova mentalità ci deve portare a capire ciò che è essenziale per la nostra vita, sgonfiando tutti quei bisogni artificialmente prodotti da mere esigenze di produzione. Una logica che porta all'inflazione della vita, al disorientamento esistenziale e a tragiche conseguenze.

 

Paolo VI, infine, ha sottolineato che lo sviluppo del superfluo è il bene sottratto ai poveri.

 

Una grande enciclica dall'ampio respiro universale, le cui tematiche saranno riprese, vent'anni dopo, dallaSollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II.

 

La Sollicitudo rei socialis, pubblicata da Giovanni Paolo II il 30.12.1987 a vent'anni dalla Popullorum progressio, è dedicata alla tematica colà trattata e fa un bilancio generale del ventennio trascorso, sottolineandone la permanente attualità.

 

Evidenzia il crescente divario tra il Nord e il Sud del mondo, ne analizza le cause, propone il valore della solidarietà come prioritario. Spiega i motivi per cui la Chiesa è critica sia nei confronti del capitalismo liberista come del marxismo collettivista, ma non è nemmeno per una ipotetica "terza via" di mezzo. Infine, torna sulle piaghe del mondo d'oggi, in particolare sul consumismo negatore della dignità spirituale dell'uomo come persona.

 

L'enciclica è strutturata in cinque parti:

 

•     Novità dell'enciclica Populorum progressio

•     Panorama del mondo contemporaneo

•     L'autentico sviluppo umano

•     Una lettura teologica dei problemi moderni

•     Alcuni orientamenti particolari

 

Sottolinea Giovanni Paolo II che le novità portate dall'enciclica di Paolo VI furono sostanzialmente tre:

 

•     L'allargamento della questione sociale a questione dello sviluppo tra i popoli.

•     L'impegno dello stesso pontefice con la sua enciclica.

•     La stretta connessione tra lo sviluppo dei popoli e la pace: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace".

 

Che dire dopo vent'anni dalla Populorum progressio? Molte sono le cose da evidenziare, tra queste:

 

•     Il fossato tra i popoli sviluppati e quelli in via di sviluppo si è allargato, anziché ridursi.

•   Non si è verificato quello sviluppo continuo e illimitato, quasi automatico, predicato sotto l'influsso di certe correnti illuministiche; anzi sono emersi nuovi elementi di disturbo e di preoccupazione. Si è venuti a conoscenza che le risorse naturali non sono illimitate, per cui usarle senza moderazione mette seriamente in pericolo la loro disponibilità, soprattutto per le generazioni future. E' emerso ancora che non si può impunemente far uso di qualsiasi animale senza alterare l'ordine e l'equilibrio ecologico su cui si regge l'intero cosmo. E' emerso che una sfrenata industrializzazione porta ad alterare la stessa qualità di vita; infatti, il risultato dell'industrializzazione e, sempre più frequente, la contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute delle popolazioni.

•     E' esploso il consumismo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, si troviamo di fronte ad una sorta di supersviluppo, ugualmente inammissibile, perché alla pari del primo è contrario al bene e alla felicità autentica. Infatti, tale supersviluppo, limitato a poche fasce sociali a danno di molte altre, rende gli uomini schiavi del possesso e del godimento immediato, senza altra finalità che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, spingendo l'uomo ad una frenetica rincorsa delle cose. Tutto ciò porta allo svuotamento spirituale, alla banalizzazione della vita e al disorientamento esistenziale. In tale orizzonte, lo sviluppo, cos' iniquo e squilibrato, diventa ad essere non più il nuovo nome della pace, bensì quello della guerra, che oggi assume l'aspetto del terrorismo internazionale.

 

A vent'anni dalla Populorum progressio bisogna, dunque, rivedere radicalmente il concetto di sviluppo. E' questo il tema che l'enciclica SRS affronta nel suo IV capitolo: l'autentico sviluppo umano.  Se da un lato la dimensione economica è giusta e doverosa, dall'altro, lo sviluppo non può prendere in considerazione soltanto tale dimensione né si esaurisce in essa soltanto. Bisogna che gli aspetti economici tengano conto anche di quelli spirituali, non esclusa la dimensione soprannaturale. Il problema, sottolinea la SRS, non sta nell'avere, ma nel possedere in modo smodato e irrispettoso della qualità e dell'ordine delle cose.

 

Nella quinta parte, il papa tratta degli ostacoli che si oppongono allo sviluppo come la sete di guadagno e di potere, l'individualismo e l'egoismo. "Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo, afferma la SRS, consiste proprio in questo: sono relativamente pochi quelli che possiedono molto e molti quelli che non possiedono quasi nulla. E' l'ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi originariamente destinati a tutti."   

 

Ostacoli questi che generano quelle che l'enciclica definisce come "strutture di peccato", cioè istituzioni ormai sedimentate che generano frutti distorti e inquinati dall’egoismo e dall'ingiustizia.

 

In questo orizzonte, prevalentemente teologico, la Chiesa offre al mondo il suo contributo per la soluzione dei problemi dello sviluppo dei popoli, contributo che non è tecnico o politico, ma per questo non meno importante: esso scaturisce dalla sua missione evangelizzatrice ed è costituito dalla sua dottrina sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 PARTE SECONDA

 

 

 

 

MORALE SOCIALE

 

Sintesi e riflessioni sul libro "Morale Sociale"

di Giobbe Gazzoni - Ed. piemme

 

 

 

 

 

 

LA MORALE SOCIALE FONDAMENTALE

 

 

 

 

 

La situazione attuale nella Chiesa

 

 

 

Premessa

 

 

"Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: <<Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,14-15).

 

Così Marco apre l'attività pubblica di Gesù: un annuncio, che si impone come indicativo di salvezza, a cui perentorio segue l'imperativo di salvezza. In altri termini, a fronte dell'annuncio e dell'operare di Gesù l'uomo è chiamato a prendere posizione, riorientando la propria vita verso Dio e decidendosi esistenzialmente per lui. Questa è l'unica risposta adeguata all'annuncio di salvezza proclamato da Gesù.

 

La salvezza portata da Cristo coinvolge l'uomo nella sua totalità e lo interpella ad ogni livello. Essa si qualifica come un'offerta gratuita di perdono e una proposta di riconciliazione che richiedono un'adeguata e corretta risposta da parte dell'uomo che, partendo dall'interiorità dell'uomo, lo investa anche esistenzialmente.

In altri termini, Dio con l'inaugurazione del suo regno offre la possibilità all'uomo di accedere alla dimensione divina, da cui era stato allontanato a seguito della colpa originale, ma serve la sua fattiva e libera collaborazione perché tale possibilità di ritorno a Dio si traduca in un ritorno.

 

La Chiesa, quale popolo di Dio convocato attorno alla Parola e al Pane, ha ereditato e accolto questo appello e ne è diventata testimone sacramentale in mezzo ai popoli, portatrice di un nuovo messaggio, di un nuovo modo di relazionarsi con Dio e, conseguentemente, con gli uomini.

 

 

Il fatto sociale oggi: ambivalenza e sfida

 

 

Le relazioni sociali nel mondo contemporaneo sono favorite, ma nel contempo condizionate, dalla facilità e celerità dei mezzi di trasporto (aerei, treni, automobili) e di comunicazione sociale (Televisione, radio, internet). Questi incidono enormemente sul comportamento delle persone e dei gruppi sociali e ne condizionano le scelte e il tenore di vita. Inoltre, l'enorme massa di informazioni e di stimolazioni, che si accavallano e ci vengono rovesciate addosso quotidianamente, provocano reazioni emotive ed affettive più o meno conscie, e spesso, proprio per la loro quantità e rapidità nel susseguirsi, tolgono all'uomo la capacità di metabolizzarle, spingendolo verso stati di ansia, inquietudine, tensioni interiori che, poi, vengono riversate sull'ambiente circostante, che funge da grande contenitore che, a sua volta, elabora i singoli comportamenti restituendoli sotto forma di tendenze, mode, opinioni che, a loro volta, condizionano e formano nuovi comportamenti.

 

Accanto ai numerosi esempi di collaborazione e solidarietà abbiamo anche drammi di tensioni familiari, sociali e internazionali, divisioni, guerre e violenze di ogni genere. Questo contrastante scorrere della vita fa parte ormai di noi e del nostro mondo malato, diviso e in permanente conflitto.

 

Superbia, orgoglio, egoismi e prevaricazioni, spesso camuffati da rivendicazioni sociali e lotte di classi, creano un clima e un ambiente avvelenati, pervertendoli e allontanando gli uomini dal bene, spingendoli verso il male.

 

In tal senso la GS al n.10 sottolinea come "In verità, gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con uno squilibrio più fondamentale, radicato nel cuore dell'uomo. E' nell'uomo stesso che molti elementi si contrastano a vicenda ...Per cui soffre in se stesso di una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società".

 

Una descrizione dell'etica cristiana

 

 

Per etica sociale cristiana si intende quell'orientamento che i cristiani devono dare alla loro vita nell'ambiente in cui sono chiamati a vivere e ad operare, mossi dalla fede in Gesù Cristo, che opera per mezzo della carità e della giustizia di molti uomini sensibili ai suoi valori e ai suoi richiami, che provengono dalle situazioni storiche e sociali, nonché da una specifica visione dell'uomo, dei suoi valori, delle sue responsabilità e dei suoi diritti propria del cristianesimo.

 

In questo orizzonte, l'uomo cristiano si deve porre nel suo ambiente sociale e storico-culturale portando il proprio contributo specifico, proveniente dalla visione di fede e dal suo rapporto con il Cristo che opera in lui e per mezzo di lui proprio in virtù del battesimo, in cui l'uomo, rivestito di Cristo come di un abito nuovo, è stato cristificato così che non è più lui che vive, ma è Cristo che vive e opera in lui (Gal 2,20).

 

La Chiesa, quale erede e depositaria di questa visione cristiana della storia e della società, offre al mondo una nuova visione delle cose e prospettive nuove da cui guardarle e valutarle. Essa si fa promotrice di un umanesimo che favorisca interamente l'uomo ad ogni livello, prospettandogli soluzioni che lo trascendono e lo spingono oltre ai ristretti spazi degli egoismi personali, di parte, sociali e internazionali, prospettandogli la sua vocazione e il cammino di evoluzione e affermazione verso cui egli, assieme a tutti gli altri, è chiamato a percorrere.

 

L'uomo, dunque, assieme agli altri e per gli altri in una spirale ascendente il cui motore principale è l'amore, che si esplicita nelle sue componenti sociali della carità e della giustizia, che è espressione sociale e minima della carità.

 

 

Fondazione cristologica-trinitaria dell'etica sociale

 

 

L'originalità e la peculiarità dell'etica cristiana, sia essa individuale che sociale, è Cristo stesso che si pone nell'ambito della storia, che con l'uomo ha condiviso totalmente e pienamente, offrendo il suo messaggio di pace, fraternità che nascono primariamente dalla riconciliazione dell'uomo con Dio.

 

Egli è dono e norma concreta e universale di vita poiché il suo messaggio interpella l'uomo in quei valori che sono propri della sua comune umanità. Egli si pone come legge nuova e parametro di confronto, divenendo, così, imperativo per l'uomo: "Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi" (Gv ). Egli si pone nell'ambito della storia come l'alfa e l'omega, cioè l'inizio da cui  tutto si origina e la fine verso cui tutto, consapevolmente o meno, tende in una realizzazione piena: "Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto  di tutto ciò che esiste" (Gv 1,3) e tutto va verso di lui, poiché c'è un preciso disegno: "... ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10). Egli, poi, è stato costituito Signore della storia "... con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti ..." (Rm 1,4), di quella storia che egli ha condiviso pienamente e totalmente con quella degli uomini fino all'ultimo.

 

Associati per mezzo del battesimo al Cristo morto e risorto (Rm 6,4-5) siamo stati con lui trasferiti nella famiglia di Dio così da essere diventati concittadini dei santi e famigliari di Dio (Eb  ).

 

In Cristo si è pienamente rivelato il Padre ("Filippo chi vede me vede il Padre"; "Io e il Padre siamo una cosa sola"; "Le cose che io dico non le dico da me e le cose che io compio è il Padre che le compie in me". Tutto ciò indica una profonda intimità e unione di Cristo con il Padre) e per mezzo suo ci è stato donato lo Spirito santificatore. In Lui, dunque, ci è stato rivelato il mistero della Trinità, questa comunità di amore che, pur nella diversità e pluralità, forma un'unica realtà fondata sull'amore in cui ognuno è finalizzato all'altro e si comprende nell'altro in una reciproca compenetrazione, che è relazione di dono.

 

Essa diviene, pertanto, matrice e fondamento di ogni comunità.

 

In tale prospettiva, quindi, Gesù Cristo e la Trinità, in Lui e per mezzo suo rivelata, costituiscono i parametri di raffronto di ogni cristiano e su cui sviluppare ogni riflessione e da cui far dipartire ogni azione.

 

 

I segni dei tempi: una teologia della storia

 

 

L'azione della Chiesa nell'ambito sociale è duplice: Dare senso alla persona e da lì partire per edificare la società umana.

Tale obiettivo viene raggiunto attraverso un'azione circolare: dall'uomo, colto nel suo esistere concreto, al Cristo, presente in lui come suo ultimo senso e fine; e dal Cristo, così incontrato, alla realtà umana, arricchita, a tal punto, di nuovi sensi e orientamenti, carichi di valori umani, di giustizia, solidarietà indicatici dalla Parola di Dio.

 

Il mondo che il Vaticano II ha presente è una realtà concreta entro cui si muove l'intera umanità con tutto il suo carico di gioie, dolori, fatiche e speranze. Un mondo segnato dal peccato e dalla sofferenza, ma riscattato dal Cristo morto e risorto e destinato a rientrare nei destini di Dio (Rm 8,18-30).

 

Nell'ambito di questa visione teologica del mondo viene riservato uno spazio privilegiato e importante ai "segni dei tempi". Un tema antico questo che troviamo presente già nei vangeli (Mt 16,4 e Lc 12,54-56) che ne ha coniato l'espressione e riguardanti la fede e la vigilanza e che è diventato, ora, comune al Magistero della Chiesa.

 

Ma che cosa sono questi segni dei tempi? Essi sono primariamente dei fatti che vanno individuati nell'ambito della storia e si presentano sotto forma di avvenimenti, persone, tendenze, orientamenti,  aspirazioni, idee, ideologie e quant'altro si muove nella storia e in essa si pone.

 

Condotti dallo Spirito di Dio, la Chiesa e tutti i cristiani sono chiamati a scoprirli non solo nell'ambito della grande storia, ma anche in quella propria individuale. Essi, infatti, sono il linguaggio di Dio per mezzo del quale egli parla agli uomini e si fa cogliere da loro, così che la storia diventa il sacramento di incontro tra Dio e gli uomini, il luogo privilegiato in cui Dio interpella continuamente l'uomo, sensibile e attento alla sua Parola e cercatore di Dio, e in esso l'uomo è chiamato a dare la sua risposta.

 

Solo da una corretta percezione e lettura degli stessi nell'ambito della storia l'uomo, mosso dallo Spirito e illuminato dalla Parola, saprà dare la giusta risposta. A tal fine tutti gli uomini sono chiamati a collaborare e a partecipare, ognuno secondo le proprie capacità e competenze, alla scoperta e comprensione di questi segni che indicano quale cammino deve percorre l'umanità, e in essa ogni uomo, per la sua piena realizzazione.

 

Solo così la storia diventa storia sacra, storia dell'incontro dell'uomo con Dio, storia della redenzione dell'uomo.

 

 

 

Teologia morale sociale:

statuto epistemologico

 

 

 

 

 

Chiesa: soggetto vivente della morale sociale

 

 

La Chiesa, come comunità di cristiani sparsi in tutto il mondo, come popolo di Dio nella storia, convive con le comunità umane della storia, in mezzo a tutti i popoli della terra e, lungo il comune cammino, ne condivide la sorte e le vicende in profonda e intima comunione e solidarietà.

 

Questo è il sentire della Chiesa che proprio nella GS al n. 1 recita: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano, che non trovi eco nel loro cuore".

 

In questa comune e solidalmente condivisa esperienza di pellegrinaggio con il resto dell'umanità, la Chiesa, sotto l'ascolto e la guida dello Spirito, ha da proporre e donare a tutti gli uomini di ogni tempo il messaggio di salvezza di Cristo, sacramento di incontro tra Dio e gli uomini, storicamente presente nel sacramento della Chiesa.

 

In tale orizzonte la storia diventa ad essere portatrice di un mistero di salvezza entro il quale si dona all'uomo, di ogni tempo e condizione sociale, la possibilità di una nuova lettura e una nuova comprensione di senso della storia stessa e della propria vita.

 

In una storia letta alla luce di Cristo e in un orizzonte trinitario, la Chiesa proclama, difende e promuove la centralità dell'uomo, rigenerato e riscattato dalla risurrezione di Cristo e proteso verso tempi nuovi, anticipati nel Cristo risorto, già presenti anche se non ancora pienamente compiuti. Ma proprio nell'ambito di questa tensione escatologica la Chiesa e ogni battezzato è chiamato a proclamarli e testimoniarli.

 

L'uomo, dunque, è la via principale su cui è chiamata a correre la Chiesa e su cui è imperniata la scommessa del riscatto e della redenzione, prefigurata in Cristo, che in ogni uomo è sacramentalmente presente ("Qualunque cosa avete fatto ad uno di questi, l'avete fatta a me").

 

L'uomo, dunque, come valore perché redento da Cristo, perché Cristo in qualche modo è unito all'uomo e se ne è fatto personalmente carico, perché su quell'uomo egli ha versato il suo sangue e, incarnandosi, ha unito per sempre i suoi destini a quelli di quest'uomo.

 

Il valore dell'uomo è diventato impegno nella Chiesa da sempre; le numerose opere di assistenza e carità dislocate lungo il corso dei secoli lo stanno ad indicare. In esse si può leggere, da un lato, il valore dell'uomo in una umanità riconciliata in Cristo; dall'altro, l'incarnazione  dell'amore di Dio sotto forma di carità. Per mezzo di tali opere, dunque, la Chiesa ha continuato l'opera di Cristo e di Dio in mezzo all'umanità, testimoniandone la continua presenza.

 

Tale impegno sociale della Chiesa nasce dalla fede, che le fa cogliere le realtà trascendentali presenti nell'uomo e nella storia; una fede che si traduce in una carità operosa, quale sacramento dell'amore di Dio per l'uomo; il tutto inserito verso una costante speranza che la mantiene aperta e tesa alle realtà future, già presenti in lei in virtù della risurrezione di Cristo e che è chiamata a testimoniare.

 

Fede, speranza e carità costituiscono, pertanto, la dinamica della vita cristiana attraverso cui la Chiesa dà testimonianza delle nuove realtà in cui l'uomo è chiamato a vivere e di cui ci viene data testimonianza dallo stesso Paolo nel primissimo scritto cristiano (50-51): "Memori davanti a Dio, Padre nostro, del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza" (1Ts 1,3).

 

Tale impegno la Chiesa lo esprime al proprio interno a tre livelli: ai Laici viene affidata l'attuazione della dottrina sociale della Chiesa nella storia in cui, secondo le proprie competenze e capacità di ciascuno, sono chiamati a vivere. Ai Vescovi viene affidata la reggenza e la guida della Chiesa per mezzo della testimonianza, della Parola e dei sacramenti aiutando l'intera Chiesa ad approfondire il proprio impegno e la propria testimonianza nella storia delle realtà future già presenti. Ai Religiosi, in particolare, è affidata la testimonianza delle realtà escatologiche, ricordando alla Chiesa e all'umanità la meta del loro cammino.

 

 

Morale sociale come scienza operativa di senso

 

 

Con il Concilio Vaticano II la morale sociale ha acquisito la sua giusta configurazione teologica nell'ambito della storia della salvezza. Essa è diventata la risposta, scientificamente strutturata, all'indicativo di salvezza proposto dal Cristo morto-risorto. Essa si pone, dunque, quale servizio alla comunità cristiana e al mondo, indicando concretamente le vie da percorrere per rispondere adeguatamente alle nuove realtà poste nella storia dalla risurrezione di Cristo e dal suo messaggio. E', quindi, una scienza pratica che si alimenta nel suo continuo contatto con il mistero di Cristo e diventa risposta concreta, esistenziale all'Alleanza di Dio con l'uomo in Cristo, diventa obbligo di portare frutto nella carità per la vita del mondo.

 

Una scienza che si alimenta primariamente delle Scritture in cui affonda le sue radici; non disdegna le Scienze umane, soprattutto quelle antropologiche, da cui trae una migliore conoscenza dell'uomo; infine, non tralascia il Magistero ecclesiastico, quale momento di riflessione che approfondisce e prospetta autorevolmente nuove vie.

 

 

Alla luce delle Scritture

 

 

La morale sociale, quale scienza teologica, ha quale parametro di raffronto costante la Parola di Dio, di cui si alimenta e, con l'aiuto delle altre scienze teologiche e antropologiche, interpreta secondo i segni dei tempi che la interpellano.

 

Essa si pone all'interno della comunità cristiana e dell'umanità intera interpretandone le esigenze ed illuminandole con la propria riflessione, quale adeguata interpretazione e approfondimento della Parola di Dio che deve accompagnare l'uomo in ogni sua espressione. La Teologia morale sociale si costituisce, quindi, come un'attività e un servizio profetici all'interno della Chiesa e dell'umanità, e rende sempre presente e attuata concretamente nelle varie situazioni la Parola di Dio.

 

Le Scritture, pertanto, sono norma teologica preminente.

 

Ed è proprio nell'ambito del N.T.  che il Vaticano II ha indicato quale archetipo di ogni società cristiana e umana i sommari degli Atti degli Apostoli (At 2,41-47 e 4,31-37) che sintetizzano in modo ideale, ma significativo, la vita delle prime comunità cristiane indicando, in tale idealizzazione, gli elementi costitutivi reali che configuravano le primitive comunità ecclesiali.

 

 

Alla luce delle scienze umane

 

 

Le scienze umane sono espressione di studi sistematici dell'esperienza e del vissuto umani. Di conseguenza, la teologia morale sociale, avendo a che fare con la realtà umana, deve tenere in grande considerazione tali scienze, in particolar modo quelle antropologiche che danno una profonda conoscenza dell'uomo e delle sue dinamiche. Una stretta collaborazione con tali scienze non solo è doverosa, ma anche necessaria per una corretta interpretazione e incarnazione della Parola di Dio nell'ambito storico-culturale proprio dell'uomo.

Pur mantenendosi, pertanto, fedele alle Scritture, che deve interpretare e incarnare, la Teologia morale sociale deve ricomprendere in se stessa anche queste scienze che le forniscono i parametri per una corretta incarnazione della Parola di Dio. In altri termini, ponendosi quale scienza divina in mezzo agli uomini, li deve conoscere bene per indicare loro in modo efficace la strada pi opportuna per mantenersi correttamente orientati verso Dio.

 

 

Alla luce del Magistero

 

 

Benché le tematiche sociali siano state sempre presenti nella Chiesa lungo il corso dei secoli, tuttavia è con la "Rerum Novarum" di Leone XIII (15 maggio 1891) che inizia una nuova fase della dottrina sociale della Chiesa. Nuova fase perché nuove e mai conosciute prima di allora furono le problematiche sociali poste dal nuovo mondo che stava sorgendo sull'industrializzazione della società e la capitalizzazione dei beni.

 

Tale fu l'impatto sociale di tale enciclica che Giovanni Paolo II la ricordò il 1 maggio 1991 con la sua "Centesimus Annus", che si presenta come lo sviluppo e l'attualizzazione della "Rerum Novarum" con cui è nata la dottrina sociale della Chiesa, cioè l'insegnamento o magistero sociale della Chiesa.

 

Tale Magistero altro non è che uno sviluppo organico e sistematico del pensiero contenuto nel Vangelo e una lettura della società alla luce dei suoi valori, così da farne un "Vangelo sociale". In questo modo la Chiesa cammina con tutti gli uomini e, in particolare, con i lavoratori, i poveri e gli oppressi di tutto il mondo. In un mondo, in particolar modo quello della "Rerum Novarum", segnato dal grande peccato sociale, che violava la libertà personale, negata anche da un punto di vista economico e contro la giustizia sociale del mondo operaio.

 

In tale prospettiva, la dottrina sociale della Chiesa fa parte integrante e costitutiva della missione evangelizzatrice della Chiesa e di quella pastorale che l'accompagna. Nel Vangelo, infatti, tutti i valori umani non solo vi sono compresi, ma anche esaltati così che le realtà sociali possono trovare in esso il loro spazio di verità e la loro giusta impostazione morale. In questa prospettiva il Vangelo diventa un parametro di raffronto che stimola riflessioni che arricchiscono l'uomo e lo spingono a ritornare nell'alveo della giustizia e della correttezza dei rapporti. Alla Chiesa e alla sua missione, dunque, appartiene la denuncia dei mali sociali e delle ingiustizie del mondo. In tal senso essa funge da vera coscienza dell'umanità.

 

Essa, pertanto, svolge all'interno dell'intera società umana una primaria funzione profetica: è propositiva di una sapienza divina, ispirata da Dio e al suo disegno di amore e fratellanza universale; è critica in quanto denuncia il male, l'ingiustizia e le violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo; ed è, infine, anticipatrice di una giustizia e solidarietà escatologiche, gia presenti nel Cristo risorto, quali inizio e segno di una nuova creazione.

 

 

 

Aspetti del personalismo sociale cristiano

 

 

 

 

Centralità della persona

 

 

L'uomo è la sola creatura al mondo che Dio abbia voluto per se stessa; di conseguenza, ogni persona, anche la più sprovveduta e la più gravemente handiccapata, ha dignità primaria e inviolabile. Per questo la persona all'interno della società e delle istituzioni è sempre stata oggetto di particolari attenzioni da parte della Chiesa.

 

Infatti, al di là dei valori propri ed intrisici della persona, va tenuto presente che essa è stata creata ad immagine e somiglianza di Dio e per lei Gesù è morto e risorto; essa porta in sè una indelebile impronta di Dio e un destino che la proietta nell'eternità.

 

 

Comunione e dialogo della persona

 

 

La persona è per sua natura un essere sociale e in continua dipendenza dai suoi simili e con essi in collaborazione. L'uomo, infatti, è frutto di relazioni sociali e ambientali, che si strutturano primariamente nella famiglia.

Nella sua dinamica esistenziale egli si pone con e per gli altri nel raggiungimento e condivisione di beni e obiettivi comuni. Ed è proprio questo suo essere "con e per" che lo fa "noi" determinando così i vari soggetti sociali quali la famiglia, la comunità, gruppi, società, nazioni, ecc.

 

Sfortunatamente l'uomo è segnato dal peccato, per cui all'interno di questi rapporti interpersonali, spesso si creano tensioni per i tentativi di prevaricazione degli uni sugli altri che nascono all'interno degli egoismi individuali o di gruppo. Infatti, molto spesso strutture economiche, politiche, culturali e ideologiche sono dominate dalla superbia, dagli orgogli di parte, ddagli egoismi sociali che pervertono l'ambiente sociale e, al proprio interno, le relazioni tra persone.

 

Contrariamente la società deve tenere sempre presente il bene primario delle persone che la compongono, conseguibile attraverso il dialogo comune e la reciproca mediazione.

 

 

Concetto di bene comune

 

 

Il bene comune è il tema fondamentale e centrale dell'insegnamento della Chiesa. Esso si dice comune perché è costituito dal bene personale di tutti e di ciascuno. Esso, in senso generale, si può far corrispondere alla salvaguardia dignità umana, dei suoi diritti in senso lato. Promuoverlo è dovere e impegno di tutti.

 

Oggi, grazie ai mezzi di comunicazione  e informazione, il bene comune ha oltrepassato i ristretti confini nazionali per diventare di tipo planetario. Nessuna tensione sociale o nazionale è più un affare privato e individuale, ma coinvolge sempre più l'intera comunità internazionale e mondiale.

 

Tutto ciò richiede una maggiore attenzione e impegno versi popoli più deboli, in particolar modo quelli in via di sviluppo.

 

Va sempre tenuto presente, comunque, che alla base del bene comune ci sta sempre la persona come individuo che reclama per sé attenzione, rispetto dei suoi diritti fondamentali, della sua libertà di coscienza e di scelta, libertà di muoversi nella sicurezza. Al fine di salvaguardare tali diritti, basilari su cui si fonda e da cui nasce il bene sociale, è necessario una corretta organizzazione sociale finalizzata alla salvaguardia e alla promozione di questi diritti fondamentali di ogni persona, comuni ad ogni persona e suoi propri. Già di per sé una tale organizzazione sociale costituisce una forma di bene comune.

 

Affinché il "bene comune" non rimanesse un'astrazione, il Vaticano II ha fornito anche un elenco essenziale di ciò che si intende per bene comune: il vitto, il vestito, l'abitazione, il diritto a formarsi liberamente una famiglia, all'educazione, al lavoro, al rispetto proprio e della propria coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà di espressione ideologica, politica e religiosa.

 

I valori fondamentali su cui si fonda l'ordinamento sociale, finalizzato al bene comune, sono la verità, la giustizia, l'amore e la libertà. Il tutto è finalizzato alla promozione della persona in quanto tale che reclama per se stessa un diritto all'uguaglianza con tutti gli altri esseri umani.

 

 

 

Responsabilità, partecipazione e collaborazione

nella vita sociale

 

 

 

Se la società organizzata per la salvaguardia dei diritti fondamentali di tutti è il luogo in cui ognuno può trovare soddisfazione individuale dei propri personali diritti e gli strumenti per sviluppare la propria individualità, va da sé che ai diritti corrispondono pari doveri. E' segno, pertanto, di maturità personale e sociale osservare gli obblighi, le leggi e le prescrizioni che la società civile impone a tutti per la salvaguardia dei diritti e degli interessi comuni a tutti, e ciò al fine di limitare e/o respingere gli egoismi individuali.

 

 

 

Il principio costitutivo della solidarietà

 

 

Premessa

 

 

La solidarietà è un principio fondamentale del cristianesimo. Infatti, Cristo si è fatto solidale con l'intera umanità condividendone la condizione e la sorte, rinunciando alle sue prerogative divine: "Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spoglio se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini" (Fil 2,6-7). Egli, dunque, condivise la nostra sorte per farci partecipi della sua. E' il Dio che si è fatto come noi per farci come Lui.

 

Egli ha assunto in sé la natura umana, legando a sé come sua famiglia tutto il genere umano e ha dato come carattere distintivo dei suoi discepoli proprio l'amore: "Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri" (Gv 13,35).

 

Ma egli ci ha lasciato come modello di rapporto tra di noi, sociale quindi, il modello trinitario, sorgente e fondamento di ogni comunità. Un modello sociale che deve riflettere in sé quello trinitario: unità nella pluralità basata sull'amore vicendevole.

 

Per sua natura, dunque, il cristianesimo è, e non può essere diversamente, fondato sulla solidarietà quale espressione e sacramento della solidarietà di Dio con gli uomini e testimonianza concreta del suo Amore per il genere umano.

 

Tale solidarietà, pertanto, si manifesta nella Chiesa come condivisione della sorte stessa degli uomini che spinge, mossa dalla fondamentale solidarietà divina con gli uomini, alla solidarietà tra di loro; solidarietà che è un aspetto della carità, carità che altro non è se non l'amore di Dio reso visibile agli uomini, suo sacramento.

 

La solidarietà, pertanto, è il leit-motiv conduttore del vivere sociale; e la sua assenza è promotrice di peccati sociali. Essa spinge tutti ad impegnarsi per il bene di tutti, perché tutti siano responsabili di tutti. E' significativo, in tal senso, la domanda che Dio pone a Caino: "Dov'è tuo fratello?". Con tale domanda Dio ha reso responsabile Caino di suo fratello e, in Caino, tutti gli uomini. Nessuno può lavarsi le mani del proprio fratello, ma, come insegna la parabola, deve rendersi prossimo per l'altro. Questo è l'unico modo per vincere i peccati sociali.

 

E' necessario, quindi, sollecitare la coscienza religiosa dei popoli perché gli egoismi individuali e sociali si traducano in solidarietà, che si radica nella carità e ne è espressione; una carità che ha quale base minima quella della giustizia.

 

 

Liberazione evangelica e opzione per i poveri

 

 

Carità che si esprime nella solidarietà, carità e solidarietà che presuppongono la loro espressione minima nella giustizia. La giustizia che porta ad accentrare la nostra attenzione prevalentemente su quella parte di umanità che è debole ed è costituita da poveri, diseredati, privi di cultura e privati di libertà, di possibilità e capacità di scelta. E' su questo tipo di umanità che si accentra l'attenzione e le sollecitazioni della Chiesa alla comunità mondiale.

 

E' questa un'umanità che vive livelli di vita molto bassi, schiava e prigioniera della propria povertà. Su questa umanità e a suo favore che la Chiesa predica un messaggio di liberazione totale che ha portato Gesù stesso e che ha il suo primato nella liberazione interiore del cuore dell'uomo; liberazione dagli egoismi, dalle prevaricazioni per recuperarlo ad un uso equo dei beni, basato sulla solidarietà e condivisione.

 

Bisogna produrre, inoltre, una liberazione dalle strutture di peccato, lesive della dignità e dei diritti fondamentali dell'uomo, e che, ben lungi dal promuovere l'uomo, al contrario, lo sfruttano e lo gettano a sfruttamento ultimato. Il degrado spirituale, morale materiale di una parte dell'umanità costituisce un atto di accusa nei confronti del resto dell'umanità. Essa si costituisce voce di Dio che ci interpella: "Dov'è tuo fratello?" rendendoci responsabili in prima persona dell'altro e del suo destino. Nessuno può rispondere impunemente quanto ha risposto Caino a Dio: "Sono forse io il custode di mio fratello?", perché lo è!

 

Una liberazione, dunque, economica, politica,sociale, culturale e religiosa che esclude ogni violenza soprattutto se proviene dall'uso delle armi, ma che, invece, si matura attraverso il dialogo tra le parti e la fondazione di un nuovo ordine giuridico nazionale e internazionale fondato sulla solidarietà in cui, tra i bilanci e i vari impegni degli Stati, siano obbligatoriamente previsti aiuti, e non solo in termini cose e di soldi, ma anche di strutture, di educazione, formazione che porti i diseredati a livelli accettabili di vita anche da un punto di vista morale e spirituale, elementi questi indispensabili per poter, poi, gestire se stessi e le cose.

 

Questi impegni concreti verso chi è indigente, nell'ambito della visione cristiana delle cose, si inserisce nel piano di liberazione e di salvezza globali che si sono generati dalla risurrezione di Cristo, ne sono una sua sacramentalizzazione. Dalla risurrezione di Cristo in poi nasce per l'intera umanità lo stimolo e l'impegno a vedere le cose in un'ottica nuova: quella di Dio, ma che è l'unica capace a produrre pace e riconciliazione tra gli uomini.

 

 

In dialogo con l'etica della responsabilità e dell'alterità

 

 

Nella GS ai n. 4-10 il Vaticano II ha parlato del sorgere di una nuova epoca della storia in cui l'umanità si qualifica per la propria autonomia e responsabilità di se stessa e verso l'altro. Siamo, dunque, testimoni di un nuovo umanesimo, in cui l'uomo si definisce per la sua responsabilità verso l'altro e verso la storia.

 

Il filosofo italiano Mancini affermava che nell'antichità classica, greco-romana, vi era la comprensione e la contemplazione dell'essere; nell'epoca moderna c'è stata l'agognata affermazione dell'Io, quale misura di tutte le cose e su cui era impressa la preminenza dell'Io; nell'età futura, però, se l'umanità intende progredire ed evolversi, il termine comprensivo di tutto dovrà essere l'altro e il suo volto. Solo allora, quando l'uomo avrà fatto oggetto primario della propria occupazione l'altro, si creerà attorno a lui una cultura di vita e di pace; solo allora incomincerà ad albeggiare l'era del Vangelo.

 

 

Il peccato sociale e le strutture di peccato

 

 

La Sacra Scrittura, fin dai suoi inizi, mostra un mondo decisamente corrotto dal peccato e che nasce e si sviluppa dalla colpa originale.

 

All'origine di tutto sta l'atto di ribellione dell'uomo contro Dio; un uomo che, scopertosi simile a Dio, tenta una sorta di colpo di stato: vuole mettersi al posto di Dio, ma si ritrova nudo e cacciato dalla dimensione divina.

 

Da questo momento in poi il male dilaga per l'intera umanità con una rapidità impressionante, fino al punto in cui  "Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male" (Gen 6,5).

 

Il peccato, pur essendo di natura strettamente personale e prodotto dalle singole persone, tuttavia ha una influenza nefasta sull'intera comunità umana ed è in grado di inquinare non solo la società, ma anche l'ambiente in cui viene generato.

 

Vige, infatti, un principio di profonda e intima solidarietà tra il singolo uomo peccatore e il resto degli uomini e tra questi e l'ambiente in cui vivono: "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. ... La terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra" (Gen 6,12-13).

 

La dimensione sociale del peccato si mostra e si rileva sia nell'influsso negativo che ha sulla società, sia nella spinta e nell'incitamento che, in  qualche modo, la società negativa esercita sulle singole persone. Tale dimensione sociale si manifesta nei costumi corrotti, nelle mode perverse, in leggi e strutture non conformi a giustizia e alla solidarietà.

 

Si danno vari livelli di peccato sociale:

 

•     Innanzitutto il peccato personale che, a motivo della solidarietà che vige tra agli uomini e con l'ambiente, si ripercuote fatalmente e negativamente su tutti.

•     Ci sono colpe, poi, che per la loro natura intaccano direttamente altri uomini, offendono la giustizia, lo scambio dei beni, ledono i diritti della persona e il bene comune.

•     Infine ci sono peccati che si commettono nelle relazioni tra le diverse comunità umane che attentano alla giustizia, alla libertà e alla pace dei singoli.

 

Qualsiasi peccato sociale è frutto di accumulazione e concentrazioni di singoli peccati individuali che creano tendenza e un clima di negatività, cos'ì che al fondo di ogni peccato sociale si trovano sempre persone peccatrici.

 

Pensiamo alla cultura di morte che si sta propagando sempre più nel mondo e, in particolare, tra i Paesi occidentali del cosiddetto benessere: legalizzazione di aborti, di divorzi, liberalizzazione delle droghe leggere, eutanasia, omicidi che vengono commessi impunemente o a fronte dei quali non c'è un'adeguata pena e che si tende a scusare o ad attenuare le responsabilità personali, leggi che non tutelano a sufficienza gli onesti cittadini, ma che, invece, favoriscono i delinquenti, libertà sessuali che, in nome di una liberazione dai tabù e dalle frustrazioni del passato, degradano ed offendono l'uomo, ecc. E il tutto compiuto per il bene dell'uomo, in nome di una maggiore libertà e giustizia, per migliorare la qualità della vita.

 

Questi sono solo alcuni esempi che ci stanno ad indicare a quale livello di degrado morale è giunta la nostra società e che sta oscurando anche un corretto modo di pensare.

 

Sull'onda di tale negatività si creano all'interno della società delle strutture di peccato che creano sofferenze più o meno appariscenti, ingiustizie, forme di degrado esistenziale che traggono la loro origine principalmente da quello morale e, questo, da un totale decadimento spirituale. Tutto ciò, nel tempo, genera una logica e una mentalità di peccato che devastano l'opinione pubblica, creano tendenze negative, tolgono il gusto del bene e la capacità di distinguere il bene dal male. Si compie il male credendolo bene o giustificandolo come tale. Si crea, infine, cultura di peccato.

 

 

  

 

 

LA PROMOZIONE DELLA PACE

 

NELLA GIUSTIZIA

 

 

 

 

 

Una storia dell'umanità sotto il segno della pace di Dio

 

 

 

 

La guerra e la speranza del suo superamento

 

 

La storia dell'umanità è disseminata da continue guerre. E' stato calcolato, infatti che dal 1496 a.C. al 1864 d.C., ossia in 3357 anni di storia, solo 227 furono di pace e ben 3130 di guerra.

 

Ma non fu da meno il XX sec. che vide ben due guerre mondiali e circa 70 milioni di morti solo nella II guerra mondiale, nonché il nascere di armi di distruzioni di massa che non hanno paragoni in tutta la storia dell'umanità.

 

E benché l'occidente da circa un sessantennio conosca la pace, tuttavia, qua e là sparse, continuano numerose guerre locali e atti di terrorismo.

 

Ma anche in assenze di guerre, tuttavia, la litigiosità umana non scherza; basti pensare agli innumerevoli conflitti sociali, alle innumerevoli cause civili, agli odii, rancori e risentimenti che covano nel cuore di milioni e milioni di persone di persone, anche per bene e alla loro incapacità di perdonare.

 

Ma non c'è pace per l'uomo?

 

Eppure qualcosa si sta muovendo nel mondo. Una nuova coscienza si sta formando all'interno dell'umanità.

 

Dal 1989 si sono susseguiti eventi significativi che puntano tutti verso un'unica direzione: l'integrazione, la solidarietà, l'unità: la caduta del Muro di Berlino, la caduta dell'Unione Sovietica e della Cortina di Ferro; i continui trattati sul disarmo; le Nazioni dell'Europa hanno intrapreso un cammino irreversibile di unificazione tra di loro, di cui la moneta unica è un passo notevolmente importante unitamente allo sforzo di formare un'unica piattaforma politica, mettendo da parte gli egoismi e gli orgogli nazionali; inoltre, gli enormi movimenti di masse di disperati che dai loro mondi di disperazione approdano "clandestinamente" verso le spiagge dell'Occidente, che ne è interamente invaso. Per la prima volta nella sua storia l'Occidente deve affrontare il problema di queste continue immigrazioni di massa che sembrano inarrestabili e che stanno colorando la nostra civiltà occidentale trasformandola in società multietnica.

 

Queste enormi masse di persone interpellano continuamente l'Occidente e lo mettono a dura prova; l'Occidente è costretto ad uscire dal suo guscio di benessere per condividerlo con i più sfortunati. Lentamente, gradualmente, quasi impercettibilmente la nostra società occidentale si sta trasformando verso un qualcosa di nuovo che è difficilmente indovinabile oggi, ma certamente l'umanità sta andando verso la globalizzazione, cioè l'unificazione di tutti i popoli sotto un unico tetto e la cui convivenza è condizionata da regole non ancora scritte, ma tacitamente sottintese perché tale convivenza, che si fa sempre più stretta, non si trasformi nella fine dell'umanità: uguaglianza, giustizia, fraternità, pace, solidarietà e condivisione.

 

E' forse questo l'inizio di un nuovo mondo? Personalmente ritengo di si, anche se il cammino che ci sta davanti è solo agli inizi e irto di difficoltà è ciò che ci sta davanti: il vecchio mondo, con tutte le sue logiche di egoismi e di contrapposizioni è destinato a morire o a ridurre notevolmente le proprie pretese e ciò non sarà senza difficoltà.

Tutto ciò costituisce un grandioso segno dei tempi che va letto attentamente, scrupolosamente interpretato e soprattutto non va sottovalutato perché questo potrebbe creare notevoli difficoltà di sopravvivenza all'intera umanità.

 

In tale prospettiva, il malessere presente non va interpretato come una malattia, né come una forma di decadenza dell'umanità, bensì come una crisi di crescenza.

 

Lentamente e gradualmente, nel crogiuolo della storia e del rimescolarsi dei fatti e degli avvenimenti, l'umanità è chiamata verso l'unità e dovrà scoprire che la regola fondamentale per il tranquillo convivere è la solidarietà e la condivisione, che sono due aspetti della giustizia che, sola, è in grado di produrre e garantire la pace.

La stessa guerra che gli Stati Uniti hanno dichiarato al Terrorismo internazionale, dopo l' 11 settembre 2001,  porterà a scoprire che senza giustizia, solidarietà e condivisione il Terrorismo non potrà essere completamente e definitivamente sconfitto.

 

Dio sta forse realizzando il suo progetto di unificazione dell'umanità sotto l'unico Padre? Si sta forse realizzando la preghiera di Gesù: "... perché essi siano uno ..." (Gv  17,20)? La storia ce lo dirà. A noi, ora, compete soltanto leggere i segni dei tempi che ci stanno di fronte e, alla luce della Parola, interpretarli e nel senso da loro indicato muoverci e scommettere le nostre vite.

 

 

Natura della vera pace sociale

 

 

Inviando il suo Messia, il Cristo, il Padre ha innescato all'interno della storia e dell'intera umanità un processo di pace e di riconciliazione che sgorga primariamente dalla risurrezione di Gesù. La pace è frutto della stessa risurrezione; infatti, non a caso, Gesù apparendo ai discepoli radunati nel cenacolo li saluta dicendo: "Pace a voi! come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi" (Gv 20,21).

 

Questa pace è il frutto della riconciliazione tra Dio e gli uomini ed è l'espressione dei tempi messianici, che sono stati anticipati nel Cristo risorto e che sono stati inseriti in noi per mezzo del battesimo e attraverso il dono dello Spirito che di tali tempi è segno e anticipazione. Non a caso, infatti, Gesù, dopo aver così salutato i discepoli, "... alitò su di loro e disse <<Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Gv 20, 22-23). E' uno Spirito di riconciliazione degli uomini con Dio. Una riconciliazione e una pace che sono state affidate ai suoi discepoli: "come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi".

 

Una pace, dunque, che ha avuto il suo inizio nel Cristo risorto, ma che per essere diffusa tra gli uomini e nel corso della loro storia ha bisogno di essere sacramentalizzata nello impegno e nella testimonianza. In tal senso la Chiesa è l'erede naturale di tale missione affidatale dal Risorto.

 

La pace è il frutto di un ordine sociale umano tra i popoli, radicato in una legge di natura e di grazia inserite nella coscienza umana. Essa si costituisce, così, dono di Dio, ma insieme compito umano e di tutti i popoli, frutto delle loro libere scelte, sempre tutte da costruire perché mai raggiunte pienamente e definitivamente. Questa pace è una realtà dinamica, il cui equilibrio va costruito e mantenuto di continuo e che suppone una chiamata dell'uomo alla pace, che egli scopre in sè il disegno di pace e l'impegno morale di attuarla nella storia.

 

Essa, pertanto, non è assenza di guerre o di ingiustizie, ma presenza di libertà e di giustizia, di solidarietà e di condivisione che si radicano nella carità, sacramento dell'amore di Dio in mezzo agli uomini, sacramento della vita trinitaria in cui la pluralità e la diversità convivono nell'Uno. In tale prospettiva la pace è frutto dell'amore, il quale va oltre a quanto può assicurare la giustizia.

 

In questo orizzonte, la pace nella storia è un complesso processo di anticipazione di quella pace universale che il futuro Regno di Dio porterà a compimento.

I cristiani, uomini investiti dallo Spirito e inseriti nel Cristo risorto, vivono fin d'ora e già qui la pace escatologica e, secondo le proprie possibilità, la trasfondono in questo mondo.

 

 

 

La giustizia di Dio e la sua storia tra gli uomini

 

 

 

 

Premessa

 

 

Nella sua enciclica "Sollecitudo rei socialis" Giovanni Paolo II afferma che il traguardo della pace sarà certamente raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale.

 

Oggi, in verità, assistiamo ad un grande paradosso circa la giustizia sociale. Mentre facciamo l'esperienza di forze impegnate per la giustizia sociale e per la pace nel mondo, motivate da una consapevolezza nuova della dignità e dei diritti fondamentali dell'uomo e di ogni popolo, nello stesso tempo forze avverse di divisioni e antagonismi sembrano oggi moltiplicarsi tra paesi del nord e del sud a motivo della disparità della produzione, della distribuzione delle risorse e dei beni dello sviluppo.

 

La causa di tutto ciò è la carenza di valori etici e il prevalere di interessi economici sulle necessità di chi si trova più debole.

 

La giustizia di Dio nell'Israele dell'A.T.

 

Accanto al termine Shalom ,che indica la pienezza dei doni di Dio e la pienezza di vita, nell'A.T. si pone anche l'espressione Sedaqa, giustizia di Dio, che nell'Alleanza con il popolo si rivela come misericordia, giustizia, fedeltà. Dio, pertanto, sembra avere un disegno sociale che vuole realizzare su Israele e, tramite lui, sull'intera umanità.

 

Durante l'ultimo quarantennio del Regno del nord (765-722) Israele vive un'epoca d'oro e di benessere: fiorisce l'economia, il commercio, l'industria della porpora e delle stoffe, l'edilizia adorna le case, le piazze e abbellisce sempre più i già suntuosi palazzi. Ma proprio nell'ambito di questo benessere cova una profonda ingiustizia che rode l'intera società di Israele e la rende iniqua: il ricco è sempre più ricco, il povero sempre più povero; è venuta meno la solidarietà che legava ogni membro dell'Alleanza.

 

Due grandi profeti, tra loro contemporanei, Amos e Isaia, denunciano la gravità della situazione: "Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche semi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione, io non le guardo. ... Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne" (Am 5, 21-24). Isaia si pone sulla stessa linea di Amos in 1,11-17.

 

Un popolo così iniquo che calpesta gli orfani, le vedove e gli stranieri si pone al di fuori dell'Alleanza, è un popolo che non appartiene più a Dio, perdendo la sua identità che Dio gli aveva assegnato ai piedi del Sinai: "Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per la proprietà ... Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19, 5-6). Così non solo la vita cultuale e religiosa, ma anche quella sociale e politica è oggetto dell'ira di Dio.

 

Le ingiustizie prodotte dal popolo al proprio interno sono tradimenti all'Alleanza e pongono Israele fuori dalla dimensione di Dio e Israele perde la propria peculiarità di segno, di sacramento vivente di Dio in mezzo agli uomini, anzi esso diventa un ostacolo per quei popoli che vogliono avvicinarsi a Dio; per questo Dio punirà il popolo con la distruzione definitiva dell'intero Regno del Nord, prima (722), e poi di quello del Sud (587) con la deportazione.

 

La giustizia di Gesù nel  N.T.

 

 

Tutta la missione di Gesù è attraversata dalle esigenze della giustizia sociale con una particolare attenzione alla condizione dei poveri, dei sofferenti, dei più deboli socialmente. E così, in  pari modo, anche per tutto il N.T.

 

Nella sinagoga di Nazaret, agli inizi della sua missione, Gesù applica a sé il rotolo di Isaia in cui si parla di "annunciare ai poveri", "proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista; rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18-19).

Lo stesso vale per le Beatitudini in cui sono dichiarati "beati", cioè felici, i poveri, gli affamati, i sofferenti, i perseguitati.  (Lc 6, 20-21)

E ancora, Gesù ai discepoli di Giovanni che lo interrogano se sia lui il messia risponde: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella" (Lc 7,22).

Infine, tutta l'attività taumaturgica, nonché l'annuncio del Regno, è rivolto ai poveri e ai diseredati, poiché, liberi dalle cose e vessati dalla sofferenza, sono i più ricettivi nei confronti dell'annuncio di Gesù.

 

Da questo breve excursus si può ben vedere come tutta la missione di Gesù è rivolta alle vittime di una società ingiusta e iniqua e su tale categoria di persone egli ha basato il suo annuncio di salvezza rivolto a tutti gli uomini.

 

Anche negli Atti Luca ci presenta una comunità che si fa povera per condividere i propri beni con tutti, perché "aveva un cuore solo e un'anima sola" (At 4,32), una comunità che "era assidua nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera". Lascia intendere Luca che da qui traevano la forza spirituale e una nuova coscienza sociale, non più basata sulla sopraffazione, sugli egoismi, ma sull'unione fraterna che sgorgava dall'ascolto della Parola e dall'eucaristia. Tutto ciò produceva nuovi rapporti sociali e nuovi modi di intendere i beni materiali.

 

E, ancora, in Paolo ci viene presentata la colletta, richiestagli dai responsabili della comunità di Gerusalemme, colpita da una carestia che aveva messo in ginocchio tutta la Palestina (Gal 2,10), e che egli intende come un "servizio a favore dei santi" (2Cor 8,4), un test che "mette alla prova la sincerità del vostro amore con la premura verso gli altri" (2Cor, 8,8). Egli indica come esempio il "Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (2Cor 8,9). Una colletta che assume una dimensione squisitamente sociale ed ecclesiologica: "Qui non si tratta di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza" (2Cor 8,13). Paolo, infine, la concepisce come un atto di comunione di tutte le chiese con la chiesa madre di Gerusalemme.

 

Come ben possiamo vedere siamo nella logica del servizio, del dono, della giustizia superiore, che va al di là di una semplice ridistribuzione dei beni, e che si muove verso i bisognosi, i poveri, gli ultimi e gli oppressi.

 

L'annuncio e la missione di Gesù si muovono nella logica dell'incarnazione e della risurrezione, cioè della condivisione della sorte e condizione umane e del loro riscatto.

 

Tale annuncio e missione hanno assunto nella storia una dimensione sociale visibile nella Chiesa, che si esprime nei suoi carismi e ministeri e nelle sue istituzioni.

 

Comunque, risulta chiaro, sia nel Nuovo che nell'Antico Testamento, che la giustizia nei confornti del socialmente debole ha la preminenza su tutto, anche sulla pace, perché quest'ultima dipende proprio dalla giustizia e ne è generata. L'opera di pace della Chiesa e di ogni cristiano deve, pertanto, ispirarsi primariamente alla giustizia.

 

Tale giustizia assume tre aspetti:

 

•     Giustizia distributiva, che trova il suo motto nel "unicuique suum": a ciascuno secondo le sue capacità e i suoi bisogni.

•     Giustizia in senso personalistico, che poggia sul vicendevole riconoscimento e accoglienza della dignità umana e dei reciproci diritti e doveri fondamentali. Sono gli elementi che stanno alla base di ogni comunità e consente un vivere civile.

•     Giustizia concreta, applicata: è il prendere le parti dei più deboli, il condividerne le sorti.

 

 

 

I diritti dell'uomo

 

Il rispetto e l'uguaglianza dei diritti e dei doveri fondamentali dell'uomo stanno alla base della pace e ne definiscono il contenuto. Una comunità che è fondata sul reciproco riconoscimento e rispetto dei diritti e doveri di ognuno, costituisce l'ordine sociale voluto da Dio e avrà come conseguenze giustizia e pace, che sono le premesse che aprono, poi, all'amore fraterno, alla solidarietà e condivisione.

 

ONU, Amnisty International e altre strutture umanitarie sono la concretizzazione storica dei diritti fondamentali dell'uomo, sono voce di coloro che non hanno voce, attorno alle quali sono chiamate a dare il loro contributo tutte le nazioni.

 

Alla base dei diritti dell'uomo ci sta la dignità umana e il valore della persona umana, indipendentemente dalle sue qualità psico-fisiche, morali e spirituali, in quanto membro della famiglia umana, in cui i piccoli, i poveri e i deboli devono essere garantiti e tutelati dall'intera comunità internazionale.

 

Questa sensibilità verso chi è stato meno fortunato, oggi, si sta diffondendo rapidamente e si sta consolidando all'interno dell'umanità, costituendo un segno dei tempi e che fa ben sperare in una nuova coscienza dell'umanità e una nuova sensibilità sociale verso il bene comune ricercato nella promozione di tutti i diritti dell'uomo, in quanto tale. E' dovere di tutte le nazioni promuovere ciò e compito anche di ogni essere umano per quanto è in suo potere.

 

 

 

 

Un'etica sociale nuova per la costruzione

di una comunità nella pace con la giustizia

 

 

 

 

Legittimità della guerra

 

Pare certo che nei primi tre secoli della Chiesa vi fosse al proprio interno un netto rifiuto della guerra e, in parte, del servizio militare che veniva accettato, ma con l'esclusione del culto all'imperatore.

 

Con S.Agostino (354-410) si inaugura il concetto distintivo di guerra giusta e ingiusta, accompagnato dalle rispettive condizioni.

 

Da S.Tommaso d'Aquino (1224-1274) si passa da un concetto di guerra, come triste necessità o inevitabilità, a quello di guerra santa contro gli infedeli o di religione e meritoria. Concetto questo che si sviluppò particolarmente durante il periodo della crociate (1066-1270).

 

Teologi e giuristi del XVI-XVII sec., accettando il principio della sovranità nazionale di uno Stato, cercano di definire le condizioni che rendono giusta una guerra come "ultima ratio", in ordine alla soluzione delle controversie tra Stati.

 

 

Queste le condizioni di liceità:

 

•     che la guerra sia dichiarata dalla legittima autorità dello Stato.

•     che la guerra venga dichiara per una giusta causa: in genere la legittima difesa da un'ingiusta aggressione o per difendere i propri beni, secondo il principio "Licet vim vi repellere" o "Vim vi repellere omnia iura permittunt".

•     Che venga condotta in modo legittimo secondo il principio del diritto naturale e internazionale e che vi sia proporzione tra i danni subiti e quelli inferti.

 

Una svolta storica sull'argomento si è avuta con la Gaudium et Spes (77-82). In essa ci si rifiuta di parla di "guerra giusta" e si condanna la "guerra totale" in quanto indiscriminata: "Ogni atto di guerra che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, da condannare con fermezza e senza esitazioni" (GS 80).

 

Continua la GS affermando che "il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l'orrore e l'atrocità della guerra ... Tutte queste cose ci obbligano a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova" (GS 80) e devono spingere "i governanti e i supremi comandanti militare a voler considerare continuamente, davanti a Dio e all'umanità intera, l'enorme peso della loro responsabilità" (GS 80).

 

La GS, tuttavia, prende atto che "la guerra non è estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una pacifica difesa" (GS 79).


Da ciò si evince che, pertanto, l'unico uso lecito della guerra è quello della legittima difesa propria o di altri incapaci di difendersi.

 

E a proposito di giusta e legittima difesa, quando tra il bene da conseguire e il danno causato per raggiungere il bene da difendere vi è una grave sproporzione o non ve n'è affatto, è meglio subire l'ingiustizia che difendersi in tale modo.

 

Fermare la corsa agli armamenti

 

Fino al 1989, caduta del muro di Berlino e del blocco sovietico, si pensava che se una pace fosse possibile, questa doveva basarsi sull'equilibrio delle armi, poiché nessuno avrebbe innescato un'aggressione sapendo, poi, di essere completamente e immediatamente distrutto dall'altra parte. La pace fin qui mantenuta in Europa fu attribuita proprio a questa politica del terrore e della ritorsione immediata, per cui, in tale caso, non ci sarebbero stati né vincitori né vinti, né ci sarebbe più stata, inoltre, una possibilità di recupero per nessuno dei contendenti.

 

In buona sostanza ci si è mossi secondo l'assioma latino del "Si vis pacem, para bellum". Se questa logica, benché perversa, sembra aver finora funzionato, tuttavia, essa è gravida di pericoli, poiché un errore o una dissennata sete di vendetta o di rappresaglia sono pur sempre possibili. Più volte nel XX sec. si è corso tale pericolo.

 

Il Vaticano II rifiuta nettamente tale strategia del riarmo: "Si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti non è la via sicura per conservare saldamente la pace, né l'equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause della guerra anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi  gradatamente. .... Nuove strade converrà cercare, partendo dalla riforma degli spiriti" (GS 81).

 

Tre i punti evidenziati da questo significativo passo conciliare:

 

•     La strategia del terrore è solo apparentemente efficace, poiché racchiude in sé pericoli incombenti e incontrollabili.

•     La pace va ricercata eliminando le cause della guerra.

•     Si richiede una sincera conversione del cuore che deve portare a valutare nuove vie di pace, basate su criteri diversi da quelli del terrore e della rappresaglia. Anche questa è, comunque, una forma di guerra.

 

La pace deve nascere dalla mutua fiducia e dalla collaborazione delle nazioni. Il crollo del blocco sovietico e la fine della guerra fredda ha aperto l'umanità a nuove prospettive di pace basate proprio sulla collaborazione e sul dialogo. Ora l'Unione europea, cosa impensabile fino a dieci/quindici anni fa, sta valutando di aprire le porte anche ai Paesi dell'Est europeo. Si è capito, infatti, che non è possibile creare una vera unità europea e una pace duratura ed efficace lasciando fuori dalla porta l'Est europeo.

 

Il commercio delle armi, mercato di morte

 

Quello delle armi è un mercato che ben lungi dall'estinguersi, mette, invece, d'accordo e in concorrenza tra loro le nazioni. Flussi continui di armi piovono dal Nord verso il Sud del mondo.

 

Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo rei socialis (30.9.1987) al paragrafo 24 afferma non senza una punta di ironia: "Ci troviamo ... di fronte ad uno strano fenomeno: mentre gli aiuti economici e i piani di sviluppo si imbattono nell'ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di barriere tariffarie e di mercato, le armi, di qualsiasi provenienza circolano con quasi assoluta libertà nelle varie parti del mondo. E nessuno ignora ... che in certi casi i capitali dati in prestito dal mondo dello sviluppo, sono serviti ad acquistare armamenti dal mondo non sviluppato".

 

Molte volte Raoul Follerau aveva inutilmente invocato un finanziamento pari ad un bombardiere per debellare interamente la lebbra. Ma nulla mai si è mosso in tal senso. La questione, evidentemente, non era economica, ma di mentalità e di cuore. E' lo spirito giusto che manca e che, quindi, va convertito (GS 82).

 

La vocazione di ogni uomo

 

Dopo la caduta del muro di Berlino e del blocco sovietico è cessata, da un lato, la corsa agli armamenti, quale conseguenza della fine della guerra fredda; dall'altro, sono cadute le barriere che dividevano il mondo in due blocchi e si è aperto un nuovo dialogo economico e sociale a tutto campo. Sta concretamente sorgendo in questi tempi, anche se non senza difficoltà, la voglia di collaborare e condividere nuove esperienze tra nazioni. Significativo, in tal senso, l'intervento di questi giorni, anche se tardivo, dell'intera diplomazia mondiale per trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese.

Inoltre, dopo il tragico 11 settembre 2001, la distruzione delle due Torri gemelle di New York, si è aperto un nuovo fronte: il terrorismo arabo. Anche questo è un segno dei tempi. Esso ci ricorda che non vi può essere vera pace nel mondo se l'intera umanità non è coinvolta in un processo di pace basato sulla giustizia tra i popoli, la condivisione dei beni.

 

Al di là, comunque, delle difficoltà anche gravi che affliggono l'umanità, va evidenziato come questa, gradualmente, ma ora abbastanza celermente, si sta indirizzando verso la formazione di una nuova coscienza di tipo planetario fondata sempre più sulla necessità del dialogo, della condivisione e della solidarietà tra tutti i popoli. Certo la strada è ancora lunga e difficile, ma con consolazione dobbiamo dire che è stata imboccata.

 

La nostra è solo l'alba del vero cristianesimo che raccoglie tutti gli uomini sotto l'unico Padre: la mano dello Spirito sta muovendo l'intera umanità verso l'unità.

 

Il cristiano, in tale ambito, si muove nella coscienza che i cieli nuovi e la terra nuova sono reaaltà già presenti nel Cristo risorto e in ogni cristiano, in quanto battezzato, e chiedono solo di essere coraggiosamente e pazientemente testimoniati nella coscienza che i tempi di Dio non sono i nostri e che le sue vie non sono le nostre vie. Ma una cosa è certa: egli non può fare niente senza la collaborazione dell'uomo.

 

 

 

 

ETICA DEL LAVORO E DELLO SVILUPPO

ECONOMICO-SOCIALE

NEL SEGNO DELLA SOLIDARIETA'

 

 

 

 

 

Fenomenologia del lavoro

 

In senso lato, il lavoro potrebbe essere definito come una qualsiasi attività umana ordinata alla crescita personale e sociale e alla soddisfazione dei bisogni sia materiali che spirituali di ogni uomo e della società.

 

In quanto attività umana il lavoro è valutabile non solo in termini economici e produttivi, ma anche morali, spirituali e culturali. Si possono sondare le motivazione del lavoro e le sue finalità, le modalità con cui viene svolto e le loro conseguenze, le relazioni sociali nell'ambito del lavoro, le retribuzioni e i salari, il livello di soddisfazione personale e ambientale, la moralità del lavoro che si svolge.

 

Da un punto di vista cristiano, Dio ha affidato e continuamente affida la terra all'uomo perché con la sua attività lo trasformi in un Eden, nel giardino della propria vita (Gen 2, 15)

 

In tal senso il lavoro si può concepire come la collaborazione dell'uomo finalizzata al completamento e allo sviluppo della creazione, che gli è stata affidata. L'uomo, pertanto, si pone a fianco di Dio e ne diventa suo collaboratore.

 

In tale prospettiva va tenuto presente che il lavoro è fatto per l'uomo ed è finalizzato, come si è sopra accennato, alla soddisfazione dei propri bisogni e alla realizzazione dei propri progetti.

 

Purtroppo, oggi, il lavoro ha assunto attribuzioni squisitamente economiche, così che si è prodotta un'inversione di valori: non più il lavoro è finalizzato all'uomo, bensì è l'uomo che è posto al servizio del mercato e delle sue esigenze. Tale cambio di prospettiva fa si che l'uomo diventi un oggetto economico, una forza lavoro, una risorsa umana, cioè un elemento da usare e strutturare (lavoro straordinario, ritmi di lavoro elevati, condizioni ambientali disagiate, rapporti sociali difficili, ghettizzazioni, infortuni) e da gettare quando non serve più o non è più utilizzabile (cassa integrazione, mobilità, licenziamenti a seguito di ristrutturazioni, ecc.).

 

Le attività economiche si sogliono distinguere in tre grandi aree:

 

•     Settore primario: opera direttamente sulla natura da cui trae direttamente beni di consumo o beni che fungono da materie prime. Tale settore comprende il lavoro agricolo, minerario, petrolifero, della pesca e della cacci.

•     Settore secondario: opera nell'ambito della trasformazione delle materie prime. E' il settore dell'Industria.

•     Settore terziario: si è sviluppato attorno ai due precedenti settori e funge da servizio agli altri due, alla comunità e al singolo.

 

 

La macroeconomia: fasi e fattori principali

 

 

L'economia di un tempo, basato su sistemi semplici di scambio di beni per la soddisfazione dei bisogni sociali, limitati alle ristrette aree di produzione dei beni stessi, oggi è sostituita sempre più dalla macroeconomia, cioè un'economia elaborata su ampli territori regionali, nazionali, internazionali e continentali in cui numerosi e complessi fattori incidono nelle relazioni economiche ed è costituita da grandi o maxi sistemi economici.

 

Tale economia, pur nella sua complessità, si basa essenzialmente, come ogni altro tipo di economia, su tre pilastri fondamentali, costituenti nella loro dinamica la globalità e l'unità dell'intera economia:

 

•     La produzione dei beni

•     La loro circolazione e distribuzione

•     Il consumo

 

 

Il capitale

 

Lo si potrebbe definire come il patrimonio a disposizione dell'uomo e utile alla sua attività economica. Esso si può suddividere in patrimoniale e produttivo. Il primo è costituito dall'insieme dei beni propri di famiglie o gruppi e costituisce il fondo, le sostanze su cui poter basare la propria attività; il secondo, invece, è formato più da beni mobili, da mezzi e strumenti di produzione necessari per l'investimento e il suo funzionamento.

 

Tra questi capitali va considerato in particolar modo il denaro che funge da denominatore comune a tutta l'economia, è merce di scambio fondamentale e in quanto principale oggetto economico è soggetto a valutazioni e stime sui mercati valutari, in particolar modo nell'ambito delle relazioni internazionali ed è la base del nostro sistema capitalistico.

 

Il lavoro dipendente

 

Il nostro codice civile all'art. 2094 definisce il lavoratore dipendente come "colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore".

 

Da questa succinta definizione si ricavano, al di là degli aspetti giuridici ivi contenuti, due informazioni importanti: esso comporta delle relazioni sociali che sono a base squisitamente economica e giuridica.

 

In quanto a relazioni sociali, esso comporta l'inserimento del lavoratore nell'ambito di una struttura organizzativa con mansioni e funzioni specifiche, che mettono necessariamente in rapporto i lavoratori gli uni agli altri, sviluppando complesse relazioni, condizionate da fattori oggettivi e soggettivi, nel cui ambito possono nascere, a seconda delle situazioni solidarietà, rivalità o scontro.

 

In quanto a base economica e giuridica, tali relazioni prescindono dai rapporti umani, che sono sottintesi, e si svolgono in un ambito di obbligazioni reciproche (sinallagmatiche) giuridicamente e disciplinarmente sanzionabili. Ma l'elemento principale che determina tale tipo di rapporto è l'aspetto economico, senza il quale non esiste rapporto di lavoro dipendente, e dal quale discende l'obbligazione del prestare.

 

Al di là di questi aspetti, che ci è sembrato doveroso evidenziare per la loro significatività, il lavoro va, soprattutto, considerato nella sua dimensione sociale e umana e, pertanto, teso a creare solidarietà tra tutte le persone, a vario titolo e livello coinvolte. Infatti, lavorando e faticando insieme, talvolta lottando insieme e, comunque, vivendo le medesime esperienze, tutto ciò porta alla fraternità tra i lavoratori, per cui le esperienze del singole di ogni lavoratore, sono sempre, poco o tanto, condivise e partecipate.

 

L'evoluzione dei tempi e della cultura nonché le lotte sindacali, aziendali e sociali hanno portato ad una mutata visione circa il lavoro dipendente: da semplice merce, che entra nel circuito economico,  a forza-lavoro e ad attività dell'uomo, visto come persona nel pieno della sua dignità, sentito, ora, come patrimonio e valore per l'azienda, che sempre più è sentita come una comunità di persone che perseguono gli stessi obiettivi.

 

Le malattie del sistema economico

 

Come ogni sistema può produrre in sé situazione di crisi o di difficoltà, anche quello economico non fa eccezione. Le due malattie che ne denunciano il malessere sono la recessione economica e l'inflazione.

 

La prima si verifica quando il capitale investito non produce i frutti sperati e il sistema, più o meno ampiamente, soffre di depressione: calo della produzione, dei consumi e conseguente contenimento dei prezzi ne sono un'espressione. In genere è susseguente ad un periodo di boom economico. L'andamento è ciclico.

 

Quanto alla seconda, essa si produce quando il prezzo dei prodotti viene gonfiato speculativamente, mentre il valore della moneta rimane fermo. Ciò porta a togliere valore alla moneta e, di conseguenza, minore capacità di acquisto.

 

Il commercio e il mercato

 

Commercio e mercato costituiscono il ciclo vitale dell'economia. Per commercio si intende lo scambio di beni, siano essi prodotti che servizi, contro denaro. Esso va a costituire l'attività del terziario. Mentre il mercato è la capacità di ricezione dei beni ed è rappresentato dalla domanda.

 

Commercio, che trova il suo spazio di espressione nel mercato, tende a creare una società universale, nel cui ambito ognuno può servirsi di tutti i beni della terra, così come prodotti o elaborati, il cui unico mezzo di scambio ufficialmente riconosciuto è il denaro.

 

Da qui, favorita ormai dai potenti mezzi di comunicazione che sempre più stanno annullando le distanze e i tempi, sta nascendo un nuovo tipo di società globalizzata, in cui la posta in gioco è molto elevata: da un lato, il rischio concreto della monopolizzazione di prodotti vitali per l'economia e il vivere sociale; dall'altro, il conseguente rischio della colonizzazione di intere popolazioni che può sfociare in aspetti di nuovo schiavismo di massa o, comunque, di gravi condizionamenti sociali e personali.

 

Gli scambi commerciali possono avvenire in tre modi: lasciando libero gioco tra la domanda e l'offerta; oppure, diretti e controllati dalla pubblica autorità (monopoli statali); oppure un mix di entrambi i modi precedenti. Un esempio di quest'ultimo modo sono le leggi antitrust che impediscono accumuli e accentramenti di capitali e attività in poche mani, da cui possono generarsi monopoli privati; oppure accordi tra centri di potere industriale e commerciale (i cosiddetti "cartelli") che, comunque, creano monopolio.

 

 

Il reddito di produzione e la sua distribuzione

 

Al fine di poter acquistare è necessario avere un reddito che lo consenta. Esso costituisce il potere d'acquisto che qualifica ogni persona, creando delle disparità sociali che vanno dallo sperpero all'indigenza.

 

Tale potere d'acquisto è dato dal reddito netto pro capite che costituisce la misura del progresso economico delle persone; pertanto una buona politica economica persegue l'incremento graduale dei redditi dei cittadini.

 

Questa corsa al benessere sociale e individuale ha creato la società industrializzata e commerciale che ha fatto passare l'uomo da una economia di sopravvivenza ad una di benessere e di opulenza, grazie allo sviluppo tecnico e scientifico, all'accumulo e all'investimento di ingenti capitali produttivi.

 

All'interno di tutta questa immensa macchina e dinamica economica si situa l'uomo con il suo vivere e le sue problematiche generate proprio da questi maxi sistemi economici di cui gode, ma di cui spesso è vittima, talvolta, inconsapevole.

 

 

I problemi più salienti dello sviluppo economico

 

 

Nel Sud del mondo, in via di sviluppo, è accentrato circa il 75% della popolazione, creando un netto divario e uno squilibrio economico a favore del poco popolato, ma ricco Nord.

Solo il 20% degli uomini oggi hanno un livello di vita decente, e nelle loro mani è concentrato l'86% dell'intero reddito economico mondiale e quasi tutta l'intera ricerca tecnico-scientifica.

 

La conseguenza di tutto ciò è un enorme indebitamento dei Paesi in via di sviluppo che da tale debito hanno le ali tarpate e sono privati della speranza di poter compiere il balzo significativo verso una vita decente e decorosa.

 

La loro economia è prevalentemente, quasi esclusivamente, agricola e i loro prodotti subiscono improvvise variazione di prezzo che non consentono loro di realizzare una equilibrata economia, che è e rimane priva di prospettive.

 

Ciò li porta ha ricorrere a prestiti presso a finanziarie, banche, paesi terzi giungendo lentamente ad un indebitamento che è pari o superiore al loro stesso prodotto lordo interno e che li spinge a contrarre altri debiti per pagare i soli interessi prodotti da debiti precedenti e che continuano a produrre altri interessi ancora, chiudendosi in uno giro vizioso che non lascia loro prospettive di uscita.

 

Tutto questo porta ad un degrado economico di intere popolazioni, colpite spesso da malattie, carestie, guerre locali e tribali, che le rendono del tutto incapaci di risollevarsi. Conseguente a tale degrado materiale si accompagna anche quello morale, spirituale e culturale, per cui tali popolazioni si vedono preclusa anche l'accesso alla dignità umana.

 

Sono popoli disperati che trovano sbocco alla loro disperazione endemica solo nella fuga da queste zone, depresse ad ogni livello, verso i paesi ricchi del Nord. Si stanno verificando, infatti, delle invasioni in massa delle regioni del Nord del mondo da parte di folti e continui gruppi di disperati che, quasi come una fiumana umana inarrestabile, stanno dilagando nei paesi occidentali, creando non pochi problemi di ordine pubblico e di inserimento. E' probabilmente questo il biglietto che i paesi ricchi e benestanti devono pagare per i propri egoismi: questi poveri disgraziati sono un problema e sono qui che ci ricordano che esistono anche loro e che il loro problema è anche nostro.

 

Urge, pertanto, un nuovo ordine economico-politico mondiale, basato sulla solidarietà quale principio supremo delle relazioni tra i popoli. Il problema è morale, drammatico e urgente e dalla sua soluzione o meno dipenderà il futuro della civiltà umana mondiale.

 

Economia e alienazione dell'uomo

 

Nell'ambito delle economie, a qualsiasi livello sviluppate e ovunque lo siano, si crea al loro interno un ciclo di benessere materiale che si sostiene su due principi fondamentali: produzione e consumo; e tra questi due prevale il consumo, quale elemento trainante della produzione.

In tale prospettiva l'uomo diventa l'oggetto delle attenzioni economiche e commerciali, per cui, soddisfatti i suoi bisogni primari (mangiare, bere, abitare, vestire, imparare, lavorare), si punta su di lui per stimolare in lui interessi e creare nuovi bisogni, gonfiarli. Tutto ciò porta ad un lento e graduale disorientamento esistenziale dell'uomo che non sa più cosa sia necessario e importante per lui fino ad arrivare alla banalizzazione dei sentimenti, delle emozioni, delle proprie funzioni e della vita stessa. Questo porta a nevrosi, depressioni, frustrazioni, perdita del senso morale della vita e sua progressiva materializzazione.

 

Di conseguenza si creano abitudini di consumo e stili di vita dannosi non solo per la salute fisica e psichica, ma anche per le dimensioni morale e spirituale degli uomini. Nasce così l'uomo alienato, che rifiuta di trascendere se stesso e i propri bisogni opportunamente stimolati e gonfiati, rimanendone prigioniero e vittima; rifiuta di vivere la propria vita come vocazione e dono, in quanto ormai orientata verso le cose e non più verso Dio.

 

Il lavoro automatizzato e parcellizzato

 

Il lavoro dell'uomo, a qualsiasi livello, si sta sempre più meccanizzando, robotizzando e informatizzando. Al fine, poi, di una migliore, maggiore e più rapida produzione, il lavoro si è parcellizzato e sempre più distribuito, per cui la produzione è costituita da numerosi reparti e fasi specializzati tutti in parti di prodotto che viene poi assemblato. Molto di questo lavoro parcellizzato viene distribuito all'esterno della fabbrica in conto terzi e poi assemblato al proprio interno.

 

Se tutto ciò porta ad un sollievo dalle fatiche fisiche, tuttavia, la mancanza di soddisfazione che può nascere all'interno di un lavoro così parcellizzato e ripetitivo, di cui, magari non si conosce neppure il senso o la funzione, fa nascere nel lavoratore uno stato di frustrazione e di insoddisfazione che, spesso, è alla base di conflitti aziendali, malattie, assenteismo, così che l'ambiente di lavoro e il lavoro stesso diventano nemici per l'uomo che non vede più il lavoro come una parte della propria vita, bensì come una sfortunata necessità di vita. La sua realizzazione, pertanto, è posta al di fuori di queste realtà che lo dovrebbero realizzare, ma che, invece, lo frustrano e lo logorano interiormente.

 

In questo orizzonte il tempo libero diventa ad essere uno spazio vitale entro cui l'uomo cerca quella che dovrebbe essere la propria realizzazione mancata, ma che spesso si traduce in un luogo dove egli diventa l'inconsapevole oggetto di sfruttamenti economici e commerciali.

 

 Per un'etica di solidarietà nell'economia

  

In un'economia e in una organizzazione del lavoro, che puntano sempre più ad una migliore efficienza finalizzata al profitto e a prescindere dall'uomo che, in quest'ottica, è oggetto di studi per un suo migliore sfruttamento che, nel tempo e inconsapevolmente, lo spinge all'alienazione, si fa sempre più urgente una rivisitazione delle logiche e delle leggi economiche che, se sono talvolta matematicamente necessarie, non vanno mai applicate a prescindere dall'uomo, poiché la base di tutto il sistema è e rimane sempre l'uomo.

 

Abbiamo, infatti, visto come nei sistemi totalitaristici e collettivistici dove l'uomo era solo uno strumento, peraltro neanche molto importante, si è arrivati al crollo non solo del sistema economico, politico e sociale, ma anche dell'uomo in sé, privato di ogni dimensione spirituale e morale, sostituite da quelle scientifiche, tecnologiche e materiali.

 

Il sistema economico deve fondarsi sull'uomo e non prescindere da esso; deve puntare al suo sviluppo non solo materiale, ma completo, poiché lo sviluppo umano è radicato in una vocazione iscritta nella vita stessa da Dio.

Tutti gli uomini, in quest'orizzonte, sono chiamati ad uno sviluppo pieno di sè, ad ogni livello e nelle sue varie componenti; solo così la crescita è equilibrata e portatrice di benessere che non è materiale o spirituale, ma semplicemente umano, in cui ogni aspetto è incluso.

 

Ogni persona, a seconda delle proprie competenze e capacità, è chiamata a contribuire all'autentico progresso dell'umanità; nessuno può delegare ad un altro questo compito che è proprio di ciascuno. Ciascuno con il suo impegno deve ricordare che l'uomo è l'autore, il centro e il fine di ogni economia. Se il baricentro viene spostato verso i soldi, anziché essere tenuto centrato sull'uomo, tutto il sistema, prima o poi, è destinato a crollare, società civile compresa, che si avvierà verso un degrado generale.

 

E' l'uomo che dà senso a tutto ed è il fine di tutto. Il tutto è solo uno strumento finalizzato al completo e pieno benessere dell'uomo.

 

 

Spunti per una teologia del lavoro

 

 

Il lavoro umano, ancor prima di essere una necessità, fa parte dell'uomo ed è iscritto nella sua natura. Non a caso la Bibbia, proprio nei suoi primissimi capitoli, presenta l'uomo che riceve da Dio la creazione perché la coltivi e la custodisca (Gn 2,15). Il lavoro, dunque, è un elemento costitutivo dell'uomo senza il quale egli non può realizzare se stesso.

 

Dio, quindi, ha consegnato la creazione all'uomo, in una sorta di comodato gratuito; lo ha, poi, fornito di intelligenza e di altri doni che, se impiegati adeguatamente gli consentono non solo di vivere bene sulla terra, ma proprio nel loro utilizzo egli trova la sua realizzazione. Potremmo, per così dire, definire l'uomo come un'opera solo potenzialmente compiuta da Dio, ma che necessita per il suo sviluppo del proprio impegno, del proprio lavoro.

 

La Parola stessa di Dio, incarnatasi in mezzo agli uomini, ne ha condiviso ampiamente le sorti e per trent'anni ha fatto il carpentiere, da cui ha tratto il proprio sostentamento.

 

Il lavoro, quindi, quale elemento essenziale dell'uomo, può essere colto, per la sua ricchezza e profondità, sotto alcuni aspetti:

 

•     Antropologico-sociale: il lavoro è uno dei fattori essenziali della formazione della civiltà umana, ne è il suo fondamento. Non a caso il primo articolo della Costituzione Italiana recita che "L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro". Esso è il motore di sviluppo non solo della persona, ma dell'intera società e civiltà ed è alla base di tutta la questione sociale ed economica. Il lavoro valorizza l'uomo e lo afferma nella sua dignità, nei suoi diritti e lo spinge alla solidarietà e alla condivisione. Educa e realizza la sua umanità.  Va ricordato, infine, che il lavoro è per l'uomo, per la sua famiglia, per le sue necessità e non l'uomo per il lavoro.

 

•     Teologico-cosmico: le risorse che la terra offre all'uomo quasi mai possono essere utilizzate direttamente, ma hanno bisogno di una elaborazione, di una trasformazione per essere adattate alle esigenze e bisogni dell'uomo. Per questo è necessario l'intervento il suo uomo, il cui fine è di adattare, perfezionare e conservare l'intera creazione, facendosi, così, collaboratore di Dio e dell'opera di Cristo. In tal senso egli diventa il gestore, l'amministratore dell'opera di Dio e, in quanto persona a Lui consacrata nel battesimo, operatore, in Cristo e per Cristo, dell'opera salvifica di Dio. In virtù della sua regalità, egli opera un servizio a Dio e alla comunità di fratelli; in forza del suo sacerdozio egli consacra e offre, con la fatica del suo lavoro, l'intera creazione a Dio Padre con Cristo, per Cristo e in Cristo.

 

•     Cristologico-pasquale: con la sua venuta tra di noi, la Parola eterna del Padre ha condiviso pienamente la triste sorte dell'uomo: "Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo ... Spine e cardi produrrà per te ... Con il sudore del tuo volto mangerai il pane finché tornerai alla terra" (Gn 3, 17-19). Proprio per questo egli assunse la condizione umana e si legò ai suoi destini, sperimentandola nel silenzio e nell'oscurità del vivere quotidiano: per racchiudere in essa il germe del riscatto e della redenzione. La sofferenza e il dolore del vivere non sono più il segno di una triste condizione umana, ma si sono tradotti nel gemito  di una partoriente che, proprio nel dolore, sta per dare ala luce una nuova vita; e con lui anche la creazione geme e soffre le doglie del parto (Rm 8, 22-23). Ed è proprio nel Cristo risorto che l'uomo, cristificato nel battesimo, diventa collaboratore dell'opera redentrice di Cristo, diventa suo corredentore, poiché, in virtù del battesimo, non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui. Ogni uomo, pertanto, vivendo le sofferenze e le fatiche del proprio lavoro, unito a Cristo morto-risorto, partecipa anche alla sua opera di redenzione e di liberazione, quasi un annuncio di cieli nuovi e terra nuova, partoriti nelle doglie del vivere quotidiano.

 

Alcuni principi di etica del lavoro

 

Ogni attività umana, in quanto tale, è valutabile da un punto di vista morale e, in quanto moralmente valutabile, è sempre soggetta a critica e a revisione; per questo è sempre chiamata alla conversione, cioè ad un continuo riorientamento verso ciò che è il bene naturale dell'uomo e, per ciò stesso, comune a tutti.

 

Così è anche per l'economia e la sua organizzazione che, come si è brevemente accennato sopra, non sempre si pone al servizio dell'uomo.

 

E', pertanto opportuno, evidenziare alcuni aspetti morali che si pongono all'interno dei rapporti economici e che sono finalizzati, da un lato, a porre sotto critica continua l'operato degli uomini; dall'altro, tutelare in tali rapporti la parte che è socialmente più debole:

 

•     Il primato dell'uomo va sempre affermato su tutti i fattori di produzione, sulle leggi economiche e del capitale. L'uomo non va mai asservito a queste. Per questo l'organizzazione del lavoro, le sue strutture, i ritmi di lavoro, le condizioni ambientali, ecc. devono essere sempre adeguati alla tutela psico-fisica e morale del lavoratore, escludendo con cura ogni possibilità di danno che possa essere provocato all'integrità globale del lavoratore. In tal senso l'art. 2087 cc recita: "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Su tale principio del nostro ordinamento giuridico, sono state sviluppate numerose leggi atte a tutelare il lavoratore ad ogni livello della sua personalità e di sua espressione.

 

•     Diritto al riposo e al non superamento di certi limiti invalicabili nell'ambito della attività lavorativa. Rispetto, pertanto, dell'orario di lavoro contrattualmente dovuto con limitato ed eccezionale ricorso al lavoro straordinario, notturno o festivo, che va, comunque, adeguatamente compensato. Concessione di riposi settimanali minimi e adeguati ai cicli e alla qualità del lavoro; concessioni di adeguati e continuativi periodi di riposo annuali per ritemprare le proprie energie psico-fisiche; concessioni di periodi per tutelare e recuperare la propria salute, colpita da malattia o infortunio. Anche qui, al di là dei principi giuridici sanciti dal nostro c.c. agli artt. 2107, 2108, 2109 e 2110, sono state promulgate numerose leggi di tutela in tal senso.

 

•     Giusta retribuzione per il lavoro che viene eseguito. Essa, oltre a compensare adeguatamente l'opera prestata, deve consentire una vita dignitosa per se stessi e per la propria famiglia; deve ancora consentire una adeguata tutela previdenziale e sociale, quali la malattia, la maternità, l'infortunio, la pensione. In tal senso la nostra Costituzione all'art. 36 recita. "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa." Tale principio costituzionale ha trovato ampia accoglienza sia nel nostro ordinamento giuridico che, in particolar modo, nell'ambito della contrattazione sindacale, aziendale e personale.

 

•     Diritto di associazione sindacale: il Sindacato ha avuto nella storia del lavoro, e tuttora hanno, un ruolo emancipatore dei lavoratori, che proprio in esso hanno scoperto il senso della solidarietà, della lotta per l'affermazione dei propri diritti e della propria dignità di persone e di lavoratori. Queste libere associazioni e organizzazioni dei lavoratori costituiscono una adeguata forza di contrapposizione e consentono di stabilire giusti rapporti di forza con i proprietari di capitale. Compito del sindacato, come è sempre stato, è difendere e promuovere i diritti dei lavoratori e la loro dignità. Tuttavia, è anche loro preciso compito creare nei lavoratori il senso di responsabilità nei confronti del lavoro che sono chiamati a svolgere; evidenziare, pertanto, oltre che i diritti anche i doveri: promuovere, dunque, una vera cultura del lavoro nel cui ambito non si trova solo l'aspetto economico, la spinta verso sempre maggiori diritti, ma anche una formazione comunitaria e spirituale all'insegna della solidarietà, condivisione e collaborazione. In tal senso la Chiesa non disdegna la presenza di un sindacato cristiano che, contrapponendosi ad una visione economica e materialistica della vita, offra  anche spazi diversi e superiori di una visione cristiana dell'uomo e della società.

•     Diritto allo sciopero: l'art. 40 della nostra Costituzione recita: "Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano". Lo sciopero, pertanto, è un principio del nostro ordinamento giuridico tutelato dalla nostra Costituzione. Solo in tempi recenti, tuttavia, si è tentato di disciplinare, anche se con scarso successo, tale diritto, anche per una debolezza della nostra classe politica che preferisce ignorare la questione posta dalla stessa Costituzione e ciò a danno di tutta la società civile italiana che è continuamente sottoposta a vessazioni e prevaricazioni sindacali proprio nell'uso-abuso di tale diritto, nonché a danno del bene comune e,talvolta, degli stessi operai.

Con il termine sciopero si intende una cessazione collettiva del lavoro allo scopo di esercitare delle pressioni sui datori di lavoro, sullo Stato e sull'opinione pubblica al fine di ottenere dei cambiamenti ritenuti giusti. E', quindi, una forma di lotta civile, ritenuto giusto anche dal Vaticano II, ma solo come mezzo estremo di lotta, una volta sperimentata l'impossibilità del dialogo.

    Perché lo sciopero sia un equo mezzo di lotta, bisogna che sia giusto e morale, proteso cioè a salvaguardare e promuovere autentici diritti e miglioramenti nella  vita dei lavoratori e del bene comune, senza che le pretese siano tali da tradursi,  poi, nel tempo in seri danni agli stessi lavoratori.

    Si devono, inoltre, prendere adeguate misure perché lo sciopero non sfoci in violenze e prevaricazioni nei confronti di chicchessia, specie in ordine ai sabotaggi   alle materie prime e ai macchinari. Deve esserci, infine, una proporzione tra danni reali causati dallo sciopero e benefici che vi si possono ricavare.

     Quando, poi, si tratta di servizi pubblici, questi, comunque, vanno sempre  salvaguardati .        

     Lo sciopero, comunque, va sempre utilizzato a fini equi e mai speso sulle spalle di terzi o dei più deboli. Va, infine, tenuto presente che l'abuso dello sciopero è un'arma che, a lungo andare, non solo non giova a nessuno, ma torna a danno degli stessi scioperanti e crea dei danni all'intera comunità.

  

 

Proprietà privata e universale destinazione dei beni

 

 

Un principio tipico della morale cristiana afferma che tutti i beni della terra sono destinati alla totalità degli uomini e al loro uso comune e, quindi, il primato di questo sulla proprietà privata.

 

Aspetti biblici

 

La terra con tutte le sue risorse, con tutti i suoi tesori e la sua fecondità appartiene a Dio che l'ha creata e viene donata agli uomini, perché realizzino il suo disegno di salvezza universale. Infatti la Scrittura afferma: "Mia è tutta la terra" (Es 19,5) e Israele che la abita è definito da Dio come sua proprietà (Es. 19,5); egli è il re e il Signore su tutta la terra (Sal 47, 3.8 e 97,5), ma egli la dona agli uomini, infatti, "I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell'uomo" (Sal 115, 16).

 

Secondo tale dottrina veterotestamentaria l'esercizio del diritto di proprietà non può essere illimitato: se la terra è di Dio, essa è concessa a tutto il popolo. Ecco, quindi, che a riequilibrare le cose c'è l'anno sabbatico: "Alla fine dei sette anni celebrerete l'anno della remissione ... non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi" (Dt 15,1) che viene completato con la celebrazione del giubileo: "Conterai sette settimane di anni ... faranno un periodo di quarantanove anni ... In questo anno di giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo" (Lv 25, 8.13). Infatti, l'ineguaglianza sociale infrange la sacra solidarietà del popolo dell'Alleanza.

 

Ma gli stessi Atti degli Apostoli, nel dipingere la comunità ideale nei sommari, evidenziano come "Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (At 2, 44-45) e ancora "La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune" (At 4,32).

 

Come possiamo rilevare da queste citazioni scritturistiche, il credente non considerava uno strumento di potere il proprio possesso, ma solo un bene, dono di Dio, da condividere e uno strumento di comunione fraterna.

 

Un ulteriore esempio di condivisione dei beni e di attenzione al bisognoso ci viene dalla 2Cor 8-9: la colletta, una raccolta di soldi fra le varie comunità paoline a favore dei poveri della chiesa madre di Gerusalemme, colpita da una grave carestia. Paolo la motiva cristologicamente ed ecclesialmente: "Gesù Cristo da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" e ancora "Qui non si tratta di mettere in ristrettezze voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza" (2Cor 8,9.13).

 

Infine, l'atteggiamento che il cristiano deve tenere nei confronti dei beni gli è suggerito dallo stesso Cristo: "Egli, infatti, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo divenendo simile agli uomini" (Fil 2, 6-7). E' l'espressione della massima condivisione di Dio con gli uomini.

 

L'uomo e i beni della terra

 

Tra gli uomini e i beni della terra c'è un rapporto innato e naturale. Ogni uomo che nasce è provvisto di quei beni necessari e sufficienti  per poter soddisfare le sue esigenze naturali.  Essi costituiscono il suo corredo naturale ed esistenziale. A questi beni egli accede attraverso il suo lavoro, che il Vaticano II ha qualificato come valore umano preminente, la cui dignità è superiore su tutti gli altri fattori produttivi ed economici, che sono strumentali e finalizzati all'uomo.

 

Da ciò discende che ogni uomo possiede un diritto naturale di poter accedere, attraverso il lavoro, quale strumento di arricchimento economico, morale e spirituale, ad accedere ai beni materiali della terra, che devono essere considerati come doni di Dio.

 

L'uso di tali beni, tuttavia, non deve essere egoistico, basato sull'appropriazione e sull'accumulo, ma deve rispettare l'intenzione originaria di Dio che ha consegnato la terra agli uomini indistintamente, perché ciascuno vi potesse accedere liberamente per soddisfare i propri bisogni. Per questo ogni persona vi deve poter accedere attraverso il lavoro.

 

Questa visione cristiana dei beni deve portare a creare in ciascuno lo spirito di povertà, quell'atteggiamento di distacco dai beni, considerati dono di Dio messi nelle mani degli uomini perché ciascuno, dopo essersene servito per le proprie necessità, li condivida con gli altri.

 

Il diritto di proprietà

 

Il diritto di proprietà va letto come l'uso personale di beni comuni. Infatti, va da sé che se questi beni devono essere gestiti,  sfruttati e fatti fruttificare, ciò presuppone una loro appropriazione, che assume l'aspetto giuridico di proprietà privata e proprietà collettiva o pubblica.

 

La proprietà privata, intesa come beni comuni raggiunti onestamente attraverso lo scotto del lavoro, costituisce, nella visione del Vaticano II, quel "potere sui beni esterni che assicurano a ciascuno una zona indispensabile di autonomia personale e familiare e devono considerarsi come un prolungamento necessario della libertà umana".

 

Essi, pertanto, sono una sorta di prolungamento della persona e dei suoi diritti fondamentali di sviluppo; un corredo esistenziale necessario, in cui e per mezzo del quale esprimersi esistenzialmente.

 

La proprietà privata, pertanto, vista in questo orizzonte, è considerata legittima da parte della Chiesa, così come quella pubblica, nella misura, però, che questa è utilizzata per fini sociali e per il bene comune.

 

E' compito, quindi, della Pubblica Amministrazione gestire al meglio questi beni comuni perché tutti ne possano godere e la qualità della vita di tutti migliori e, qualora, si renda necessario l'esproprio, questo va sempre prontamente e adeguatamente compensato, perché l'esproprio non si traduca in un grave atto di ingiustizia e in un furto legalizzato.

 

Sia i beni privati che pubblici, poi, devono soddisfare il bene comune; quanto al primo, con una equa ridistribuzione del superfluo, come esigenza di giustizia sociale, la quale cosa non va confusa, però con l'elemosina o dovere di carità; quanto al secondo, per mezzo di investimenti miranti al risanamento o allo sviluppo nazionale; infine, con la diffusione della proprietà privata, agevolandone l'accesso, e facendo sì che il maggior numero di persone diventino proprietarie (ad es. agevolazioni per l'acquisto della prima casa).

 

La proprietà privata, infine, non contrasta con gli insegnamenti neotestamentari, benché Gesù non si stanchi mai a sollecitarci a non attaccare il nostro cuore alle ricchezze che ci distolgono da ciò che è essenziale alla nostra vita: Dio e il suo mondo (Mt 6,19-20); e come egli ritenga fatto o negato a se stesso l'attenzione prestata o negata agli indigenti (Mt 25,40).

 

Lo scambio di beni, il commercio dei beni

 

I beni vengono lavorati e prodotti per essere offerti all'uso e al consumo degli uomini. Ciò avviene per mezzo del mercato e attraverso lo scambio beni contro moneta, che nella nostra epoca industrializzata è l'elemento fondamentale su cui poggia tutto il sistema  economico.

 

Il commercio è un elemento fondamentale di distribuzione e di scambio di beni, senza il quale i beni prodotti non potrebbero mai raggiungere i loro destinatari; né è pensabile un aumento di produzione o la semplice produzione stessa se non ci fosse una rete organizzata di distribuzione del bene prodotto.

 

A ben guardare, tutto il sistema economico è basato sullo scambio in cui la moneta risulta essere il controvalore della merce scambiata.

 

Premessa non solo la liceità del commercio, ma anche la sua necessità, quale fattore di crescita personale  e sociale, la questione che si pone è capirne l'aspetto morale: fino a dove si può parlare di un equo commercio? E da dove, invece, si deve parlare di commercio moralmente illecito e condannabile?

 

Tre sono gli elementi da valutare e che stabiliscono l'equità del commercio:

 

•     La liceità morale dell'oggetto di commercio;

•     La liceità morale del modo con cui viene espletato il commercio;

•     Il prezzo-valore assegnato al prodotto commercializzato.

 

Dati per scontati i primi due punti, il giusto prezzo del prodotto è quello che consente un'equa remunerazione del produttore e del commerciante stesso, tenuto conto della copertura del costo del prodotto, costituita dai costi di produzione e di commercializzazio-ne e da un giusto guadagno, che consenta agli interessati una vita dignitosa per sé e i propri familiari.

 

Serve, dunque, una formazione della coscienza morale che deve liberare il commercio dalla speculazione e dall'inflazione dei prezzi e, soprattutto, che consenta di capire che, talvolta,  la troppa ricchezza accumulata e una vita troppo agiata e dispendiosa, affondano le loro radici attraverso guadagni eccessivi, che opprimono le persone socialmente ed economicamente deboli, sottraendo loro la possibilità di un vivere dignitoso.

 

  

 

 

UN'ETICA DI SOLIDARIETA'

PER UN RINNOVAMENTO

DELLA POLITICA MONDIALE

 

 

 

 

Le situazioni e i problemi del tempo

 

 

 

 

Le più diffuse aspirazioni nella vita politica

 

La società contemporanea è una società complessa e in rapida evoluzione, stimolata dalle straordinarie acquisizioni tecnico-scientifiche, dagli strumenti di comunicazione, che riducono gli spazi e i tempi, facendo vivere quasi in contemporanea ogni avvenimento che accade in qualsiasi parte della terra. Tutto ciò esercita un forte influsso sulla vita di ogni persona e sulla comunità civile, locale, nazionale e internazionale, creando mode, comportamenti, mentalità, tendenze e reazioni di ogni altro genere.

 

a) Nei popoli di tutto il mondo si sta creando una nuova coscienza dei diritti civili per l'esercizio della libertà e dell'impegno sociale e politico; l'aspirazione alla pari dignità e libertà, alla corresponsabile gestione della vita pubblica.

Questa nuova coscienza dei propri diritti è testimoniata dalla caduta dei vari regimi totalitari o militari come in Sudamerica, in Asia, in Africa e, non da ultimo, nella ex Unione Sovietica e nei Paesi dell'Est.

Inoltre, l'esame delle Carte costituzionali dei vari Paesi nel mondo segnalano la tendenza di garantire sempre più e al meglio i diritti civili e la libertà di espressione e realizzazione dei popoli, che costituisce il requisito fondamentale che consente a tutti i cittadini una partecipazione equa e adeguata alla vita civile e politica.

 

Si nota un passaggio, ancora in corso, da uno "Stato di diritto", che proclama i diritti civili e le libertà dei propri cittadini, ma li rende di difficile applicazione, sicché il cittadino è sistematicamente violato nei suoi diritti, sanciti sulla carta, ad uno "Stato sociale reale" in cui i cittadini sono tutti impegnati, ad ogni livello, per la salvaguardia e la reale applicazione e difesa dei propri diritti.

 

b) Si rileva, inoltre, una tendenza generale che punta all'affermazione del ben comune, non solo locale o regionale, ma anche nazionale e internazionale che coinvolga tutta la grande famiglia dei popoli. Una prosperità che sia di tutti, perché veramente di ciascuno, con un'attenzione particolare per i poveri e i deboli.

 

c) Ogni società contemporanea si presenta come una società complessa, pluralista, multirazziale e multireligiosa che interpella tutti sul principio della tolleranza, della solidarietà e dell'accoglienza.

 

In tale società, inoltre, si fa sempre più impellente la necessità di regolamentare i rapporti non solo tra i cittadini e i pubblici poteri, ma anche tra i cittadini e le loro organizzazioni sociali di autotutela. Sta, inoltre, maturando una migliore coscienza sociale che spinge i cittadini da una indifferenza o da una conflittualità sociale radicali ad una collaborazione tra le classi sociali e politiche per il raggiungimento e/o la tutela del bene comune.

 

d) Si forma sempre più in modo radicato la protesta dell'opinione pubblica, formata e alimentata dai media, con le violazioni dei diritti umani e delle ingiustizie sociali o personali perpetrati dai regimi totalitari, che impediscono le più elementari libertà civili e religiose.

 

e) Sta ormai consolidandosi una grande consapevolezza circa la necessità di un nuovo ordine di rapporti tra i popoli del mondo, che affermi sempre più la giustizia, i diritti civili e il benessere economico, cercando di superare ideologie e razzismi.

 

f) Va tenuta presente anche una piaga delle società sviluppate: la criminalità organizzata che sta sempre più internazionalizzandosi. Essa assume forma di impresa, di un'economia parallela e sommersa, ma che inquina la vita civile e politica a vari livelli, rischiando di degradare e destrutturare il tessuto sociale. Si creano, così, quelle che la Chiesa chiama "strutture di peccato" che producono peccato, cioè degrado morale e spirituale, fino alla morte stessa della società.

 

g) Al fine di evitare pericolosi e destrutturanti degradi morali della società, è importante che l'intera società civile, qualsiasi società nel mondo, faccia riferimento a valori etici su cui formulare le proprie scelte e strutturare i propri comportamenti, lasciandosi sempre guidare da alcune fondamentali priorità: quella dell'etica sulla tecnica, della persona sulle cose, dello spirito sulla materia. Alla base di tutto deve valere il principio della solidarietà e della condivisione su cui strutturare nuove scelte di vita.

 

Infine, per instaurare una vita politica veramente umana non c'è niente di meglio che coltivare il senso interiore della giustizia, dell'amore e del servizio al bene comune.

 

Problemi comuni alla politica di ogni società civile

 

I grandi e sempre più rapidi mutamenti della nostra epoca di transizione hanno sconvolto i parametri della precedente società agricola creando nuovi fenomeni, riscontrabili in ogni società civile nel mondo, come ad esempio:

 

•     L'urbanesimo, determinato dalla industrializzazione, ha portato il concentrarsi di grandi ed enormi masse di persone in poco spazio, con tutti i problemi che ne conseguono: passaggio dalla famiglia patriarcale a nucleare; sperimentazione di nuove solitudini, paure e inquietudini che sfociano spesso in depressioni; elevato e crescente numero di suicidi, come ricerca di una nuova forma di vita e fuga da una vita sentita come frustrante e insoddisfacente. Nascita di nuovi proletariati, nuove povertà, nuove forme di degrado esistenziale: droga, prostituzione, violenze, ecc.

•     Lavoro e disoccupazione, due realtà che oggi accompagnano tutti. Aziende che, sospinte dal mercato e dal rinnovo tecnologico, attuano ristrutturazioni per una loro migliore efficienza, ma che porta anche con sé riduzioni di personale sotto forma di minori assunzioni e più licenziamenti. Si sta, ora, aprendo anche una forte instabilità del posto di lavoro che si fa sempre meno fisso e sempre più insicuro e mobile, con la conseguenza di una incertezza economica e tutte le sue conseguenze sociali e personali.

•     Salvaguardia dell'ambiente l'incremento della popolazione mondiale, lo sviluppo dell'industrializzazione e dello smodato e incontrollato uso delle fonti energetiche, tutto ciò sta intaccando le risorse del nostro pianeta in modo preoccupante. Conseguenza di questo enorme e abnorme sviluppo ha portato all'inquinamento terrestre e atmosferico del nostro pianeta con gravi conseguenze sulle popolazioni segnate dal sorgere di nuove malattie e da nuove situazioni ambientali critiche che minano la struttura della salute pubblica (aumento delle malattie polmonari e respiratorie in genere; aumento dei tumori, ecc.). La modifica del clima con l'effetto serra e il pericoloso buco nell'ozono, la formazione di "el nino" portatore di catastrofi naturali.

•     I mezzi di comunicazione sociale come la televisione che, entrando in ogni famiglia e raggiungendo ogni singola persona, produce una formazione, spesso inconsapevole e inconscia, delle persone creando nuove tendenze, modificando modi di pensare e di comportarsi, generando nuovi bisogni, stimolando nuove tendenze e mode. Crea cultura e modifica il pensiero. Tali mezzi, inoltre, ci mettono in rapido e contemporaneo contatto con tutti gli avvenimenti che accadono in ogni parte del mondo. Per il rapido susseguirsi dell'informazione di tali avvenimenti, questi ultimi provocano, talvolta delle reazioni emotive e affettive in rapida successione, ci tolgono la capacità di una loro tranquilla metabolizzazione, producendo stati di ansia, di preoccupazioni, inquietudini, nervosismi e nei casi più gravi forme di nevrosi.

 

 

Unità politica ed economica dell'Europa

e collaborazione con i Paesi dell'Est

 

 

Il lungo cammino dell'unificazione degli stati europei ha trovato con il 1° gennaio 2002 un traguardo molto importante: ha avuto inizio il corso legale della moneta europea, l'euro. Con tale atto si è fondata solidamente l'unità europea economica e commerciale. Inoltre il Parlamento europeo, segno dell'unità politica, sta fondando la Carta Costituzionale dell'Europa, un ulteriore passo verso il consolidamento politico.

 

Da tempo, ormai, si sono riprese le relazioni politiche e commerciali con i paesi dell'Est europeo che già hanno avanzato richiesta di partecipare all'Unione degli Stati Europei, mentre sul piano militare, la NATO ha aperto recentemente alla Russia e ad altri Paesi dell'ex Patto di Varsavia.

 

Tutto sta ad indicare un cammino verso l'unificazione dell'intera Europa, anche se questo deve superare ancora molti ostacoli, ma la strada è quella giusta e, forse, la meta non è più così lontana.

 

Con rammarico va rilevato che nell'ambito della Carta Costituzionale europea non si fa  cenno agli aspetti religiosi. Ciò porta a fondare un'Europa tutta laica che, da un lato, nega importanti aspetti della propria identità storica; mentre, dall'altro, disconosce le dimensioni spirituali e religiose proprie di ogni uomo. Forse che tale Europa si sente più libera e autonoma se nega spazio a Dio? O forse non si sta incamminando in un vicolo cieco? Quando l'uomo nega Dio nella propria vita non diventa più libero, ma schiavo di se stesso.

 

Comunque, al di là degli aspetti religiosi dichiarati, rimane nell'uomo sempre un intimo spazio, la coscienza, quale luogo d'incontro tra Dio e l'uomo. Questo è ciò che dà speranza.

 

Tale processo di unificazione è visto da Giovanni Paolo II in senso teologico e cristologico: "E' un progetto di libertà, di solidarietà e di pace, perché è un progetto che poggia sulla ricostituzione, in Cristo Gesù, dell'unità della famiglia umana ... dove non ci sarà più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti saranno uno in Cristo Gesù (Gal 3,28)".

 

 

 

Le ideologie socio-politiche della storia moderna

 

 

 

Premessa

 

Le ideologie e i loro movimenti sociali conseguenti sono all'origine della costituzione degli stati moderni. Esse si suddividono in vari tipi:

 

•     ideologie liberal-democratiche

•     socialiste

•     democratico sociali

•     democratico-popolari

•     cristiano sociali

 

 

Il liberalismo

 

Nasce dalla crisi degli Stati monarchici assoluti nel clima dell'Illuminismo razionalista del XVII-XVIII sec. e si sviluppa in modo decisivo nell'ambito delle rivoluzioni industriali.

 

Quanto agli aspetti religiosi, esso proclama la libertà religiosa secondo coscienza, contro le costrizioni socio-politiche e in opposizione delle guerre di religione (1618-1648). Esso promuove il principio della tolleranza, in forza del quale nessuno può essere discriminato per le porprie idee e scelte religiose. Le prime formulazioni in tal senso si trovano nella Costituzione dello Stato della Virginia (1775) e in quella americana (1791).

 

Quanto agli aspetti economici, il liberalismo propugna i diritti degli individui e proclama la loro libertà dai vincoli della libera circolazione delle merci e dall'esoso protezionismo statale, proprio delle monarchie assolute. Promuove, invece, la libera iniziativa nel campo dell'economia e del mercato e segue, come unica regola, quella dei "propri interessi e profitti". Nasce, così, il primato assoluto della libera impresa, del capitale e del suo profitto. Ne consegue la lotta per la concorrenza e l'affermazione personale; ma nasce anche una nuova società formata da imprenditori mossi dai soli loro interessi e dall'arricchimento del proprio capitale, da un lato; mentre dall'altro, si va formando una massa di sfruttati, di proletari e di gente miseranda che vive nella miseria. Nascono, quindi, le prime lotte di classe, i primi sindacati, i primi conflitti sociali.

 

Quanto agli aspetti politico esso ha le sue patrie storiche nell'Inghilterra e nell'America del Nord. Compito di uno stato liberale è quello di rimuovere gli ostacoli ai liberi diritti dei cittadini e che possono impedire loro di migliorare e di diventare più ricchi secondo le proprie capacità. E' uno stato che si pone come arbitro nella lotta tra gli interessi individuali dei cittadini, ma che non promuove il bene comune e il benessere sociale.

 

Quanto agli aspetti democratici va detto che lo stato liberale è anche necessariamente democratico. Liberalismo e democrazia, infatti, nascono dalla comune lotta agli assolutismi che offendono la libertà individuale e l'uguaglianza. La democrazia, come dice il termine stesso, è il potere del popolo che, in libere elezioni, lo affida a dei suoi rappresentanti per un periodo determinato. Essa è caratterizzata da tre aspetti fondamentali:

 

•     difesa dei diritti politici: tutti possono accedere alla gestione della cosa pubblica finalizzata al bene comune;

•     sistema elettivo popolare dei rappresentanti del popolo dal quale ricevono i poteri per mezzo dell'elezione;

•     il principio della maggioranza: governa chi ha ottenuto maggiori consensi; gli sconfitti vanno a formare l'opposizione, che ha compiti di sorveglianza e di critica.

 

Per quanto fin qui accennato, l'idea di fondo su cui poggia il liberalismo è l'assolutizzazione dell'uomo nell'espressione dei suoi diritti e della sua libera iniziativa. Tale prospettiva è, però, totalmente carente dell'importante aspetto sociale della difesa delle fasce più deboli. In tale prospettiva è fautore di lotte di classe e di conflitti sociali.

 

Il socialismo

 

Il socialismo muove dall'aspirazione di una uguaglianza sociale ed economica e dalla critica al liberalismo.

 

I primi socialisti, probabilmente a ragione, affermavano che l'uguaglianza politico-giuridica era formale. Infatti troppo spesso il potere dello Stato è detenuto da chi possiede poteri economici o da chi si è posto al servizio di questi. Di fatto ne risultano esclusi tutte le classi più deboli e socialmente esposte. Da ciò derivano ingiustizie sociali e intollerabili disuguaglianze che sono alla base dei conflitti sociali. Questi non sono causati tra governanti e sudditi, quanto tra capitalisti e proletari, ricchi e poveri. Urge, pertanto, combattere la disuguaglianza sociale ed economica.

 

Fin qui si può anche condividere il pensiero socialista, ma non nei mezzi di soluzione del problema: abolizione totale o parziale della proprietà privata e instaurazione di un regime socialista, fondato sulla proprietà collettiva. Tale ideologia, se applicata rigidamente come avvenne in URSS e avviene in Cina e altri paesi a regime socialista, porta l'uomo alla perdita della propria individualità e identità. Si ha una banalizzazione dell'uomo che scompare come individualità, assorbito dal collettivismo di massa. Esso, pertanto, è l'esatto opposto del liberalismo.

 

Benché il socialismo sia una dottrina antica (Platone, Tommaso Campanella, ecc), tuttavia solo con Marx-Engels si è passati da un socialismo filosofico-utopico ad uno scientifico-realista basato sul materialismo e l'economia.

 

Due sono gli indirizzi del socialismo:

 

•     Riformistico che punta ad una riforma dello Stato in senso socialista in termini graduali e nel rispetto dei diritti umani e della loro individualità, secondo un metodo democratico, come ad es. i laburisti inglesi e gli Stati del centro e nord Europa.

•     Rivoluzionario realizzato in Russia con la rivoluzione dell'ottobre 1917 ed ha avuto come suo esponente Lenin (1925) da cui il marxismo-leninismo. Esso fu impostato sulla violenza armata e terroristica ed ha portato allo scardinamento della società capitalistico-borghese. Alla dittatura della borghesia si sostituì quella del proletariato, cioè dello Stato.

 

Il cristianesimo sociale

 

Nel bel mezzo dello scontro ideologico e di sistemi politici impostati sul liberalismo e il socialismo, sorse una nuova dottrina sociale che prendeva equamente e criticamente le distanze tra le due ideologie del tempo: il cristianesimo sociale. Esso sorse in Germania ad opera di Von Ketteler (1811-18779, arcivescovo di Magonza, e si diffuse rapidamente in tutto il mondo, anche in Italia grazie a Giuseppe Toniolo (1845-1918).

 

Il cristianesimo sociale trovò con Leone XIII (1878-1903) e la sua "Rerum novarum" una guida magistrale in campo teologico-morale, da cui ebbe inizio la dottrina sociale della Chiesa finalizzata alla equità sociale e alla soluzione della "questione operaia".

 

Il pensiero cristiano-sociale combatte il liberalismo nel suo individualismo radicale, la libertà senza limiti in ordine ai profitti, la concorrenza economica senza regole che spinge ad una lotta di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi, dove sono i più poveri e i più deboli a soccombere socialmente.

 

Esso combatte anche il socialismo, condannando il collettivismo materialista che annichilisce l'uomo togliendogli ogni identità e ogni possibilità di sviluppo, asservendolo allo Stato, simbolo (ma solo simbolo) del bene comune e posto a salvaguardia del sistema socialista. Viene condannata la privazione della libertà e la lotta di classe spinta fino alla distruzione degli avversari.

Viene respinta l'abolizione della proprietà privata, considerata, invece, come indispensabile allo sviluppo pieno della personalità. Anzi se ne auspica la più ampia diffusione per tutti e una collaborazione tra operai e imprenditori, fino alla compartecipazione alla vita dell'impresa.

 

Per quanto riguarda lo Stato, il cristianesimo sociale ritiene che sia suo dovere intervenire a regolamentare la vita economica per proteggere soprattutto le classi più povere e le più deboli, con una legislazione sociale che promuova il bene comune di tutti, la collaborazione tra le classi. Mentre si pone contro lo statalismo e la lotta violenta tra classi e, in particolar modo, tra capitale e lavoro. Attenzione particolare attenzione, poi, va rivolta ai diritti delle famiglie, delle associazioni e della libera espressione religiosa.

  

Gli imperialismi liberista e socialista

 

Da dopo gli accordi di Yalta (1945) le due superpotenze, Russia e America, vincitrici dell'ultima guerra, ma ideologicamente contrapposte, crearono attorno a sé un'aggregazione di Stati a sostegno del loro potere e nei quali favorirono la diffusione del loro pensiero e dei loro sistemi. Ne conseguì la spaccatura del mondo in due blocchi contrapposti da cui si generò una "guerra fredda" o guerre vere e proprie per commissione o strumentalizzazione di conflitti locali di durata infinita (Vietnam, Corea, ecc.).

 

Fortunatamente con il crollo del sistema comunista (1989) si sono aperti ampli spazi di collaborazione che hanno portano tutti verso una globale unificazione mondiale, già anticipata nel potere commerciale delle multinazionali: la globalizzazione, che si pone a diversi livelli non solo commerciali.

 

Fede e ideologie  sociali

 

La fede, quale atteggiamento di apertura e di accoglienza di Dio nella nostra vita; quale decidersi esistenzialmente per Cristo; alimentata costantemente dalla luce della Parola di Dio, questa fede informa la vita di ogni cristiano, e lo aiuta a leggere la storia del proprio tempo, a comprenderla  e lo spinge alla testimonianza di quei valori di cui è portatore in virtù del battesimo. Gli consente, pertanto, una visione nuova della storia, del mondo e delle cose in genere, basata sulla solidarietà e sull'amore.

 

Una fede che non si identifica con nessuna ideologia, ma che, anzi sa darne una lettura critica e la spinge a purificarsi dagli estremismi e a porsi al servizio dell'uomo.

 

L'ambiguità dell'ideologia è quella di porsi quale soluzione soteriologica dell'uomo nella sua interezza, dimenticando che essa, in quanto prodotto dell'intelligenza umana, è sempre molto limitata dal contesto storico-culturale in cui è nata e si è sviluppata e, pertanto, a giochi finiti, risulta ad essere sempre una visione parziale delle cose e dell'uomo, così che finiscono per rendere gli uomini prigionieri dei loro stessi ferrei schemi e di produrre alienazioni senza fine. La storia è qui a rendercene testimonianza.

 

Dopo la caduta del muro di Berlino e la caduta dei due blocchi, si parla anche della fine delle ideologie. Ma sappiamo anche che l'uomo non può vivere senza ideologie, che consentono una lettura della storia e della vita dell'uomo, consento di strutturare la nostra società e di crearci una nostra identità. E poiché un mito si abbatte sempre in nome di un altro mito, è da chiederci quale configurazione ha il nostro nuovo mito?

 

Il nuovo mito a cui ispirarci è dato dal materialismo e dalla ricerca del nostro benessere nel suo ambito. Un benessere materialistico che si avvantaggi delle nuove tecnologie e dai continui messaggi pubblicitari che stimolano gli interessi degli uomini e ne gonfiano i desideri creando falsi bisogni. Questo porta l'uomo a ridurre la propria vita ad un unico livello materialistico in cui la ricerca del piacere, della soddisfazione immediata dei bisogni opportunamente stimolati, diventa la nuova religione. E non ci si accorge che una parte della nostra vita, quella più importante, viene mutilata: nessun uomo, per quanto cerchi, potrà mai trovare la soddisfazione piena del proprio vivere, la ragione e il senso del vivere all'interno dei ristretti confini della materia.

 

L'ideologia e il mito di un progresso continuamente rinnovato, a base economicistica e puramente quantitativo, ha mostrato tutta la sua insufficienza nel diffondere la giustizia e la solidarietà tra i popoli, stimolando, invece, gli egoismi personali, nazionali e internazionali.

 

Critica alle ideologie  moderne

 

E' indubbio che in ogni ideologia, che si pone ad un livello soteriologico, vi siano forme positive di riscatto dell'uomo, prese così in modo a se stante. Ma inserite, poi, nel sistema ne risentono della globale negatività e, pertanto, vengono inficiate nel loro messaggio di salvezza.

 

Così è stato anche per le due ideologie moderne preminenti:

 

•     l'ideologia liberale afferma l'autonomia dell'individuo nelle sue attività e nell'esercizio della sua libertà. Ma questa affermazione dell'individuo urta contro le esigenze della fede cristiana. Tale ideologia, infatti, tende ad esaltare le libertà individuali al di la di ogni limite, stimolando la molla dell'interesse personale, ponendolo come esigenza primari dell'uomo. In tale ideologia non c'è, però spazio per una politica di solidarietà con la parte più debole, lasciandola, invece, alla buona e libera volontà degli individui. Questo tipo di impostazione stimola gli egoismi e l'esaltazione dei propri interessi creando, all'interno delle comunità nazionali e internazionali, profonde spaccature sociali da cui vengono generati stati di conflittualità e di sofferenze sociali. Il libero mercato è giusto purché siano soddisfatti tutti i bisogni fondamentali degli uomini. C'è, pertanto, l'esigenza che lo Stato e le parti sociali controllino il libero mercato e impongano delle regole a salvaguardia dei più poveri e deboli. Così si riconosce giusto il conseguimento del profitto, indice di buona salute aziendale, ma questo deve essere perseguito senza calpestare altri fattori umani. Altrettanto si può dire che è giusto il pagamento del debito contratto. Ma ciò non è più lecito quando si pretendono pagamenti, imponendo scelte politiche che spingono alla fame e alla disperazione intere popolazioni, togliendo a loro ogni speranza nel futuro.

 

•     Quanto all'ideologia marxista-leninista, la Chiesa ha sempre negato l'adesione dei cristiani a questa perché in netto contrasto con aspetti essenziali della propria fede e con la concezione dell'uomo e del vivere sociale propri del cristianesimo. Infatti per un cristiano non sono accettabili il materialismo, l'ateismo militante, la violenza assunta come base di sistema, la lotta di classe fino all'annientamento dell'avversario, l'assorbimento dell'individuale nel collettivo fino ad annientare l'identità della singola persona e disconoscendone le personali esigenze.

 

Regimi di governo oggi

 

L'antica tripartizione delle forme di governo in monarchia, aristocrazia e democrazia, oggi non è più valida. Le forme di governo, oggi, si misurano dal livello di partecipazione dei cittadini al potere dello stato. Per questo si possono avere tre livelli di partecipazione:

 

•   Governi, dove la partecipazione dei cittadini viene esclusa perché il potere è in mano di pochi o di uno solo, danno origine a oligarchie o totalitarismi.

 

•    Governi, in cui la partecipazione è ridotta e non sufficientemente garantita dalla legge, danno origine forme autoritarie o assolutiste.

 

•    Governi, in cui il popolo e i suoi rappresentanti, tutelati da apposite legge, si avvicinando nella gestione della cosa pubblica, danno origine a forme democratiche in cui i cittadini, schierati in partiti, sindacati ed altre organizzazioni democratiche animano la vita democratica, a cui tutti sono chiamati a partecipare e fare propria.

 

Democrazia e  cristianesimo

 

Il Magistero della Chiesa ha sempre affermato la propria indifferenza circa le forme di governo. Alla Chiesa sta più a cuore che tali forme rispettino la dignità dell'uomo e le sue esigenze spirituali, morali e materiali, nonché punti al bene comune nel rispetto e nella emancipazione di tutti. Quale sia la migliore forma di governo spetta ai popoli definirla.

 

Tuttavia non si deve pensare che questa indifferenza sia insensibilità o noncuranza. Infatti, le numerose attenzioni e critiche che la Chiesa muove attraverso mezzi di stampa e di comunicazione, documenti sinodali, ecc. in merito ai Governi e al loro operato, denotano che la Chiesa è particolarmente sensibile e sempre presente nella vita civile dei cittadini e vigila affinché i valori del Vangelo non siano violati.

 

In tal senso, la Chiesa ha sempre più privilegiato le forme democratiche di governo in quanto più consone ai valori del Vangelo e più attente all'uomo e alle sue esigenze. Queste forme di democrazia e questa sempre più crescente coscienza e maturità democratica che si sta affermando tra i popoli viene letta dal Vaticano II come un segno dei tempi.

 

Nell'ambito di questa nuova coscienza democratica che permea sempre più i vari popoli della terra, il cristiano ha l'obbligo di partecipare e di farsi parte attiva per una testimonianza dei valori evangelici in mezzo alla società.

 

Le valutazioni di Giovanni Paolo II

  su democrazia e totalitarismo

 

La Centesimus Annus, nei paragrafi 44-52, può essere considerata una piccola Summa sulla democrazia ispirata cristianamente e rivolta, in particolar modo, a quei popoli che cercano di realizzare nei propri paesi forme democratiche di vita.

 

Afferma il papa che "La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati sia la possibilità di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno" (CA 46). Tuttavia, continua il papa, non è sufficiente la costituzione di uno stato di diritto, ma occorre che in esso ci si lasci guidare da una retta concezione della persona umana e dalla sua promozione e formazione ai principi della solidarietà.

 

E' sbagliato affermare che un'autentica democrazia si nutra di agnosticismo e di relativismo scettico; infatti "... se non esiste nessuna verità ultima, la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto o subdolo" (CA 46).

 

Il papa fonda la sua concezione di una società autenticamente democratica sul solido fondamento dei diritti umani. Ciò significa che la democrazia accettata dalla Chiesa è quella fondata sul riconoscimento e sulla promozione dei diritti umani e sugli autentici valori morali e culturali della socialità.

 

Purtroppo, constata Giovanni Paolo II, che non sempre questi diritti umani, anche dove vigono forme di governo democratico, vengono rispettati e promossi, allora si assiste a forme di degrado dei sistemi democratici "che talvolta sembrano abbiano smarrito la capacità di decidere secondo il bene comune. Le domande che si levano dalla società, a volte non sono esaminate secondo i criteri di giustizia e di moralità, piuttosto secondo la forza elettorale e finanziaria dei gruppi che la sostengono. Simili deviazioni del costume politico col tempo generano sfiducia e apatia con al conseguente diminuzione della partecipazione politica e dello spirito civico in seno alla popolazione, che si sente danneggiata e delusa" (CA 47)

 

Qanto al totalitarismo di Stato, Giovanni Paolo II lo condanna fermamente in quanto non solo incompatibile con il cristianesimo, ma anche contrario alla democrazia e a tutti i valori umani ad essa legati. Infatti nel totalitarismo, quello ateo in particolare, si negano i valori spirituali propri della persona umana, soggetto di diritti che nessuno può violare.

 

 

 

L'ordine morale nella comunità politica

 

 

 

Premessa

 

La persona umana, quale immagine di  Dio, non si realizza pienamente se non nel rapporto con glia altri, vissuto quale riflesso del rapporto con l'Altro, comunione di amore.

La socialità, pertanto, è una parte integrante della personalità, che trova la sua prima strutturazione e formazione nell'ambito della famiglia, prima società costitutiva e fondante l'altra società. Ciascuno, quindi, realizza se stesso nella misura in cui si impegna per il bene dell'altro.

 

In tale prospettiva le varie dottrine sociali del liberalismo, in cui l'uomo punta all'affermazione di sè indipendentemente dall'altro o servendosi dell'altro, che è considerato solo nella misura in cui serve per se stessi; del socialismo, in cui l'individuo è assorbito nella collettività e vive in sua funzione, a scapito della propria identità .

 

Dalla società civile a quella politica

 

La società, pertanto, potremmo definirla come l'insieme delle persone o gruppi di persone, tra i quali emerge in modo privilegiato la famiglia, nucleo fondamentale e fondante la società stessa, nel cui ambito ogni membro opera per il bene comune come per il proprio.

 

L'elemento caratterizzante di tale società è la collaborazione che, più evoluta è la società, più complessa diviene e maggiore necessità di coordinazione e gestione abbisogna, per finalizzare tutte le forze alla realizzazione del bene comune da cui, poi, tutti attingono.

 

Da questa complessità di rapporti e collaborazioni nasce la comunità politica, che regola le attività specifiche nel più ampio quadro della collaborazione sociale, finalizzata al raggiungimento e rafforzamento del bene comune che, unico, consente la promozione e l'evoluzione di ognuno e di tutti.

 

Comunità politica e bene comune

 

Il bene comune di tutti e di ciascuno, quale elemento di evoluzione e promozione umana, ha sempre costituito un centro di interesse per la morale sociale cristiana.

 

La comunità politica trova la sua giustificazione d'essere e d'agire proprio in funzione del bene comune. Al di fuori di tale prospettiva essa non ha ragion d'essere.

 

Molto si è parlato di "bene comune", ma cosa si intende con tale espressione?

 

Si potrebbe definire come "bene comune" l'insieme delle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle loro famiglie ed associazioni il soddisfacimento dei loro bisogni ad ogni livello, morale, spirituale e materiale e, quindi, il conseguimento del loro perfezionamento, quale sviluppo integrale della personalità.

 

L'uomo, quindi, si evolve e si perfeziona nell'ambito sociale da cui proviene e in cui trova la propria realizzazione e quanto è necessario per ottenerla.

 

In tal senso si esprime anche la nostra Costituzione all'art.2: "La repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale".

 

Quindi, un bene comune da cui ognuno può attingere, ma da cui scaturisce anche un obbligo di solidarietà, cioè un contributo proprio e personale.

 

L'autorità dello stato: origine, significato e finalità

 

In una pluralità di uomini, di famiglie, associazioni, comunità in cui sono legittimamente presenti opinioni e progetti diversi, talvolta contrastanti e in  cui non tutti sono in grado di subordinare i propri interessi e le proprie opinioni a quelle degli altri per il raggiungimento del bene comune, nasce perentoria l'esigenza di un'autorità che dirima le controversie e diriga le energie verso il bene comune.

 

Tale autorità deve avere anche gli strumenti adeguati per poter esercitare il proprio ruolo di arbitro comune.

 

Nell'ambito di questa società pluralistica e nell'esercizio di tale autorità, deve emergere un principio fondamentale: nessuna persona ha potere su di un'altra, e se lo ha, ciò è solo in quanto investita di una funzione pubblica e solo nei precisi limiti richiesti dalla funzione. Ogni scostamento diventa un abuso di potere perseguibile penalmente.

 

Le persone, chiamate a svolgere tale funzione, devono compierla come servizio alla comunità e al suo bene comune. Autorità, dunque, non come esercizio di dominio da parte di potenti, ma un servizio reso a favore di tutti. Pertanto, il bene comune è l'unica ragione d'essere dell'autorità, che appartiene all'ordine prestabilito da Dio, anche se la sua costituzione è lasciata alla libera scelta dei cittadini. Infatti Paolo nella sua lettera ai Romani afferma: "Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio." (Rm 13,1-2a).

 

Il bene comune è pienamente realizzato da parte dell'autorità quando ogni cittadino è sicuro dei propri diritti; così che tale aspetto tocca profondamente il tema della giustizia, la cui gestione e buon funzionamento indica il livello di maturità e sviluppo sociale di uno stato o, viceversa, il livello del suo degrado.

 

Lo Stato, dunque, come si è accennato poco fa, è un ordinamento sociale voluto da Dio e i suoi poteri, espressi in giuste leggi, corrispondono all'ordine morale voluto da Dio, a servizio di una pacifica convivenza, per il mantenimento dell'ordine pubblico a beneficio di tutti.

 

Tuttavia, va tenuto presente che lo Stato non è il fine ultimo poiché non possiede la verità, né, tanto meno, è la verità. Esso si costituisce, invece, quale strumento di servizio per il bene dei cittadini. Al di fuori di questi limiti egli si arroga un'autorità che non possiede e che diviene prevaricazione, violenza e sopruso e viola la dignità di quei cittadini che, invece, dovrebbe servire. A questo stato è lecito ed obbligo opporsi.

 

Si era citato prima S.Paolo in Rm 13,1-2a per sottolineare la legittimazione sacra del potere dello stato fin tanto che questi opera nell'ambito del bene dei cittadini.

 

Lungo i secoli, circa l'autorità dello stato, si sono formate alcune teorie di cui le più significative sono le seguenti:

 

•  Teoria della designazione: sorta nel XIX sec. in opposizione alla concezione della sovranità popolare, essa afferma che ogni singola persona, legittimamente investita di autorità, l'ha ricevuta direttamente da Dio. Applicandola nell'ambito della democrazia, si dovrebbe dire che il popolo elegge il suo candidato su cui Dio trasferisce direttamente l'autorità.

 

•   Teoria del trasferimento: secondo questa teoria, che risale ancora ai Padri della Chiesa e fu fatta propria dagli scolastici, l'autorità risiede nel popolo per disposizione divina. Questi, al momento dell'elezione, trasferisce nel candidato tale autorità.

 

Ma sarà solo con l'avvento di Giovanni XXIII che il passo di Paolo viene interpretato nel senso che l'autorità di Dio non viene conferita nei singoli governanti eletti, bensì si radica proprio nella funzione del governare. Ed è proprio questa la prospettiva in cui si pone la Gaudium et Spes.

 

Posta che l'autorità, secondo la visione cristiana, viene da Dio, quali sono le condizioni perché essa venga esercitata con legittimità? Il Concilio le riassume in tre punti:

 

•     Riguardo ai titolari, cioè al popolo, esso esprime la sua sovranità attraverso il voto e i referendum liberamente espressi.

 

•     Riguardo ai fini, si ritiene valido l'esercizio dell'autorità che si muove nell'ambito dell'ordine morale. Esso, come orienta ogni attività umana, deve parimenti orientare quella politica. Per questo, perché una legge sia valida moralmente ed obblighi in coscienza, deve tendere al conseguimento del bene comune in concreto, nel rispetto dell'ordine morale.

 

•     Riguardo all'esercizio del potere politico, tale esercizio deve avvenire sempre nell'ambito di quanto è stato stabilito dalle leggi; ogni diverso uso diviene un abuso penalmente perseguibile e moralmente inaccettabile. In tale modo si afferma, anche moralmente, lo stato di diritto e, implicitamente, il ripudio di ogni regime in cui il potere sia esercitato senza gli opportuni controlli e vincoli legislativi. Tuttavia, è accettabile che in certi casi di emergenza nazionale lo Stato apporti delle restrizioni ai diritti civili dei cittadini, purché queste siano limitate nel tempo e giustificate dalla contingenza. In ogni caso, anche ai fini del bene comune, è da considerarsi inumano e, pertanto, moralmente non accettabile, forme di autoritarismo che ledano i diritti delle persone e dei gruppi sociali.

 

Lo Stato e l'economia

 

I complessi rapporti all'interno di una nazione e in quelli internazionali, nonché, in particolare, quelli di tipo economico, così importanti e vitali per la sopravvivenza delle nazioni, nonché le ricorrenti crisi economiche nazionali e internazionali, hanno costretto lo Stato ad occuparsi di economia e viceversa, così che oggi politica ed economia formano un binomio centrale nella vita di ogni comunità e, pertanto, oggetto di particolare attenzione della morale.

 

Nel sistema liberale si è sempre cercato di non occuparsene, lasciando il campo sgombro per la libera iniziativa individuale. Mentre il sistema marxista-leninista ha cercato di inglobare in sé l'attività economica per averne un diretto controllo e poterla dominare ai propri fini. In entrambi i sistemi non ci si è accorti che il soggetto dell'economia era l'uomo e non una ideologia.

 

Fu Leone XIII ad affermare il diritto dello Stato ad intervenire nelle questioni di economia e di lavoro, con una sfrontatezza ed un coraggio unici per quel tempo. In tale prospettiva il papa affermava che lo Stato doveva intervenire per il bene comune e in particolar modo nei confronti dei deboli, poveri e della classe proletaria. In particolar modo per quanto riguarda gli interessi morali e spirituali degli operai, che erano la parte più debole, compreso il diritto al riposo festivo, la limitazione del tempo e della fatica del lavoro, specie per le donne e i bambini, il giusto salario.

 

Lo Stato deve fungere da grande regolatore e promotore di tutto il circuito economico per lo sviluppo attraverso piani di investimento e facilitando l'iniziativa privata, con un sistema fiscale giusto che promuova e non soffochi l'economia. Inoltre, lo Stato in dialogo con le parti sociali, Sindacato e le varie Confederazioni datoriali, deve essere l'artefice di una politica di sempre maggiore occupazione, creando movimento e giro di capitali.

 

Se, da un lato, il compito dello Stato è quello di concorrere e promuovere il bene comune e allo sviluppo integrale ed armonico dei propri cittadini; dall'altro, quello dei cittadini è quello di contribuire anche con proprie risorse al buon funzionamento dello Stato.

 

In tal senso si pone il pagamento delle tasse che, contribuendo al bene comune, diventano, per ciò stesso, un obbligo morale.

 

Il cristiano sa che quando lavora, lo fa anche per chi non ha lavoro o non è in grado di lavorare. Il reddito che egli percepisce non è solo suo, ma è già, in qualche modo, anche di quelli più svantaggiati di lui. Lo Stato, pertanto, nella sua funzione di ridistribuzione dei redditi nazionali, proprio attraverso il sistema fiscale recupera ricchezza che ridistribuisce sottoforma di interventi assistenziali o di investimenti in opere pubbliche o di creazione di nuove strutture che vanno a beneficio dell'intera comunità.

 

Il pagare le tasse può creare un problema quando l'imposizione non è equa o non è proporzionata al reddito; oppure quando lo Stato sperpera i soldi o li distribuisce malamente o non li investe proficuamente, oppure, li ruba sotto forma di tangenti o di falsi investimenti che, dopo essere stati iniziati o portati a termine, vengono abbandonati al degrado più completo;

 

L'imposizione fiscale può essere diretta (trattenuta alla fonte) o indiretta (imposizione posta sul consumo dei beni). Quanto alla prima, essa deve essere proporzionata al reddito e, attraverso un sistema di detrazioni dall'imposta, salvaguardare anche i carichi familiari e le particolari situazioni personali in cui i cittadini vengono a trovarsi. Quanto alla seconda, va detto che essa porta in sé un aspetto di ingiustizia poiché, venendo imposta sui beni di consumo, è uguale per tutti, indipendentemente dalle capacità contributive delle persone, siano esse povere o ricche. Tale imposta, tuttavia, si rende necessaria sia perché costituisce una consistente fonte di gettito per l'erario statale, sia perché può limitare il consumo dei beni in genere o determinate fasce di beni, orientando così i consumi dei cittadini.

 

Forme di partecipazione alla vita pubblica

 

Se compito dello Stato è concorrere e promuovere il bene comune, compito dei cittadini è quello di partecipare, secondo le proprie capacità e attitudini, alla vita sociale e alla gestione della cosa pubblica.

 

Per questo lo Stato deve creare strutture politiche e giuridiche che aprano a tutti i cittadini evitando che questi vengano discriminati per le loro particolari condizioni sociali.

 

Condizioni fondamentali per poter partecipare adeguatamente alla vita politica e sociale sono un'adeguata istruzione che consenta una lettura critica dei fatti e degli avvenimenti che formano la vita pubblica. Serve, ancora, un'adeguata informazione, anche critica, dell'attività del Governo e dello Stato in genere, così che tutti i cittadini siano al corrente degli avvenimenti che sono chiamati a vivere e a valutare.

 

Le forme con cui i cittadini possono partecipare alla vita pubblica sono il voto, quale libera scelta politica dei propri governanti o quale possibilità di dire la propria su certe leggi, nel caso dei referendum; essi devono avere anche la libertà di associazione o di aggregazione in partiti politici, che devono promuovere ciò che, secondo loro, è il bene comune. A questi non è lecito, tuttavia, anteporre il proprio bene privato su quello pubblico, né devono divenire centri di potere concorrenti a quello dello Stato o, subdolamente, manovrare perché lo Stato e il Governo fallisca i propri obiettivi per poi poterne beneficiare in termini politici.

 

Il campo sociale e politico è un vasto luogo di impegno per il cristiano in cui è chiamato a testimoniare i propri valori nell'impegno soprattutto verso le categorie deboli in cui deve risplendere il valore della carità e della solidarietà sociale, perseguita al di là di ogni egoismo individuale o di gruppo.

 

Il diritto di resistenza

 

Tale diritto si pone nei confronti di quelle autorità che non rispettano le regole di esercizio del loro potere, violando i diritti umani e il bene comune.

 

Ogni esercizio di potere, per essere lecito, deve essere a servizio della giustizia e del diritto sancito dalle leggi; deve essere finalizzato al bene comune e alla promozione dei diritti di tutti i cittadini.

 

Quando la gestione del potere si pone al di fuori di questi fini, esso diventa illegittimo, in quanto contrario alla difesa e alla promozione dei diritti umani. In tale caso diventa dovere di ogni cittadino porre una resistenza passiva o attiva.

L'abuso nell'esercizio di potere, al di là delle varie forme più o meno subdole, può manifestarsi o in un'oppressione con leggi singole, nel cui caso è doveroso difendere i diritti propri e dei cittadini contro gli abusi, adottando una resistenza passiva, cioè non osservando la legge opponendole l'obiezione di coscienza, ma anche una resistenza attiva, ponendo in atto tutti gli strumenti che costringano l'autorità a rivedere la propria posizione; o in una prolungata oppressione presa a sistema, in tale caso si può giungere anche alla rivolta e alla rivoluzione.

 

La resistenza passiva, comunque, è sempre obbligatoria nel caso in cui il comportamento adottato dall'autorità sia contrario all'ordine morale e naturale. Il richiamo del "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" vale sempre e comunque, anche se ciò può comportare un pagare personalmente. Molti personaggi hanno pagato con la vita la conquista e la difesa dei diritti civili di tutti.

  

 

 

ETICA DELLA COMUNICAZIONE

 

 

 

Premessa

 

La nostra epoca è caratterizzata dall'espandersi di mezzi di comunicazione sempre più numerosi e dalla tecnologia sempre più sofisticata e complessa. Mezzi di comunicazione che hanno abbattuto definitivamente ogni limite spazio-temporale e grazie ai quali tutti sono in comunicazione con tutti e le informazioni sono fornite indistintamente a tutti in tempo reale.

 

Paradossalmente oggi l'uomo mai è stato  così tanto solo, mai ha sofferto tanta solitudine come ai nostri giorni, mai ha avuto tanta difficoltà di comunicare e di farsi capire, mai si è trovato in situazioni di incomunicabilità che lo alienano, lo irritano, lo frustrano e lo portano inevitabilmente alla depressione e a degenerate forme di aggressività.

 

Nascono, quindi, situazioni di tensioni che sfociano in stati di conflittualità e che esprimono la difficoltà o l'incapacità di dialogo.

 

Tutto ciò ha due radici fondamentali:

 

•  La difficoltà dell'uomo a dialogare con se stesso per mancanza di tempo e di silenzio interiore. L'incapacità,quindi, di ritrovare se stesso e la propria identità.

•   I troppi, gli eccessivi canali comunicativi che lo bombardano quotidianamente e non gli danno la possibilità di riflettere e selezionare le informazioni e i rapporti che gli vengono imposti, per cui ne rimane fatalmente vittima inconscia.

 

Se l'uomo è essenzialmente un essere dialogico che tende a instaurare rapporti e ad elaborarli in sé, nasce urgente, allora, la necessità di raddrizzare e riorientare la sua socialità e la sua capacità dialogica, ammalate e distorte, attraverso opportune valutazioni e riflessioni su se stesso.

 

Il compito di tale valutazione è affidato alla ricerca morale che, attraverso opportune considerazioni e riflessioni, aiuta l'uomo a ritrovare se stesso e a diventare padrone di quell'ambiente che, se non coscientizzato, tende a dominarlo creandogli stati di ansia, inquietudine e frustrazioni.

 

 

Le ragioni della crisi della comunicazione

 

 

 

L'uomo massificato

 

L'avvento della civiltà dell'industrializzazione ha provocato uno stato di grave spersonalizzazione dell'uomo, gettandolo nell'anonimato fino alla perdita della propria identità.

 

Infatti, tale civiltà ha provocato l'abbandono in massa della vita dei campi e della famiglia di tipo patriarcale, nel cui ambito tutto si svolgeva con regolarità secondo una ritualità ed una  saggezza trasmesse da una tradizione che creava, a sua volta, comportamenti predefiniti nelle persone; queste, inoltre, svolgevano la loro vita secondo ritmi molto vicini a quelli della natura. Le soluzioni dei problemi e delle tensioni personali o relazionali, che potevano sorgere all'interno del gruppo patriarcale, erano assorbiti e supportati interamente dal gruppo in cui ognuno aveva un ruolo specifico e si riconosceva.

 

L'allettamento di un lavoro sicuro a reddito fisso e certo, periodi di riposo compensati, tutele per la malattia e la maternità ed altri diritti ancora costituirono un forte richiamo che attrasse in città e nell'industria enormi masse di contadini.

 

Tutto ciò, tuttavia, non fu indolore. Lo sradicamento dal tessuto culturale originario, infatti, e il passaggio da una famiglia patriarcale ad una di tipo nucleare hanno determinato nell'uomo situazioni completamente nuove che gli ingenerarono insicurezza, instabilità, stati di frustrazione e di ansia, perdita di identità.

 

Ben presto dal gruppo patriarcale ci si è ritrovati in una società anonima ed ostile in cui tu non sei nessuno e in cui tu non ti ritrovi più. Ha così inizio un processo di massificazione che investe l'uomo ad ogni livello. Infatti, l'introduzione di nuove tecnologie e di nuove metodologie di lavoro hanno fatto perdere il carattere umano del lavoro, sostituito dal profitto e dall'interesse meramente economico. Non è più il lavoro uno strumento di evoluzione da cui trarre il necessario per il proprio vivere, ma l'uomo stesso è diventato uno strumento di lavoro, finalizzato alla produzione.

 

Massificato in anonimi centri urbani, destituito della propria identità e, spesso, della propria dignità, l'uomo è stato ridotto sempre più ad un numero, ad una cosa, ad un oggetto, mentre i mass-media incidono sulla sua cultura e la sua formazione sociale e personale, creando comportamenti e tendenze comuni a tutti, con profonde conseguenze anche nelle relazioni familiari e personali. Grazie a queste, il mondo diventa sempre più un "piccolo villaggio" che incide sempre più sulla vita dell'uomo espropriandolo della sua stessa vita privata e della sua intima identità. Ora, egli è un oggetto su cui la cultura consumistica punta tutte le sue potenzialità: egli è diventato un consumatore su cui si studiano comportamenti e reazioni.

 

Quanto al lavoro, lo sviluppo delle tecnologie spingono a mutare le metodologie di lavoro finalizzate ad una produzione sempre più efficiente ed economicamente competitiva. A tutto questo l'uomo è asservito e i suoi ritmi vitali sono stravolti e frustrati. Il risultato è una crescente limitazione della libertà che porta ad un abbrutimento esistenziale.

 

I mass-media creano situazioni di dipendenza e di forte assorbimento passivo verso ciò che viene comunicato, riducendo le capacità critiche. In tal senso, significativo è il passaggio dalla radio alla televisione, dal semplice ascolto all'assorbimento dell'immagine che penetra all'interno dell'uomo senza necessariamente passare al vaglio della coscienza.

 

I mass-media, così assorbiti, creano tendenze, modi di pensare, creano cultura comune, creano massificazione fino al punto di illudere il singolo uomo che ciò che pensa sia il suo pensiero e ciò che fa siano sue scelte. In realtà si passa dall'uomo autodiretto a quello eterodiretto. I suoi rapporti sociali e il desiderio di mantenere il contatto con gli altri si traducono in rigido conformismo.

 

In tale ambito, si forma una sorta di ideologia paneconomica in base alla quale tutto è quantificabile e monetizzabile, tutto ha un valore economico. In tal modo vengono persi i rapporti umani più profondi che sono, invece, sostituiti da rapporti economici. L'uomo viene ridotto ad una cosa quantificabile ed è valutato secondo meri criteri di efficienza, di utilità, convenienza e di consumo. L'uomo, quindi, diventa interessante nella misura in cui da lui si può ricavare un qualcosa di utile per i propri interessi.

 

In questa prospettiva concreta si muovono i mass-media gestiti da potenti gruppi economici e finanziari. Significativa, in tal senso, è la pubblicità per la cui realizzazione si studiano a fondo le strutture psichiche dell'uomo per poterle condizionare e muoverle a proprio favore.

 

Il difetto fondamentale di questa società di massa è l'esasperazione dei consumi per favorire i quali si stimolano bisogni, si creano e si gonfiano false esigenze, portando nell'uomo ad un disorientamento esistenziale e ad una perdita del senso della vita e di ciò che conta veramente. A tal punto l'uomo perde la propria identità e, di conseguenza, la propria capacità comunicativa e relazionale. Si arriva, così, alla espropriazione della soggettività dell'uomo che, ora, è in grado di pensare e volere ciò che i mass-media dicono e che è ciò che dicono tutti i massificati.

 

La dinamica del processo comunicativo

 

La comunicazione è un processo molto complesso che vede i  gioco numerosi ed elaborati fattori. Schematicamente potremmo delineare tale processo in tre fasi con movimento circolare:

 

•    C'è un emittente che ha un messaggio da trasmettere ed è mosso da finalità precise. Proprio queste finalità lo spingono a compiere delle scelte oculate affinché il suo messaggio giunga a destinazione e produca la risposta voluta (feedback).

 

•   Nasce, quindi, la ricerca degli strumenti più idonei per far giungere il proprio messaggio; strumenti che vengono scelti, linguaggi che vengono strutturati in base ad uno studio accurato del destinatario e delle sue dinamiche profonde.

 

•   Infine abbiamo il destinatario che spesso ignora di essere un oggetto di particolare attenzione e di attento studio da parte del suo interlocutore. Ignora, spesso, che egli è chiamato a dare una risposta, ma non una risposta qualsiasi, ma quella voluta dal suo interlocutore. Egli si crede protagonista di relazioni sociali, mentre ne è, spesso, una vittima inconsapevole. Questi, comunque, dà una risposta, come reazione al messaggio ricevuto. Una risposta che è condizionata sia dal messaggio stesso, ma anche dalla propria cultura, dalla propria educazione e storia. La risposta, pertanto, non è più una semplice reazione fisica ad uno stimolo esterno, ma una reazione molto elaborata che può diventare, a sua volta, un messaggio da decodificare e interpretare per l'originario emittente. In tale caso il destinatario si trasformato, a sua volta, in emittente.

 

Quando la comunicazione si allarga a grandi masse di persone, allora, nasce la comunicazione di massa. In tale caso l'emittente si trasforma in una struttura di comunicazione. Entrano in gioco interessi molto rilevanti ad ogni livello, come l'ideologia del gruppo di potere che detiene la proprietà dello strumento di comunicazione. A tal punto, idee e fatti vengono diffusi secondo una determinata prospettiva politica, ideologica propria dell'emittente. Fatti, avvenimenti, idee non sono più elementi neutri, ma interpretati secondo determinate logiche. Essi sono finalizzati a creare opinione pubblica, tendenza, cultura di un certo tipo, predisposizioni favorevoli e quant'altro. Essi creano standardizzazione, creando dinamiche di aggregazione e solidarietà attorno a determinati valori o pseudo-valori. I mass-media, quindi, diventano sostegni di un sistema condizionando l'opinione pubblica, ma nel contempo, a loro volta, non sfuggono al condizionamento ideologico, economico, politico, ecc.

 

Anche il ricevente, qui, non ha più una sua fisionomia precisa, ma diventa "audience" e le sue reazioni, le sue risposte (feedback) diventano multiple, imprevedibili e, spesso, difficilmente interpretabili, proprio perché davanti non si ha una persona, ma una massa anonima, difficilmente sondabile. Il messaggio di ritorno, pertanto, perde la sua immediatezza e viene classificato in base a "indici di gradimento o di popolarità". Per ottenere questo ci si affida ad indagini demoscopiche

 

 

La verità nella comunicazione

criteri di discernimento etico

 

 

 

Alcune figure di verità nella comunicazione

 

Nell'ambito della comunicazione si impone, quale elemento determinante della comunicazione stessa, la verità.

 

Ma che cos'è la verità? E' difficile a dirlo. Va, innanzitutto, superato qui il concetto  tradizionalistico di verità, intesa secondo parametri oggettivistici: la verità in sé e per sé. E' un tipo di verità questa che non soddisfa pienamente e non coglie la profondità e la pienezza di ciò che è vero. Va tenuto presente che nell'ambito della storia la verità non si lascia cogliere integralmente, ma per sua natura è sempre relativa e abbisogna di continua ricerca e apporti personali, continui approfondimenti.

 

Vediamo, dunque, quali sono i tratti che qualificano la verità nell'ambito della comunicazione:

 

•   Il primo tratto che emerge è il carattere di relazionalità della verità, cioè una verità che nasce dal rapporto dialogico con gli altri, mediante la fusione, ove possibile, delle rispettive comprensioni della realtà. Il punto di partenza, per questo aspetto della verità, è la percezione autentica di sé, punto finale di un lungo processo di maturazione; ciò porta alla percezione autentica dell'altro. Pertanto, autenticità con se stessi e veracità nelle relazioni con l'altro sono tra loro interdipendenti. L'accettazione di sé e della propria diversità è la condizione per l'accettazione e la diversità dell'altro. Tutto ciò costituisce il presupposto per cogliere l'altro come valore e, quindi, capace di cogliere la sua verità che mi può arricchire.

 

•   Il secondo tratto emergente è il carattere di storicità della verità. La storia, per sua natura, limita ogni comprensione dell'uomo, a motivo delle sue categorie spazio-temporali che la compongono, e il tratto che la contraddistingue è il divenire. In questo ambito si pone la verità che, in quanto storica, non è mai assoluta, ma sempre relativa. Essa, pertanto, non si lascia cogliere nella sua interezza, ma oscurata dalla storia, abbisogna di continue ricerche, approfondimenti, confronti e, talvolta, di lunghe sofferenze. La verità nella storia va colta in modo dinamico e accompagna la maturazione e lo sviluppo dell'uomo. Ha bisogno di continue precisazioni e interpretazioni e non si pone mai come dato definitivamente acquisito. Pertanto, quando si crea una identificazione della verità con i fatti, quando si opera una sua oggettificazione, scambiandola per oggettività, si svilisce il senso stesso della verità che per sua natura è estremamente complessa e affonda le sue radici nel mistero, cioè nella irraggiungibilità ultima delle cose e dell'uomo. Il pensare diversamente può portare ad una errata comprensione della realtà e dell'uomo stesso, banalizzandoli.

 

•   L'ultimo tratto emergente è il carattere di trasparenza e di bellezza proprio della verità. Tale aspetto costituisce l'anima della verità stessa che ci spinge ad entrare nella realtà delle cose e a superarne l'aspetto esteriore, quello più appariscente, che dice, ma non dice tutto. Per approcciarsi a tale aspetto della verità bisogna sviluppare nel proprio intimo un atteggiamento di stupore e di accoglienza verso le cose che porta a condividere il mistero di cui sono permeate. Senza questo aspetto tutto si trasforma in un muro invalicabile.

 

In definitiva, il linguaggio della verità nella comunicazione è il linguaggio simbolico che mostra senza voler dimostrare, lascia intuire e rimanda oltre. E' il linguaggio che non profana la realtà, ma la lascia avvolta nel suo mistero e così la offre alla riflessione e all'arricchimento di tutti. Ogni cosa pienamente svelata è anche profanata.

 

Nel cuore della verità cristiana

 

Le caratteristiche proprie della verità fin qui accennate trovano ampia conferma nell'esperienza cristiana, che è attenta agli aspetti personali e storici dell'esistenza umana e, soprattutto, alla sua dimensione trascendente.

 

Parallelamente a quanto sopra, la verità cristiana si presenta come:

 

•     Verità personale: infatti, il Vangelo non è una ideologia, un sistema filosofico o dottrinale. Esso, innanzitutto, è una persona, Gesù Cristo, che ci rivela la sua esperienza di Dio e si pone come luogo storico, come sacramento d'incontro tra Dio e l'uomo, consentendo una comunicazione e una comunione tra i due. Per eccellenza Gesù si pone non solo come il comunicatore del Padre ("Filippo, chi vede me vede il Padre ... Io e il Padre siamo una cosa sola ... le cose che io dico non le dico da me, ma è il Padre che le compie in me" Gv), ma anche come lo strumento attuatore di questa comunicazione; una comunicazione che non è di massa e anonima, ma punta sull'uomo come persona, come individuo e come tale è cercato da Dio e come tale intrattiene rapporti con lui e gli si comunica. Gesù non propone una salvezza di massa, ma di persona; Dio non si comunica agli uomini in genere, ma all'uomo che incontra singolarmente nell'intimo della sua coscienza e lungo il cammino della sua personale storia, rispettandone i tempi di crescita e di maturazione; rispettandone la cultura e la sua evoluzione.

 

•     Verità nella e attraverso la storia: dopo la colpa originale dell'uomo, che lo ha posto fuori dalla dimensione divina, Dio ne tenta il recupero e lo fa attraverso la storia. Essa, pertanto, diventa il sacramento d'incontro tra Dio e gli uomini, lo spazio privilegiato in cui si svolge il dialogo salvifico con gli uomini. Ecco, pertanto, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, il popolo, i profeti, l'Alleanza, la Legge e, da ultimo, il Cristo. Una visione storica questa che lo stesso autore della lettera agli Ebrei ci propone: "Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (Eb 1,1-2a). La verità cristiana, dunque, è essenzialmente una verità storica, che si assoggetta alla legge del divenire e della gradualità della conoscenza umana. In quanto verità storica, poi, essa è soggetta a costante interpretazione poiché, per lo stesso limite imposto dalla storia, non è immediatamente e totalmente coglibile, ma abbisogna di una continua e, spesso, sofferta ricerca, così che la comunità cristiana è chiamata a crescere nella conoscenza della verità sotto lo stimolo provocatorio dei "segni dei tempi" che la spingono alla scoperta di nuove dimensione dell'identico messaggio.

 

•     Verità dal carattere fondamentalmente simbolico: la comunicazione della verità cristiana non è una comunicazione di sapere, ma di potere, nel senso che, una volta colta, questa verità stimola l'uomo ad una continua ricerca e ad un continuo  approfondimento, senza mai giungere alla conclusione. E' una verità che spinge l'uomo a muoversi nel mistero, a sondarlo, ma senza mai promettergli un suo pieno raggiungimento, poiché esso ha le dimensioni di Dio. Il linguaggio della rivelazione, come quello della liturgia e del sacramento, è sempre un linguaggio simbolico-evocativo, mai dimostrativo; è un linguaggio che rimanda sempre al di là di ciò che dice. L'economia cristiana è per definizione una economia simbolica che rispetta sempre il mistero dell'Essere, di ogni essere.

 

Condizioni etiche per una comunicazione autentica

 

Si potrebbe definire la comunicazione autentica come una relazione paritaria tra emittente e ricevente nel cui ambito c'è un reciproco scambio informativo che punta ad una completezza dell'informazione e all'arricchimento reciproco.

 

Ma quali sono le condizioni etiche perché ciò avvenga? Quali sono le caratteristiche che devono qualificare la comunicazione?

 

Quattro sono gli elementi possibili per attuare un'equa comunicazione:

 

•     La veracità: essa riguarda sia il dato che viene comunicato sia la forma con cui ciò avviene e, non da ultima, la forza interpellativa che è data dalla capacità dell'emittente di parlare al "tu" e di coinvolgerlo. La gestione dinamica ed equilibrata di questi aspetti aiutano molto le due parti alla comune crescita ed arricchimento. I rischi da evitare sono l'impersonalità, cioè il distacco da quanto si comunica, facendo prevalere il ruolo che si esercita o di cui ci si sente investiti; e la funzionalità, cioè il finalizzare l'informazione a interessi specifici o al conseguimento di determinati obiettivi.

 

•     La pariteticità: essa riguarda strettamente i rapporti di forza e di equilibrio di potere tra i due parteners (emittente e ricevente): l'emittente deve poter diventare ricevente e viceversa. Ecco che, allora, quando si parla di mass-media sorge immediatamente la necessità di precisi strumenti di controllo sul messaggio e sulle sue modalità di trasmissione per evitare che, eccessivo accentramento di potere comunicazionale o di monopolio, possano uniformare pensiero, cultura, togliendo o diminuendo la capacità critica delle persone, creando, in tal modo, tendenze. Una emittenza chiusa e non dialogica, infatti, produce un ricevente passivo, dipendente e, perciò stesso, sempre più alienato. La strada da percorrere, pertanto è quella di una partecipazione sempre più allargata alla gestione degli strumenti di comunicazione, creando pluralità di informazione e sviluppando la capacità critica.

 

•     Il disinteresse: esso consiste nel superamento di ogni forma di manipolazione utilitaristica delle notizie e delle informazioni in genere. In tale prospettiva, una parola va spesa sulla pubblicità, che per sua natura è uno strumento comunicazionale orientato a persuadere, spesso in modo equivoco e talvolta disonesto, il consumatore, considerato solo un oggetto di studio e uno strumento di consumo su cui far convergere tutte le proprie interessate attenzioni. Difficilmente la pubblicità, posta all'interno di una società caratterizzata da una sfrenata logica consumistica, riesce a rispettare le esigenze etiche, benché i decaloghi e le norme, autonomamente promosse, si sprechino. Infatti, la società è nel suo insieme orientata ad alimentare la corsa ai consumi, introducendo artificialmente nell'uomo  nuovi bisogni che si rivelano, poi, in larga misura superflui, creando necessità che tali non sono e che, a lungo andare, creano disorientamento esistenziale, per cui l'uomo non è più in grado di valutare correttamente ciò che gli è necessario da ciò che, invece, è semplicemente inutile. Spesso tali stimolazioni pubblicitarie fanno leva sulla istintualità e sui meccanismi dell'inconscio, toccando e violando la sacralità dell'uomo che, in tal modo, viene manipolato e profanato. Quanto fin qui detto per la pubblicità vale parimenti anche per la politica in cui la finalità non è vendere un prodotto, ma l'affermazione di una ideologia con l'uso di strumenti di persuasione occulta e di controllo dell'opinione pubblica.

•     La criticità: essa è un elemento indispensabile di un sistema democratico e di equilibrato sviluppo della personalità. La comunicazione, quindi, deve essere orientata a suscitare e a stimolare in chi la riceve diversità di pensiero, mettendolo in grado di fornire risposte diversificate. In tal senso la comunicazione deve porsi come aperta e dinamica, priva di finalità persuasive e di convincimento.

 

Gli interventi del Magistero

 

In un campo così vasto, sempre più complesso e di estrema e vitale importanza per la società e l'uomo singolo, quale è quello della comunicazione di massa, non poteva rimanere assente la voce della Chiesa.

 

I primi documenti del magistero ecclesiale (Divini illius magistri, 1929 - Casti connubii,1930)  furono caratterizzati da un atteggiamento piuttosto negativo e preoccupato.

 

La "Vigilanti cura" del 1936 riprende la questione in modo più sistematico e dottrinale, mettendo in rilevo aspetti negativi e positivi dei mezzi di comunicazione. Ad essa fanno seguito una serie di interventi di Pio XII che culminano nella "Miranda prorsus" del 1957.

 

Dobbiamo, però, aspettare il Concilio Vaticano II per avere una trattazione teologica più precisa e aperta, in particolare con la promulgazione del decreto "Inter mirifica" del 1963 e della successiva istruzione pastorale "Comunio et progressio" del 1971 a cura della Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali.

 

In particolar modo in questi ultimi documenti l'approccio alla questione è del tutto positiva e, per certi aspetti, anche ottimistica.

 

I mass-media sono presentati come strumenti capaci di influenzare profondamente la mentalità e il comportamento degli uomini, favorendo la comunione e il progresso della società. Infatti l'unificazione del genere umano e lo sviluppo di un clima di solidarietà passano proprio attraverso i mezzi di comunicazione sociale, che danno voce alle attese e ai problemi dell'umanità, sensibilizzando gli uomini tutti.

 

Alla radice della riflessione sui mass-media vi è l'antropologia biblica: l'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è chiamato a possedere la terra; ma, purtroppo, il peccato ha intaccato l'intimo dell'uomo alimentando in lui divisioni, discordie, conflittualità che sfociano nella incomunicabilità. In questa situazione di degrado morale e spirituale è apparsa la luce del Cristo risorto, che qui viene proposto come il grande comunicatore del Padre e colui che riesce a mettere in comunicazione e in comunione Dio con gli uomini, adeguandosi alle esigenze degli ascoltatori e usando un linguaggio facilmente comprensivo e altamente evocativo (le parabole e i segni). A supporto di tale comunicazione Gesù ha posto l'amore e il profondo rispetto per le persone.

 

Tale modello costituisce per il cristiano un irrinunciabile punto di riferimento.

 

I mass-media, secondo il Magistero, devono essere valutati nell'ambito di questa visione cristiana dell'uomo, tenendo presenti le nuove possibilità offerte, ma anche i notevoli rischi che conseguono ad un uso distorto e peccaminoso di tali mezzi.

 

Infatti, se da un lato, tali mezzi producono il superamento delle barriere spazio-temporali, favorendo la comunione tra tutti gli uomini, la partecipazione attiva alle vicende dell'intera umanità, favorendo la solidarietà e lo scambio reciproco, creando cultura, concorrendo a superare l'analfabetismo e la discriminazione di classe e di cultura; dall'altro, si prospettano concreti pericoli, quali il travisamento della verità da parte di chi li gestisce, la fuga nel sogno e nella fantasia quale distanziamento dalla realtà, lo sviluppo di atteggiamenti individualistici e qualunquistici, che impediscono la crescita dei rapporti umani.

 

L'etica che viene proposta da questi documenti, in particolare dalla "Comunio et Progressio", si muove in una prospettiva di grande apertura nei confronti dell'opinione pubblica, considerata come un bene irrinunciabile dell'umanità ed è vigorosamente difeso.

 

Il pluralismo deve essere considerato come un elemento fondamentale per una comunicazione libera ed autentica.

 

Da qui nasce l'esigenza di una profonda preparazione professionale, culturale ed umana degli emettitori della comunicazione  su cui pesa una grande responsabilità.

 

Non meno rilevanti sono le responsabilità dei ricettori, i quali non devono essere considerati come soggetti passivi, ma devono essere messi in grado di saper interpretare e criticare adeguatamente i messaggi loro proposti. Da qui discende che sarebbe buona cosa insiste più che sulla censura, sulla preparazione, formazione e maturazione di ogni uomo.

 

La preoccupazione dei documenti magisteriali recenti è quella di salvaguardare la libertà dell'uomo ad ogni livello così che la sua identità non sia violata; egli deve essere rispettato nel suo autonomo modo di pensare e decidere.

 

 

Problematiche etiche della comunicazione sociale

 

 

 

Né apocalittici né integrati

 

E' indubbia l'influenza dei mass-media sullo sviluppo sia della vita sociale che individuale. La loro diffusione ha modificato la struttura familiare, il modo di pensare e di comportarsi fino a produrre una sostanziale mutazione antropologica che si riflette immediatamente nel modo di vivere e di ragionare. Essi concorrono, assieme ad altri fattori, a creare una nuova cultura e una nuova civiltà.

 

Di fronte a tale impatto quale atteggiamento assumere?

 

E' necessario, innanzitutto, superare due aspetti in netta contrapposizione tra loro che esprimono una visione globalizzante della realtà: c'è chi è decisamente aperto e favorevole all'affermazione dei mezzi di comunicazione fino ad assumere comportamenti acritici; c'è chi li vede come elementi fortemente condizionanti e negativamente massificanti e, quindi, da respingere totalmente o da guardare con forte sospetto.

 

Dietro a queste due visioni ci stanno due opposte concezioni dell'uomo: l'una aristocratica, improntata alla valorizzazione del singolo con un netto rifiuto di qualsiasi fenomeno che porti alla massificazione o al superamento delle disuguaglianze sociali. L'altra socialista, tollerante, aperta a tutti indistintamente e contro ogni fenomeno restrittivo delle libertà sociali con un'ampia fiducia nelle capacità dell'uomo di sottrarsi ai condizionamenti.

 

Come al solito "In medio stat virtus".

 

E' necessario, quindi, elaborare un'etica che superi le due posizioni sopra accennate poiché entrambe sono inficiate da una visione totalizzante della realtà dei mezzi di comunicazione che non tiene conto della ambivalenza, positiva e negativa, presente in ogni attività umana. In verità, i mezzi di comunicazione sociale, come ogni altra cosa, in sé e per sé, non sono né buoni, né cattivi, ma il tutto dipende dall'uso che se ne fa.

 

Una buona etica delle comunicazioni deve puntare non a stabilire ciò che è bene o male, ma a sviluppare una capacità critica sia negli emittenti che nei ricettori, fornendo loro dei valori di riferimento su cui conformare le loro scelte e i loro comportamenti, assegnando loro le rispettive responsabilità.

 

Comunque, il giudizio sui mass-media va dato tenuto conto dell'uso concreto che ne fa l'uomo e va formulato guardando con concreto realismo alla grande influenza esercitata sulla nostra cultura, considerando i modelli di pensiero e di comportamento da loro propugnati. Ciò che ne esce è la constatazione di una vita radicalmente trasformata e condizionata ad ogni livello: da un lato, arricchimento culturale, di linguaggio e di informazione; dall'altro, il rischio concreto di una omologazione e standardizzazione di linguaggio, modi di pensare e di comportarsi, cioè la massificazione.

 

Queste forti pressioni esterne che si scaricano sull'uomo, modificandolo anche interiormente, spingono ad una nuova visione dell'uomo e del suo destino capace di sviluppare in lui una nuova comprensione di valori da cui far nascere una solida capacità critica, di scelta e di orientamento esistenziale.

 

Messaggio e strumento

 

L'uso dei mezzi di comunicazione di massa, sia nel bene che nel male, hanno sviluppato notevolmente la capacità di comunicazione e di interazione dell'intera umanità, riducendo notevolmente e, per certi aspetti, annullandole le barriere spazio-temporali, portando l'uomo all'acquisizione di nuove possibilità che stimolano la sua natura e la spingono al suo sviluppo e al suo arricchimento e, spesso, anche impoverimento.

 

Il compito dell'etica, oltre a quello di sviluppare una riflessione e una assiologia di merito, è quello di ricondurre tali potenti strumenti di comunicazione al servizio dell'uomo.

 

Va messo a fuoco, a tal punto, il rapporto che esiste tra il messaggio, gli strumenti e l'uomo.

 

Si può dire che in una società fortemente strutturata sul consumismo, il meccanismo che soggiace nella produzione del messaggio sia quello del consumo. Esso è l'anima sia della pubblicità quanto quello dell'informazione, della cultura, della politica e di quant'altro.

 

In tale ambito si è capito che il consumatore tende a prendere quelle informazioni che concordano con le sue convinzioni e i suoi interessi, e lasciare quelle che, invece, dissentono.

Da ciò ne discende che i gruppi di gestione dei mass-media, avendo precise finalità di profitto, producono continue ricerche di mercato per coglierne le tendenze e le esigenze e, di conseguenza, strutturare e confezionare messaggi ad hoc. Tutto ciò, però, porta ad assecondare delle tendenze senza proporre nulla di originale e nuovamente stimolante al fine di non incappare in fenomeni di rigetto.

 

Si tratta, infine, di uno sfruttamento passivo degli interessi del pubblico, assecondandoli e incanalando le attese dell'uomo, che in esse si riconosce, verso la ricerca di una felicità racchiusa nel benessere materiale fine a se stesso, disattendendo ogni impegno sociale e ogni impatto responsabile con la realtà.

 

Un'attenzione particolare va, poi, data ai differenti effetti che i mezzi di comunicazione sociale, a secondo della loro natura, producono.

 

Se parliamo di libri o di stampa dobbiamo evidenziare che se da un lato essi offrono un messaggio che è duraturo e può anche essere conservato, tuttavia, essi, prima di essere definitivamente assimilati, devono passare al vaglio della coscienza e della sua capacità critica. Inoltre, questi favoriscono il ragionamento e la critica, arricchendo il proprio pensiero e il proprio bagaglio culturale, tenendo la mente e il pensiero sempre vigili e attenti

 

 Radicalmente diversa, invece, è la posizione dei mezzi audiovisivi. Essi, infatti hanno una potente e subdola capacità penetrativa e tale anche da superare la barriera della stessa coscienza, in particolar modo se questa è scarsamente formata. Tutto ciò viene aggravato se consideriamo lo stato attuale della nostra società, caratterizzata dall'impoverimento sempre più massiccio di valori sociali, umani e religiosi, favorito dallo sviluppo sempre più massiccio di una cultura tecno-scientifica che ti dice che due più due fa quattro, ma non ti insegna a capire il perché, cioè ti toglie la capacità di riflessione e quella critica.

 

E' evidente che il mezzo di comunicazione in tale società ha una potenza illimitata, formante, deformante e certamente condizionante.

 

In tale orizzonte, l'etica deve spostare la sua attenzione dal "che cosa" viene comunicato al "come" viene comunicato, perché è proprio il "come" che determina la capacità penetrativa e condizionante del "che cosa" ed è proprio sul "come" che deve svilupparsi la capacità critica dell'emittente e, soprattutto, del ricettore, dato che il modo di confezionare un messaggio è già un modo di comunicare, ed è messaggio esso stesso.

 

Il linguaggio delle immagini è altamente evocativo poiché esso colpisce il mondo del simbolico che soggiace nel profondo individuale e collettivo, scatenando forze inconsce che vengono incanalate su determinati obiettivi: un prodotto, un'idea, una scelta politica o un'ideologia. Tutto ciò, a lungo andare, produce cultura, cioè una visione di vita che influenza l'ethos quotidiano e, quindi, il comportamento effettivo della gente.

 

Il potere di gestione

 

Quando si parla di mezzi di comunicazione sociale è inevitabile riferirsi ai centri di potere dai quali sono gestiti; e quando si parla di poteri il pensiero corre alla loro distribuzione all'interno della società, nel senso che una limitata o scarsa distribuzione di poteri genera una sorta di oligarchia che può sconfinare facilmente nel monopolio.

 

Infatti, il monopolio gestionale, accentrato attorno a pochi gruppi di potere economico, può, e di fatto avviene, condizionare direttamente o indirettamente l'informazione.

Così la privatizzazione selvaggia dei mass-media, spesso presentata come espressione di libertà, e di fatto può anche esserlo, può rivelarsi, però, come una forma di pesante schiavizzazione globale.

 

Al fine di evitare regimi di monopolio è buona cosa puntare su di una gestione sempre più allargata e partecipata, ponendo a controllo una adeguata legislazione anti-trust proprio per evitare pericolosi accentramenti di potere, favorendo, invece, la pluralità dell'informazione. Infatti, la verità è garantita da una libera pluralità di voci. E quando si dice "libera" il pensiero corre alla lottizzazione dei mezzi audiovisivi pubblici, la quale condiziona pesantemente l'informazione stessa rendendola partitica.

 

La gestione dei mezzi di comunicazione sociale deve essere radicalmente ripensata, abbandonando sia la contrapposizione tra pubblico e privato, sia il monopolio statale e la sfrenata privatizzazione.

 

La terza via è il coinvolgimento delle forze sociali fornendo loro adeguati mezzi di espressione delle proprie opinioni, operando una mediazione tra il pluralismo delle istituzioni e quello nelle istituzioni. Ed è, probabilmente, quest'ultimo a dare capacità di autenticità alle informazioni e vera libertà di espressione.

 

Un altro aspetto rilevante è quello di fornire di un'effettiva possibilità di controllo all'utente finale dell'informazione.

 

E' indubbio che esistono, e sempre esisteranno, centri privilegiati di gestione della informazione che manipolano secondo criteri di interessi i messaggi e le modalità di proporre tali messaggi. Ma al fine di limitare tale potere ed acquisire da parte degli utenti  un reale potere di modificazione dell'orientamento e della manipolazione delle informazioni è necessario che questi creino aggregazioni capaci di intervenire efficacemente su tali centri di gestione, supportati da adeguata legislazione, aiutando, inoltre, i consumatori a sviluppare un'adeguata capacità critica, creando in tal modo una sorta di dialogo critico tra produttore e consumatore, facendo sentire il produttore sotto controllo.

 

Tale controllo va effettuato, in particolar modo, nell'ambito della pubblicità il cui intento è quello di persuadere il consumatore ad acquistare il prodotto proposto; per fare ciò non si esita a ricorrere a tutti i mezzi di persuasione e alla stessa menzogna, proponendo una pubblicità non veritiera, nel senso che non mantiene ciò che promette ed è, quindi, ingannevole.

 

Le forme di pubblicità, oggi, assommano spesso alla suggestione dell'immagine anche un ritmo incalzante e ripetitivo, martellante gravemente lesivo della libertà e dignità dello spettatore. In tal senso, si pensi al bombardamento pubblicitario all'interno di film o trasmissioni con frequenze di cinque/dieci minuti, specialmente questo in televisioni di tipo commerciale, e arrivando al punto di no capire più se stai assistendo ad un film interrotto dalla pubblicità o, viceversa, ad una sequenza interminabile di pubblicità intervallata da qualche spezzone di film. Si possono capire le esigenze commerciali, ma queste non devono mai ledere la dignità delle persone.

 

A fronte di una situazione così assillante si è sviluppato un fenomeno di difesa inconscia per cui, a fronte di una pubblicità incalzante, l'utente zippa, qua e là, alla ricerca di altri canali in attesa di riprendere, poi, a pubblicità ultimata, il film sospeso. Ciò dovrebbe far capire che un assedio eccessivo di pubblicità porta al suo esatto contrario, cioè l'annullamento della pubblicità stessa che, a tal punto, assume coloriture negative e, pertanto, inconsciamente rifiutata. Si viene, in tal modo, a creare una sorta di impermeabilità inconscia al messaggio pubblicitario.

 

Comunque, il giudizio sulla pubblicità non può e non deve essere solamente negativo. La pubblicità in sé è un fatto decisamente positivo perché porta a conoscenza di tutti nuovi prodotti che possono essere anche una risposta a reali esigenze. Il problema sta tutto nel modo di porre tali prodotti e degli strumenti usati per raggiungere il proprio scopo. Qui si pone il problema morale.

 

Formazione dell'opinione pubblica

 

Una questione di grande interesse è quella della formazione di una corretta opinione pubblica. Essa chiama in causa i vari centri di potere, ma include anche altri aspetti propriamente etici. Non è, infatti, sufficiente affermare la bontà del formarsi di una opinione all'interno della società su certi avvenimenti, idee, personaggi o fatti, è importante stabilire le condizioni entro cui tale diritto può esplicitarsi in termini di autentica partecipazione, senza ledere, però, le esigenze del bene comune o la dignità delle singole persone, oggetto della pubblica opinione.

 

Si assistono spesso a informazioni di tipo gratuito e inopportune che non interessano a nessuno e sono finalizzate solo a solleticare la curiosità e ad alimentare la vacuità e che se non ci fossero date non avrebbero tolto niente a nessuno, ma che vengono date solo per non lasciarsi scavalcare dai concorrenti o per essere i primi a darle o soltanto per colpire, ma possono però gettare discredito su alcune persone o gruppi, possono creare notevoli problemi alle autorità che stanno svolgendo indagini o che si trovano in una fase delicata di una certa operazione, ecc. C'è anche qui un'etica dell'informazione che va rispettata; ma l'etica non serve a niente se manca la maturità umana e di coscienza che fa capire, ancor prima delle regole etiche, che, talvolta, è meglio tacere che creare dei gravi danni con  intempestivi interventi. Spesso non è neanche questione di etica, ma solo di buon senso, talvolta gravemente carente.

 

Si impone, quindi, qui perentoria la necessità di una rigorosa formazione etica e di maturazione umana e professionale dell'emettitore che lo deve portare ad una maturazione della propria coscienza professionale e una spiccata sensibilità per la verità, facendo il più possibile spazio alla verità e alla diversità di opinioni, favorendo in tal modo la crescita del senso critico.

 

E' evidente che non esiste un'informazione del tutto neutrale e asettica. La scelta dei fatti, il modo di presentarli e il giudizio su di essi risentono necessariamente di una certa precomprensione; ma è proprio per questo che necessita una maggiore formazione che sviluppi una spiccata sensibilità verso la verità che, in tal caso, è sinonimo di pluralità.

 

Il monopolio non favorisce certamente questa prospettiva.

 

L'educazione dei ricettori

 

Un aspetto importante nell'ambito dell'etica della comunicazione è l'educazione dei ricettori, la cui finalità è il farli uscire dallo stato di passività e sviluppare, invece, un attivo senso critico, sfuggendo a deleteri aspetti di condizionamento.

 

In tal senso assume grande rilevanza la conoscenza delle tecniche e della formazione delle informazioni e l'ambiente in cui si originano. Inoltre, la conoscenza del linguaggio delle immagini porta a prendere consapevolezza dei messaggi in esse contenuti e le finalità che si propongono.

 

Portare il ricettore a questi livelli di consapevolezza significa renderlo protagonista attivo e non più ignaro ricettore passivo di messaggi; significa sviluppare in lui una notevole capacità critica. Infatti, è proprio la capacità di comprendere di essere condizionato che lo rende immune da tale condizionamento.

 

A tal fine, grande importanza rivestono le associazioni dei consumatori che si coalizzano per far fronte all'enorme potere centralizzato degli emettitori che gestiscono l'informazione.